Piattaforma della CCI

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Dopo la più lunga e profonda controrivoluzione della sua storia, il proletariato ritrova progressivamente la via della lotta di classe. Conseguenza sia della crisi acuta del sistema che si sviluppa dopo la meta degli anni ‘60 che della comparsa di nuove generazioni operaie che subiscono molto meno delle precedenti il peso delle passate sconfitte della classe, queste lotte sono fin da ora le più estese che essa abbia condotto. Dopo lo scoppio delle lotte del ‘68 in Francia, è dall’Italia all’Argentina, dall’Inghilterra alla Polonia, dalla Svezia all’Egitto, dalla Cina al Portogallo, dagli Stati Uniti all’India, dal Giappone alla Spagna che le lotte operaie sono ridiventate un incubo per la classe capitalista.

La ricomparsa del proletariato sulla scena storica condanna senza appello tutte le ideologie prodotte o permesse dalla controrivoluzione che esso ha dovuto subire e che tendevano a negargli la sua natura di soggetto della rivoluzione. Quello che l’attuale ripresa della lotta di classe dimostra magistralmente ancora una volta è che il proletariato è la classe – e la sola classe - rivoluzionaria della nostra epoca.

E’ rivoluzionaria ogni classe la cui dominazione sulla società è in accordo con l’instaurazione e l’estensione, a detrimento degli antichi rapporti di produzione divenuti caduchi, di nuovi rapporti di produzione resi necessari dal grado di sviluppo delle forze produttive. Analogamente ai modi di produzione che l’hanno preceduto, il capitalismo corrisponde ad una tappa particolare dello sviluppo della società. Forma progressiva di questa in un momento della sua storia, esso crea, mediante la sua generalizzazione, le condizioni della propria scomparsa. La classe operaia, per la sua collocazione specifica nel processo di produzione capitalista, per la sua natura di produttore collettivo dell’essenziale della ricchezza sociale, privato di ogni proprietà sui mezzi di produzione che egli fa funzionare e dunque non avendo alcun interesse che lo leghi al mantenimento della società capitalista, è la sola classe della società che possa, sia oggettivamente che soggettivamente, instaurare il nuovo modo di produzione che deve succedere al capitalismo: il comunismo. Il risorgere attuale della lotta proletaria indica che di nuovo la prospettiva del comunismo, da necessita storica, è diventata anche una possibilità.

Tuttavia lo sforzo che il proletariato deve fare per darsi i mezzi per affrontare vittoriosamente il capitalismo è ancora immenso. Prodotto e fattore attivo di questo sforzo, le correnti e gli elementi rivoluzionari che sono apparsi dall’inizio della ripresa del proletariato hanno dunque un’enorme responsabilità nello sviluppo e nella riuscita di queste lotte. Per essere all’altezza di questa responsabilità essi devono organizzarsi intorno a delle frontiere di classe che sono state tracciate in maniera definitiva dalle esperienze successive del proletariato, e che devono guidare ogni attività ed intervento al suo interno.

E’ attraverso l’esperienza pratica e teorica della classe che si delineano i mezzi e i fini della sua lotta storica per il rovesciamento del capitalismo e l’instaurazione del comunismo. Fin dall’inizio del capitalismo, l’attività del proletariato è tesa verso uno sforzo costante per prendere coscienza, attraverso la sua esperienza, dei suoi interessi di classe e per liberarsi dal peso delle idee della classe dominante, delle mistificazioni dell’ideologia borghese. Questo sforzo del proletariato è segnato da una continuità che si estende lungo tutto il movimento operaio, dalle prime società segrete fino alle frazioni di sinistra che si sono separate dalla Terza Internazionale.

Malgrado tutte le aberrazioni e tutte le manifestazioni della pressione dell’ideologia borghese che potevano mascherare le loro posizioni e il loro modo di agire, le diverse organizzazioni che si sono succedute costituiscono tanti anelli insostituibili della catena della continuità storica della lotta proletaria, e il fatto di soccombere alla sconfitta o ad una degenerazione interna non toglie nulla al loro contributo fondamentale a questa lotta. Così, l’organizzazione dei rivoluzionari che si ricostituisce oggi come manifestazione della ripresa generale del proletariato dopo mezzo secolo di controrivoluzione e di rottura nel movimento operaio, deve assolutamente ricongiungersi con questa continuità storica affinché le lotte presenti e future della classe possano armarsi con pienezza delle lezioni della sua esperienza passata, affinché tutte le sconfitte parziali che segnano il suo cammino non restino vane ma possano costituire altrettante promesse della sua vittoria finale.

La Corrente Comunista Internazionale si richiama agli apporti successivi della Lega dei Comunisti, della I, II e III Internazionale, delle frazioni di sinistra che si sono separate da quest’ultima, in particolare delle sinistre Tedesca, Olandese e Italiana. Sono appunto questi apporti essenziali, che permettono di integrare l’insieme delle frontiere di classe in una visione coerente e generale, che vengono presentate nella presente piattaforma. 

1. LA TEORIA DELLA RIVOLUZIONE COMUNISTA

Il marxismo è l’acquisizione teorica fondamentale della lotta proletaria. E’ su questa base che l’insieme delle acquisizioni del proletariato si integra in un tutto coerente.

Nello spiegare il cammino della storia attraverso lo sviluppo della lotta di classe, cioè della lotta basata sulla difesa degli interessi economici in un quadro dato dallo sviluppo delle forze produttive, e nel riconoscere nel proletariato la classe soggetto della rivoluzione che abolirà il capitalismo, il marxismo è la sola concezione al mondo che si pone realmente dal punto di vista di questa classe. Ben lungi dal costituire una speculazione astratta sul mondo esso è dunque, e prima di tutto, un’arma di lotta della classe. E’ perché il proletariato è la prima e sola classe della storia la cui emancipazione si accompagna necessariamente all’emancipazione di tutta l’umanità e la cui dominazione sulla società non implica affatto una nuova forma di sfruttamento, ma l’abolizione di ogni sfruttamento, che il marxismo è la sola concezione capace di comprendere la realtà sociale in maniera obiettiva e scientifica, senza pregiudizi ne mistificazioni di alcun tipo.

Di conseguenza, sebbene esso non sia né un sistema né un corpo di dottrina chiusi, ma al contrario una teoria in costante elaborazione, in legame diretto e vivente con la lotta di classe, e sebbene abbia beneficiato delle manifestazioni teoriche della vita della classe che l’hanno preceduto, esso costituisce, dal momento in cui le sue basi sono state gettate, il solo quadro a partire e all’interno del quale la teoria rivoluzionaria può svilupparsi. 

2. LE CONDIZIONI DELLA RIVOLUZIONE COMUNISTA

Ogni rivoluzione sociale è l’atto attraverso il quale la classe portatrice dei nuovi rapporti di produzione stabilisce la sua dominazione politica sulla società. La rivoluzione proletaria non sfugge a questa definizione ma le sue condizioni e il suo contenuto differiscono fondamentalmente dalle rivoluzioni del passato.

Queste ultime, poiché si trovavano a cavallo di due modi di produzione dominati dalla penuria, avevano lo scopo di sostituire la dominazione di una classe sfruttatrice con quella di un’altra classe sfruttatrice: questo fatto si esprimeva mediante la sostituzione di una forma di proprietà con un’altra forma di proprietà, di un tipo di privilegi con un altro tipo di privilegi.

La rivoluzione proletaria al contrario ha per scopo quello di sostituire dei rapporti di produzione basati sulla penuria con dei rapporti di produzione basati sull’abbondanza. E’ perciò che essa implica la fine di ogni forma di proprietà, di privilegi e di sfruttamento.

Queste differenze conferiscono alla rivoluzione proletaria le seguenti caratteristiche che la classe operaia deve, per vincere, comprendere e fare proprie:

  1. Essa è la prima forma di rivoluzione a carattere mondiale che non può raggiungere i suoi scopi senza generalizzarsi a tutti i paesi, giacché con la proprietà privata essa deve abolire l’insieme dei quadri settoriali, regionali e nazionali a questa legati. E’ la generalizzazione su scala mondiale del dominio del capitalismo che fa sì che questa necessita sia al tempo stesso una possibilità.
  2. La classe rivoluzionaria, per la prima volta nella storia, è allo stesso tempo anche la classe sfruttata dell’antico sistema e, per questo fatto, essa non può appoggiarsi su un qualunque potere economico nella conquista del potere politico. Tutt’altro, al contrario di quanto è successo nel passato, la presa del potere politico da parte del proletariato precede necessariamente il periodo di transizione durante il quale il dominio degli antichi rapporti di produzione è distrutto a beneficio di quello dei nuovi.
  3. Il fatto che, per la prima volta, una classe della società sia nello stesso tempo classe sfruttata e classe rivoluzionaria implica ugualmente che la sua lotta come classe sfruttata non può in alcun momento essere dissociata o opposta alla sua lotta come classe rivoluzionaria. Al contrario, come fin dall’inizio il marxismo ha affermato contro le teorie proudhoniane o piccolo‑borghesi, lo sviluppo della lotta rivoluzionaria è condizionato dall’approfondimento e dalla generalizzazione della lotta del proletariato come classe sfruttata.

3. LA DECADENZA DEL CAPITALISMO

Perché la Rivoluzione proletaria possa passare dallo stadio di semplice desiderio o di semplice potenzialità e prospettiva storica allo stadio di una possibilità concreta, occorre che essa sia diventata una necessita oggettiva per lo sviluppo dell’umanità. Questa situazione storica si realizza dalla prima guerra mondiale: con questa data finisce la fase ascendente del modo di produzione capitalista che era cominciata nel XVI secolo per raggiungere il suo apogeo alla fine del XIX. La nuova fase aperta da allora è quella della decadenza del capitalismo.

Come per tutte le società del passato, la prima fase del capitalismo traduceva il carattere storicamente necessario dei rapporti di produzione che incarna, cioè della loro natura indispensabile per l’espansione delle forze produttive della società. La seconda, invece, traduce la trasformazione di questi rapporti in un intralcio sempre più pesante a questo stesso sviluppo.

La decadenza del capitalismo è il prodotto dello sviluppo delle contraddizioni interne inerenti a questo modo di produzione, e che possiamo così definire.

Benché la merce sia esistita nella maggior parte delle società, l’economia capitalista è la prima che sia basata fondamentalmente sulla produzione di merci. Così l’esistenza di mercati sempre crescenti è una delle condizioni essenziali dello sviluppo del capitalismo. In particolare, la realizzazione del plusvalore prodotto dallo sfruttamento della classe operaia è indispensabile all’accumulazione del capitale, motore essenziale della dinamica di questo. Ora, contrariamente a quanto pretendono gli adoratori del capitale, la produzione capitalistica non crea automaticamente e a volontà i mercati necessari alla sua crescita. Il capitalismo si sviluppa in un mondo non capitalista, ed è in questo mondo che trova gli sbocchi che gli permettono questo sviluppo. Ma generalizzando i suoi rapporti all’insieme del pianeta e unificando il mercato mondiale, esso ha raggiunto un grado critico di saturazione degli stessi sbocchi che gli avevano permesso la formidabile espansione del XIX secolo. Inoltre, la crescente difficoltà per il capitale a trovare mercati in cui realizzare il suo plusvalore accentua la pressione verso il ribasso che viene esercitata sul suo tasso di profitto dall’accrescimento costante della proporzione tra il valore dei mezzi di produzione e quello della forza-lavoro che li mette in opera. Da tendenziale, questa caduta del tasso di profitto diventa sempre più reale, cosa che intralcia ancor più il processo di accumulazione del capitale e dunque il funzionamento dell’insieme degli ingranaggi del sistema.

Dopo aver unificato e universalizzato lo scambio delle merci, facendo così compiere un grande balzo in avanti allo sviluppo dell’umanità, il capitalismo ha dunque messo all’ordine del giorno la scomparsa dei rapporti di produzione basati sullo scambio. Ma finché il proletariato non si è dato i mezzi per imporre questa scomparsa, questi rapporti di produzione si mantengono e costringono l’umanità in contraddizioni sempre più mostruose.

La crisi di sovrapproduzione, manifestazione caratteristica delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico ma che, nel passato, costituiva una stasi tra due diverse fasi di espansione del mercato, battito di cuore di un sistema in piena salute, è diventata oggi permanente. E’ effettivamente in modo permanente che sono sotto-utilizzate le capacita dell’apparato produttivo e che il capitale è diventato incapace di estendere il suo dominio, non fosse altro che al ritmo della crescita della popolazione umana. La sola cosa che il capitalismo possa oggi estendere nel mondo è la miseria umana assoluta, come quella che conoscono i paesi del terzo mondo.

La concorrenza tra le nazioni capitalistiche non può, in queste condizioni, che diventare sempre più implacabile. L’imperialismo, politica alla quale è costretta ogni nazione per sopravvivere, quale che sia la sua grandezza, impone all’umanità di essere tuffata, a partire dal 1914, nel ciclo infernale di crisi-guerra-ricostruzione-nuova crisi..., in cui una produzione di armi ogni giorno più mostruosa diviene sempre più il solo terreno di applicazione della scienza e di utilizzazione delle forze produttive. Nella decadenza del capitalismo, l’umanità non sopravvive che sulla base di distruzioni e di un’automutilazione permanenti.

Alla miseria fisiologica che colpisce i paesi sottosviluppati fa eco, nei paesi sviluppati, una disumanizzazione estrema, mai raggiunta prima, delle relazioni tra i membri della società che ha per base l’assenza totale di prospettive che il capitalismo offre all’umanità, diverse da quella di guerre sempre più cruente e di uno sfruttamento sempre più sistematico, razionale e scientifico. Ne deriva, come per ogni società in decadenza, un crollo ed una decomposizione crescenti delle istituzioni sociali, dell’ideologia dominante, dell’insieme dei valori morali, delle forme d’arte e di tutte le altre manifestazioni culturali del capitalismo. Lo sviluppo di ideologie come il fascismo o lo stalinismo segnano il trionfo crescente della barbarie in assenza del trionfo dell’alternativa rivoluzionaria.

4. IL CAPITALISMO DI STATO

In ogni periodo di decadenza, di fronte all’accentuarsi delle contraddizioni del sistema, lo Stato, garante della coesione del corpo sociale e della conservazione dei rapporti di classe dominanti, tende a rafforzarsi fino ad incorporare nelle sue strutture l’insieme della vita della società. L’ipertrofia dell’amministrazione imperiale e la monarchia assoluta sono state le manifestazioni di questo fenomeno nella decadenza della società schiavista romana e in quella della società feudale.

Nella decadenza capitalista la tendenza generale verso il capitalismo di Stato è una delle caratteristiche dominanti della vita sociale. In questo periodo, ogni capitale nazionale, privato di ogni base per un forte sviluppo, condannato ad una concorrenza imperialista acuta, è costretto ad organizzarsi nel modo più efficace per affrontare, all’esterno, i suoi rivali sul piano economico e militare e per far fronte, all’interno, ad un’esasperazione crescente delle contrazione sociali. La sola forza della società capace di assumersi la realizzazione di questi compiti è lo Stato.

Effettivamente, solo lo Stato:

  • può prendere in mano l’economia nazionale in maniera globale e centralizzata e mitigare la concorrenza interna che la indebolisce, al fine di rinforzare la sua capacita di affrontare, come un tutto, la concorrenza sul mercato mondiale;
  • mettere in piedi la potenza militare necessaria alla difesa dei suoi interessi di fronte all’acuirsi degli antagonismi internazionali;
  • infine, grazie ‑ tra l’altro ‑ alle forze di repressione e ad una burocrazia sempre più pesante, riaffermare la coesione interna della società, minacciata di dislocazione a causa della decomposizione crescente delle sue fondamenta economiche, imporre con una violenza costante il mantenimento di una struttura sociale che si rivela sempre più inadatta a reggere spontaneamente le relazioni umane e che viene accettata con sempre meno facilità a mano a mano che essa diventa un’assurdità dal punto di vista della sopravvivenza stessa della società.

Sul piano economico, questa tendenza mai totalmente compiuta verso il capitalismo di Stato si traduce con il passaggio nelle mani dello Stato di tutte le leve dell’apparato produttivo. Questo non significa che scompaiono la legge del valore, la concorrenza o l’anarchia della produzione, che sono le caratteristiche fondamentali dell’economia capitalistica. Esse continuano ad applicarsi a livello mondiale dove le leggi del mercato continuano a regnare e determinano dunque le condizioni della produzione all’interno di ogni economia nazionale per quanto statalizzata essa sia. In questo quadro, se le leggi del valore e della concorrenza sembrano essere “violate” è perché esse possano essere meglio applicate. Se l’anarchia della produzione sembra rifluire di fronte alla pianificazione statale, essa risorge tanto più violentemente a livello mondiale, particolarmente in occasione delle crisi acute del sistema che il capitalismo di Stato è incapace di prevenire. Lungi dal costituire una “razionalizzazione” del capitalismo, la sua statalizzazione non è dunque che una manifestazione del suo imputridimento.

Questo passaggio al capitalismo di Stato si compie, sia in maniera graduale, per fusione dei capitali “privati” e del capitale di Stato, come è in genere il caso dei paesi più sviluppati, sia attraverso dei salti bruschi, sotto forma di nazionalizzazioni massicce e totali, come in generale avviene là dove il capitalismo è più debole.

In effetti, se la tendenza verso il capitalismo di Stato si manifesta in tutti i paesi del mondo, essa si accelera e scoppia con più evidenza quando, e dove, gli effetti della decadenza si fanno sentire con maggiore violenza: storicamente durante i periodi di crisi aperta e di guerra, geograficamente nelle economie più deboli. Ma il capitalismo di Stato non è un fenomeno specifico dei paesi arretrati. Al contrario, sebbene il grado di statalizzazione formale sia spesso più elevato nel capitalismo sottosviluppato, il vero intervento da parte dello Stato nella vita economica è generalmente ancora più effettivo nei paesi più sviluppati, a causa dell’alto grado di concentrazione del capitale che vi regna.

Sul piano politico e sociale, la tendenza verso il capitalismo di Stato si manifesta mediante il fatto che, sotto le forme totalitarie più estreme come il fascismo o lo stalinismo o sotto le forme che si ricoprono di una maschera democratica, l’apparato statale, ed in principal modo l’esecutivo, esercita un controllo sempre più potente, onnipresente e sistematico su tutti gli aspetti della vita sociale. Ad un livello ben superiore a quello della decadenza romana o feudale, lo Stato della decadenza capitalista è divenuto una macchina mostruosa, fredda e impersonale che ha finito col divorare la sostanza stessa della società civile.

5. I PAESI DETTI SOCIALISTI

Facendo passare il capitale nelle mani dello Stato, il capitalismo di Stato crea l’illusione della scomparsa della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell’eliminazione della borghesia. La teoria staliniana della possibilità del “socialismo in un solo paese”, così come la menzogna dei paesi cosiddetti “comunisti”, “socialisti”, o in via di divenirlo, trovano il loro fondamento in questa apparenza mistificatoria.

I cambiamenti provocati dalla tendenza al capitalismo di Stato non si collocano al livello reale dei rapporti di produzione, ma al livello giuridico delle forme di proprietà. Essi non eliminano il reale carattere di proprietà privata dei mezzi di produzione, ma il loro aspetto giuridico di proprietà individuale. I lavoratori restano privati di ogni potere reale sulla loro utilizzazione e restano completamente separati da essi. I mezzi di produzione non sono “collettivizzati” che per la burocrazia che li possiede e che li gestisce collettivamente.

La burocrazia statale che assume la funzione economica specifica di espropriare il proletariato del pluslavoro e di accumulare il capitale nazionale costituisce una classe. Ma essa non è una classe nuova. Per la sua funzione, essa non è altro che la vecchia borghesia nella sua forma statale. Al livello dei suoi privilegi, ciò che la distingue non è l’importanza di questi, ma la maniera in cui essa li detiene: invece di percepire le sue entrate sotto forma di dividendi per il possesso individuale di parti del capitale, essa le percepisce per la funzione dei suoi membri sotto forma di “spese di funzione”, di premi e di remunerazioni fisse dall’apparenza di “salario”, il cui ammontare è spesso diecine o centinaia di volte superiore al reddito di un operaio.

La centralizzazione e la pianificazione della produzione capitalistica da parte dello Stato e della sua burocrazia, lungi dall’essere un passo verso l’eliminazione dello sfruttamento, non è niente altro che un mezzo per cercare di renderlo più efficace.

Sul terreno economico, la Russia, anche durante il breve lasso di tempo in cui il proletariato vi ha detenuto il potere politico, non ha potuto liberarsi completamente del capitalismo. Se la forma del capitalismo di Stato vi è comparsa così presto in una maniera tanto sviluppata, ciò è successo perché la disorganizzazione economica causata dalla sconfitta della prima guerra mondiale, poi dalla guerra civile, ha spinto al massimo grado le difficoltà di sopravvivenza di un capitale nazionale nel quadro della decadenza capitalista.

Il trionfo della controrivoluzione in Russia è avvenuto sotto il segno della riorganizzazione della economia nazionale con le forme più mature del capitalismo di Stato, cinicamente presentate per la circostanza come “prolungamenti dell’Ottobre” e “costruzione del socialismo”. L’esempio è stato ripreso altrove: Cina, paesi dell’Est, Cuba, Corea del Nord, Indocina, ecc... Tuttavia non vi è niente di proletario, e ancor meno di comunista, in tutti questi paesi in cui, sotto il peso di ciò che resterà come una delle più grandi menzogne della storia, regna, nelle sue forme più decadenti, la dittatura del capitale. Ogni difesa, anche “critica” o “condizionale” di questi paesi è un’attività assolutamente controrivoluzionaria (1).

6. LA LOTTA DEL PROLETARIATO NEL CAPITALISMO DECADENTE

Fin dall’inizio, la lotta del proletariato per la difesa dei suoi interessi porta in sé la prospettiva della distruzione del capitale e dell’avvento della società comunista.

Ma il proletariato non persegue lo scopo ultimo della sua lotta per idealismo, guidato da un’ispirazione divina. Esso è spinto a realizzare i suoi compiti comunisti perché le condizioni materiali in cui si sviluppa la sua lotta immediata finiscono per costringervelo, dal momento che ogni altra forma di lotta condurrebbe ad un disastro. Finché la borghesia riesce, grazie all’espansione gigantesca delle sue ricchezze nel mondo intero nel corso della fase ascendente del capitalismo, ad accordare delle reali riforme delle condizioni di vita proletaria, la lotta operaia non può trovare le condizioni oggettive necessarie alla realizzazione del suo assalto rivoluzionario.

Malgrado la volontà rivoluzionaria, comunista, manifestata sin dalla rivoluzione borghese dalle tendenze più radicali del proletariato, la lotta operaia si trova, nel corso di questo periodo storico, relegata alle lotte per le riforme.

Imparare ad organizzarsi per ottenere delle riforme politiche ed economiche attraverso il parlamentarismo ed il sindacalismo diventa, alla fine del XIX secolo, uno degli assi essenziali dell’attività del proletariato. Si potevano così trovare, fianco a fianco, in organizzazioni autenticamente operaie, elementi “riformisti” (quelli per cui ogni lotta operaia deve essere unicamente una lotta per le riforme) e i rivoluzionari (quelli per cui le lotte per le riforme non possono costituire che una tappa, un momento, del processo che porta alla lotta rivoluzionaria).

Così, in questo periodo, si poteva vedere il proletariato appoggiare certe frazioni della borghesia contro altre, più reazionarie, allo scopo di imporre dei miglioramenti della società in suo favore, cosa che corrisponde oggettivamente all’accelerazione dello sviluppo delle forze produttive.

L’insieme di queste condizioni si trasforma radicalmente nel capitalismo decadente. Il mondo è diventato troppo stretto per contenere il numero di capitali nazionali esistenti. In ogni nazione, il capitale è costretto ad aumentare la sua produttività, cioè lo sfruttamento dei lavoratori, fino ai limiti più estremi.

L’organizzazione dello sfruttamento del proletariato cessa di essere un problema da risolvere tra padroni di aziende e operai, per diventare una questione di interesse dello Stato e di mille ingranaggi nuovi creati per inquadrarlo, gestirlo, evitare in permanenza ogni pericolo rivoluzionario, sottometterlo ad una repressione tanto sistematica quanto insidiosa.

L’inflazione, diventata un fenomeno permanente a partire dalla prima guerra mondiale, si rimangia ogni “aumento salariale”. La durata del tempo di lavoro stagna o non diminuisce che di quel tanto utile per compensare gli aumenti dei tempi di trasporto o per impedire la totale distruzione nervosa dei lavoratori sottoposti a dei ritmi di vita e di lavoro in continua crescita.

La lotta per le riforme e diventata un’utopia grossolana. Contro il capitale, la classe operaia non può condurre ormai che una lotta a morte. Essa non ha altre alternative che accettare di essere atomizzata in una somma di milioni di individui sottomessi e inquadrati, oppure battersi affrontando lo Stato stesso, generalizzando le lotte nella maniera più estesa, rifiutando di lasciarsi imbrigliare in una dimensione puramente economica o nel localismo di fabbrica o di professione, dandosi come forma di organizzazione gli embrioni dei suoi organi di potere: i consigli operai.

In queste nuove condizioni storiche, molte delle vecchie armi del proletariato sono diventate inservibili. Le correnti politiche che ne predicano l’uso non lo fanno che per meglio incatenarlo allo sfruttamento, per meglio fiaccare ogni volontà di lotta.

La distinzione fatta all’interno del movimento operaio nel XIX secolo tra programma massimo e programma minimo ha perso oggi ogni significato. Non vi è più nessun programma minimo possibile. Il proletariato non può sviluppare le sue lotte se non iscrivendole nella prospettiva di un programma massimo: la rivoluzione comunista.

7. I SINDACATI: ORGANI DEL PROLETARIATO IERI, STRUMENTO DEL CAPITALE OGGI

Nel XIX secolo, nel periodo di massima prosperità del capitalismo, la classe operaia, spesso a costo di lotte accanite e sanguinose, si era data delle organizzazioni permanenti e professionali destinate ad assumere la difesa dei suoi interessi economici: i sindacati. Questi organi hanno assunto un ruolo fondamentale nella lotta per le riforme e per miglioramenti sostanziali delle condizioni di vita dei lavoratori, che il sistema poteva ancora concedere. Essi costituivano anche dei luoghi di raggruppamento della classe, di sviluppo della sua solidarietà e della sua coscienza, in cui i rivoluzionari intervenivano attivamente per farne “delle scuole di comunismo”. Dunque, anche se l’esistenza di questi organi era legata in maniera indissolubile a quella del salariato e anche se, già da questo periodo, essi si erano già burocratizzati in maniera notevole, cionondimeno essi costituivano autentici organi della classe dal momento che l’abolizione del salariato non era ancora all’ordine del giorno.

Entrando nella sua fase di decadenza, il capitalismo non è più in grado di accordare riforme e miglioramenti durevoli in favore della classe operaia. Avendo perso ogni possibilità di esercitare la loro funzione iniziale di difensori efficaci degli interessi proletari e confrontati con una situazione storica in cui solo l’abolizione del salariato, e quindi la loro stessa scomparsa, è all’ordine del giorno, i sindacati sono diventati, come condizione della loro stessa sopravvivenza, degli autentici difensori del capitalismo, degli agenti dello Stato borghese in mezzo agli operai (evoluzione fortemente favorita dalla loro precedente burocratizzazione e dall’inesorabile tendenza dello Stato del periodo decadente ad assorbire tutte le strutture della società).

La funzione anti-operaia dei sindacati si è manifestata per la prima volta in modo decisivo nel corso della prima guerra mondiale quando, accanto ai partiti socialdemocratici, essi hanno partecipato alla mobilitazione degli operai nella carneficina imperialista. Nell’ondata rivoluzionaria che ha seguito la guerra, i sindacati hanno fatto di tutto per intralciare i tentativi del proletariato di distruggere il capitalismo. Da allora, essi sono stati tenuti in vita non dalla classe operaia, ma dallo Stato capitalista, per conto del quale svolgono funzioni molto importanti:

  • partecipazione attiva ai tentativi dello Stato capitalista di razionalizzare l’economia, regolamentazione della vendita della forza-lavoro ed intensificazione dello sfruttamento;
  • sabotaggio della lotta di classe dall’interno, sia deviando gli scioperi e le rivolte nel vicolo cieco delle rivendicazioni categoriali, sia facendo fronte ai movimenti autonomi con un’aperta repressione. 

Per il fatto che i sindacati hanno perso il loro carattere proletario, essi non possono essere “riconquistati” dalla classe operaia, né costituire un terreno per l’attività delle minoranze rivoluzionarie. Dopo più di mezzo secolo, gli operai hanno dato prova di sempre minor interesse a partecipare all’attività di queste organizzazioni diventate, anima e corpo, degli organi dello Stato capitalista. Le loro lotte di resistenza contro la degradazione delle loro condizioni di vita hanno teso a prendere la forma di “scioperi selvaggi” al di fuori e contro i sindacati. Dirette dalle assemblee generali degli scioperanti e, nel caso in cui si sono generalizzate, coordinate dai comitati di delegati, eletti e revocabili da parte delle assemblee, queste lotte si sono immediatamente situate su di un terreno politico nella misura in cui esse hanno dovuto scontrarsi con lo Stato sotto la forma dei suoi rappresentanti nella fabbrica: i sindacati. Solo la generalizzazione e la radicalizzazione di queste lotte possono permettere alla classe di passare ad un assalto diretto e frontale contro lo Stato capitalista. La distruzione dello Stato borghese implica necessariamente la distruzione dei sindacati.

Il carattere antiproletario dei vecchi sindacati non è conferito loro dal modo di organizzazione, per professione o branca industriale, né dall’esistenza di “cattivi capi”, ma dall’impossibilita, nel periodo attuale, di mantenere in vita degli organi permanenti di vera difesa degli interessi economici del proletariato. Di conseguenza, il carattere capitalistico di queste organizzazioni si estende a tutti i “nuovi” organismi che si danno delle funzioni simili e ciò quale che sia il loro modello organizzativo e le intenzioni che essi dichiarano. Cosi è per i “sindacati rivoluzionari” o per gli “shop-stewards” e per l’insieme degli organismi (comitati o nuclei operai, commissioni operaie) che possono continuare ad esistere alla fine di una lotta, anche condotte contro il sindacato e che tentano di costituire un “autentico polo” di difesa degli interessi immediati dei lavoratori. Su questa base, queste organizzazioni non possono sfuggire al meccanismo dell’integrazione effettiva nell’apparato dello Stato borghese, anche a titolo di organismi non ufficiali o illegali.

Tutte le politiche di “utilizzazione”, di “rinnovamento” o di “riconquista” di organizzazioni a carattere sindacale, poiché portano a ridare credibilità ad istituzioni capitalistiche spesso già disertate dai lavoratori, sono funzionali alla sopravvivenza del capitalismo. Dopo più di mezzo secolo di esperienza mai smentita del ruolo antioperaio di queste organizzazioni, ogni posizione che difenda tali strategie é fondamentalmente non-proletaria.

8. LA MISTIFICAZIONE PARLAMENTARE ED ELETTORALE

Nel periodo di apogeo del sistema capitalista, il Parlamento costituiva la forma più appropriata della organizzazione della vita politica della borghesia. Istituzione specificamente borghese, il parlamento non è quindi mai stato un terreno prediletto per l’azione della classe operaia e la partecipazione di questa alle attività parlamentari o alle campagne elettorali nascondeva dei pericoli molto gravi che i rivoluzionari del secolo passato non hanno mai mancato di denunciare.

Tuttavia, in un periodo in cui la rivoluzione non era all’ordine del giorno e in cui il proletariato poteva ottenere delle riforme a suo vantaggio all’interno del sistema, una tale partecipazione gli permetteva sia di far pressione a favore di queste riforme, di utilizzare le campagne elettorali come mezzo di propaganda e di agitazione intorno al programma proletario che di usare il Parlamento come tribuna di denuncia dell’ignominia della politica borghese. E’ perciò che la lotta per il suffragio universale ha costituito, per tutto il XIX secolo, in un gran numero di paesi, una delle occasioni maggiori di mobilitazione del proletariato.

Con l’entrata del sistema nella sua fase di decadenza, il Parlamento cessa di essere un organo di riforme. Come fu affermato dalla Internazionale Comunista (II Congresso): “il centro di gravità della vita politica è uscito completamente e definitivamente dal Parlamento”. La sola funzione che esso possa assumere e che spiega la sua conservazione, è una funzione di mistificazione. Da allora, diventa impossibile per il proletariato utilizzarlo in una maniera qualsivoglia. In effetti, esso non può conquistare delle riforme diventate impossibili attraverso un organo che ha perso ogni funzione politica effettiva. Nel momento in cui il suo campito fondamentale è quello della distruzione dell’insieme delle istituzioni statali borghesi e dunque del Parlamento, nel momento in cui è necessario stabilire la sua dittatura sulle rovine del suffragio universale e le altre vestigia della società borghese, la sua partecipazione alle istituzioni parlamentari ed elettorali - quali che siano le intenzioni espresse da coloro che la preconizzano - non fa altro che donare una parvenza di vita a queste istituzioni moribonde.

Attualmente la partecipazione alle elezioni e al Parlamento non comporta nessuno dei vantaggi che poteva avere nel secolo passato. Per contro, essa ne cumula tutti gli inconvenienti e pericoli, e principalmente quello di mantenere vive le illusioni sulla possibilità di un “passaggio pacifico o progressivo al socialismo” con la conquista di una maggioranza parlamentare da parte dei partiti detti “operai”.

La politica di “distruzione dall’interno” del Parlamento, per la quale avrebbe senso la partecipazione degli eletti “rivoluzionari”, si è rivelata, in maniera categorica, capace di portare solo alla corruzione delle organizzazioni politiche che l’hanno praticata e al loro assorbimento da parte del capitalismo.

Infine, l’uso delle elezioni e dei Parlamenti come strumenti di agitazione e di propaganda, nella misura in cui essa è essenzialmente affare di specialisti e nella misura in cui essa privilegia il gioco dei partiti politici a detrimento dell’attività propria delle masse, tende a conservare gli schemi politici della società borghese e ad incoraggiare la passività dei lavoratori. Se un tale inconveniente era accettabile quando la rivoluzione non era immediatamente possibile, esso diviene un ostacolo decisivo nel momento in cui il solo compito storicamente all’ordine del giorno per il proletariato è quello del rovesciamento del vecchio ordine sociale e l’instaurazione della società comunista che esigono la partecipazione attiva e cosciente dell’insieme della classe.

Se, in origine, le tattiche del “parlamentarismo rivoluzionario” erano, anzitutto, la manifestazione del peso del passato all’interno della classe e delle sue organizzazioni, esse si sono rivelate, dopo una pratica disastrosa per la classe, una politica fondamentalmente borghese.

9. IL FRONTISMO: STRATEGIA DI DEVIAZIONE DEL PROLETARIATO

Nella decadenza del capitalismo, periodo in cui solo la Rivoluzione Proletaria può costituire un passo in avanti della Storia, non può esistere alcun obiettivo comune, neanche momentaneo, tra la classe rivoluzionaria e una qualunque frazione della classe dominante, per quanto “progressista”, “democratica” o “popolare” possa pretendere di essere. Contrariamente alla fase ascendente del capitalismo, il suo periodo di decadenza non permette effettivamente a nessuna frazione della borghesia di giocare un ruolo progressista. In particolare, la democrazia borghese che, contro le vestigia delle strutture ereditate dal feudalesimo costituiva, nel secolo passato, una forma politica progressiva, ha perso, nel momento della decadenza, ogni contenuto politico reale. Essa non sopravvive che come paravento ingannatore al rinforzamento del totalitarismo statale e le frazioni della borghesia che se ne fanno portavoce sono reazionarie quanto tutte le altre.

Di fatto, dalla prima guerra mondiale, la “democrazia” si è rivelata come una delle peggiori droghe per il proletariato. E’ nel suo nome che, dopo questa guerra, è stata sconfitta la rivoluzione in vari paesi d’Europa; è nel suo nome e contro il “fascismo” che sono state mobilitate decine di milioni di proletari nella seconda guerra imperialista. E’ ancora in suo nome che oggi il capitale tenta di deviare le lotte proletarie nelle alleanze “contro il fascismo”, “contro la reazione”, “contro la repressione”, “contro il totalitarismo”, ecc....

Prodotto specifico di un periodo in cui il proletariato è già stato sconfitto, il fascismo non è assolutamente all’ordine del giorno. Attualmente ogni propaganda sul “pericolo fascista” è del tutto mistificatoria. D’altronde non è il fascismo a detenere il monopolio della repressione e se le correnti politiche democratiche o di sinistra lo identificano così è perché esse tentano di mascherare il fatto che anche loro sono convinti utilizzatori di questa stessa repressione al punto tale che è ad esse che è affidato l’essenziale dello schiacciamento dei movimenti rivoluzionari della classe.

Allo stesso titolo dei “fronti popolari” e “antifascisti”, le tattiche di “fronte unico” si sono rivelate indubbi mezzi di deviamento della lotta proletaria. Queste tattiche, che propongono alle organizzazioni rivoluzionarie alleanze con i partiti detti “operai” al fine di metterli “faccia al muro” e di smascherarli, finiscono solo per mantenere delle illusioni sulla reale natura borghese di questi partiti e a ritardare la rottura degli operai con essi.

L’autonomia del proletariato di fronte a tutte le altre classi della società è la condizione fondamentale per l’estensione della sua lotta verso il fine rivoluzionario. Tutte le alleanze, ed in particolare quelle con frazioni della borghesia, non possono avere come risultato che il suo disarmo davanti al proprio nemico, nella misura in cui gli fa abbandonare il solo terreno in cui esso possa temprare le sue forze: il suo terreno di classe. Ogni corrente politica che cerca di fargli abbandonare questo terreno serve direttamente gli interessi della borghesia.

10. IL MITO CONTRO-RIVOLUZIONARIO DELLA “LIBERAZIONE NAZIONALE”

La liberazione nazionale e la costituzione di nuove nazioni non è mai stato un compito precipuo del proletariato. Se, nel secolo scorso, i rivoluzionari sono stati spinti ad appoggiare tali politiche, lo facevano senza alcuna illusione sul loro carattere esclusivamente borghese né in nome del “diritto all’autodecisione dei popoli”. Un tale appoggio si giustificava col fatto che, nella fase ascendente del capitalismo, la nazione rappresentava il quadro appropriato per lo sviluppo del capitalismo ed ogni nuova edificazione di questo quadro, eliminando le ristrette vestigia dei rapporti sociali precapitalistici, costituiva un passo in avanti nel senso di una crescita delle forze produttive a livello mondiale e quindi nel senso della maturazione delle condizioni materiali del socialismo.

Con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, e nella stessa misura dell’insieme dei rapporti di produzione capitalistici, la nazione diviene un quadro troppo stretto per lo sviluppo delle forze produttive. Oggi la costituzione giuridica di un nuovo paese non permette alcun reale passo in avanti in tale sviluppo, passo che gli stessi paesi più antichi e più potenti non sono capaci di compiere. In un mondo ormai diviso e ripartito tra blocchi imperialisti, ogni lotta di “liberazione nazionale”, lungi dal costituire un qualsiasi movimento progressivo, costituisce di fatto un momento del confronto costante tra blocchi rivali nel quale i proletari ed i contadini arruolati, volontariamente o con la forza, non partecipano che come carne da cannone (2).

Tali lotte non indeboliscono affatto l’imperialismo, poiché esse non rimettono in discussione la sua base: i rapporti di produzione capitalistici. Se esse indeboliscono un blocco imperialista, è per meglio rafforzarne un altro e, la nazione così costituita, diventa essa stessa imperialista dal momento che, nel periodo della decadenza, nessun paese, grande o piccolo, può sottrarsi ad una tale politica.

Se, nel mondo attuale, una “liberazione nazionale riuscita” non ha altro significato che il cambio della potenza che fa da tutore al paese “liberato”, essa si traduce nella maggior parte dei casi per i lavoratori, in particolare nei nuovi paesi “socialisti”, attraverso un’intensificazione, una sistematizzazione, una militarizzazione dello sfruttamento da parte del capitale statalizzato che, manifestazione dell’attuale barbarie del sistema, trasforma la nazione “liberata” in un vero campo di concentramento. Lungi dall’essere, come pretendono alcuni, un trampolino per la lotta di classe del proletariato del terzo mondo, queste lotte, mediante le mistificazioni “patriottiche” che esse comportano e l’irregimentazione dietro il capitale nazionale che esse implicano, agiscono sempre come freno e deviazione della lotta proletaria spesso accanita in questi paesi. La storia ha ampiamente dimostrato da più di mezzo secolo - e contrariamente alle affermazioni dell’Internazionale Comunista - che le lotte di “liberazione nazionale” non danno più impulso alla lotta di classe dei proletari dei paesi avanzati così come a quella dei proletari dei paesi sottosviluppati. Gli uni come gli altri non hanno niente da aspettarsi da queste lotte, né alcun “campo da scegliere”. In questi scontri la sola parola d’ordine dei rivoluzionari non può che essere, contro la moderna versione della “difesa nazionale” rappresentata dalla “indipendenza nazionale”, quella che fu già adottata da essi nella prima guerra mondiale: “disfattismo rivoluzionario: trasformazione della guerra imperialista in guerra civile”. Ogni posizione di “sostegno incondizionato” o “critico” a queste lotte è simile, in modo cosciente o incosciente, a quella dei “social-sciovinisti” della prima guerra mondiale e quindi decisamente incompatibile con una attività comunista coerente.

11. L’AUTOGESTIONE: AUTOSFRUTTAMENTO DEL PROLETARIATO

Se la nazione è diventata un quadro troppo stretto per le forze produttive attuali, ciò è ancora più vero per la fabbrica che non ha mai conosciuto una reale autonomia dalle leggi generali del capitalismo e la cui dipendenza da questo e dallo Stato non può che accentuarsi nella decadenza del capitalismo. E’ per questo che l’autogestione, cioè la gestione delle fabbriche da parte degli operai all’interno di una società che rimane capitalista, se era già un’utopia piccolo-borghese nel secolo scorso, quando veniva preconizzata dalle correnti proudhoniane, è oggi una pura mistificazione capitalista (3):

  • arma economica del capitale, essa ha per finalità di far accettare ai lavoratori il peso delle difficoltà delle imprese colpite dalla crisi facendo organizzare da loro stessi le modalità del loro sfruttamento;
  • arma politica della controrivoluzione, essa ha per funzione:
    • di dividere la classe operaia, chiudendola e isolandola fabbrica per fabbrica, quartiere per quartiere, settore per settore;
    • di legare i lavoratori alle preoccupazioni dell’economia capitalistica, che essi hanno al contrario il compito di distruggere;
    • di distogliere il proletariato dal primo obiettivo che condiziona la sua emancipazione: la distruzione dell’apparato politico del capitale e l’instaurazione della sua dittatura a livello mondiale.

E’ effettivamente a questo solo livello che il proletariato potrà assumere il carico della gestione della produzione, ma allora non lo farà nel quadro delle leggi capitalistiche, ma distruggendo queste.

Tutte le posizioni politiche che, anche in nome della “esperienza proletaria” o della “instaurazione di nuovi rapporti tra i lavoratori” difendono l’autogestione, partecipano nei fatti alla difesa oggettiva dei rapporti di produzione capitalistici.

12. LE LOTTE “SETTORIALI”, IMPASSE REAZIONARIA

La decadenza del capitalismo ha accentuato la decomposizione di tutti i suoi valori morali con una degradazione profonda di tutti i rapporti umani.

Tuttavia, se è vero che la rivoluzione proletaria genererà nuovi rapporti in tutti i settori della vita, è sbagliato credere che vi si possa contribuire organizzando delle lotte specifiche su dei problemi settoriali quali il razzismo, la condizione femminile, l’inquinamento, la sessualità ed altri aspetti della vita quotidiana.

La lotta contro i fondamenti economici del sistema contiene la lotta contro gli aspetti sovrastrutturali della società capitalistica, ma è falso il contrario.

Per il loro stesso contenuto le lotte “settoriali”, lungi dal rafforzare la necessaria autonomia della classe operaia, tendono al contrario a diluirla nella confusione di categorie particolari o senza ossatura (razze, sessi, giovani, etc.) totalmente impotenti davanti alla storia.

E’ perciò che i governi ed i partiti politici borghesi hanno imparato a recuperarle e ad utilizzarle efficacemente per preservare l’ordine sociale.

13. LA NATURA CONTORIVOLUZIONARIA DEI “PARTITI OPERAI”

L’insieme dei partiti o organizzazioni che oggi difendono, anche “condizionatamente” o in maniera “critica” certi Stati o certe frazioni della borghesia contro altre, che sia fatto in nome del “socialismo”, della “democrazia”, dell’“antifascismo”, della “indipendenza nazionale”, del “fronte unico” o del “male minore”, che fondano la loro politica sul gioco borghese delle elezioni, sull’attività antioperaia del sindacalismo o sulle mistificazioni autogestioniste, sono degli organi dell’apparato politico del capitale: in particolare è questo il caso dei partiti “socialisti” e “comunisti”.

Questi partiti, in effetti, dopo aver costituito in un certo momento le vere avanguardie del proletariato mondiale, hanno conosciuto in seguito tutto un processo di degenerazione che li ha condotti nel campo del capitale. Se le Internazionali a cui appartenevano (II Internazionale per i partiti socialisti, III Internazionale per i partiti comunisti) sono morte come tali, malgrado la sopravvivenza formale della loro struttura, in un momento di sconfitta storica della classe operaia, questi partiti sono invece sopravvissuti per diventare progressivamente, ciascuno per proprio conto, degli ingranaggi spesso importanti dell’apparato dello Stato borghese dei loro rispettivi paesi.

E’ stato così per i partiti socialisti quando, in un processo di incancrenimento attraverso il riformismo e l’opportunismo, la maggior parte dei principali partiti sono stati condotti in occasione della prima guerra mondiale (che segna la morte della II Internazionale) ad impegnarsi, sotto la guida della loro ala destra “socialsciovinista”, ormai passata alla borghesia, nella politica di “difesa nazionale”, per poi opporsi apertamente all’ondata rivoluzionaria del dopoguerra fino a giocare il ruolo di carnefici del proletariato come in Germania nel 1919. L’integrazione finale di ognuno di questi partiti nei loro rispettivi Stati nazionali ebbe luogo in momenti differenti del periodo che seguì lo scoppio della prima guerra mondiale. Ma questo processo fu definitivamente concluso all’inizio degli anni ‘20, quando le ultime correnti proletarie furono eliminate o uscirono dalle loro fila ricongiungendosi all'Internazionale Comunista.

Anche i partiti comunisti sono a loro volta passati nel campo del capitale dopo un processo similare di degenerazione opportunista. Questo processo, cominciato già agli inizi degli anni venti, è proseguito dopo la morte dell’Internazionale Comunista (segnata dall’adozione della teoria del “socialismo in un solo paese” nel 1928) fino ad arrivare, malgrado l’accanita lotta delle loro frazioni di sinistra e dopo l’eliminazione di queste, ad una completa integrazione nello stato capitalista all’inizio degli anni trenta con la partecipazione agli sforzi d’armamento delle loro rispettive borghesie e la loro entrata nei “fronti popolari”. La loro partecipazione attiva alla “Resistenza” durante la seconda guerra mondiale e alla “ricostruzione nazionale” dopo di questa li ha confermati come dei fedeli servitori del capitale nazionale e come la più pura incarnazione della controrivoluzione.

L’insieme delle correnti sedicenti rivoluzionarie, come il maoismo (che è una semplice variante dei partiti definitivamente passati alla borghesia), il trotzkismo (che dopo aver costituito una reazione proletaria contro il tradimento dei partiti comunisti, è caduto in un processo simile di degenerazione), o l’anarchismo tradizionale (che si situa oggi nel quadro di una stessa traiettoria politica, difendendo un certo numero di posizioni dei partiti socialisti e dei partiti comunisti come, per esempio, le alleanze antifasciste), appartengono tutte allo stesso campo del capitale. Il fatto che esse abbiano minore influenza o che utilizzino un linguaggio piu radicale non toglie niente al fondo borghese del loro programma e della loro natura, ma ne fa degli utili reggicoda o supplenti di questi partiti.

14. LA PRIMA ONDATA RIVOLUZIONARIA DEL PROLETARIATO MONDIALE

Segnando l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, la prima guerra mondiale indica che le condizioni oggettive della rivoluzione proletaria sono mature.

L’ondata rivoluzionaria che, in risposta alla guerra e alle sue conseguenze, sorge e si spande in Russia e in Europa, segna con la sua impronta le due Americhe e si ripercuote come un'eco fino in Cina, costituendo così il primo tentativo del proletariato mondiale di realizzare il suo compito storico di distruzione del capitalismo. Nella punta piu alta della sua lotta tra il 1917 ed il 1923, il proletariato si impadronisce del potere in Russia, si lancia in insurrezioni di massa in Germania e scuote fin dalle fondamenta l’Italia, l’Ungheria e l’Austria. Anche se meno potentemente, l’ondata di lotte si manifesta in maniera accanita nel resto del mondo, come per esempio in Spagna, in Gran Bretagna, nell’America del Nord e in quella del Sud. Alla fine lo scacco tragico di questa ondata rivoluzionaria è segnato nel 1927 dalla sconfitta dell’insurrezione proletaria in Cina, a Shanghai e a Canton, che conclude una lunga serie di lotte e di sconfitte della classe a livello internazionale. E’ perciò che la Rivoluzione di Ottobre 17 in Russia non può essere compresa che come una delle manifestazioni piu importanti di questo immenso movimento della classe, e non come una “rivoluzione borghese”, “capitalista di Stato”, “dal doppio aspetto”, o ancora “permanente”, che imponeva al proletariato la realizzazione di compiti “democratici” al posto di una borghesia incapace di assumerli.

E’ ancora all’interno di questa ondata rivoluzionaria che si iscrive la creazione, nel 1919, della Terza Internazionale (l’Internazionale Comunista) che rompe organizzativamente e politicamente con i partiti della Seconda Internazionale la cui partecipazione alla guerra imperialista ha segnato il loro passaggio nel campo della borghesia. Il Partito Bolscevico, parte integrante della Sinistra rivoluzionaria che si è separata dalla Seconda Internazionale, con le sue chiare posizioni politiche condensate nelle parole d’ordine sulla “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile!”, la “distruzione dello Stato borghese!” e “tutto il potere ai Soviet!” così come attraverso la sua partecipazione decisiva alla creazione della Terza Internazionale, apporta un contributo fondamentale al processo rivoluzionario e costituisce, in quel momento, un’autentica avanguardia del proletariato mondiale.

Tuttavia, se la degenerazione tanto della Rivoluzione in Russia quanto della Terza Internazionale è stata essenzialmente la conseguenza della sconfitta dei tentativi rivoluzionari negli altri paesi e dell’affievolirsi generale dell’ondata rivoluzionaria, bisogna ugualmente prendere in considerazione il ruolo giocato dal partito Bolscevico - in quanto partito di primo piano dell’Internazionale Comunista a fronte degli altri partiti molto più deboli - in questo processo di degenerazione e negli insuccessi internazionali del proletariato. Attraverso, ad esempio, lo schiacciamento del sollevamento di Kronstadt, il sostegno - contro la sinistra della Terza Internazionale - di politiche di “conquista dei sindacati”, di “parlamentarismo rivoluzionario” e di “fronte unico”, la sua influenza e la sua responsabilità nella liquidazione della ondata rivoluzionaria sono state di pari peso di quelle che esso aveva assunto nello sviluppo di questa stessa ondata.

Nella stessa Russia, la controrivoluzione non veniva solamente “dall’esterno” ma anche “dall’interno”, ed in particolare dalle strutture dello Stato messe su dal Partito Bolscevico, divenuto partito di Stato. Quelli che, durante l’Ottobre 1917, erano solo degli errori gravi che si spiegavano tuttavia con l’immaturità del proletariato in Russia e del movimento operaio mondiale di fronte al cambiamento di periodo, dovevano, da allora, servire da paravento e giustificazione ideologica della controrivoluzione e agire come fattore importante di questa. Tuttavia il declino dell’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra come della Rivoluzione in Russia, la degenerazione della Terza Internazionale come del Partito Bolscevico e il ruolo controrivoluzionario giocato alla fine da quest’ultimo a partire da un certo momento, non possono essere compresi che considerando questa ondata rivoluzionaria e la Terza Internazionale, ivi inclusa la loro componente in Russia, come autentiche manifestazioni del movimento proletario; ogni altra interpretazione costituisce un considerevole fattore di confusione e impedisce alle correnti che la difendono un reale adempimento di compiti rivoluzionari.

Anche se, anzi proprio perché non sussiste alcuna “acquisizione materiale” di queste esperienze della classe, non è che a partire da questa comprensione della loro natura che si possono e si devono trarre le acquisizioni teoriche reali, che sono di un’importanza considerevole. In particolare, solo esempio storico di presa del potere politico da parte del proletariato (a parte il tentativo effimero e disperato della Comune nel 1871 e le esperienze abortite di Baviera e Ungheria nel 1919), la Rivoluzione di Ottobre 1917 ha apportato degli insegnamenti preziosi nella comprensione di due problemi cruciali della lotta proletaria: il contenuto della rivoluzione e la natura dell’organizzazione dei rivoluzionari.

15. LA DITTATURA DEL PROLETARIATO

La presa del potere politico da parte del proletariato a livello mondiale, condizione preliminare e prima tappa della trasformazione rivoluzionaria della società capitalista, significa, in primo luogo, la distruzione da cima a fondo dell’apparato statale borghese.

In effetti, siccome è su questo che la borghesia fonda la perpetuazione del suo dominio sulla società, dei suoi privilegi, dello sfruttamento delle altre classi e, in particolare, della classe operaia, questo organo è necessariamente adatto a questa funzione e non può tornare utile al proletariato che non ha alcun privilegio né sfruttamento da preservare. In altre parole, non esiste nessuna “via pacifica verso il Socialismo”: alla violenza della classe, minoritaria e sfruttatrice, esercitata apertamente o ipocritamente, ma sempre piu sistematicamente dalla borghesia, il proletariato può opporsi solo con la sua violenza rivoluzionaria di classe.

Leva della trasformazione economica della società, la dittatura del proletariato, cioè l’esercizio esclusivo del potere politico da parte di questa classe, avrà per compito fondamentale quello di espropriare la classe sfruttatrice socializzando i suoi mezzi di produzione e di estendere progressivamente il settore socializzato all’insieme delle attività produttive. Forte del suo potere politico, il proletariato dovrà liberarsi dell’economia politica borghese conducendo una politica economica nel senso dell’abolizione del salariato e della produzione mercantile, nel senso della soddisfazione dei bisogni dell’Umanità.

Durante questo periodo di transizione dal capitalismo al Comunismo, continuano ad esistere classi e ceti sociali non sfruttatori diversi dal proletariato e che basano la loro esistenza sul settore non socializzato dell’economia. Perciò la lotta di classe persiste come manifestazione di interessi economici contraddittori all’interno della società. Questa dunque fa sorgere uno Stato destinato ad impedire che questi conflitti conducano alla sua lacerazione. Ma con la scomparsa progressiva di queste classi sociali tramite l’integrazione dei loro membri nel settore socializzato, dunque con l’abolizione di ogni classe sociale, lo Stato stesso sarà destinato a scomparire.

La forma assunta dalla dittatura del proletariato sarà quella dei Consigli Operai, assemblee unitarie e centralizzate al livello della classe, con delegati eletti e revocabili, tale da permettere l’esercizio effettivo, collettivo ed indivisibile del potere da parte dell’intera classe. Questi Consigli dovranno avere il monopolio del controllo delle armi come garanzia del potere politico esclusivo della classe operaia.

E’ la classe operaia nel suo insieme che sola può esercitare il potere nel senso della trasformazione comunista della società: diversamente dalle altre classi rivoluzionarie del passato essa non può dunque delegare il suo potere ad una qualunque istituzione o minoranza, compresa la stessa minoranza dei rivoluzionari. Questi agiscono all’interno dei Consigli ma la loro organizzazione non può sostituirsi all’organizzazione unitaria della classe nel compimento del suo compito storico.

Ugualmente, l’esperienza della rivoluzione russa ha messo in evidenza la complessità e la gravità del problema posto dai rapporti tra la classe e lo Stato del periodo di transizione. Nel prossimo periodo, il proletariato ed i rivoluzionari non potranno evitare questo problema, ma dovranno dedicarvisi facendo tutti gli sforzi necessari per risolverlo.

La dittatura del proletariato implica che questo si deve sottrarre completamente ad ogni sottomissione, in quanto classe, ad altre forze esterne e a rapporti di violenza al suo interno. Nel periodo di transizione il proletariato è la sola classe rivoluzionaria della società. La sua coscienza e la sua coesione, così come la sua azione autonoma, sono le garanzie essenziali dell’esito comunista della sua dittatura.

16. L’ORGANIZZAZIONE DEI RIVOLUZIONARI

a) Organizzazione e coscienza della classe 

Qualunque classe che lotti contro l’ordine sociale della propria epoca non può farlo efficacemente se non dando alla sua lotta una forma organizzata e cosciente. Ciò era già valido, quale che fosse il livello di imperfezione e di alienazione delle loro forme di organizzazione e di coscienza, per gli strati come i contadini e gli schiavi, che non erano portatori in quanto tali del divenire sociale. Ma questa necessità si applica a maggior ragione alle classi storiche portatrici di nuovi rapporti di produzione resi necessari dall’evoluzione della società. Il proletariato è, tra questi, la sola classe che non dispone, nella vecchia società, di alcun potere economico che sia preludio al suo futuro dominio. Perciò l’organizzazione e la coscienza sono fattori ancora più decisivi della sua lotta.

La forma di organizzazione che si dà la classe nella sua lotta rivoluzionaria e per l’esercizio del suo potere politico è quella dei Consigli Operai. Ma se è l’insieme della classe che è il soggetto della Rivoluzione e che, in questa occasione, si raggruppa in questi organismi, ciò non significa d’altra parte che il processo della sua presa di coscienza sia simultaneo ed omogeneo.

La coscienza della classe si forgia attraverso le sue lotte, essa si apre un cammino difficile attraverso le sue vittorie e le sue sconfitte. Deve far fronte alle divisioni di categoria e di nazione che costituiscono il quadro “naturale” della società e che il capitalismo ha interesse a mantenere all’interno della classe.

b) I rivoluzionari e la loro funzione

I rivoluzionari sono gli elementi della classe che, attraverso questo processo eterogeneo, arrivano per primi a “comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario” (Manifesto del Partito Comunista) e, poiché, nella società capitalista, “le idee dominanti sono le idee della classe dominante”, essi costituiscono necessariamente una minoranza della classe.

Secrezione della classe, manifestazione del processo della sua presa di coscienza, i rivoluzionari non possono esistere come tali che organizzandosi e diventando fattore attivo di questo processo. Per fare ciò l’organizzazione dei rivoluzionari porta avanti, in maniera organica, le seguenti azioni:

  • partecipa a tutte le lotte della classe nelle quali i suoi membri si distinguono come gli elementi più decisi e combattivi; 
  • vi interviene mettendo sempre in primo piano gli interessi generali della classe e gli scopi finali del movimento; 
  • per questo intervento, e come parte integrante di questo, essa si dedica in modo permanente al lavoro di riflessione ed elaborazione teorica, lavoro che solo permette che la sua attività generale si poggi su tutta l’esperienza passata della classe e sulle sue prospettive future così dedotte.

    c) I rapporti tra la classe e l’organizzazione dei rivoluzionari

    Se l’organizzazione generale della classe e l’organizzazione dei rivoluzionari fanno parte di uno stesso movimento, ciò non toglie che siano due cose distinte.

    La prima, l’organizzazione dei Consigli, raggruppa l’insieme della classe: il solo criterio di appartenenza è l’essere un lavoratore.

    La seconda, invece, raggruppa solo gli elementi rivoluzionari della classe. Il criterio di appartenenza non è più sociologico ma politico: l’accordo sul programma e l’impegno a difenderlo. In questo senso possono far parte dell’avanguardia della classe individui che non ne fanno parte dal punto di vista sociologico, ma che, rompendo con la loro classe di origine, fanno propri gli interessi storici del proletariato.

    Tuttavia, se la classe e l’organizzazione della sua avanguardia sono due cose ben distinte, esse non sono per questo separate, esterne l’una all’altra oppure opposte, come pretendono che sia da una parte le correnti “leniniste” e, dall’altra, le correnti consiliariste-operaiste.

    Ciò che queste due concezioni non vogliono vedere è che, lungi dall’essere in contraddizione o in opposizione, questi due elementi - la classe e i rivoluzionari - sono nei fatti complementari in un rapporto del tutto con una parte del tutto. Tra la prima ed i secondi non possono esistere rapporti di forza perché “i comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato” (Manifesto del Partito Comunista).

    Come parte della classe, i rivoluzionari non possono, in alcun momento, sostituirsi a questa, né nelle sue lotte all’interno del capitalismo, né a maggior ragione nel rovesciamento di questo o nell’esercizio del potere. Contrariamente a quanto è prevalso per le altre classi storiche, all’opera che deve compiere il proletariato non basta la coscienza di una minoranza, per quanto illuminata possa essere, ma è necessaria la partecipazione costante e una attività creatrice in ogni momento dell’insieme della classe.

    La coscienza generalizzata è la sola garanzia di vittoria della rivoluzione proletaria e, poiché essa è essenzialmente il frutto della esperienza pratica, l’attività dell’insieme della classe è insostituibile. In particolare l’uso che la classe deve necessariamente fare della violenza non può essere un’attività separata dal movimento generale della classe. In questo senso, il terrorismo individuale o di gruppi isolati è assolutamente estraneo ai metodi della classe e costituisce al meglio una manifestazione di disperazione piccolo-borghese, quando non è semplicemente un metodo cinico di lotta tra frazioni diverse della borghesia. Quando appare all’interno della lotta proletaria, esso esprime che c’è un’influenza dall’esterno sulla lotta che non può che indebolire le basi stesse dello sviluppo della coscienza di classe.

    L’autorganizzazione delle lotte della classe e l’esercizio del potere da parte di questa non è una delle vie verso il comunismo, che si potrebbe mettere a paragone con altre. E’ L’UNICA VIA.

    L’organizzazione dei rivoluzionari (la cui forma più avanzata è il partito) è un organo necessario che la classe si dà per lo sviluppo della presa di coscienza del suo divenire storico e per orientare politicamente la lotta per questo divenire. Per questo motivo l’esistenza del partito e la sua attività costituiscono una condizione indispensabile per la vittoria finale del proletariato.

    d) L’autonomia della classe operaia

    Tuttavia, il concetto di “autonomia della classe”, come è interpretato dalle correnti operaiste e anarchiche e che queste contrappongono alle concezioni sostituzioniste, prende un senso reazionario e piccolo-borghese. Oltre al fatto che la “autonomia” si riduce molto spesso alla loro propria autonomia di piccola setta che pretende di rappresentare la classe operaia così come fanno le correnti sostituzioniste che essi denunciano, la loro concezione comporta due aspetti principali:

    • il rigetto da parte dei lavoratori dei partiti e delle organizzazioni politiche quali che siano;
    • l’autonomia di ogni frazione della classe operaia (fabbriche, quartieri, regioni, nazioni, ecc...) rispetto alle altre: dunque il federalismo.

    Attualmente tali concezioni sono, nel migliore dei casi, una reazione immediata al burocratismo stalinista e allo sviluppo del totalitarismo statale e, nel peggiore, l’espressione politica dell’isolamento e della divisione propria della piccola borghesia. Ma in entrambi i casi, esse traducono la totale incomprensione di tre aspetti fondamentali della lotta rivoluzionaria del proletariato:

    • l’importanza e la priorità dei compiti politici della classe (distruzione dello Stato capitalista, dittatura mondiale del proletariato);
    • l’importanza e il carattere indispensabile della organizzazione dei rivoluzionari all’interno della classe;
    • il carattere unitario, centralizzato e mondiale della lotta rivoluzionaria della classe.

    Per noi marxisti, l’autonomia della classe significa la sua indipendenza rispetto alle altre classi della società. Questa autonomia costituisce una CONDIZIONE INDISPENSABILE per l’azione rivoluzionaria della classe nella misura in cui il proletariato è oggi la sola classe rivoluzionaria. Essa si manifesta sia sul piano organizzativo (organizzazione dei Consigli) che sui piani politici e programmatici e dunque, contrariamente a ciò che pensano le correnti operaiste, in stretto legame con la sua avanguardia comunista.

    e) L’organizzazione dei rivoluzionari nei diversi momenti della lotta di classe

    Se l’organizzazione generale della classe e l’organizzazione dei rivoluzionari sono due cose diverse rispetto alla loro funzione, esse lo sono ugualmente rispetto alle circostanze della loro comparsa. I Consigli non sorgono che nei periodi di scontro rivoluzionario, quando tutte le lotte della classe tendono verso la presa del potere. Invece, lo sforzo di presa di coscienza della classe esiste costantemente da quando è nata ed esisterà fino alla sua scomparsa nella società comunista. E’ in questo senso che esistono in tutti i periodi delle minoranze rivoluzionarie come espressione di questo sforzo costante. Ma l'ampiezza, l’influenza, il tipo di attività ed il modo di organizzazione di queste minoranze sono strettamente legate alle condizioni della lotta di classe.

    Nei periodi di attività intensa della classe, queste minoranze hanno una influenza diretta sul corso pratico di queste attività. Si può parlare allora di partito per designare l’organizzazione di questa avanguardia. Invece, nei periodi di riflusso o di vuoto della lotta di classe, i rivoluzionari non hanno alcuna influenza diretta sul corso immediato della Storia. Possono solo continuare ad esistere delle organizzazioni di taglia molto più ridotta la cui funzione non sarebbe più quella di influenzare il movimento immediato, ma di resistervi, il che li porta a lottare contro-corrente rispetto a una classe paralizzata e trascinata dalla borghesia sul suo terreno (collaborazione di classe, “union sacrée”, “resistenza”, “anti-fascismo”, ecc...). Il loro compito essenziale consiste allora, traendo le lezioni dalle precedenti esperienze, nel preparare il quadro teorico e programmatico del futuro partito proletario che dovrà necessariamente risorgere nella prossima sollevazione della classe. In qualche modo questi gruppi e frazioni che, nel momento di rinculo della lotta, si sono staccati dal partito in degenerazione o gli sono sopravvissuti, hanno il ruolo di costituire il ponte politico ed organizzativo fino al suo successivo risorgere.

    f) Il modo di organizzazione dei rivoluzionari

    La natura necessariamente mondiale e centralizzata della rivoluzione proletaria conferisce al partito della classe operaia questo stesso carattere mondiale e centralizzato, e le frazioni o gruppi che lavorano alla sua ricostruzione tendono necessariamente verso una centralizzazione mondiale. Questo si concretizza con l’esistenza di organi centrali investiti di responsabilità politiche nell'arco di tempo che intercorre tra due successivi congressi.

    La struttura che si dà l’organizzazione dei rivoluzionari deve tener conto di due necessità fondamentali:

    • permettere il pieno sviluppo della coscienza rivoluzionaria al suo interno e dunque della discussione più ampia e approfondita di tutte le questioni e disaccordi che sorgono in una organizzazione non monolitica;
    • assicurare, allo stesso tempo, la sua coesione e la sua unità d’azione, in particolare mediante l’applicazione, da parte di tutte le parti dell’organizzazione, delle decisioni adottate maggioritariamente.

    Inoltre, i rapporti che si stabiliscono tra le diverse parti e i diversi militanti dell’organizzazione portano necessariamente le stigmate della società capitalista e non possono quindi costituire un’isola di rapporti comunisti all’interno di questa. Tuttavia, essi non possono essere in contraddizione flagrante con lo scopo perseguito dai rivoluzionari e poggiano necessariamente su una solidarietà e una reciproca fiducia che sono una delle impronte dell’appartenenza dell’organizzazione alla classe portatrice del comunismo.

    NOTE

    1. Il crollo del blocco dell’est e dei regimi stalinisti ha spazzato via questa mistificazione dei paesi cosiddetti “socialisti” che fu per un mezzo secolo la punta di lancia della più terribile controrivoluzione della storia. Tuttavia, la borghesia “democratica”, scatenando le sue campagne a ripetizione sul preteso “fallimento del comunismo”, continua a perpetuare la più grande menzogna della storia: l’identificazione dello stalinismo allo stalinismo. I partiti di sinistra e di estrema sinistra del capitale che avevano sostenuto (anche in maniera critica) i paesi detti “socialisti”, sono oggi costretti ad adattarsi alla nuova situazione della situazione mondiale. Per poter continuare a mistificare e ad inquadrare il proletariato, essi cercano di fare dimenticare il loro sostegno allo stalinismo, pronti a falsificare loro stessi il loro proprio passato.

    2. Dopo il crollo del blocco dell’est alla fine degli anni ’80 e la conseguente dislocazione del blocco occidentale, le lotte di liberazione nazionale hanno cessato di costituire una mistificazione dietro la quale le frazioni di sinistra e di estrema sinistra del capitale hanno tentato di trascinare delle frazioni del proletariato nel sostegno di un campo imperialista contro un altro. Tuttavia, se nei paesi centrali del capitalismo il mito della “liberazione nazionale” si è esaurito con il crollo del blocco imperialista russo, resta sempre vivace in certe regioni periferiche del mondo e può ancora servire a imbrigliare i proletari di questi paesi in dei massacri (come nelle repubbliche del Caucaso o nei territori occupati da Israele, per esempio).

    3. Questa mistificazione, che aveva trovato il suo punto culminante con l’esperienza “autogestionaria” e la sconfitta degli operai della LIP negli anni 1974-75 in Francia, si è oggi esaurita. Tuttavia non è da escludere che essa conosca in futuro un certo ritorno con la ripresa dell’anarchismo. In effetti, nelle lotte del 1936 in Spagna, sono le correnti anarchiche ed anarco-sindacaliste che erano state i porta parola del mito dell’autogestione, presentata come una misura economica “rivoluzionaria”.

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