Decade 1990-1999
I recenti avvenimenti nei paesi a regime stalinista, scontri alla testa del partito e repressione in Cina, esplosioni nazionaliste e lotte operaie in URSS, costituzione in Polonia di un governo diretto da Solidarnosc, rivestono un’importanza considerevole. Essi rivelano la crisi storica, l’entrata in un periodo di convulsioni acute dello stalinismo. In questo senso, essi ci danno la responsabilità di riaffermare, precisare e attualizzare la nostra analisi sulla natura di questi regimi e le loro prospettive di evoluzione.
1) Le convulsioni che scuotono attualmente i paesi a regime stalinista non possono essere compresi al di fuori del quadro generale di analisi, valido per tutti i paesi del mondo, della decadenza del modo di produzione capitalista e dell’inesorabile aggravarsi della sua crisi. Tuttavia un’analisi seria della situazione attuale di questi paesi deve necessariamente prendere in conto le specificità dei loro regimi. Questo esame dei caratteri particolari dei paesi dell’est è stato fatto dalla CCI a più riprese, in particolare in occasione delle lotte operaie dell’estate 1980 in Polonia e della costituzione del sindacato “indipendente” Solidarnosc.
Così, nel dicembre 1980 il quadro generale di questa analisi era stato abbozzato in questi termini:
“Come per l’insieme dei paesi di questo blocco (quello dell’est) la situazione in Polonia si caratterizza per:
a) l’estrema gravità della crisi, che getta oggi milioni di. proletari in una miseria vicina alla fame;
b) la grande rigidità delle istituzioni, che non lasciano praticamente alcun posto per il possibile sorgere di forze politiche borghesi di opposizione capaci di giocare un ruolo di tampone: in Russia, come nei suoi paesi satelliti, ogni movimento di contestazione rischia di cristallizzare l’enorme malcontento che esiste nel seno di un proletariato e di una popolazione sottomessa da decenni alla più violenta delle controrivoluzioni, che è stata proporzionata al formidabile movimento di classe che ha dovuto schiacciare, la rivoluzione del 1917;
c) l’enorme importanza del terrore poliziesco come mezzo praticamente unico di mantenimento dell’ordine.” (Révue Internationale n.24, pag. 2)
Nell’ottobre del 1981, due mesi prima dell’instaurazione dello “stato d’assedio”, nel momento in cui si accentuava la campagna governativa contro Solidarnosc, tornavamo su questa questione nei seguenti termini:
“... gli scontri fra Solidarnosc e POUP non sono una semplice farsa, come non è solo farsa l’opposizione fra destra e sinistra nei paesi occidentali. Tuttavia in occidente il quadro istituzionale permette, in generale, di “gestire” queste opposizioni in maniera che esse non minaccino la stabilità del regime e che le lotte per il potere siano contenute e si risolvano nella formula più appropriata per affrontare il nemico proletario. Al contrario, se in Polonia la classe dominante è arrivata, con molta improvvisazione, ma per il momento con successo, a instaurare dei meccanismi di questo tipo, niente ci porta a dire che si tratti di una formula definitiva ed esportabile verso altri paesi ‘fratelli’. Le stesse invettive che servono a credibilizzare un partner—avversario, quando questo è indispensabile al mantenimento dell’ordine, possono accompagnare la sua eliminazione quando esso non è più utile (...). Costringendola a una divisione dei compiti alla quale la borghesia dell’est è strutturalmente refrattaria le lotte proletarie hanno creato una contraddizione vivente. E’ ancora troppo presto per prevedere come si risolverà. Di fronte a una situazione storicamente inedita..., il compito dei rivoluzionari è di mettersi con modestia all’ascolto dei fatti”. (Rèvue Internationale n. 27, pag.7)
Infine, a seguito dell’instaurazione dello stato d’assedio in Polonia e della messa fuori legge di Solidarnosc, la CCI era stata portata a sviluppare questo quadro di analisi (Rèvue Internationale n.34) a partire dal quale, con gli opportuni aggiornamenti, possiamo capire quello che succede oggi in questa parte del mondo.
2) “La caratteristica più evidente, la più generalmente conosciuta dei paesi dell’est, quella su cui d’altra parte riposa il mito della loro natura “socialista”, sta nel grado estremo di statizzazione della loro economia (...). Il capitalismo di Stato non è un fenomeno proprio solo di questi paesi. E’ un fenomeno che proviene innanzitutto dalle condizioni di sopravvivenza del modo di produzione capitalista nel periodo di decadenza: di fronte alle minacce di disintegrazione di un’economia e di un corpo sociale sottomessi a delle contraddizioni crescenti, di fronte all’inasprirsi delle rivalità commerciali e imperialiste che la saturazione generale dei mercati provoca, solo un rafforzamento permanente del posto dello Stato nella società permette di mantenere un minimo di coesione in questa e di assicurare la sua militarizzazione crescente. Se la tendenza al capitalismo di Stato è dunque un dato storico universale essa non tocca tuttavia in maniera identica ogni paese”. (Rèvue Internationale n.34, pagg. 4 e 5)
3) Nei paesi avanzati, dove esiste una vecchia borghesia industriale e finanziaria, questa tendenza si manifesta in generale attraverso un’intersecazione dei settori “privati” e dei settori statali. In questo tipo di sistema la borghesia “classica” non è privata del suo capitale e conserva l’essenziale dei suoi privilegi. D’altra parte il ruolo dello Stato non si manifesta tanto attraverso la nazionalizzazione dei mezzi di produzione quanto attraverso l’azione di un insieme di strumenti di bilancio, finanziari, monetari e legislativi che gli permettono in ogni. momento di orientare le grandi scelte economiche, senza per questo rimettere in causa i meccanismi del mercato.
Questa tendenza al capitalismo di Stato “prende le sue forme più estreme dove il capitalismo conosce le contraddizioni più brutali, dove la borghesia classica è più debole. In questo senso, la presa in carico diretta da parte dello Stato dell’essenziale dei mezzi di produzione che caratterizza il blocco dell’Est (e in larga misura del “terzo mondo”) è in primo luogo una manifestazione dell’arretratezza e della fragilità della sua economia.” (ibidem, pag.5)
4) “Esiste un legame stretto fra le forme di dominazione economica della borghesia e le forme della sua dominazione politica” (ibidem):
— un capitale nazionale sviluppato, detenuto in maniera “privata” dai differenti settori della borghesia, trova nella “democrazia” parlamentare il suo apparato politico più appropriato;
— “alla statalizzazione quasi completa dei mezzi di produzione corrisponde il potere totalitario di un partito unico” (1).
Tuttavia, “il regime di partito unico non è una caratteristica propria dei paesi dell’est o di quelli del ‘terzo mondo’. Esso è esistito per decenni in paesi dell’Europa occidentale come l’Italia, la Spagna, il Portogallo. L’esempio più notevole è evidentemente quello del regime nazista che dirige tra il 1933 e il 1945 il paese più sviluppato e potente d’Europa. Nei fatti la tendenza storica verso il capitalismo di Stato non implica solo un aspetto economico. Essa si manifesta anche attraverso una crescente concentrazione del potere politico nelle mani dell’esecutivo a detrimento delle forme classiche della democrazia borghese, il parlamento e il gioco partitico. Mentre i partiti politici, nei paesi sviluppati del 19° secolo, erano i rappresentanti della società civile nel o presso lo Stato, con la decadenza del capitalismo essi si trasformano in rappresentanti dello Stato nella società civile” (il caso più evidente è quello degli antichi partiti operai incaricati oggi di inquadrare la classe operaia dietro lo Stato). “Le tendenze totalitarie dello Stato si esprimono, compreso nei paesi in cui sussistono gli ingranaggi formali della democrazia, attraverso una tendenza al partito unico che trova le sue concretizzazioni più nette nei momenti di convulsioni acute della società borghese: ‘Unione nazionale’ durante le guerre imperialiste, convergenza di tutte le forze borghesi dietro i partiti di sinistra nei periodi rivoluzionari, (...)“.
5) “La tendenza al partito unico trova raramente la sua piena realizzazione nei paesi più sviluppati. Gli USA, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, la Scandinavia non hanno mai conosciuto un tale tipo di regime. Quando questo avvenne in Francia, sotto il regime di Vichy, fu essenzialmente legato all’occupazione del paese da parte dell’esercito tedesco. Il solo esempio storico di un paese pienamente sviluppato in cui questa tendenza sia giunta fino in fondo è quello della Germania” (per delle ragioni che la Sinistra Comunista ha analizzato da lungo tempo).
“(...) Se negli altri paesi avanzati le strutture politiche e i partiti tradizionali si sono mantenuti è perché essi si sono rivelati sufficientemente solidi, per la loro vecchia influenza, per la loro esperienza, per i loro legami con il potere economico, per la forza delle mistificazioni di cui erano portatori, per assicurare la stabilità e la coesione del capitale nazionale di fronte alle difficoltà affrontate da essi (crisi, guerra, lotte sociali).” (ibidem).
In particolare, lo stato dell’economia di questi paesi, la potenza conservata dalla borghesia classica non necessitavano né permettevano l’adozione di misure “radicali” di statalizzazione del capitale che solo le strutture e i partiti “totalitari” sono in grado di mettere in opera.
6) “Ma quello che nei paesi più sviluppati non esiste che come eccezione, nei paesi arretrati è la regola nella misura in cui non esiste alcuna delle condizioni che abbiamo enumerato e in cui questi paesi sono quelli che subiscono più violentemente le convulsioni della decadenza capitalista”. (ibidem)
Così, nelle antiche colonie arrivate alla “indipendenza” nel corso del 20° secolo (in particolare dopo la II guerra mondiale) la costituzione di un capitale nazionale è stato per lo più realizzata attraverso e intorno allo Stato, in generale sotto la guida, in assenza di una borghesia autoctona, di intellettuali formati nelle università europee. In certe circostanze si è potuto vedere anche la giustapposizione e la cooperazione di questa nuova borghesia di Stato con i resti di vecchie classi sfruttatrici precapitaliste.
“Tra i paesi arretrati quelli dell’est occupano un posto particolare. Ai fattori direttamente economici che spiegano il peso che vi occupa il capitalismo di Stato si sovrappongono fattori storici e geopolitici: le circostanze della costituzione dell’URSS e del suo impero.” (ibidem)
7) Lo Stato capitalista in URSS si ricostituisce sulle rovine della rivoluzione proletaria. La debole borghesia dell’epoca zarista era stata completamente eliminata dalla rivoluzione del 1917 (...) e dalla sconfitta delle armate Bianche. Perciò non è né essa né i partiti tradizionali che prendono in carica in Russia l’inevitabile controrivoluzione derivante dalla sconfitta della rivoluzione mondiale. Questo compito è affidato allo Stato che è sorto dopo la rivoluzione e che ha rapidamente assorbito il partito bolscevico (...). Così la classe borghese si ricostituisce non a partire dalla vecchia borghesia (se non in maniera eccezionale e individuale) né a partire da una proprietà individuale dei mezzi di produzione, ma a partire dalla burocrazia del Partito-Stato e dalla proprietà statale dei mezzi di produzione. In Russia la somma dei fattori, arretratezza del paese, distruzione della borghesia classica, schiacciamento fisico della classe operaia, hanno quindi portato la tendenza universale al capitalismo di Stato alle sue forme più estreme: statalizzazione quasi completa dell’economia, dittatura totalitaria del partito unico. Non dovendo più disciplinare i diversi settori della classe dominante o conciliare eventualmente con gli interessi economici di questa, perché ha completamente assorbito la classe dominante identificandosi con essa, lo Stato ha potuto quindi fare a meno delle forme politiche classiche della società borghese (democrazia e pluralismo), anche come finzione. (ibidem, pag. 5 e 6)
8) La stessa brutalità, la centralizzazione estrema con cui il regime dell’URSS esercita il suo potere sulla società si ritrovano nella maniera in cui questa potenza stabilisce e conserva la sua dominazione sull’insieme dei paesi del suo blocco. E’ unicamente basandosi sulla forza delle armi che la Russia si è costituita un impero, sia nel corso stesso della seconda guerra mondiale (sottomissione dei paesi baltici e dell’Europa centrale), sia grazie alle differenti guerre di “indipendenza nazionale” che fanno seguito a questa (come fu per la Cina o il Nord Vietnam per esempio), o ancora in occasione di colpi di stato militari (Egitto 1952, Etiopia 1974, Afghanistan 1978, per esempio). Alla stessa maniera l’utilizzazione della forza delle armi (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, Afghanistan 1979, per esempio), o la minaccia di questa utilizzazione, costituisce la forma praticamente esclusiva del mantenimento della coesione del suo blocco.
9) Allo stesso titolo della forma del suo capitale nazionale e del suo regime politico, questo modo di dominazione imperialista risulta fondamentalmente dalla debolezza economica dell’URSS (la cui economia è più arretrata della maggior parte dei suoi vassalli).
“Paese di gran lunga il più sviluppato del suo blocco, prima potenza economica e finanziaria del mondo, gli USA si assicurano il loro dominio sui principali paesi del loro impero, che sono anch’essi dei paesi pienamente sviluppati, senza fare appello necessariamente alla forza militare, così come questi paesi non hanno bisogno della repressione permanente per assicurare la loro stabilità. (...) E’ in maniera ‘volontaria’ che i settori dominanti delle principali borghesie occidentali aderiscono all’alleanza americana: essi vi trovano vantaggi economici, finanziari, politici e militari (l’ombrello americano di fronte all’imperialismo russo).” (ibidem, pag.7)
Al contrario, l’appartenenza di un capitale nazionale al blocco dell’est ai traduce in generale per la sua economia in un handicap catastrofico (principalmente per il saccheggio diretto di questa economia esercitato dall’URSS).
“In questo senso tra i principali paesi del blocco americano non esiste nessuna ‘spontanea propensione’ a passare nell’altro blocco come è invece successo nell’altro senso (cambiamento di campo della Yugoslavia nel 1948, della Cina alla fine degli anni ‘60, tentativi dell’Ungheria nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1968)”. (ibidem). La permanenza di forze centrifughe in seno al blocco russo spiega dunque la brutalità della dominazione imperialista che vi viene esercitata. Essa spiega ugualmente la forma dei regimi politici che dirigono questi paesi.
10) “La forza e la stabilità degli USA permettono loro di accettare l’esistenza di qualsiasi tipo di regime all’interno del loro blocco: dal regime ‘comunista’ cinese a quello ‘anticomunista’ di Pinochet, dalla ‘democratica’ Inghilterra, dalla bicentenaria repubblica francese alla monarchia feudale saudita, dalla Spagna franchista alla Spagna social-democratica.” (ibidem).
Al contrario, “il fatto che l’URSS (...) non possa mantenere il controllo del suo blocco che attraverso la forza delle armi determina il fatto che i suoi satelliti siano dotati di regimi che, come il suo, non possono mantenere il loro controllo sulla società che attraverso la stessa forza delle armi (polizia e istituzione militare)” (ibidem).
Inoltre è unicamente dai partiti stalinisti che la Russia può attendersi un minimo (e nemmeno è sicuro!) di fedeltà dal momento che l’accesso e il mantenimento al potere di questi partiti è essenzialmente dipendente dal sostegno diretto dell’Armata Rossa. “Per questo fatto, (...) se il blocco americano può perfettamente ‘gestire’ la ‘democratizzazione’ di un regime fascista o militare quando questo diventa utile (Giappone, Germania, Italia l’indomani della guerra, Portogallo, Grecia, Spagna negli anni ‘70), l’URSS non può accettare alcuna ‘democratizzazione’ in seno al suo blocco.” (ibid.) Un cambiamento di regime politico in un paese “satellite” porta con sé la minaccia diretta del passaggio di questo paese nel blocco avversario.
11) Il rafforzamento del capitalismo di Stato è un dato permanente e universale della decadenza del capitalismo. Tuttavia, come si è visto, questa tendenza non si esprime necessariamente sotto la forma della statalizzazione completa dell’economia, l’appropriazione diretta da parte dello Stato dell’apparato produttivo. In certe circostanze storiche quest’ultima costituisce l’unica via possibile per il capitale nazionale, oppure la formula più adatta alla sua difesa e al suo sviluppo. Ciò è valido principalmente per le economie arretrate, ma in certe condizioni (i periodi di ricostruzione per esempio) è valido anche per delle economie sviluppate, come quelle della Gran Bretagna e della Francia dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia questa forma particolare di capitalismo di Stato comporta gravi inconvenienti per l’economia nazionale.
Nei paesi più arretrati la confusione tra l’apparato politico e quello economico permette e genera lo sviluppo di una burocrazia completamente parassitaria, la cui sola preoccupazione è di riempirsi le tasche, di saccheggiare in maniera sistematica l’economia nazionale per costituirsi delle fortune colossali: i casi di Batista, Marcos, Duvalier, Mobutu sono molto conosciuti, ma sono lungi dall’essere i soli. Il furto, la corruzione e il racket sono dei fenomeni generalizzati nei paesi sottosviluppati e infettano tutti i livelli dello Stato e dell’economia. Questa situazione costituisce evidentemente un handicap supplementare per queste economie, che contribuisce a gettarle sempre più nel baratro.
Nei paesi avanzati la presenza di un forte settore statale tende ugualmente a convertirsi in handicap per l’economia nazionale man mano che la crisi mondiale si aggrava. In effetti in questo settore il modo di gestire le imprese, la loro struttura di organizzazione del lavoro e della mano d’opera, limitano molto spesso il loro adattamento al necessario aumento della competitività. “Servitori dello Stato”, vestali del “servizio pubblico”, che godono per lo più della garanzia dell’impiego con il vantaggio che la loro impresa (lo Stato stesso) non può fallire e chiudere i battenti, la strato dei funzionari anche quando non pratica la corruzione non è necessariamente il più capace di adattarsi alle leggi impietose del mercato. Nella grande ondata di “privatizzazioni” che tocca attualmente la maggior parte dei paesi occidentali avanzati bisogna vedere, di conseguenza, non solo una maniera di limitare l’estendersi dei conflitti di classe sostituendo il padrone unico, lo Stato, con una moltitudine di padroni, ma anche un mezzo per rinforzare la competitività dell’apparato produttivo.
12) Nei paesi a regime stalinista, il sistema della “Nomenclatura”, dove le responsabilità economiche, nella quasi totalità dei casi, sono legate essenzialmente al posto occupato nell’apparato del partito, sviluppa su scala ancora più vasta gli ostacoli a un miglioramento dell’apparato produttivo. Mentre l’economia “mista” esistente nei paesi sviluppati d’occidente costringe un poco le imprese pubbliche e anche le amministrazioni a una minima preoccupazione per la produttività e la redditività, la forma di capitalismo di stato prevalente nei paesi a regime stalinista ha per caratteristica di deresponsabilizzare completamente la classe dominante. Di fronte a una cattiva gestione la sanzione del mercato non esiste più e le sanzioni amministrative non sono usuali perché è tutto l’apparato, dall’alto in basso, che manifesta una tale irresponsabilità.
Fondamentalmente la condizione per il mantenimento dei privilegi è la servilità rispetto alla gerarchia di questo apparato o di fronte a questa o quella delle sue cricche. La prima preoccupazione della maggior parte dei “responsabili”, sia economici che politici (e in generale si tratta delle stesse persone), non è quella di far fruttificare il capitale, ma di utilizzare il loro posto per riempire le loro tasche e quelle della loro famiglia e dei loro fedeli, senza la minima preoccupazione per il buon andamento delle imprese o dell’economia nazionale. Un tale modo di “gestione” non esclude, evidentemente, uno sfruttamento feroce della forza lavoro. Ma questa ferocia non riguardano in generale l’imposizione di norme di lavoro che permettano di aumentare la produttività. Essa si manifesta essenzialmente nel livello di vita miserabile degli operai e la brutalità con cui viene risposto alle loro rivendicazioni.
In sintesi questo tipo di regime si può caratterizzare come il regno dei corrotti, dei piccoli capi incompetenti e ringhiosi, dei prevaricatori cinici, dei faccendieri senza scrupoli e dei poliziotti. Queste caratteristiche appartengono a tutta la società capitalista e non fanno che rafforzarsi con la sua decomposizione, ma quando esse si sostituiscono completamente alla competenza tecnica, allo sfruttamento razionale della forza lavoro e alla ricerca della competitività sul mercato, esse compromettono in maniera radicale lo stato dell’economia nazionale. In queste condizioni, le economie per lo più già considerevolmente arretrate di questi paesi sono particolarmente mal armate per affrontare la crisi capitalista e l’inasprirsi della concorrenza che essa provoca sul mercato mondiale.
13) Di fronte al fallimento totale dell’economia di questi paesi la sola soluzione che possa permettere se non di arrivare a una vera competitività ma almeno di conservare la testa fuori dall’acqua consiste nell’ introduzione di meccanismi che consentano una vera responsabilizzazione dei suoi dirigenti. Questi meccanismi presuppongono una “liberalizzazione” dell’economia, la creazione di un mercato interno che sia tale, una più grande “autonomia” delle imprese e lo sviluppo di un forte settore “privato”. E’ questo d’altra parte il programma della “perestroika”, come del governo Mazowiecki in Polonia e di Deng Xiaoping in Cina. Tuttavia anche se un tale programma diventa sempre più indispensabile, la sua messa in atto comporta degli ostacoli praticamente insormontabili.
In primo luogo un tale programma implica l’instaurazione della “verità dei prezzi” sul mercato; questo vuol dire che i prodotti di corrente consumo, e anche di prima necessità, che oggi sono sovvenzionati dallo Stato, saranno destinati ad aumentare in maniera vertiginosa: gli aumenti del 500% che si sono visti in Polonia nell’agosto 1989 danno un’idea di quello che attende la popolazione, e in particolare la classe operaia. L’esperienza passata (e anche presente) della stessa Polonia dimostrano che una tale politica può provocare delle violente esplosioni sociali che ne compromettono la applicazione.
In secondo luogo questo programma prevede la chiusura delle fabbriche non “redditizie” (che sono tantissime) o riduzioni sensibili dei loro occupati. La disoccupazione (che attualmente si presenta in maniera marginale) si svilupperà in maniera massiccia, costituendo una ulteriore minaccia per la stabilità sociale visto che il pieno impiego era una delle rare garanzie di cui disponevano ancora gli operai e costituiva uno dei mezzi di controllo di una classe operaia esasperata per le sue condizioni di esistenza. Ancora più che nei paesi occidentali, nei paesi dell’est la disoccupazione di massa rischia di trasformarsi in una vera bomba sociale.
In terzo luogo, la “autonomia” delle imprese si scontra con la accanita resistenza di tutta la burocrazia economica la cui ragion d’essere ufficiale è quella di pianificare, organizzare e controllare l’attività dell’apparato produttivo. La notevole inefficienza di cui essa ha finora dato prova in questo compito la spinge al sabotaggio delle “riforme”.
14) Infine, l’apparizione, accanto alla borghesia di Stato, di uno strato di “manager” alla occidentale costituisce per la prima (che è integrata nell’apparato di potere politico) una concorrenza inaccettabile. Il carattere essenzialmente parassitario della sua esistenza sarà messo a nudo in maniera impietosa, il che minaccerà, in breve tempo, non solo il suo potere ma anche l’insieme dei suoi privilegi economici. Per il partito nel suo insieme, la cui ragion d’essere risiede nella messa in applicazione e nella direzione del “socialismo reale”, è tutto il suo programma, la sua identità stessa che sono rimessi in causa.
L’evidente scacco della “perestrojka” di Gorbaciov, come d’altra parte di tutte le precedenti riforme dello stesso tipo, rende conto in maniera chiara di queste difficoltà. Nei fatti, la messa in atto effettiva di tali “riforme” non può condurre che a un conflitto aperto tra i due settori della borghesia, quella di Stato e la borghesia “liberale” (anche se quest’ultima si ritrova anch’essa in una parte dell’apparato di Stato). La conclusione brutale di questo conflitto, quale si è visto recentemente in Cina, dà un’immagine delle forme che esso può rivestire negli altri paesi a regime stalinista.
15) Come esiste un legame stretto fra la forma dell’apparato economico e la struttura dell’apparato politico, così la riforma dell’una si ripercuote necessariamente sull’altro. La necessità di una “liberalizzazione” dell’economia trova la sua espressione nel sorgere, in seno al partito o al di fuori di esso, di forze politiche che si fanno portatrici di questa necessità. Questo fenomeno genera delle forti tendenze alla scissione in seno al partito, come la creazione di formazioni “indipendenti” che si richiamano in maniera più o meno esplicita al ristabilimento delle forme classiche del capitalismo, come è il caso di Solidarnosc. (2)
Una tale tendenza all’apparizione di parecchie formazioni politiche, con programmi economici differenti, porta con sé la pressione in favore del riconoscimento legale del “multipartitismo” e del “diritto di associazione”, di elezioni “libere”, di “libertà di stampa”, in breve degli attributi classici della democrazia borghese. In più, una certa libertà di critica, “l’appello all’opinione pubblica”, possono essere delle leve per scalzare i burocrati “conservatori” che si impuntano. E’ perciò che i “riformatori” sul piano economico lo sono anche sul piano politico. E’ per questa ragione che la “perestrojka” è accompagnata dalla “glasnost”. Inoltre la “democratizzazione”, compresa l’apparizione di forze politiche di “opposizione”, può, in certe circostanze, come in Polonia nel 1980 e nel 1988 e in Russia oggi, costituire una diversione e un mezzo di inquadramento di fronte all’esplosione del malcontento della popolazione, in particolare della classe operaia. Quest’ultimo elemento costituisce, evidentemente, un fattore supplementare di pressione in favore delle “riforme politiche”.
16) Tuttavia, come la “riforma economica” si è data dei compiti praticamente irrealizzabili, così la “riforma politica” ha ben poche possibilità di successo. L’introduzione effettiva del “pluripartitismo” e di elezioni “libere”, che è la conseguenza logica di un processo di “democratizzazione”, costituisce una vera minaccia per il partito al potere. Come si è recentemente visto in Polonia e in una certa misura anche in Russia l’anno scorso, tali elezioni non possono condurre che alla messa in evidenza del completo discredito, del vero odio verso il Partito in seno alla popolazione. Nella logica di tali elezioni la sola cosa che il Partito possa attendersi è quindi la perdita del suo potere. Ciò è qualcosa che il Partito, a differenza dei partiti “democratici” di occidente, non può tollerare dato che:
- se esso perdesse il potere tramite le elezioni non potrebbe mai riconquistarlo con lo stesso mezzo;
- la perdita del suo potere politico significherebbe concretamente l’espropriazione della classe dominante poiché il suo apparato é appunto la classe dominante.
Mentre nei paesi ad economia “liberale” o “mista”, in cui si mantiene una classe borghese classica, direttamente proprietaria dei mezzi di produzione, il cambiamento del partito al potere (a meno che non si tratti appunto di un partito stalinista) non ha che un debole impatto sui suoi privilegi e sul suo posto nella società, un evento simile in un paese dell’est significa, per la grande maggioranza dei burocrati piccoli e grandi, la perdita dei loro privilegi, la disoccupazione, e anche persecuzioni da parte dei loro vincitori. La borghesia tedesca ha potuto adattarsi al “kaiser”, alla repubblica socialdemocratica, al totalitarismo nazista, alla repubblica “democratica”, senza che fosse messo in causa l’essenziale dei suoi privilegi. Un cambiamento di regime in URSS, invece, significherebbe in questo paese la sparizione della borghesia nella sua forma attuale come del partito. E se un partito politico può suicidarsi, pronunciare la sua autodissoluzione, una classe dominante e privilegiata non si suicida.
17) E’ perciò che le resistenze che si manifestano, all’interno dell’apparato dei partiti stalinisti dei paesi dell’est contro le riforme politiche, non possono essere ridotte al timore dei burocrati più incompetenti di perdere il loro posto e i loro privilegi. E’ il partito come corpo, come entità sociale e come classe dominante che si esprime attraverso queste resistenze.
D’altra parte, quello che scrivevamo nove anni fa: “ogni movimento di contestazione rischia di cristallizzare l’enorme malcontento che esiste in seno a un proletariato e una popolazione sottomessi da decenni alla più violenta delle repressioni”, resta valido ancora oggi. In effetti, anche se le “riforme democratiche” hanno come uno dei loro obiettivi di costituire una valvola di sfogo dell’enorme rabbia che esiste nella popolazione, esse comportano anche il rischio di permettere l’emergere di questa rabbia sotto forma di esplosioni incontrollabili. Quando le manifestazioni di malcontento non sono più passibili di essere schiacciate con il sangue e con gli arresti in massa, esse rischiano di esprimersi apertamente e violentemente. Quando la pressione nella pentola diventa troppo forte, il vapore che si vuole far uscire dalla valvola rischia di far saltare il coperchio.
In una certa misura gli scioperi dell’estate scorsa in Russia sono un’illustrazione di questo fenomeno. In un contesto diverso da quello della perestrojka l’esplosione della combattività operaia non avrebbe potuto estendersi in questa maniera o con una tale durata. Lo stesso si può dire per quello che riguarda l’attuale esplosione dei movimenti nazionalisti in questo paese che mette in evidenza il pericolo che la politica di “democratizzazione” rischia di far correre all’integrità territoriale della seconda potenza mondiale.
18) In effetti, dato che praticamente il solo fattore di coesione del blocco russo è la forza armata, ogni politica che tende a far passare in secondo piano questo fattore porta con sé l’esplosione del blocco. Fin da ora il blocco dell’est ci presenta il quadro di una disgregazione crescente. Per esempio, le invettive tra la Germania Est e l’Ungheria, tra i governi “riformatori” e quelli “conservatori”, non sono per niente una farsa. Esse rendono conto dei contrasti che stanno per istaurarsi tra le diverse borghesie nazionali. In questa zona le forze centrifughe sono talmente forti da scatenarsi alla prima occasione. E oggi questa occasione si alimenta dei timori, suscitati in seno ai partiti diretti dai “conservatori”, che il movimento partito dall’URSS, e che si è amplificato in Polonia e Ungheria, non arrivi, per contagio, a destabilizzarli.
Un fenomeno simile si ritrova nelle Repubbliche periferiche dell’URSS. Queste regioni sono per certi versi delle colonie della Russia zarista o anche della Russia stalinista (per esempio i paesi baltici annessi in seguito al patto tedesco-sovietico del 1939). Ma contrariamente alle altre grandi potenze la Russia non ha mai potuto procedere a una decolonizzazione perché questo avrebbe significato per lei la perdita definitiva di qualsiasi controllo su queste regioni, di cui alcune sono molto importanti dal punto di vista economico. I movimenti nazionalisti che oggi, grazie al rilassamento del controllo centrale del partito russo, si sviluppano con quasi un mezzo secolo di ritardo rispetto a quelli che avevano toccato gli imperi francesi o inglese, portano con sé una dinamica di separazione dalla Russia.
In fin dei conti, se il potere centrale di Mosca non reagisse, assisteremmo a un fenomeno di esplosione, non solo del blocco russo, ma anche della sua potenza dominante. In una tale ipotesi la borghesia russa, che oggi è la seconda potenza mondiale, non sarebbe che alla testa di una potenza di secondo piano, più debole della Germania, per esempio.
19) Così, la “perestrojka” ha aperto un vero vaso di Pandora creando situazioni sempre più incontrollabili, come quella, per esempio, che si è venuta a creare in Polonia, con la costituzione di un governo diretto da Solidarnosc. La politica “centrista” (come la definisce Eltsin) di Gorbaciov è in realtà un esercizio di equilibrismo instabile tra due tendenze il cui scontro è inevitabile: quella che vuole andare fino in fondo nel movimento di “liberalizzazione” perché le mezze misure non possono risolvere niente, né sul piano economico, né su quello politico, e quella che si oppone a questo movimento nel timore che esso provochi la caduta della forma attuale della borghesia e anche la perdita della potenza imperialista della Russia.
Dal momento che, attualmente, la borghesia regnante dispone ancora del controllo della forza militare (compreso evidentemente in Polonia), questo scontro non può condurre che a delle lotte violente, ed anche a dei bagni di sangue, come quello che si è avuto in Cina questa estate. E tali lotte saranno rese più brutali per il fatto che dopo più di mezzo secolo per l’URSS, e di quaranta anni per i suoi satelliti, si sono accumulate quantità di odio incredibili da parte delle popolazioni verso le cricche staliniste sinonimo di terrore, massacri, torture, miseria e di un’arroganza cinica fenomenale. Se la burocrazia stalinista perdesse il potere nei paesi che essa controlla, sarebbe vittima di veri e propri pogrom.
20) Ma quale che sia l’evoluzione futura della situazione nei paesi dell’est, gli avvenimenti che li agitano attualmente segnano la crisi storica, il crollo definitivo dello stalinismo, questa mostruosità simbolo della più terribile controrivoluzione subita dal proletariato.
In questi paesi si è aperto un periodo di instabilità, di scosse, di convulsioni, di caos senza precedenti, le cui conseguenze supereranno largamente le loro frontiere. In particolare, il crollo del blocco russo apre le porte a una destabilizzazione del sistema di relazioni internazionali, delle costellazioni imperialiste che erano uscite dalla seconda guerra mondiale con gli accordi di Yalta. Ciò non vuol dire tuttavia che sia in una qualsiasi maniera rimesso in causa il corso storico verso degli scontri decisivi fra le classi. In realtà, il crollo attuale del blocco dell’est costituisce una delle manifestazioni della decomposizione generale della società capitalista la cui origine si trova proprio nell’incapacità della borghesia di dare liberamente la propria risposta, la guerra generalizzata, alla crisi aperta dell’economia mondiale. In questo senso, oggi più che mai, la chiave della prospettiva storica è nelle mani del proletariato.
21) Gli avvenimenti attuali nel blocco dell’est confermano che questa responsabilità del proletariato mondiale ricade principalmente sui suoi battaglioni dei paesi centrali, particolarmente quelli dell’Europa occidentale. In effetti, nella prospettiva delle convulsioni economiche e politiche, degli scontri tra settori della borghesia che attendono i regimi stalinisti, esiste il pericolo che gli operai di questi paesi si lascino irreggimentare e anche massacrare dietro una delle forze capitaliste in campo (come fu il caso nella Spagna ‘36), o anche che le lotte sociali siano deviate su un tale terreno. Le lotte operaie dell’estate 1989 in URSS, malgrado il loro carattere di massa e la combattività che esse rivelano, non hanno abolito l’enorme ritardo politico che pesa sul proletariato di questo paese e del blocco che esso domina. In questa parte del mondo, a causa della stessa arretratezza economica del capitale, ma soprattutto per la profondità e la brutalità con cui si è manifestata la controrivoluzione, gli operai sono ancora particolarmente vulnerabili di fronte alle mistificazioni e alle trappole democratiche, sindacaliste e nazionaliste. Per esempio, le esplosioni nazionaliste di questi ultimi mesi in Russia, ma anche le illusioni che le recenti lotte in questo paese hanno rivelato, come il debole livello attuale della coscienza politica degli operai in Polonia malgrado l’importanza delle lotte che essi hanno condotto da due decenni, costituiscono una nuova illustrazione dell’analisi della CCI su questa questione (rigetto della “teoria dell’anello debole”, vedi Rivista Internazionale n°7). In questo senso, la denuncia nella lotta dell’insieme delle mistificazioni democratiche e sindacaliste da parte degli operai dei paesi centrali costituirà, soprattutto vista l’importanza delle illusioni che gli operai dell’est si fanno sull’Occidente, un elemento fondamentale della capacità di questi ultimi di sventare le trappole che la borghesia non mancherà di tendere loro, di non lasciarsi distogliere dal proprio terreno di classe.
22) Gli avvenimenti che attualmente agitano i cosiddetti paesi “socialisti”, la sparizione di fatto del blocco russo, il fallimento patente e definitivo dello stalinismo sul piano economico, politico e ideologico, costituiscono il fatto storico più importante dalla seconda guerra mondiale insieme con il risorgere internazionale del proletariato alla fine degli anni ‘60. Un avvenimento di tale portata si ripercuoterà, e già ha iniziato a farlo, sulla coscienza della classe operaia, e ciò tanto più che esso riguarda un’ideologia e un sistema politico presentati per più di un mezzo secolo come “socialisti” e “operai”. Con lo stalinismo è il simbolo e la punta di lancia della più terribile controrivoluzione della storia che spariscono. Ma ciò non significa che lo sviluppo della coscienza del proletariato mondiale ne risulti facilitato, al contrario. Anche nella sua fine lo stalinismo rende un ultimo servizio alla dominazione capitalista: decomponendosi il suo cadavere continua ad appestare l’atmosfera che il proletariato respira. Per i settori dominanti della borghesia il definitivo crollo dell’ideologia stalinista, i movimenti “democratici”, “liberali” e nazionalisti che sconvolgono i paesi dell’est costituiscono un’occasione per scatenare e intensificare le loro campagne di mistificazione. L’identificazione sistematica tra comunismo e stalinismo, la menzogna mille volte ripetuta e martellata oggi ancora più di prima per cui la rivoluzione proletaria non potrebbe condurre che al fallimento, vanno a trovare con il crollo dello stalinismo, e per tutto un periodo di tempo, un impatto accresciuto nei ranghi della classe operaia. E’ dunque un riflusso momentaneo della coscienza del proletariato, di cui già ora si possono notare le manifestazioni - in particolare con il ritorno in forze del sindacato - che bisogna attendersi.
Se gli attacchi incessanti e sempre più brutali che il capitalismo non mancherà di sferrare contro gli operai costringeranno questi a scendere in lotta, in un primo tempo non ne risulterà una maggiore capacità della classe di avanzare nella sua presa di coscienza. In particolare, l’ideologia riformista peserà molto fortemente sulle lotte del prossimo periodo, favorendo grandemente l’azione dei sindacati.
Tenuto conto dell’importanza storica dei fatti che lo determinano, l’attuale riflusso del proletariato, benché non rimetta in causa il corso storico, la prospettiva generale agli scontri fra le classi, si presenta come ben più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia. Ciò detto, noi non ne possiamo prevedere né l’ampiezza reale, né la durata. In particolare, il ritmo di sprofondamento del capitalismo occidentale - di cui si può percepire attualmente un’accelerazione con la prospettiva di una nuova recessione aperta - va a costituire un fattore determinante del momento in cui il proletariato potrà riprendere la sua marcia verso la coscienza rivoluzionaria. Rovesciando le illusioni sul “raddrizzamento” dell’economia mondiale, mettendo a nudo la menzogna che presenta il capitalismo “liberale” come una soluzione al fallimento del preteso “socialismo”, svelando il fallimento storico dell’insieme del modo di produzione capitalista, e non solamente delle sue incarnazioni staliniste, l’intensificazione della crisi capitalista spingerà il proletariato a volgersi di nuovo verso la prospettiva di un’altra società, a iscrivere in maniera crescente le sue lotte in questa prospettiva.
Come la CCI scriveva già dopo la sconfitta del 1981 in Polonia, la crisi capitalista resta il migliore alleato del proletariato.
C.C.I. 5/10/1989
1. Il fatto che in un certo numero di paesi dell’est esistano parecchi partiti non cambia evidentemente niente alla realtà che è il partito stalinista a detenere la totalità del potere, essendo gli altri partiti solo delle appendici.
2. Così, in seno alla direzione del partito in Polonia alcuni si richiamano alla “Socialdemocrazia”, nell’ufficio politico del partito ungherese si trova un certo Imre Poszgay, candidato designato all’elezione presidenziale prevista nel 1990, che dichiara che “è impossibile riformare la pratica comunista esistente attualmente in Unione Sovietica e nell’Europa dell’est... Questo sistema deve essere liquidato”. Allo stesso modo, il membro dell’apparato di partito Eltsin, vecchio capo del PC di Mosca, dichiara agli Americani che l’URSS deve imparare dagli Stati Uniti, e Mazowiecki, nel suo discorso di investitura, non parla una sola volta di “socialismo”.
Lo stalinismo ha costituito la punta di lancia della più terribile controrivoluzione subita dal proletariato nel corso della sua storia. Una controrivoluzione che ha permesso la più grande carneficina di tutti i tempi, la seconda guerra mondiale, e l’affossamento di tutta la società in una barbarie senza precedenti. Oggi, col crollo economico e politico dei cosiddetti paesi socialisti, con la scomparsa di fatto del blocco imperialista dominato dall’URSS, lo stalinismo, come forma di organizzazione politico-economica del capitale e come ideologia, è in agonia. Va a scomparire quindi uno dei peggiori nemici della classe operaia. Ma la sua scomparsa non facilita certo il compito alla classe. Anzi, come vedremo in questo articolo, anche mentre sta morendo, lo stalinismo rende un ultimo servizio al capitalismo.
In tutta la storia umana lo stalinismo costituisce il fenomeno certamente più tragico e odioso che sia mai esistito. E non solo perché è responsabile del massacro di dozzine di milioni di esseri umani o perché ha instaurato per decenni un terrore implacabile su circa un terzo dell’umanità, ma soprattutto perché ha dimostrato di essere il peggior nemico della rivoluzione comunista, cioè dell’unica condizione per l’emancipazione della specie umana dalle catene dello sfruttamento e dell’oppressione, e proprio in nome di questa stessa rivoluzione comunista.
IL RUOLO DELLO STALINISMO NELLA CONTRORIVOLUZIONE
Da quando ha stabilito il proprio dominio politico sulla società, la borghesia ha sempre visto nel proletariato il suo peggior nemico. Per esempio, nel corso stesso della rivoluzione borghese della fine del 18° secolo la borghesia ha subito capito il carattere sovversivo delle idee di un Babeuf. E per questo lo ha spedito sul patibolo anche se all’epoca il suo movimento non poteva costituire una reale minaccia per lo stato capitalista (1). Tutta la storia della dominazione borghese è marcata dai massacri di operai perpetrati allo scopo di difendere questa dominazione: massacro dei canuti di Lione nel 1831, dei tessitori della Slesia nel 1844, degli operai parigini nel giugno 1848, dei comunardi nel 1871, degli insorti del 1905 in tutto l’impero russo. Per questo tipo di necessità la borghesia ha sempre potuto trovare nelle sue formazioni politiche classiche gli uomini di polso di cui aveva bisogno. Ma quando la rivoluzione proletaria si è posta all’ordine del giorno della storia, la borghesia non si è più contentata di fare appello a queste sole formazioni per preservare il suo potere. La responsabilità di spalleggiare i partiti borghesi tradizionali o anche di prendere la testa dell’offensiva antiproletaria, passa a quei partiti traditori che erano stati in passato organizzazioni proletarie. Il ruolo preciso di queste nuove reclute della borghesia, la funzione per la quale erano indispensabili ed insostituibili, consisteva nella loro capacità, derivante proprio dalla loro origine e dal loro nome, di esercitare un controllo ideologico sul proletariato per distruggerne la presa di coscienza ed imbrigliarlo sul terreno della classe nemica. La maggiore gloria, infatti, della Socialdemocrazia in quanto partito borghese, non sta tanto nei massacri perpetrati in prima persona a partire dal gennaio del 1919 a Berlino (dove, come ministro delle forze armate, il socialdemocratico Noske ha assunto appieno la sua responsabilità di “cane sanguinario”, come lui stesso si definiva), ma piuttosto come sergente-reclutatore per la prima guerra mondiale e, in seguito, come agente di mistificazione della classe operaia, di divisione e di dispersione delle sue forze, di fronte all’ondata rivoluzionaria che ha messo fine all’olocausto imperialista. In effetti solo il tradimento dell’ala opportunista che dominava la maggior parte dei partiti della II Internazionale, solo il suo passaggio armi e bagagli nel campo della borghesia ha reso possibile, in nome della “difesa della civilizzazione”, l’‘imbrigliamento del proletariato europeo dietro la “difesa nazionale” e lo scatenamento di questa carneficina. Inoltre, la politica di questi partiti, che pretendevano di essere ancora socialisti e per questo continuavano ad avere una notevole influenza sul proletariato, ha giocato un ruolo importante nel mantenimento delle illusioni riformiste e democratiche nel proletariato che lo hanno disarmato impedendogli di seguire l’esempio dato dagli operai russi nel 1917.
In questo periodo, gli elementi e le frazioni che si erano contrapposte a questo tradimento, che avevano mantenuta alta la bandiera dell’internazionalismo e della rivoluzione proletaria, si erano raggruppati nei partiti comunisti, sezioni della III Internazionale. Ma questi stessi partiti, in seguito, giocheranno un ruolo analogo a quello dei partiti socialisti. Logorati dall’opportunismo che si era rafforzato in conseguenza del mancato sviluppo della rivoluzione mondiale, fedeli esecutori della direzione di una “Internazionale” che si trasformava sempre più in un semplice strumento della diplomazia dello stato russo alla ricerca della sua integrazione nel mondo borghese, i partiti comunisti hanno seguito lo stesso cammino dei loro predecessori. Come questi, hanno finito per integrarsi completamente nell’apparato politico del capitale nazionale dei rispettivi paesi. Ma, di passaggio, hanno anche partecipato alla sconfitta degli ultimi soprassalti dell’ondata rivoluzionaria del dopoguerra, come in Cina nel 1927-28, e soprattutto hanno contribuito in maniera decisiva alla trasformazione della sconfitta della rivoluzione mondiale in una terribile controrivoluzione.
In effetti, dopo una tale sconfitta, la demoralizzazione e lo scombussolamento del proletariato erano inevitabili. Tuttavia, la f orna che ha preso la controrivoluzione nella stessa URSS - non il rovesciamento del potere uscito dalla rivoluzione d’ottobre 1917, ma la degenerazione di questo potere e del partito che lo deteneva - le ha dato una estensione ed una profondità enormemente più grande che se la rivoluzione fosse morta sotto i colpi delle armi bianche. Il partito comunista dell’unione sovietica (PCUS), che aveva costituito l’avanguardia incontestabile del proletariato mondiale sia nella rivoluzione del ‘17 che nella fondazione dell’Internazionale comunista nel ‘19, diventa, in seguito alla sua immedesimazione con lo stato post-rivoluzionario, il principale agente della controrivoluzione in URSS, il vero carnefice della classe operaia (2). E sfruttando il suo glorioso passato ha continuato a mietere illusioni nella maggioranza degli altri partiti comunisti e dei loro militanti, come nelle grandi masse del proletariato mondiale. E’ grazie a tale prestigio che questi militanti e queste masse potranno tollerare tutti i tradimenti fatti dallo stalinismo in questo periodo. In particolare l’abbandono dell’internazionalismo proletario sotto la copertura della “costruzione del socialismo in un solo paese”, l’identificazione al “socialismo” del capitalismo che si è ricostituito in Russia nelle forme più barbare, la sottomissione delle lotte del proletariato mondiale agli imperativi della difesa della “patria socialista” e infine la difesa della democrazia contro il fascismo. Tutte queste menzogne e mistificazioni hanno potuto, in gran parte, avere una presa sulle masse operaie proprio perché venivano veicolate da partiti che continuavano a presentarsi come gli eredi “legittimi” della rivoluzione d’Ottobre. E’ proprio questa falsa identificazione tra stalinismo e comunismo, utilizzata da tutti i settori della borghesia mondiale (3), che ha permesso alla controrivoluzione di paralizzare più generazioni operaie consegnandole mani e piedi legati alla seconda carneficina imperialista, di averla vinta sulle frazioni comuniste che avevano lottato contro la degenerazione dell’Internazionale comunista e dei suoi partiti o comunque di ridurle a livello di piccoli nuclei completamente isolati.
Sono stati in particolare i partiti stalinisti, negli anni ‘30, a deviare su di un terreno borghese la collera e la combattività degli operai colpiti brutalmente dalla crisi economica mondiale. Questa crisi, per la sua ampiezza e profondità, era il segno indiscutibile del fallimento storico del modo di produzione capitalistico e avrebbe potuto, a questo titolo ed in altre circostanze, costituire la leva per una nuova ondata rivoluzionaria. Ma la maggioranza degli operai che si orientavano verso questa prospettiva sono rimasti prigionieri nelle maglie dello stalinismo che pretendeva di rappresentare la tradizione della rivoluzione mondiale. In nome della difesa della “patria socialista” ed in nome dell’antifascismo, i partiti stalinisti hanno sistematicamente svuotato di ogni contenuto di classe le lotte proletarie di questo periodo e le hanno trasformate in forze di appoggio della democrazia borghese, quando non in preparativi della guerra imperialista. Questo fu il caso, in particolare, dei “fronti popolari” in Francia e in Spagna, dove un’enorme combattività operaia fu deviata ed annientata attraverso l’antifascismo, portato avanti principalmente dagli stalinisti, e fatto passare come una pratica proletaria. In quest’ultimo caso i partiti stalinisti hanno dimostrato che, anche al di fuori dell’URSS dove già da molti anni giocavano il ruolo di carnefici, erano ben più capaci dei loro maestri socialdemocratici nel compito di massacratori del proletariato (vedi in particolare il loro ruolo nella repressione del sollevamento proletario a Barcellona nel maggio 1937 descritto nell’articolo di “Bilan” “Piombo, mitraglia, prigioni …“ nella Rivista Internazionale n. 1, novembre ‘76). Come numero di vittime di cui porta la diretta responsabilità a livello mondiale, lo stalinismo non ha nulla da invidiare al fascismo, altra manifestazione della controrivoluzione. Ma il suo ruolo antioperaio sarà molto più importante perché lo assicurerà in nome della rivoluzione comunista e del proletariato, provocando in quest’ultimo un riflusso della sua coscienza di classe senza uguali nella storia.
Infatti, mentre alla fine e dopo la prima guerra imperialista, nel momento in cui si sviluppava l’ondata rivoluzionaria mondiale, l’impatto dei partiti comunisti era direttamente in rapporto con la combattività e soprattutto la coscienza nell’insieme del proletariato, l’evoluzione della loro influenza, a partire dagli anni 30, è in proporzione inversa alla coscienza nella classe. Alla loro fondazione, la forza dei partiti comunisti costituiva, in qualche modo, un termometro della potenza della rivoluzione; dopo esser passati alla borghesia, la loro forza diventa una misura della profondità della controrivoluzione.
E’ per questo che lo stalinismo non è mai stato così potente come dopo la seconda guerra mondiale. Questo periodo, infatti, costituisce il punto culminante della controrivoluzione. Grazie ai partiti stalinisti, per mezzo dei quali la borghesia ha potuto scatenare un’altra carneficina imperialista, e che sono stati tra i migliori sergenti-reclutatori del proletariato nei movimenti di “resistenza”, questa carneficina, contrariamente alla prima, non ha portato ad un sollevamento rivoluzionario del proletariato. L’occupazione di una buona parte dell’Europa da parte dell’“Armata rossa” (4) da una parte, la partecipazione dei partiti stalinisti ai governi della “Liberazione” dall’altra, hanno messo a tacere ogni velleità di lotta del proletariato sul proprio terreno di classe, attraverso il terrore o la mistificazione, ciò che lo ha spinto in un disorientamento ancora più profondo di quello che esisteva alla vigilia della guerra. Nella guerra, la vittoria degli alleati, alla quale lo stalinismo ha dato tutto il suo contributo, lungi dallo sgombrare il terreno per la classe operaia (come pretendevano i trotzkisti per giustificare la loro partecipazione alla “Resistenza”), non ha fatto altro che rafforzarne la sottomissione all’ideologia borghese. Questa vittoria, presentata come quella della “Democrazia” e della “Civilizzazione” sulla barbarie fascista, ha permesso alla borghesia di ridare splendore al blasone delle illusioni democratiche e della visione di un capitalismo “umano” e “civilizzato”, prolungando così di vari decenni la notte della controrivoluzione.
Non è affatto un caso se la fine della controrivoluzione, la ripresa storica delle lotte di classe a partire da 1968, coincide con un indebolimento importante, nell’insieme del proletariato mondiale, della presa dello stalinismo, del peso delle illusioni sulla natura dell’URSS e delle mistificazioni antifasciste. Ciò è particolarmente evidente nei due paesi occidentali dove esistevano i partiti “comunisti” più forti e dove si sono avute le lotte più significative di questa ripresa: la Francia nel 1968 e l’Italia nel 1969.
COME LA BORGHESIA UTILIZZA IL CROLLO DELLO STALINISMO
Questo indebolimento della presa ideologica dello stalinismo sulla classe operaia risulta in buona parte dalla scoperta da parte degli operai della vera natura dei regimi cosiddetti socialisti. Nei paesi dominati da questi regimi è evidente che gli operai hanno potuto constatare subito che lo stalinismo era uno dei loro peggiori nemici. Già dal 1953 in Germania orientale, e dal 1956 in Polonia ed Ungheria, le rivolte operaie e la loro repressioni nel sangue hanno dimostrato che, in questi paesi, gli operai non si facevano illusioni sullo stalinismo. Questi avvenimenti (così come l’intervento armato del patto di Varsavia in Cecoslovacchia nel 1968) hanno inoltre contributo ad aprire gli occhi ad un certo numero di operai in Occidente (5), anche se molto di più sono servite a tal scopo le lotte del 1970, 76 e 80 in Polonia che, proprio perché si situavano molto più direttamente su di un terreno di classe ed in un momento di ripresa mondiale delle lotte operaie, hanno potuto dimostrare in maniera molto più chiara al proletariato dei paesi occidentali la natura antioperaia dei regimi stalinisti. E’ per questo infatti che i partiti stalinisti occidentali hanno preso le distanze dalla repressione scatenata dagli stati “socialisti”.
Un altro elemento che ha favorito l’usura delle mistificazioni staliniste è stato la messa in evidenza, da parte di queste lotte, del fallimento dell’economia “socialista”. Tuttavia, man mano che si confermava questo fallimento e che di conseguenza si indebolivano le mistificazioni staliniste, la borghesia occidentale ne approfittava per sviluppare le sue campagne sulla “superiorità del capitalismo rispetto al socialismo”. Così le illusioni democratiche e sindacaliste che gli operai polacchi subivano sono state sfruttate, in particolare a partire dall’80, con la formazione del sindacato “Solidarnosc”, per essere ripresentate riverniciate a nuovo agli operai in Occidente. E’ infatti il rafforzamento di queste illusioni, accentuato dalla repressione del dicembre ‘81 e la messa fuori legge di “Solidarnosc”, che permette di comprendere il disorientamento ed il riflusso della classe operaia agli inizi degli anni ‘80.
L’emergere, a partire dall’autunno 1983, di una nuova ondata di ampie lotte nella maggior parte dei paesi sviluppati occidentali, ed in particolare in Europa occidentale, la simultaneità stessa di queste lotte a livello internazionale, dimostravano che la classe operaia stava liberandosi dalla presa delle illusioni e delle mistificazioni che l’avevano paralizzata nel periodo precedente. In particolare lo scavalcamento dei sindacati ed il loro rigetto, manifestatisi soprattutto nello sciopero dei ferrovieri in Francia alla fine dell’86 o nel movimento della scuola in Italia nell’87, la costituzione da parte dei gruppi di estrema “sinistra”, in questi ed in altri paesi, di “coordinamenti” che presentandosi come strutture “non sindacali” servivano nei fatti all’inquadramento dei lavoratori, sono tutte manifestazioni dell’indebolimento delle mistificazioni sindacaliste. Nello stesso periodo si indebolivano anche le mistificazioni elettorali con una crescita delle astensioni, in particolare nelle circoscrizioni operaie. Ma oggi, grazie al crollo dei regimi stalinisti e a tutte le campagne che ne derivano, la borghesia è riuscita a rovesciare la tendenza che si era manifestata in questi anni 80.
In effetti, se le trappole sindacaliste e democratiche che la borghesia era riuscita a tendere a ridosso delle lotte operaie dell’agosto ‘80 in Polonia, e grazie alle quali aveva potuto scatenare la repressione del dicembre 81, avevano permesso di provocare un sensibile disorientamento nel proletariato dei paesi più avanzati, il crollo generale e storico dello stalinismo di oggi non può che portare ad un disorientamento ancora maggiore.
Ciò perché gli avvenimenti attuali si situano ad un livello ben diverso da quello della Polonia 80. Innanzitutto non vi è implicata un’unica nazione ma tutte quelle del blocco, a cominciare dal capofila, l’URSS. La propaganda stalinista poteva presentare le difficoltà del regime polacco come il risultato degli “errori” di Gierek. Ha oggi nessuno, neanche i nuovi dirigenti di questi paesi, si sognano di accollare ai loro predecessori la responsabilità totale delle difficoltà dei loro regimi. A detta di molti di questi dirigenti, soprattutto quelli ungheresi, è in discussione l’insieme della struttura dell’economia e delle pratiche politiche aberranti che hanno marcato i regimi stalinisti fin dalla loro origine. Un tale riconoscimento del fallimento di questi regimi da parte di chi ne è alla testa chiaramente è pane per i denti della borghesia occidentale.
La seconda ragione per la quale la borghesia riesce ad utilizzare appieno ed efficacemente il crollo dello stalinismo e del blocco che dominava, sta nel fatto che questo crollo non deriva dall’azione della lotta di classe ma da un fallimento completo dell’economia di questi paesi. Negli attuali avvenimenti dei paesi dell’Est, il proletariato, in quanto classe, in quanto portatore di una politica antagonista al capitalismo, è purtroppo assente. In particolare, gli scioperi operai dell’estate scorsa nelle miniere dell’URSS sono piuttosto un’eccezione e denotano, per il peso delle mistificazioni che hanno gravato su di loro, la debolezza politica del proletariato di questi paesi. Questi scioperi erano essenzialmente una conseguenza dello sfacelo dello stalinismo e non un fattore attivo in questo sfacelo. D’altra parte, la maggior parte degli scioperi che si sono avuti in questi ultimi tempi in questo paese, contrariamente a quello dei minatori, non avevano come scopo la difesa degli interessi operai ma si situavano su di un terreno nazionalista (paesi baltici, Armenia, Azerbaijan, ecc.), e dunque completamente borghese. Nelle numerose manifestazioni di massa che scuotono attualmente i paesi dell’Europa dell’est, in particolare la Repubblica Democratica Tedesca, la Cecoslovacchia e la Bulgaria, non si vede neanche l’ombra di una sola rivendicazione operaia. Queste manifestazioni sono completamente dominate da rivendicazioni tipicamente ed esclusivamente democratico-borghesi: “elezioni libere”, “libertà”, “dimissioni dei PC al potere”, ecc. In questo senso, se l’impatto delle campagne democratiche sviluppatesi in seguito agli avvenimenti della Polonia 80-81 erano state limitate dal fatto che scaturivano da una situazione di lotta, l’assenza di una lotta di classe significativa nei paesi dell’est, oggi, non può che rafforzare gli effetti devastanti delle attuali campagne della borghesia.
Ad un livello più generale, il crollo di un intero blocco imperialista, le cui conseguenze saranno enormi, il fatto che questo avvenimento storico sia avvenuto indipendentemente dalla presenza del proletariato, non può che generare in quest’ultimo un sentimento di impotenza, anche se tutto questo è potuto avvenire, come dimostrano le tesi pubblicate in questo numero, solo a causa dell’incapacità della borghesia di imbrigliare a livello mondiale, fino ad oggi, la classe operaia in un terzo olocausto imperialista. E’ stata la lotta di classe, dopo aver rovesciato lo zarismo e poi la borghesia, in Russia, a porre fine alla prima guerra mondiale, provocando il crollo della Germania imperiale. E’ in gran parte per questa ragione che ha potuto svilupparsi a livello mondiale la prima ondata rivoluzionaria. Al contrario, il fatto che la lotta di classe non era stato che un fattore secondario nel crollo dei paesi dell’“Asse” e nella fine della seconda guerra mondiale, ha giocato un ruolo importante nella paralisi ed il disorientamento del proletariato all’indomani di questa. Oggi, non è indifferente che il blocco dell’est sia crollato sotto i colpi della crisi economica piuttosto che sotto i colpi della lotta di classe. Se fosse prevalsa questa seconda alternativa, piuttosto che indebolirsi come sta avvenendo oggi, la fiducia del proletariato nelle proprie capacità si sarebbe potuta rafforzare. Inoltre, nella misura in cui il crollo del blocco dell’est fa seguito ad un periodo di “guerra fredda” con il blocco occidentale, in cui quest’ultimo appare come il “vincitore” senza colpo ferire, si genera nelle popolazioni occidentali, e anche tra i proletari, un sentimento di euforia e di fiducia verso i propri governi, simile (facendo le debite proporzioni) a quello che pesò sui proletari dei paesi “vincitori” nelle due guerre mondiali e che fu una delle cause della sconfitta dell’ondata rivoluzionaria seguita alla prima guerra.
Una tale euforia, catastrofica per la coscienza del proletariato, sarà evidentemente molto più limitata dato che oggi non stiamo uscendo da una carneficina imperialista. Tuttavia quella che oggi si manifesta in alcuni paesi dell’est ha certamente un impatto in occidente e non potrà che accentuare gli effetti nefasti della situazione attuale. Infatti quando è caduto il muro di Berlino, simbolo del terrore imposto dallo stalinismo, la stampa ed alcuni esponenti borghesi hanno paragonato l’atmosfera che regnava in questa città a quella della “Liberazione”. Non è un caso: i sentimenti provati dalla popolazione della Germania dell’est nel momento in cui si abbatteva questo simbolo erano paragonabili a quelli delle popolazioni che avevano subito per anni l’occupazione ed in terrore della Germania nazista. Ma, come ci ha dimostrato la storia, questo tipo di sentimenti sono tra i peggiori ostacoli per la presa di coscienza del proletariato. La soddisfazione provata dagli abitanti dei paesi dell’est davanti al crollo dello stalinismo e soprattutto il rafforzamento delle illusioni democratiche che questo comporta, si ripercuoteranno fortemente, e si ripercuotono già sul proletariato dei paesi occidentali e particolarmente su quello tedesco che riveste una particolare importanza all’interno del proletariato mondiale nella prospettiva della rivoluzione proletaria. Inoltre il proletariato di questo paese dovrà affrontare, nel prossimo periodo, il peso delle mistificazioni nazionaliste che saranno rafforzate dalla prospettiva di una riunificazione della Germania, anche se questa non è ancora all’ordine del giorno.
Queste mistificazioni sono già oggi particolarmente forti tra gli operai della maggior parte dei paesi dell’est. Non solo nelle differenti repubbliche che costituiscono l’URSS, ma anche nelle “democrazie popolari” per il modo particolarmente brutale in cui il “Grande Fratello” ha esercitato la sua dominazione imperialista. Gli interventi sanguinosi dei carri armati russi nella RDT nel 1953, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968, cosi come la costante rapina subita dall’economia dei paesi “satelliti” per dei decenni, hanno potuto solo alimentare tali mistificazioni. A fianco alle illusioni democratiche e sindacali, esse hanno contribuito non poco, nel 1980-81, allo scombussolamento degli operai polacchi che ha poi aperto la porta alla repressione del dicembre 1981. Con lo sfaldamento del blocco dell’est al quale assistiamo oggi queste mistificazioni acquisteranno nuovo vigore rendendo ancora più difficile la presa di coscienza degli operai di questi paesi. Queste mistificazioni nazionaliste peseranno anche sugli operai dell’occidente non necessariamente (tranne il caso della Germania) con un rafforzamento diretto del nazionalismo, ma attraverso il discredito e l’alterazione che subirà nella loro coscienza l’idea stessa di internazionalismo proletario. In effetti, questa idea è stata completamente snaturata dallo stalinismo e, sulle sue orme, dall’insieme delle forze borghesi che l’hanno identificato con la dominazione imperialista dell’URSS sul suo blocco. Per questo l’intervento dei carri armati del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, nel ‘68, è stato fatto in nome dell’“internazionalismo proletario”. La caduta ed il rigetto dell’internazionalismo di stile stalinista da parte delle popolazioni dei paesi dell’est non potrà che pesare negativamente sulla coscienza degli operai d’occidente e ciò tanto più in quanto la borghesia occidentale non perderà occasione per opporre al vero internazionalismo proletario la propria “solidarietà internazionale”, intesa come sostegno alle economie dell’est in rovina (quando non si giungerà a veri appelli alla carità) o alle “rivendicazioni democratiche” delle loro popolazioni quando queste si scontreranno con la repressione statale (ricordiamoci delle campagne a proposito della Polonia nell’81, o recentemente della Cina).
Nei fatti, ed è questo il perno delle campagne scatenate attualmente dalla borghesia, il crollo dello stalinismo investe la prospettiva stessa della rivoluzione comunista mondiale. L’internazionalismo non è che un elemento di questa prospettiva. La tiritera che i mass media ci ripetono fino alla nausea: “il comunismo è morto, è fallito”, riassume molto bene il messaggio fondamentale che le borghesie di tutti i paesi vogliono ficcare nelle teste degli operai che sfruttano. E la menzogna sulla quale si erano unite tutte le forze borghesi in passato, nei momenti più bui della controrivoluzione, cioè l’identificazione tra il comunismo e lo stalinismo, raccoglie oggi la stessa unanimità. Questa identificazione aveva permesso alla borghesia negli anni 30 di imbrigliare la classe operaia dietro di sé al fine di completarne la sconfitta. Oggi, quando lo stalinismo è completamente screditato agli occhi di tutti gli operai, questa menzogna serve a distoglierlo dalla prospettiva del comunismo.
Il proletariato dei paesi dell’est subisce già da parecchio tempo questo disorientamento: quando “dittatura del proletariato” è sinonimo di terrore poliziesco, “potere della classe operaia” significa potere cinico dei burocrati, “socialismo” denota sfruttamento brutale, miseria, penuria e malgoverno, quando a scuola bisogna imparare a memoria delle citazioni di Marx o di Lenin, ci si può solo allontanare da tutto ciò, cioè rigettare ciò che costituisce il fondamento stesso della prospettiva storica del proletariato, rifiutarsi categoricamente di studiare i testi di base del movimento operaio, rigettare gli stessi termini di “movimento operaio” e di “classe operaia” che sono considerati delle oscenità. In un tale contesto, l’idea stessa di una rivoluzione del proletariato è completamente screditata. “A che servirebbe un nuovo Ottobre ‘17 se, alla fin dei conti, il risultato ultimo è la barbarie stalinista?” Questo pensano oggi praticamente tutti gli operai dei paesi dell’est e la borghesia occidentale, aiutata dall’evidente e spettacolare fallimento di questo sistema, cerca oggi di disseminare lo stesso scombussolamento tra gli operai d’occidente.
Pertanto, l’insieme degli avvenimenti che scuotono i paesi dell’est e che si ripercuotono sul mondo intero, peseranno negativamente per tutto un periodo sulla presa di coscienza della classe operaia. In un primo tempo, l’apertura della “cortina di ferro” che separa in due il proletariato mondiale non permetterà agli operai dell’occidente di mettere a disposizione dei loro fratelli di classe dei paesi dell’est l’esperienza acquisita nelle lotte di fronte alle trappole ed alle mistificazioni sviluppate dalla borghesia più forte del mondo. Al contrario, sono le illusioni democratiche particolarmente forti tra gli operai dell’est, la loro convinzione sulla “superiorità del capitalismo sui socialismo”, che si rovesceranno sull’occidente indebolendo nell’immediato le acquisizioni delle esperienze del proletariato di questa parte del mondo. E’ per questo che l’agonia di questo strumento della controrivoluzione, lo stalinismo, viene oggi rivoltata contro la classe operaia.
LE PROSPETTIVE PER LA LOTTA DI CLASSE
Il crollo dei regimi stalinisti, derivante essenzialmente dal fallimento totale dell’economia, non potrà, in un contesto mondiale di approfondimento della crisi capitalista, che aggravare questo fallimento. Per la classe operaia di questi paesi significa attacchi alle sue condizioni di vita, miseria e fame senza precedenti. Una tale situazione provocherà necessariamente delle esplosioni di collera. Ma il contesto politico ed ideologico nei paesi dell’est è tale che la combattività operaia non potrà, per tutto un periodo, sfociare in un reale sviluppo della coscienza (vedi la presentazione delle tesi). Il caos e le convulsioni che si sviluppano sul piano economico e politico, la barbarie e l’imputridimento dell’insieme della società capitalista che essi esprimono in modo concentrato e caricaturale non potranno sfociare nella comprensione della necessità di rovesciare questo sistema finché una tale comprensione non si sarà sviluppata nei battaglioni decisivi del proletariato delle grandi concentrazioni operaie dell’occidente e particolarmente nell’Europa (6).
Attualmente, come abbiamo visto, questi settori subiscono essi stessi lo scatenamento delle campagne borghesi e sono colpiti da un riflusso della loro coscienza. Questo non vuoi dire che non saranno capaci di lottare contro gli attacchi economici del capitalismo la cui crisi è irreversibile. Significa soprattutto che, per un certo tempo, queste lotte saranno, molto più che negli scorsi anni, prigioniere degli organi di inquadramento della classe operaia e in primo luogo dei sindacati, come si può già constatarlo nelle lotte più recenti. In particolare i sindacati beneficeranno del rafforzamento generale delle illusioni democratiche e troveranno un terreno più propizio alle loro manovre con lo sviluppo dell’ideologia riformista che deriva dalle illusioni sulla “superiorità del capitalismo” rispetto ad ogni altra forma di società.
Tuttavia, il proletariato oggi non è quello degli anni ‘30. Non sta uscendo da una sconfitta come quella subita dopo l’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra. La crisi mondiale del capitalismo è insanabile. Essa potrà solo aggravarsi (vedi rapporto sulla situazione internazionale, in questo numero): dopo il crollo del “Terzo mondo” alla fine degli anni 70, dopo l’attuale implosione delle economie dette “socialiste”, il prossimo settore del capitale mondiale della lista è quello dei paesi più sviluppati che avevano potuto, in parte, scamparla fino ad oggi scaricando la maggior parte delle convulsioni del sistema verso la periferia. La messa in evidenza inevitabile del fallimento completo, non di un settore particolare del capitalismo, ma dell’insieme di questo modo di produzione, non potrà che minare le basi stesse delle campagne della borghesia occidentale sulla “superiorità del capitalismo”.
Alla fine, lo sviluppo della sua combattività dovrà sfociare in un nuovo sviluppo della coscienza, sviluppo interrotto ed ostacolato oggi dalla caduta dello stalinismo. Spetta alle organizzazioni rivoluzionarie contribuire in maniera decisa a questo sviluppo, non cercando di consolare oggi gli operai, ma mettendo chiaramente in evidenza che, malgrado la difficoltà del cammino, non esiste altra via per il proletariato se non quella che porta alla rivoluzione comunista.
25/11/89 F. M.
1) E’ significativo che la “rivoluzionaria” e “democratica” borghesia francese non ha esitato a schernire la “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo” che aveva appena adottato (e alla quale si fa molto riferimento oggi) vietando ogni associazione operaia (legge Chapelier del 14 giugno 1791). Questo divieto sarà abrogato solo un secolo più tardi, nel 1884.
2) La degenerazione ed il tradimento di questo ha incontrato una forte resistenza. In particolare, una gran parte dei militanti e la quasi totalità dei dirigenti del partito dell’Ottobre 1917 sono stati sterminati dallo stalinismo. Su questa questione vedi in particolare “La degenerazione della rivoluzione russa” e “La sinistra comunista in Russia” sulla Rivista Internazionale n°2, novembre 1977.
3) Nella seconda metà degli anni 20 e per tutti gli anni 30, la “democratica” borghesia occidentale si è ben guardata dal manifestare, di fronte allo stalinismo “barbaro” e “totalitario”, quella ripugnanza che invece comincia a sbandierare a partire dalla “guerra fredda”, e ripresa oggi nelle varie campagne. Essa ha invece sostenuto pienamente Stalin nella persecuzione da questo scatenata contro l’“Opposizione di sinistra” e il suo principale dirigente, Trotskij. Per quest’ultimo, dopo la sua espulsione dalla Russia nel ‘28, il mondo è diventato un “pianeta senza lasciapassare”. Nei suoi confronti tutti i “democratici” del mondo, e in prima linea i socialdemocratici, che erano al governo in Germania, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Belgio o Francia, hanno nuovamente dato prova della loro ripugnante ipocrisia mandando a quel paese i “virtuosi principi” quali il “diritto d’asilo”. Questo bel mondo non ha trovato niente da ridire quando Stalin, con i processi di Mosca, ha liquidato la vecchia guardia del partito bolscevico accusandola di “hitlero-trotzkismo”. Queste “anime candide” hanno perfino lasciato capire che “non c’è fumo senza fuoco”.
4) Un’ulteriore prova, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, del fatto che i regimi che si formano nell’Europa dell’est dopo la seconda guerra mondiale (oltre chiaramente al regime che già esisteva in Russia) non hanno niente a che vedere col regime instauratosi in Russia nel 1917, sta nel rapporto tra le loro origini e la guerra imperialista. La natura operaia della Rivoluzione d’Ottobre è dimostrata dal fatto che questa sorge CONTRO la guerra imperialista. La natura antioperaia e capitalista delle “democrazie popolari” è contrassegnata dal fatto che esse si sono instaurate GRAZIE alla guerra imperialista.
5) Chiaramente questo non è il solo fattore che permette di spiegare l’usura dell’impatto dello stalinismo - così come dell’insieme delle mistificazioni borghesi - nella classe operaia tra la fine della guerra e la ripresa storica del proletariato alla fine degli anni 60. D’altra parte, in molti paesi (in particolare quelli dell’Europa del nord), lo stalinismo dalla seconda guerra mondiale giocava solo un ruolo molto secondario rispetto a quello della socialdemocrazia nell’inquadramento degli operai. L’indebolimento delle mistificazioni antifasciste, per l’inesistenza nella maggioranza dei paesi di uno spauracchio “fascista”, così come l’usura dell’influenza dei sindacati (siano essi stalinisti o socialdemocratici) già ampiamente utilizzati negli anni 60 per sabotare le lotte, possono anch’essi spiegare l’indebolimento dell’impatto dello stalinismo, come di quello della socialdemocrazia, sul proletariato, ciò che ha permesso a quest’ultimo di ritornare sulla scena storica fin dai primi attacchi della crisi aperta.
6) Vedi la nostra analisi su questa questione nell’articolo “Il proletariato d’Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta di classe” pubblicato nella Rivista Internazionale n.7.
II crollo del blocco imperialista dell’est ci ha fornito la conferma dell’entrata del capitalismo in una nuova fase del suo periodo di decadenza: quello della decomposizione generale della società. Prima ancora che si producessero gli avvenimenti dell’est, la CCI aveva già messo in evidenza questo fenomeno storico (vedi in particolare la Revue Internationale n°57). Questi avvenimenti, l’entrata del mondo in un periodo di instabilità mai visto in passato, obbligano i rivoluzionari ad analizzare con la massima attenzione questo fenomeno, le sue cause e conseguenze, a mettere in evidenza la posta in gioco di questa nuova situazione storica.
1) Tutti i modi di produzione del passato hanno conosciuto un periodo di ascendenza e un periodo di decadenza. Per il marxismo, il primo periodo corrisponde ad un pieno adeguamento dei rapporti di produzione dominanti con il livello di sviluppo delle forze produttive della società, il secondo esprime il fatto che questi rapporti di produzione sono divenuti troppo stretti per contenere questo sviluppo. Contrariamente alle aberrazioni enunciate dai bordighisti, il capitalismo non sfugge a questa legge. Dall’inizio del XX secolo, ed in particolare dopo la prima guerra mondiale, i rivoluzionari hanno messo in evidenza che questo modo di produzione era a sua volta entrato nel suo periodo di decadenza. Tuttavia, sarebbe folle contentarsi di affermare che il capitalismo non fa che seguire le tracce dei modi di produzione che 1’hanno preceduto. E’ importante sottolineare a questo proposito anche le differenze fondamentali tra la decadenza capitalista e quelle delle società del passato. In realtà, la decadenza del capitalismo, così come noi la conosciamo dall’inizio del 20° secolo, si presenta come il periodo di decadenza per eccellenza (se cosi si può dire). Rispetto alla decadenza delle società del passato (le società schiaviste e feudali), quella attuale si situa a tutt’altro livello. E questo perché:
In fin dei conti, la differenza tra l’ampiezza e la profondità della decadenza capitalista e quelle delle decadenze del passato non può essere ridotta ad una semplice questione di quantità. D’altra parte gli stessi aspetti quantitativi rendono conto di una situazione qualitativamente differente e nuova. In effetti la decadenza del capitalismo:
2) Tutte le società in decadenza comportano degli elementi di decomposizione: sfaldamento del corpo sociale, putrefazione delle sue strutture economiche, politiche ed ideologiche, ecc. La stessa cosa è accaduta per il capitalismo dall’inizio della sua fase di decadenza. Tuttavia, come è importante stabilire chiaramente la distinzione tra quest’ultima e le decadenze del passato, è ugualmente indispensabile mettere in evidenza la differenza fondamentale che esiste tra gli elementi di decomposizione che hanno intaccato il capitalismo dall’inizio del secolo e la decomposizione generalizzata nella quale sprofonda attualmente questo sistema e che non potrà che aggravarsi ulteriormente. Anche qui, al di là dell’aspetto strettamente quantitativo, il fenomeno della decomposizione sociale raggiunge oggi una tale profondità e una tale estensione da acquistare una qualità nuova e singolare manifestando l’entrata del capitalismo decadente in una fase specifica, la fase ultima della sua storia, quella in cui la decomposizione diviene un fattore, se non il fattore decisivo dell’evoluzione della società.
In questo senso è sbagliato identificare decadenza e decomposizione. Se é vero che non si può concepire l’esistenza della fase di decomposizione al di fuori del periodo di decadenza, si può perfettamente rendere conto dell’esistenza della decadenza senza che quest’ultima si manifesti attraverso una fase di decomposizione.
3) In effetti, come il capitalismo ha conosciuto diversi periodi nel suo percorso storico, nascita, ascendenza, decadenza, ognuno di questi periodi contiene a sua volta un certo numero di fasi distinte e differenti. Per esempio, il periodo di ascendenza comporta le fasi successive del libero mercato, delle società per azioni, del monopolio, del capitale finanziario, delle conquiste coloniali, della costituzione del mercato mondiale. Allo stesso modo il periodo di decadenza ha anch’esso la sua storia: imperialismo, guerre mondiali, capitalismo di Stato, crisi permanente e, oggi, decomposizione. Si tratta di manifestazioni successive della vita del capitalismo ognuna delle quali permette di caratterizzare una fase particolare di questa, anche se queste manifestazioni potevano esistere già da prima o si sono potute mantenere con l’entrata in una nuova fase. Così, ad un livello più generale, se è vero che il salariato esisteva già durante la società schiavista o feudale (cosi come lo schiavo o il servo si sono potuti mantenere anche all’interno del capitalismo), solo il capitalismo dà a questo rapporto di sfruttamento il posto dominante nella società. Allo stesso modo, se l’imperialismo è potuto esistere come fenomeno già nel periodo ascendente del capitalismo, esso acquista un posto centrale nella società, nella politica degli Stati e nei rapporti internazionali, solo con l’entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza al punto da imprimere il suo carattere alla prima fase di questa, cosa che ha condotto i rivoluzionari di quest’epoca a identificarla con la stessa decadenza.
Così, la fase di decomposizione della società capitalista non si presenta solo come quella che fa seguito cronologicamente alle fasi caratterizzate dal capitalismo di Stato e dalla crisi permanente. Nella misura in cui le contraddizioni e le manifestazioni della decadenza del capitalismo che, una dopo l’altra, marcano i diversi momenti di questa decadenza, non scompaiono col tempo ma si mantengono e si vanno pure ad approfondire, la fase di decomposizione appare come quella risultante dall’accumulazione di tutte queste caratteristiche di un sistema moribondo, quella che chiude degnamente tre quarti di secolo di agonia di un modo di produzione condannato dalla storia. Concretamente, non solo nella fase di decomposizione restano la natura imperialista di tutti gli Stati, la minaccia di guerra mondiale, l’assorbimento della società civile da parte del Moloch statale, la crisi permanente dell’economia capitalista, ma addirittura questa fase rappresenta la conseguenza ultima, la sintesi completa di tutti questi elementi. Essa risulta dunque:
Essa costituisce l’ultima tappa di quel ciclo infernale di crisi-guerra-ricostruzione-nuova crisi che, con convulsioni enormi, ha scosso dall’inizio del secolo la società e le sue differenti classi:
4) Questo ultimo punto costituisce l’elemento nuovo, specifico, inedito, che in ultima istanza ha determinato l’entrata del capitalismo decadente in una nuova fase della sua storia, quella della decomposizione. La crisi aperta che si sviluppa alla fine degli anni ‘60, come conseguenza dell’esaurimento degli effetti del secondo dopoguerra, apre di nuovo il cammino all’alternativa storica guerra mondiale o scontri di classe generalizzati verso la rivoluzione proletaria. Ma, contrariamente alla crisi aperta degli anni ‘30, la crisi attuale si è sviluppata in un momento in cui la classe operaia non subiva più la cappa di piombo della controrivoluzione. Per questo fatto, attraverso la sua ricomparsa storica a partire dal 1968, essa ha mostrato che la borghesia non aveva più le mani libere per scatenare una terza guerra mondiale. Allo stesso tempo, se il proletariato ha già la forza di impedire una tale conclusione, esso non ha ancora trovato quella di rovesciare il capitalismo, e questo a causa:
In una tale situazione in cui le due classi fondamentali e antagoniste della società si confrontano senza riuscire ad imporre la loro propria risposta decisiva, la storia non può attendere fermandosi. Ancor meno che per gli altri modi di produzione che lo hanno preceduto, non è possibile per il capitalismo congelare la situazione, la vita sociale. Mentre le contraddizioni del capitalismo in crisi non fanno che aggravarsi, l’incapacità della borghesia di offrire la minima prospettiva per l’insieme della società così come l’incapacità del proletariato di affermare apertamente la propria prospettiva nell’immediato non possono che sfociare in un fenomeno di decomposizione generalizzata, di incancrenimento generale della società.
5) In effetti nessun modo di produzione è capace di vivere e svilupparsi, assicurare la coesione sociale, se non è capace di presentare una prospettiva all’insieme della società da esso dominata. E ciò è particolarmente valido per il capitalismo in quanto rappresenta il modo di produzione più dinamico della storia. Quando i rapporti di produzione capitalisti costituivano il quadro appropriato allo sviluppo delle forze produttive, questa prospettiva si confondeva con il progresso storico, non soltanto della società capitalista, ma dell’intera umanità. In tali circostanze, nonostante gli antagonismi di classe o le rivalità tra settori (in particolare nazionali) della classe dominante, l’insieme della vita sociale poteva svilupparsi senza la minaccia di convulsioni particolarmente drammatiche. Quando questi rapporti di produzione, divenendo un impedimento alla crescita delle forze produttive, si sono convertiti in un ostacolo per lo sviluppo sociale, determinando l’entrata in un periodo di decadenza, allora si sono sviluppate le tremende convulsioni di questa fase che ormai angosciano l’umanità da tre quarti di secolo. In un tale quadro, il tipo di prospettiva che il capitalismo poteva offrire alla società era evidentemente inscritto nei limiti specifici permessi dalla sua decadenza:
Nessuna di queste prospettive rappresenta, evidentemente, una “soluzione” alle contraddizioni del capitalismo. Tuttavia ognuna di esse comportava un vantaggio per la borghesia, ovvero di contenere un obbiettivo “realista”: o di preservare la sopravvivenza del suo sistema contro la minaccia proveniente dal nemico di classe, il proletariato, o di organizzare la preparazione diretta e lo scatenamento della guerra mondiale, o ancora di portare avanti un rilancio dell’economia all’indomani di quest’ultima. Al contrario, in una situazione storica in cui la classe operaia non è ancora capace di ingaggiare immediatamente la lotta per la propria prospettiva, la sola che sia veramente realista, la rivoluzione comunista, e mentre la borghesia a sua volta risulta incapace di proporre una qualsivoglia prospettiva, anche a breve termine, la capacità che quest’ultima ha testimoniato in passato, nel corso stesso del periodo di decadenza, di limitare e controllare il fenomeno della decomposizione, non può che ridursi drasticamente con l’avanzare della crisi. E’ per questo che la situazione attuale di crisi aperta si presenta in termini radicalmente diversi da quelli della precedente crisi dello stesso tipo, quella degli anni ‘30. Il fatto che quest’ultima non abbia determinato un fenomeno di decomposizione non deriva solo dal fatto che è durata solo 10 anni, mentre quella attuale dura ormai da vent'anni. Che non sia comparso un fenomeno di decomposizione nel corso degli anni ‘30 risulta anzitutto dal fatto che, di fronte alla crisi, la borghesia aveva le mani libere per proporre una risposta. Certo, una risposta di una crudeltà inaudita e di natura suicida, capace di trascinare l’umanità nella più grande catastrofe della propria storia, una risposta che non era stata scelta deliberatamente poiché era stata imposta dall’aggravarsi della crisi, ma una risposta intorno alla quale, prima, durante e dopo, la borghesia ha potuto, in mancanza di una resistenza significativa del proletariato, organizzare l’apparato produttivo, politico e ideologico della società. Oggi, al contrario, il fatto che per due decenni il proletariato sia stato capace di impedire la messa in atto di una tale soluzione ha fatto sì che la borghesia non sia stata capace di organizzare alcunché per mobilitare le diverse componenti della società - ivi compresa la classe dominante - intorno ad un obiettivo comune che non sia quello di resistere, alla “giornata” e senza alcuna speranza di vie d’uscita, all’avanzata della crisi.
6) Così, anche se la fase di decomposizione si presenta come il completamento, la sintesi di tutte le contraddizioni e manifestazioni successive della decadenza del capitalismo:
Questa fase di decomposizione è determinata fondamentalmente da condizioni storiche nuove, inedite ed inattese: la situazione di “impasse” momentanea della società, di “blocco”, la reciproca “neutralizzazione” delle sue due classi fondamentali che impedisce ad ognuna di esse di apportare la sua risposta decisiva alla crisi aperta dell’economia capitalista. Le manifestazioni di questa decomposizione, le sue condizioni di evoluzione e le sue conseguenze, non possono essere esaminate che mettendo in primo piano questo fattore.
7) Se si passano in rassegna le caratteristiche essenziali della decomposizione cosi come si manifestano oggi, si può effettivamente constatare che esse hanno come denominatore comune questa assenza di prospettiva. Così:
Tutte queste calamità economiche e sociali, se sono in generale un’espressione della decadenza del capitalismo, per il grado di accumulazione e l’ampiezza raggiunti costituiscono la manifestazione dello sprofondamento in uno stallo completo di un sistema che non ha alcun avvenire da proporre alla maggior parte della popolazione mondiale se non una barbarie al di là di ogni immaginazione. Un sistema in cui le politiche economiche, le ricerche, gli investimenti, tutto è realizzato sistematicamente a discapito del futuro dell’umanità e, pertanto, a discapito del futuro del sistema stesso.
8) Ma le manifestazioni dell’assenza totale di prospettive della società attuale sono ancora più evidenti sul piano politico ed ideologico:
Tutte queste manifestazioni della putrefazione sociale che oggi, ad un livello mai visto nella storia, permea tutti i pori della società umana, esprimono una sola cosa: non solo lo sfascio della società borghese, ma soprattutto 1’annientamento di ogni principio di vita collettiva nel seno di una società ormai priva del minimo progetto, della minima prospettiva, anche se a corto termine, anche se illusoria.
9) Tra le caratteristiche principali della decomposizione della sociétà capitalista bisogna sottolineare la difficoltà crescente della borghesia a controllare l’evoluzione della situazione sul piano politico. Alla base di questo fenomeno c'è evidentemente la crescente perdita di controllo della classe dominante sul suo apparato economico, che costituisce 1’infrastruttura della società. L’“impasse” storica in cui si trova imprigionato il modo di produzione capitalista, i fallimenti successivi delle diverse politiche condotte dalla borghesia, la permanente fuga in avanti nell’indebitamento generalizzato per mezzo del quale sopravvive l’economia mondiale, tutti questi elementi non possono che ripercuotersi su un apparato politico incapace, da parte sua, di imporre alla società, ed in particolare alla classe operaia, la “disciplina” e l’adesione richieste per mobilitare tutte le forze e le energie verso la guerra mondiale, sola “risposta” storica che la borghesia possa offrire. L’assenza di una prospettiva (che non sia quella di “salvare il salvabile” procedendo alla giornata) verso la quale essa possa mobilitarsi come classe - e nella misura in cui il proletariato non costituisce ancora una minaccia per la sua sopravvivenza - determina all'interno della classe dominante, ed in particolare del suo apparato politico, una tendenza crescente all’indisciplina e al “si salvi chi può”. E’ proprio questo fenomeno che permette in particolare di spiegare il crollo dello stalinismo e dell’insieme del blocco imperialista dell’Est. Questo crollo, in effetti, è nel suo complesso una delle conseguenze della crisi mondiale del capitalismo; d’altra parte esso non può essere analizzato senza prendere in considerazione le specificità che le circostanze storiche della loro apparizione hanno conferito ai regimi stalinisti (vedi le “Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est”, Rivista Internazionale n°13). Tuttavia non si può comprendere pienamente questo fatto storico tanto considerevole ed inedito, il crollo dall’interno di tutto un blocco imperialista in assenza di una rivoluzione o di una guerra mondiale, che inserendo nel quadro d’analisi questo altro elemento inedito che costituisce l’entrata della società in una fase di decomposizione. La forte centralizzazione e statalizzazione completa dell’economia, la confusione tra l’apparato economico e quello politico, la forzatura permanente e di grande entità contro la legge del valore, la mobilitazione di tutte le risorse economiche verso la sfera militare, tutte queste caratteristiche proprie dei regimi stalinisti, se erano adatti ad un contesto di guerra imperialista (questo tipo di regime ha attraversato vittoriosamente la seconda guerra mondiale e si è anche rafforzato), hanno incontrato in maniera brutale e radicale i loro limiti dal momento in cui la borghesia ha dovuto affrontare per anni l’aggravarsi della crisi economica senza poter trovare uno sfogo in questa stessa guerra imperialista. In particolare, il menefreghismo generalizzato che si è sviluppato in assenza delle sanzioni del mercato (e che giustamente il ristabilimento ufficiale del mercato si propone di eliminare) non poteva concepirsi nelle circostanze della guerra, quando la prima “motivazione” degli operai, così come dei responsabili economici, era il fucile che essi tenevano puntato alle spalle. La sbandata generale all’interno stesso dell’apparato statale, la perdita di controllo sulla sua propria strategia politica, che ci viene oggi mostrata dall’URSS e dai suoi satelliti, costituiscono in realtà la caricatura (per le specificità dei regimi stalinisti) di un fenomeno molto più generale che tocca l’insieme della borghesia mondiale, un fenomeno proprio della fase di decomposizione.
10) Questa tendenza generale della borghesia alla perdita di controllo della gestione della sua politica, se costituisce uno dei fattori di primo piano del crollo del blocco dell’est, non potrà che ritrovarsi ulteriormente accentuato da questo crollo per:
Una tale destabilizzazione politica della classe borghese, illustrata per esempio dall’inquietudine che i suoi settori più solidi nutrono a riguardo di una possibile contaminazione del caos che si sviluppa nei paesi del vecchio blocco dell’est, potrebbe anche rendere la borghesia incapace di ricostituire una nuova organizzazione del mondo in due blocchi imperialisti. L’aggravarsi della crisi economica conduce necessariamente all’acuirsi delle rivalità imperialiste tra Stati. In questo senso lo sviluppo e l’esacerbazione degli scontri militari tra questi ultimi si inscrivono nella situazione attuale. Per contro, la ricostituzione di una struttura economica, politica e militare che raggruppi questi diversi Stati suppone l’esistenza da parte loro e al loro interno di una disciplina che il fenomeno della decomposizione renderà sempre più problematica. E’ perciò che questo fenomeno, già in parte responsabile della scomparsa del sistema di blocchi ereditato dalla seconda guerra mondiale, può perfettamente, impedendo la ricostituzione di un nuovo sistema di blocchi, condurre non solo all’allontanamento (come avviene già adesso) ma anche alla scomparsa definitiva di ogni prospettiva di guerra mondiale.
11) La possibilità che la prospettiva generale del capitalismo possa cambiare in seguito ai mutamenti di estrema importanza che la decomposizione ha introdotto nella vita della società non ci deve però indurre a rimettere in discussione la conclusione ultima che questo sistema riserva all’umanità nel caso in cui il proletariato si dimostrasse incapace di rovesciarlo. In effetti, se la prospettiva storica della società è stata posta nei termini generali da Marx ed Engels sottoforma di “socialismo o barbarie”, lo sviluppo stesso della vita del capitalismo (ed in particolare della sua decadenza) ha permesso di precisare, e finanche di appesantire, questo giudizio sottoforma di:
Oggi, dopo la scomparsa del blocco dell’Est, questa prospettiva terrificante resta interamente possibile. Ma occorre precisare che una tale distruzione dell’umanità può provenire dalla guerra imperialista generalizzata così come dalla decomposizione della società.
Bisogna guardarsi da una interpretazione secondo cui la decomposizione consisterebbe in una regressione della società. Anche se la decomposizione fa risorgere alcune caratteristiche proprie del passato del capitalismo, ed in particolare del periodo ascendente di questo modo di produzione, come per esempio:
Questa decomposizione non ci riporta ad alcuna società anteriore, a nessuna fase precedente della vita del capitalismo. Si potrebbe paragonare la società capitalista ad un vecchio che, come si suol dire, “ritorna ad essere bambino”. Questo può perdere delle facoltà e delle caratteristiche acquisite con la maturità e può ritrovare dei tratti tipici dell’infanzia (fragilità, dipendenza, debolezza nel ragionamento), ma non potrà comunque ritrovare la vitalità propria di questa età. Oggi la civiltà umana sta perdendo un certo numero delle proprie acquisizioni (come per esempio il controllo della natura) ed al contempo non riesce ad avere la capacità di progredire o lo spirito di conquista che ha caratterizzato in particolar modo il capitalismo ascendente. Il corso della storia è irreversibile: la decomposizione porta, come indica il nome stesso, alla dislocazione ed alla putrefazione della società, al niente. Lasciata alla sua propria logica, alle sue ultime conseguenze, essa conduce l’umanità allo stesso risultato di una guerra mondiale. Essere annientati brutalmente da una pioggia di bombe termonucleari in una guerra generalizzata o dall’inquinamento, la radioattività delle centrali nucleari, la fame, le epidemie ed i massacri delle differenti guerre locali (dove potrebbe anche essere usata l’arma atomica), il risultato è lo stesso. La sola differenza tra queste due forme di annientamento è che la prima è più rapida mentre la seconda è più lenta e quindi molto più sofferta.
12) E’ della massima importanza che il proletariato, ed i rivoluzionari al suo interno, prendano pienamente coscienza della minaccia mortale che la decomposizione rappresenta per l’insieme della società. Nel momento in cui le illusioni pacifiste rischiano di svilupparsi dato che si è allontanata la possibilità di una guerra generalizzata, bisogna combattere con forza ogni tendenza nella classe operaia a cercare delle consolazioni, a nascondere a se stessi 1’estrema gravità della situazione mondiale. In particolare, sarebbe tanto falso quanto pericoloso considerare che essendo la decomposizione una realtà, essa sia anche una necessità, cioè un passo necessario verso la rivoluzione.
Bisogna stare attenti a non confondere necessità con realtà. Engels ha criticato severamente la formula di Hegel “tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale”, rigettando la seconda parte di questa formulazione e prendendo ad esempio la persistenza della monarchia in Germania che era certo reale ma niente affatto razionale (si potrebbe applicare il ragionamento di Engels alle attuali monarchie del Regno Unito, dei Paesi Bassi, del Belgio, ecc.). Il fatto che la decomposizione sia oggi una realtà non significa affatto che sia una necessità per la rivoluzione proletaria. Con un simile approccio si potrebbe rimettere in discussione la rivoluzione d’Ottobre 1917 e tutta l’ondata rivoluzionaria del primo dopo-guerra che si sono avuti senza la fase di decomposizione del capitalismo. Nei fatti, la necessità di fare una netta distinzione tra la decadenza del capitalismo e questa fase specifica, l’ultima della decadenza che è la decomposizione, trova una sua applicazione in questa questione della realtà e della necessità: la decadenza del capitalismo era necessaria perché il proletariato fosse in grado di rovesciare questo sistema; al contrario, l’apparizione del fenomeno storico della decomposizione, risultato del perpetuarsi della decadenza in assenza della rivoluzione proletaria, non costituisce affatto una tappa necessaria per il proletariato sul cammino della sua emancipazione.
Questa fase di decomposizione è paragonabile a quella della guerra imperialista. La guerra del 1914 era un fatto fondamentale di cui la classe operaia ed i rivoluzionari dovevano evidentemente (e come!) tener conto, ma ciò non implicava affatto che questa dovesse essere una condizione particolarmente favorevole al trionfo della rivoluzione internazionale, come invece affermano i bordighisti.
13) E’ particolarmente importante essere lucidi sul pericolo che rappresenta la decomposizione per la capacità del proletariato di essere all’altezza del suo compito storico. Come lo scoppio della guerra imperialista nel cuore del mondo “civilizzato” costituiva “un salasso che (rischiava) di esaurire mortalmente il movimento operaio europeo”, che “minacciava di schiacciare le prospettive del socialismo sotto le rovine ammucchiate dalla barbarie imperialista” “falciando sui campi di battaglia (...) le migliori forze (...) del socialismo internazionale, le truppe d’avanguardia dell’insieme del proletariato mondiale” (R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia), così la decomposizione della società, che potrà solo aggravarsi, potrà anch'essa falciare le migliori forze del proletariato e compromettere definitivamente la prospettiva del comunismo. Tanto più che l’avvelenamento della società dovuto alla putrefazione del capitalismo non risparmia nessuna delle sue componenti, nessuna delle sue classi, neanche il proletariato. In particolare, se l’indebolimento della presa dell’ideologia borghese derivante dall’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza era una delle condizioni della rivoluzione, il fenomeno di decomposizione di questa stessa ideologia, così come si sviluppa oggi, si presenta essenzialmente come un ostacolo alla presa di coscienza del proletariato.
All’inizio, la decomposizione ideologica colpisce evidentemente in primo luogo la classe capitalista stessa e, per contraccolpo, gli strati piccolo-borghesi che non hanno alcuna autonomia. Si potrebbe dire che questi ultimi si identificano particolarmente bene con questa decomposizione nella misura in cui la loro situazione specifica, 1’assenza di ogni avvenire, ricalca la principale causa della decomposizione ideologica: 1’assenza di ogni prospettiva immediata per l’insieme della società. Solo il proletariato porta in sé una prospettiva per l’umanità e, in questo senso, è al suo interne che esiste la maggiore capacità a resistere a questa decomposizione. Tuttavia neanche lui viene risparmiato, in particolare perché la piccola borghesia a contatto della quale esso vive ne è il principale veicolo. I diversi elementi che costituiscono la forza del proletariato si scontrano direttamente con i diversi aspetti di questa decomposizione ideologica:
14) Uno dei fattori che aggravano questa situazione è evidentemente il fatto che una proporzione importante delle giovani generazioni operaie subisce in pieno la calamità della disoccupazione prima ancora che abbia avuto l’occasione di fare l’esperienza di una vita collettiva di classe sui luoghi di lavoro, in compagnia dei compagni di lavoro e di lotta. Di fatto la disoccupazione, che risulta direttamente dalla crisi economica, se non è in sé una manifestazione della decomposizione, finisce per comportare, in questa fase particolare della decadenza, delle conseguenze che fanno di essa un elemento singolare di questa decomposizione. Se infatti essa può contribuire in generale a smascherare l’incapacità del capitalismo ad assicurare un futuro ai proletari, essa costituisce ugualmente, oggi, un potente fattore di “lumpenizzazione” di certi settori della classe, in particolare tra i giovani operai, cosa che tende ad indebolire le capacità politiche attuali e future di questa. Questa situazione ha fatto sì che, nonostante ci sia stato un incremento considerevole della disoccupazione negli anni ‘80, siano mancati movimenti significativi o dei tentativi reali di organizzazione da parte dei proletari disoccupati. Il fatto che, in pieno periodo di controrivoluzione, durante la crisi degli anni '30, il proletariato, particolarmente negli USA, sia stato capace di dar luogo a queste forme di lotta, illustra bene, per contrasto, il peso delle difficoltà che rappresenta attualmente - in un periodo di decomposizione - la disoccupazione nella presa di coscienza del proletariato.
15) Di fatto, non è soltanto attraverso la questione della disoccupazione che si è manifestato in questi ultimi anni il peso della decomposizione come fattore delle difficoltà per la presa di coscienza del proletariato. Anche mettendo da parte il crollo del blocco dell'Est e l’agonia dello stalinismo (che sono una manifestazione della fase di decomposizione e che hanno provocato un rinculo molto marcato della coscienza nella classe -vedi gli articoli nella Rivista Internazionale n°13), bisogna ancora considerare che le difficoltà provate dalla classe operaia per porre avanti la prospettiva dell’unificazione delle proprie lotte derivano in buona parte dalla pressione esercitata dalla decomposizione. In particolare le esitazioni mostrate dal proletariato di fronte alla necessità di passare ad un livello superiore della propria lotta, se costituiscono una caratteristica generale del movimento di questa classe già analizzata da Marx ne “II 18 Brumaio”, sono state ulteriormente accentuate dalla mancanza di fiducia in sé e nell’avvenire che la decomposizione instilla all’interno della classe. Allo stesso modo, l’ideologia del “ciascuno per sé”, particolarmente marcata nel periodo attuale, non ha potuto che favorire l’azione delle trappole del corporativismo tese con successo dalla borghesia in questi ultimi anni contro le lotte operaie.
Così, lungo tutti gli anni ‘80, la decomposizione della società capitalista ha giocato un ruolo di freno nel processo di presa di coscienza della classe operaia, andandosi a sommare agli altri elementi già identificati in passato quali:
Tuttavia questi vari elementi non agiscono tutti allo stesso modo. Mentre il tempo è un fattore che contribuisce a ridurre il peso degli ultimi due, al tempo stesso non fa che accrescere quello del primo. E’ dunque fondamentale comprendere che quanto più il proletariato tarderà a rovesciare il capitalismo, tanto più importanti saranno i pericoli e gli effetti nocivi della decomposizione.
16) Contrariamente alla situazione esistente negli anni ‘70, occorre mettere in evidenza che oggi il tempo non gioca più a favore della classe operaia. Finché la minaccia di distruzione della società era rappresentata unicamente dalla guerra imperialista, il semplice fatto che le lotte del proletariato fossero capaci di mantenersi come ostacolo decisivo di un tale evento era sufficiente a sbarrare la strada a questa distruzione. Invece, contrariamente alla guerra imperialista che per potersi realizzare richiede l’adesione del proletariato alle idee della borghesia, la decomposizione non ha nessun bisogno di imbrigliare la classe operaia per distruggere l’umanità. In effetti, le lotte operaie sono incapaci di costituire un freno alla decomposizione così come non riescono in nessun modo ad opporsi al crollo dell’economia borghese. In queste condizioni, anche se la decomposizione sembra essere per la vita della società un pericolo più lontano rispetto a quello di una guerra mondiale, essa è tuttavia ben più insidiosa. Per mettere fine alla minaccia costituita dalla decomposizione, le lotte operaie di resistenza agli effetti della crisi non sono più sufficienti: solo la rivoluzione comunista può bloccare una tale minaccia. Allo stesso modo, in tutto il periodo futuro, il proletariato non può sperare di utilizzare a proprio beneficio l’indebolimento che la decomposizione provoca all’interno della borghesia. In questo periodo il suo obbiettivo sarà quello di resistere agli effetti nocivi della decomposizione al suo interno contando solo sulle proprie forze, sulla propria capacità di battersi in maniera collettiva e solidale in difesa dei propri interessi in quanto classe sfruttata (anche se la propaganda dei rivoluzionari deve sottolineare in permanenza i pericoli della decomposizione). Solo nel periodo prerivoluzionario, quando il proletariato sarà all’offensiva, quando ingaggerà direttamente e apertamente la lotta per la sua prospettiva storica, esso potrà utilizzare alcuni effetti della decomposizione, in particolare la decomposizione dell’ideologia borghese e quella delle forze del potere capitalista, come punti su cui far leva e da ritorcere contro lo stesso capitale.
17) La messa in evidenza dei pericoli considerevoli che il fenomeno storico della decomposizione fa correre alla classe operaia e all’insieme dell’umanità non deve indurre il proletariato, ed in particolare le sue minoranze rivoluzionarie, ad adottare nei suoi confronti un atteggiamento fatalista. Oggi, la prospettiva storica resta completamente aperta. Nonostante il colpo che il crollo del blocco dell’est ha inferto alla presa di coscienza del proletariato, questo non ha subito nessuna sconfitta importante sul terreno della sua lotta. In questo senso, la sua combattività resta praticamente intatta. Ma in più, ed é questo l’elemento che determina in ultima istanza l’evoluzione della situazione mondiale, lo stesso fattore che si trova all’origine dello sviluppo della decomposizione, cioè l’aggravarsi inesorabile della crisi del capitalismo, costituisce lo stimolo essenziale della lotta e della maturazione della coscienza di classe, la condizione stessa della sua capacità di resistere al veleno ideologico dell’imputridimento della società. In effetti, mentre il proletariato non può trovare un terreno unificante di classe nelle lotte parziali contro gli effetti della decomposizione, la sua lotta contro gli effetti diretti della crisi costituisce la base dello sviluppo della sua forza e della sua unità. E ciò in particolare perché:
Tuttavia la crisi economica, da sola, non può risolvere i problemi e le difficoltà che affronta e dovrà affrontare il proletariato. Solo:
permetteranno alla classe operaia di rispondere colpo su colpo a tutti gli attacchi sferrati dal capitalismo, per passare finalmente all’offensiva ed abbattere questo barbare sistema.
La responsabilità dei rivoluzionari è partecipare attivamente allo sviluppo di questa lotta del proletariato.
maggio 1990
Da lungo tempo, e contro ogni visione propria all'individualismo borghese, il marxismo ha mostrato che non sono gli individui che fanno la storia ma che, a partire dall'apparizione delle classi sociali: “La storia di tutte le società, fino ad oggi, è storia di lotta tra le classi”. Ciò vale, ed in modo particolare, anche per la storia del movimento operaio il cui principale protagonista è giustamente la classe che, più di tutte le altre, lavora in modo associato e lotta in modo collettivo. All'interno del proletariato, le minoranze comuniste da questo prodotte come manifestazione del suo divenire rivoluzionario lavorano anch'esse, conseguentemente, in maniera collettiva. In questo senso l’azione delle sue minoranze riveste un carattere soprattutto anonimo e non ha niente da sacrificare al culto delle personalità. I loro membri, in tanto che militanti rivoluzionari, non hanno ragione di esistere che come parte di un tutto, l’organizzazione comunista. Tuttavia, se l’organizzazione deve poter contare su tutti i suoi militanti, è chiaro che non tutti vi apportano lo stesso contributo. La storia individuale, l’esperienza, la personalità di certi militanti nonché le circostanze storiche li conducono a giocare nelle organizzazioni in cui militano un ruolo particolare, divenendo elemento di stimolo delle attività di queste organizzazioni ed in particolare dell’attività che si trova alla base del loro stesso motivo di esistenza: l’elaborazione e l’approfondimento delle posizioni politiche rivoluzionarie.
Marc era appunto uno di questi. Apparteneva a quella piccola minoranza di militanti comunisti, tra cui Anton Pannekoek, Henk Canne-Meijer, Amadeo Bordiga, Onorato Damen, Paul Mattick, Jan Appel o Munis, per citarne solo alcuni tra i più noti[1], che è sopravvissuta alla terribile controrivoluzione che si è abbattuta sulla classe operaia tra gli anni ‘20 e gli anni ‘60. In più, oltre alla sua fedeltà assoluta alla causa del comunismo, egli ha saputo conservare la sua piena fiducia nelle capacità rivoluzionarie del proletariato, trasmettendo alle nuove generazioni di militanti tutta la sua esperienza passata, senza per questo restare fermo ad analisi e posizioni di cui il corso della storia esigevano il superamento. In questo senso tutta la sua attività di militante costituisce un esempio concreto di ciò che vuol dire il marxismo: il pensiero vivente ed in continua elaborazione della classe rivoluzionaria, portatrice dell’avvenire dell'umanità.
Naturalmente questo ruolo d’impulso del pensiero e dell’azione dell’organizzazione politica Marc l’ha giocato in maniera particolare nella CCI. E questo fino alle ultime ore della sua vita. Tutta la sua vita militante è animata dallo stesso spirito, dalla stessa volontà di difendere con le unghie e con i denti i principi comunisti, pur conservando in permanenza uno spirito critico ben desto per essere capace, ogni qual volta fosse necessario, di rimettere in discussione ciò che a molti sembravano dei dogmi intoccabili ed “invarianti”. Una vita militante di più di settant’anni che ha trovato la sua fonte di energia nel calore della rivoluzione.
L’impegno nella lotta rivoluzionaria
Marc è nato il 13 maggio 1907 a Kichinev, capitale della Bessarabia (Moldavia), in un’epoca in cui questa regione faceva parte dell’antico regno zarista. Quando scoppia la rivoluzione del 1917 egli non ha ancora dieci anni. Ecco come lui stesso, in occasione del suo ottantesimo compleanno, descrive questa formidabile esperienza che ha marcato tutta la sua vita:
“Ho avuto la fortuna di vivere e di conoscere, anche se da ragazzo, la rivoluzione russa del 1917, sia del febbraio che di ottobre. L’ho vissuta intensamente. Bisogna sapere e capire cosa è un Gavroche, cosa è un bambino in un periodo rivoluzionario, quando si passano le giornate nelle manifestazioni, dall’una all’altra, da una riunione all’altra; quando si passano le nottate nei circoli dove stanno i soldati, gli operai, dove qua si parla, là si discute e là ancora ci si scontra; quando in ogni angolo della strada, improvvisamente, bruscamente, un uomo si mette sul davanzale di una finestra e incomincia a parlare: immediatamente si avvicinano 1000 persone e si incomincia a discutere. È qualche cosa di indimenticabile, un ricordo che ha marcato tutta la mia vita, evidentemente. Ho avuto la fortuna di avere il fratello maggiore che faceva il soldato e che era bolscevico, segretario del partito nella città, e con il quale io potevo correre, mano nella mano, da una riunione all'altra dove lui difendeva le posizioni dei bolscevichi.
Ho avuto la fortuna di essere l'ultimo figlio -il quinto- di una famiglia dove tutti furono, uno dopo l’altro, militanti del Partito, fino ad essere uccisi o espulsi. Tutto questo mi ha permesso di vivere in una casa che era sempre piena di gente, di giovani, dove c’erano sempre delle discussioni dato che, all’inizio, uno solo dei fratelli era bolscevico mentre gli altri erano più o meno socialisti. Era un dibattito continuo con tutti i loro compagni, con tutti i loro colleghi. Ed era una fortuna enorme per la formazione di un bambino.”
Nel 1919, durante la guerra civile, quando la Moldavia viene occupata dalle truppe bianche rumene, tutta la famiglia di Marc, minacciata dai pogrom (il padre era rabbino), emigra in Palestina. Sono i fratelli e le sorelle maggiori di Marc all’origine della fondazione del partito comunista di questo paese. Ed è allora, all’inizio del 1921, che Marc (che non aveva ancora 13 anni) diventa militante entrando nella gioventù comunista (nei fatti ne è uno dei fondatori) e nel partito. Molto presto si scontra con la posizione dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale che, usando le sue parole, “era difficile da inghiottire”. Questo disaccordo gli vale la prima espulsione dal partito comunista nel 1923. Da questo momento, anche se ancora adolescente, Marc esprime già quella che sarà una delle sue maggiori qualità per tutta la sua lunga vita di militante: una intransigenza indefettibile nella difesa dei principi rivoluzionari, anche se questa difesa doveva portarlo ad opporsi alle “autorità” più prestigiose del movimento operaio, come lo erano a quell’epoca i dirigenti dell’Internazionale Comunista, in particolare Lenin e Trotsky[2]. La sua adesione totale alla causa del proletariato, la sua implicazione militante nell'organizzazione comunista e la stima profonda che aveva per i grandi nomi del movimento operaio non gli hanno mai fatto rinunciare alla lotta per le proprie posizioni quando pensava che quelle dell’organizzazione si scostavano dai principi del marxismo o erano superate dalle nuove circostanze storiche. Per lui, come per tutti i grandi rivoluzionari come Lenin o Rosa Luxemburg, l’adesione al marxismo, teoria rivoluzionaria del proletariato, non era un’adesione alla lettera di questa teoria ma al suo spirito ed al suo metodo. Nei fatti, l’audacia di cui ha sempre dato prova il nostro militante, all’immagine degli altri grandi rivoluzionari, era il rovescio, l’altra faccia della sua adesione totale e tenace alla causa ed al programma del proletariato. Proprio perché era profondamente attaccato al marxismo non ha mai avuto paura di allontanarsene quando criticava, sulla base dello stesso marxismo, ciò che era diventato caduco nelle posizioni delle organizzazioni operaie. La questione del sostegno delle lotte di liberazione nazionale, che nella seconda e nella terza internazionale era diventata una specie di dogma, fu dunque il primo terreno sul quale ebbe modo di sperimentare questo modo di procedere[3].
La lotta contro la degenerazione dell’Internazionale
Nel 1924 Marc, insieme ad uno dei suoi fratelli, si trasferisce in Francia. Entra a far parte della sezione ebrea del Partito Comunista, ritornando così ad essere membro di quella stessa Internazionale dalla quale era stato espulso poco prima. Immediatamente fa parte dell’opposizione che combatte il processo di degenerazione dell’IC e dei partiti comunisti. È così che, insieme ad Albert Treint (segretario generale del PCF dal 1923 al 1926) e Suzanne Girault (anziana tesoriera del Partito), partecipa alla fondazione dell’Unità leninista nel 1927. Quando arriva in Francia la piattaforma dell’Opposizione russa redatta da Trotsky, egli si dichiara in accordo con questa. Al tempo stesso, e contrariamente a Treint, rigetta la dichiarazione di Trotsky secondo cui, su tutte le questioni su cui c’erano stati dei disaccordi tra lui e Lenin prima del 1917, avrebbe avuto ragione Lenin. Marc pensava che un tale atteggiamento non era affatto corretto, innanzitutto perché Trotsky non era veramente convinto di quello che diceva, e poi perché una tale dichiarazione non poteva che bloccare Trotsky in alcune delle posizioni sbagliate difese da Lenin in passato (in particolare al momento della rivoluzione del 1905 sulla questione della “dittatura democratica del proletariato e dei contadini”). Di nuovo si manifesta questa capacità del nostro compagno di conservare un atteggiamento critico e lucido di fronte alle grandi “autorità” del movimento operaio. L’appartenenza all’Opposizione di sinistra internazionale, dopo la sua esclusione dal PCF nel febbraio 1928, non significava un’adesione a tutte le posizioni del suo principale dirigente, nonostante tutta l’ammirazione che comunque aveva per lui. È in particolare grazie a questo spirito che riesce in seguito a non lasciarsi trascinare nella deriva opportunista del movimento trotskista contro il quale inizia la lotta agli inizi degli anni ‘30. In effetti, dopo la sua partecipazione, con Treint, alla formazione del “Redressement communiste” (Raddrizzamento comunista), aderisce nel 1930 alla “Ligue communiste” (l’organizzazione che rappresenta l’opposizione in Francia) della quale diviene, insieme a Treint, membro della commissione esecutiva nell’ottobre 1931. Ma tutti e due, dopo avervi difeso una posizione minoritaria di fronte all’avanzata dell’opportunismo, lasciano questa formazione nel maggio 1932 prima di partecipare alla costituzione della “Fraction communiste de gauche” (Frazione comunista di sinistra), detta Gruppo di Bagnolet. Nel 1933 questa organizzazione si scinde e Marc rompe con Treint che inizia a difendere un’analisi dell’URSS simile a quella sviluppata più tardi da Burnham e Chaulieu (“Socialisme bureaucratique”). Partecipa allora, nel novembre 1933, alla fondazione dell’Union communiste assieme a Chazè (Gaston Davoust, morto nel 1984), con il quale aveva conservato uno stretto contatto fin dall’inizio degli anni ‘30 quando quest’ultimo era ancora membro del PCF (fu espulso nell’agosto 1932) e animava il “15° Rayon” (periferia occidentale di Parigi) che difendeva delle posizioni di opposizione.
Le grandi lotte degli anni ‘30
Marc è rimasto membro dell’Union Communiste fino al momento della guerra di Spagna. Viviamo uno dei periodi più tragici del movimento operaio: secondo i termini usati da Victor Serge, “è la mezzanotte del secolo”. Come Marc stesso dice: “Passare questi anni di isolamento terribile, vedere il proletariato francese inalberare la bandiera tricolore, la bandiera di Versailles e cantare "la Marsigliese", e tutto ciò in nome del comunismo, era, per tutte le generazioni che erano rimaste rivoluzionarie, fonte di orribile tristezza”. Ed è giustamente al momento della guerra di Spagna che questo sentimento di isolamento raggiunge il massimo quando parecchie organizzazioni che erano riuscite a mantenere delle posizioni di classe vengono trascinate dall’ondata “antifascista”. È in particolare il caso dell’Union Communiste che vede, negli avvenimenti di Spagna, una rivoluzione proletaria dove la classe operaia aveva l’iniziativa della lotta. Questa organizzazione non arriva certo a sostenere il governo del “Fronte popolare”. Ma caldeggia comunque l’arruolamento nelle milizie antifasciste e allaccia relazioni politiche con l’ala sinistra del POUM, una organizzazione antifascista che partecipa al governo della “Generalidad” della Catalogna.
Difensore intransigente dei principi di classe, Marc non può evidentemente accettare una tale capitolazione davanti all’ideologia antifascista, anche se questa si ammanta di giustificazioni tipo la “solidarietà con il proletariato di Spagna”. Dopo aver condotto una lotta di minoranza contro una tale deriva, lascia l’Union Communiste e raggiunge individualmente, all’inizio del 1938, la Frazione di sinistra italiana con la quale era rimasto in contatto. Questa a sua volta aveva dovuto fare i conti con una minoranza favorevole all’arruolamento nelle milizie antifasciste. Nella tormenta della guerra di Spagna, con tutti i tradimenti che questa provoca, la Frazione italiana, fondata a Pantin nella periferia parigina nel maggio 1928, è una delle rare organizzazioni capaci di resistere su dei principi di classe. Essa basa le sue posizioni di rigetto intransigente di tutte le sirene antifasciste sulla comprensione del corso storico dominato dalla controrivoluzione. In un tale momento di profondo arretramento del proletariato mondiale, di vittoria della reazione, gli avvenimenti di Spagna non potevano essere interpretati come l’inizio di una nuova ondata rivoluzionaria, ma come una nuova tappa della controrivoluzione. Come conclusione della guerra civile, che oppone non la classe operaia alla borghesia ma la Repubblica borghese (alleata al campo imperialista “democratico”) contro un altro governo borghese (alleato al campo imperialista “fascista”), non può esserci la rivoluzione, ma la guerra mondiale. Il fatto che gli operai di Spagna abbiano preso spontaneamente le armi di fronte al putsch di Franco nel luglio 1936 (il che è naturalmente salutato dalla Frazione) non apre alcuna prospettiva rivoluzionaria nella misura in cui questi, imbrigliati dalle organizzazioni antifascista come il PS, il PC e la CNT anarco-sindacalista, rinunciano alla lotta sul proprio terreno di classe per trasformarsi in soldati della Repubblica borghese diretta dal “fronte popolare”. E una delle migliori prove dello stallo tragico in cui si trova il proletariato in Spagna è dato, per la Frazione, dal fatto che in questo paese non c’è nessun partito rivoluzionario[4].
Marc continua dunque la sua lotta rivoluzionaria come militante della Frazione italiana (esiliata in Francia ed in Belgio)[5]. In particolare si lega molto a Vercesi (Ottorino Perrone) che ne è il principale animatore. Molti anni dopo Marc ha spesso spiegato ai giovani militanti della CCI quanto avesse imparato a fianco di Vercesi, per il quale aveva grande stima e ammirazione. “È da lui che ho capito veramente cosa era un militante”, ha detto spesso. In effetti, la grande fermezza dimostrata dalla Frazione era in gran parte dovuta a Vercesi che, militante sin dalla fine della prima guerra mondiale nel PSI e poi nel PCI, ha combattuto sempre per la difesa dei principi rivoluzionari contro l’opportunismo e la degenerazione di queste organizzazioni. Diversamente da Bordiga, principale dirigente del PCd’I in occasione della sua fondazione nel 1921 e animatore della sinistra di questo partito successivamente, ma che si era ritirato dalla vita militante dopo la sua esclusione dal partito nel 1930, egli ha messo la sua esperienza al servizio del proseguimento della lotta di fronte alla controrivoluzione. In particolare, egli ha dato un contributo decisivo all’elaborazione della posizione relativa al ruolo delle frazioni nella vita delle organizzazioni proletarie, particolarmente nei periodi di degenerazione del Partito[6]. Ma il suo contributo è ancora più grande. Sulla base della comprensione dei compiti che gravano sui rivoluzionari dopo il fallimento della rivoluzione e la vittoria della controrivoluzione, fare un bilancio (da cui il nome della pubblicazione della Frazione in lingua francese, Bilan) dell’esperienza passata al fine di preparare “i quadri per i nuovi partiti del proletariato” e ciò senza “alcuna censura o ostracismo” (Bilan, n.1), egli dà impulso nella Frazione a tutto un lavoro di riflessione e di elaborazione teorica che ne fa una delle organizzazioni più feconde della storia del movimento operaio. In particolare, benché di formazione “leninista”, egli non ha paura di rifarsi alle posizioni di Rosa Luxemburg rigettando il sostegno alle lotte di liberazione nazionale e sull’analisi delle cause economiche dell’imperialismo. Su quest’ultimo punto egli trae vantaggio dai dibattiti con la Ligue des Communistes Internationalistes (LCI) del Belgio (una formazione uscita dal trotskismo ma che se ne era poi allontanata) la cui minoranza assume le posizioni della Frazione quando scoppia la guerra di Spagna per costituire insieme a questa, alla fine del 1937, la Gauche communiste internationale. Inoltre Vercesi (insieme a Mitchell, membro della LCI), basandosi sugli insegnamenti tratti dal processo di degenerazione della Rivoluzione in Russia e dal ruolo dello stato sovietico nella controrivoluzione, elabora la posizione secondo la quale non può esserci identificazione tra la dittatura del proletariato e lo stato che sorge dopo la rivoluzione. Infine, riguardo all’organizzazione, egli è di esempio, all’interno della Commissione Esecutiva della Frazione, rispetto al modo di condurre un dibattito quando sorgono delle divergenze gravi. Infatti, di fronte alla minoranza che rompe ogni disciplina organizzativa andando ad arruolarsi nelle milizie antifasciste e che rifiuta di pagare le quote all’organizzazione, egli combatte l’idea di una scissione organizzativa affrettata (mentre conformemente alle regole organizzative della Frazione, i membri della minoranza potevano perfettamente essere espulsi) al fine di favorire al massimo lo sviluppo della maggiore chiarezza possibile nel dibattito. Per Vercesi, come per la maggioranza della Frazione, la chiarezza politica è una priorità essenziale nel ruolo e l’attività delle organizzazioni rivoluzionarie.
Tutti questi insegnamenti, che in larga parte corrispondevano già alla sua pratica politica precedente, sono stati pienamente assimilati da Marc negli anni di militanza a fianco di Vercesi. Ed è proprio su questi insegnamenti che Marc si baserà quando Vercesi, a sua volta, comincerà a dimenticarli e ad allontanarsi dalle posizioni marxiste. Infatti quest’ultimo, quando si costituisce la GCI, in cui “Bilan” viene sostituito da “Octobre”, inizia a sviluppare una teoria dell’economia di guerra come antidoto definitivo alla crisi del capitalismo. Disorientato dal successo momentaneo delle politiche economiche del New Deal e del nazismo, conclude che la produzione di armi, che non ricade su di un mercato capitalista soprasaturo, permette al capitalismo di superare le sue contraddizioni economiche. Secondo lui, la formidabile produzione di armamenti realizzata da tutti i paesi alla fine degli anni ‘30 non corrisponde dunque ai preparativi della futura guerra mondiale ma costituisce al contrario un mezzo per evitarla eliminando la sua causa di fondo: lo stallo economico del capitalismo. In questo contesto le diverse guerre locali che si sono sviluppate, in particolare la guerra di Spagna, non devono essere considerate come le premesse di un conflitto generalizzato, ma come un mezzo per la borghesia di schiacciare la classe operaia di fronte all’avanzata di lotte rivoluzionarie. È per questo che la pubblicazione del Bureau International (Ufficio Internazionale) della GCI si chiama “Octobre”, proprio perché si sarebbe entrati in nuovo periodo rivoluzionario. Tali posizioni costituiscono una specie di vittoria postuma per la vecchia minoranza della Frazione.
Di fronte ad un tale sbandamento, che rimette in causa l’essenziale dell’insegnamento di “Bilan”, Marc si impegna nella lotta per la difesa delle posizioni classiche della Frazione e del marxismo. Per lui è una prova molto difficile dato che deve combattere gli errori di un militante di cui ha una grande stima. In questa lotta egli è in minoranza in quanto la maggioranza dei membri della Frazione, acceca-ti dall’ammirazione per Vercesi, lo seguono in questo vicolo cieco. In fin dei conti questa concezione conduce la Frazione italiana, e la Frazione belga, ad una totale paralisi nel momento in cui scoppia la guerra mondiale, rispetto alla quale Vercesi valuta che non è più il caso di intervenire dato che il proletariato è “scomparso socialmente”. In questo momento Marc, reclutato dall’esercito francese (benché apolide), non può reagire immediatamente[7]. Solo nell’agosto del 1940 a Marsiglia, nel sud della Francia, egli può ritornare all’attività politica per raggruppare gli elementi della Frazione italiana che si erano ritrovati in questa città.
Di fronte alla guerra imperialista
Questi militanti, in larga parte, rifiutano lo scioglimento delle frazioni annunciata, sotto l’influenza di Vercesi, dal Bureau International di queste. Essi indicono nel 1941 una conferenza della ricostituita Frazione che si basa sul rigetto della deriva introdotta a partire dal 1937: teoria dell’economia di guerra come superamento della crisi, guerre “localizzate” contro la classe operaia, “scomparsa sociale del proletariato”, etc. Inoltre, la Frazione abbandona la sua vecchia posizione sull’URSS come “Stato operaio degenerato”[8] e ne riconosce la natura capitalista. Durante tutta la guerra, nelle peggiori condizioni di clandestinità, la Frazione tiene delle conferenze annuali raggruppando i militanti di Marsiglia, Tolosa, Lione e Parigi mentre, nonostante l’occupazione tedesca, stabilisce dei legami con gli elementi del Belgio. Pubblica un Bollettino interno di discussione dove si affrontano tutte le questioni che hanno portato al fallimento del 1939. Leggendo i differenti numeri di questo bollettino, si può constatare che la maggior parte dei testi di fondo di critica alle posizioni di Vercesi o di elaborazione di nuove posizioni richieste dall’evoluzione della situazione storica sono firmati Marco. Il nostro compagno, che aveva raggiunto la Frazione italiana solo nel 1938 e che era il solo membro “straniero”, ne è il principale animatore durante tutta la guerra.
Nello stesso tempo Marc ha iniziato un lavoro di discussione con un circolo di giovani elementi, provenienti per la maggior parte dal trotskismo, con i quali, nel maggio 1942, fonda il Noyau français de la Gauche communiste (Nucleo francese della Sinistra comunista) sulle basi politiche dalla GCI. Questo nucleo ha come prospettiva la formazione della Frazione francese della Sinistra comunista ma, rigettando la politica delle “campagne di reclutamento” e di “formazione di nuclei” praticata dai trotskisti, si rifiuta, sotto l’influenza di Marc, di proclamare in maniera precipitosa la costituzione immediata di una tale frazione.
La Commissione Esecutiva della ricostituita Frazione italiana, di cui Marc fa parte, e il nucleo francese, sono portati a prendere posizione rispetto agli avvenimenti in Italia del 1942-1943, dove delle lotte di classe molto importanti portano al rovesciamento di Mussolini il 25 luglio 1943 e alla sua sostituzione con l’ammiraglio Badoglio, che è pro-alleati. Un testo firmato Marco per la CE afferma che: “le rivolte rivoluzionarie che arresteranno il corso della guerra imperialista creeranno in Europa una situazione caotica delle più pericolose per la borghesia” mettendo in guardia contro i tentativi del “blocco imperialista anglo-americano-russo” di liquidare queste rivolte dall’esterno e contro quelli dei partiti di sinistra di “imbavagliare la coscienza rivoluzionaria”. La conferenza della Frazione che nonostante l’opposizione di Vercesi si tiene nell’agosto del 1943, dichiara, in base all’analisi degli avvenimenti in Italia, che “la trasformazione della frazione in Partito” è all'ordine del giorno in questi paesi. Tuttavia, a causa delle difficoltà materiali e anche dell’inerzia che Vercesi oppone a tale riguardo, la Frazione non riesce a rientrare in Italia per intervenire nelle lotte che sono iniziate a svilupparsi. In particolare, essa ignora che alla fine del 1943 si è costituito nel nord Italia, sotto l’impulso di Onorato Damen e di Bruno Maffi, il Partito Comunista Internazionalista (PCInt), al quale partecipano vecchi membri della Frazione.
In questo stesso periodo, la Frazione ed il Nucleo hanno portato avanti un lavoro di contatti e di discussione con altri elementi rivoluzionari e particolarmente con dei rifugiati tedeschi e austriaci, i Revolutionäre Kommunisten Deutschlands (RKD), che si sono staccati dal trotskismo. Insieme ad essi portano avanti, soprattutto il Nucleo francese, un’azione di propaganda diretta contro la guerra imperialista indirizzata agli operai ed ai soldati di tutte le nazionalità, compresi i proletari tedeschi in uniforme. Si tratta evidentemente di un’attività estremamente pericolosa perché bisogna affrontare non salo la Gestapo ma anche la Resistenza. È infatti proprio quest’ultima a dimostrarsi più pericolosa per il nostro compagno che, fatto prigioniero insieme alla sua compagna dall’FFI (Forces Françaises de l’Intérieur) dove brulicavano gli stalinisti, scappa alla morte promessagli da questi ultimi riuscendo ad evadere all’ultimo momento. Ma la fine della guerra suona le campane a morto per la Frazione.
A Bruxelles, alla fine del 1944, dopo la “Liberazione”, Vercesi sull’onda delle sue aberranti posizioni gira le spalle ai principi che aveva difeso in passato e si mette a capo di una “Coalizione antifascista” che pubblica “L'Italia di domani”, un giornale che, con la scusa di dare un aiuto ai prigionieri ed agli emigrati italiani, si situa chiaramente a fianco dello sforzo di guerra degli alleati. Dal momento in cui verifica la realtà di questo fatto, dopo un primo momento di incredulità, la CE della Frazione, sotto la spinta di Marc, espelle Vercesi il 25 gennaio 1945. Tale decisione non scaturisce dai disaccordi sui differenti punti di analisi che esistevano tra quest’ultimo e la maggioranza della Frazione. Come con la vecchia minoranza del 1936-37, la politica della CE, e di Marc al suo interno che riprendeva il metodo di Vercesi, era quella di portare avanti il dibattito nella massima chiarezza. Ma nel 1944-45, ciò che era rimproverato a Vercesi non erano semplicemente dei disaccordi politici, ma la sua partecipazione attiva, addirittura da dirigente, ad un organismo della borghesia implicato nella guerra imperialista. Comunque quest’ultima manifestazione di intransigenza da parte della Frazione italiana non era che il canto del cigno.
Avendo scoperto l’esistenza del PCInt in Italia, la maggioranza dei suoi membri decide, alla conferenza del maggio 1945, per l’autodissoluzione della Frazione e l’integrazione individuale dei suoi militanti nel nuovo “partito”. Marc combatte con tutte le sue ultime forze ciò che considera come una completa negazione di tutta la pratica politica su cui si era fondata la Frazione. Chiede che la Frazione resti in vita fino ad una verifica delle posizioni politiche di questa nuova formazione che erano poco note. Ed il futuro darà perfettamente ragione alla sua prudenza quando si constaterà che il partito in questione, al quale si erano uniti gli elementi vicini a Bordiga del sud Italia (e tra i quali c’era chi praticava l’entrismo nel PCI), era evoluto verso posizioni completamente opportuniste fino a compromettersi con il movimento dei partigiani antifascisti (vedi The ambiguities of the Internationalist Communist Party over the ‘partisans’ in Italy in 1943 [9] in lingua inglese o Les ambiguïtés sur les «partisans» dans la constitution du parti communiste internationaliste en Italie [10] in lingua francese nella Rivista Internazionale n. 8, 4° trimestre 1976, e The origins of the ICP(Communist Programme): what it claims to be, and what it really is [11] in lingua inglese o Le parti communiste international (Programme Communiste) à ses origines, tel qu’il prétend être, tel qu’il est [12] in lingua francese nella Rivista Internazionale n. 32, l° trimestre 1983). Marc, in segno di protesta, annuncia le sue dimissioni dalla CE e lascia la conferenza, la quale si rifiuta di riconoscere la Fraction Française de la Gauche communiste (FFGC) che era stata costituita alla fine del 1944 dal Nucleo francese e che aveva fatte sue le posizioni di base della Gauche Communiste Internationale. Dal canto suo, Vercesi aderisce al nuovo “Partito” che non gli chiede alcun conto della sua partecipazione alla coalizione antifascista di Bruxelles. È la fine di tutti gli sforzi che lo stesso Vercesi aveva fatto per anni e anni per far sì che la Frazione potesse servire da “ponte” tra il vecchio partito passato al nemico e il nuovo partito che doveva costituirsi con il risorgere delle lotte di classe del proletariato. Lungi dal riprendere la lotta per queste posizioni, egli oppone al contrario una ostilità feroce, e con lui l’insieme del PCInt, alla sola formazione che sia rimasta fedele ai principi della Frazione italiana e della Sinistra Comunista Internazionale: la FFGC. Egli incoraggia d’altra parte una scissione all’interno di questa, che forma una FFGC-bis[9]. Questo gruppo pubblica un giornale che ha lo stesso nome di quello della FFGC, “L'Étincelle”, e raccoglie tra i suoi ranghi i membri dell’ex-minoranza di “Bilan”, contro i quali aveva combattuto all’epoca Vercesi, ed anche vecchi militanti dell’Union Communiste. La FFGC-bis sarà riconosciuta dal PCInt e dalla Frazione belga (ricostituitasi dopo la guerra intorno a Vercesi rimasto a Bruxelles) come “sola rappresentante della Sinistra Comunista”.
Ormai, Marc resta il solo militante della Frazione italiana a continuare la lotta e mantenere le posizioni che erano la vera forza e la chiarezza politica di questa organizzazione. È all’interno della Gauche Communiste de France, nuovo nome che si è dato la FFGC, che egli inizierà questa nuova tappa della sua vita politica.
“Internationalisme”
La Gauche Communiste de France (GCF) tiene la sua seconda conferenza nel luglio 1945, dove adotta un rapporto sulla situazione internazionale scritto da Marc (ripubblicato nella Revue Internationale, n. 59, 4° trimestre 1989 con il titolo 50 years ago: The real causes of the Second World War [13] in inglese e Il y a 50 ans : les véritables causes de la 2eme guerre mondiale [14] in lingua francese) che fa un bilancio globale degli anni della guerra. Nel richiamarsi alle posizioni classiche del marxismo sulla questione dell’imperialismo e della guerra, in particolare contro le aberrazioni sviluppate da Vercesi, questo documento costituisce un reale approfondimento nella comprensione dei principali problemi affrontati dalla classe operaia nella decadenza del capitalismo. Questo rapporto rispecchia un po’ tutto il contributo dato dalla GCF al pensiero rivoluzionario ed i cui differenti articoli pubblicati nella sua rivista teorica "Internationalisme" ce ne danno un’idea[10]. In effetti, “L'Enticelle” cessa di essere pubblicato nel 1946. E ciò corrisponde alla comprensione da parte della GCF che le sue previsioni circa un’uscita rivoluzionaria dalla guerra imperialista (come era avvenuto nella prima guerra mondiale) non si sono affatto verificate. Grazie alle lezioni tratte dal passato, la borghesia dei paesi “vincitori”, come previsto dalla Frazione nel 1943, è riuscita ad impedire una ripresa del proletariato. La “Liberazione” non è un passo avanti verso la rivoluzione ma, al contrario, il culmine della controrivoluzione. La GCF ne tira le conseguenze e valuta che la costituzione del partito non è all’ordine del giorno così come non lo è l’agitazione nella classe operaia di cui “L'Enticelle” si voleva fare strumento. Il lavoro da fare è tipo quello di “Bilan”. Pertanto la GCF consacra le sue forze ad uno sforzo di chiarificazione e di discussione teorico-politica al contrario del PCInt che, per anni, sarà pervaso da un attivismo febbrile che lo porterà alla scissione del 1952 tra la tendenza Damen, più attivista, e quella di Bordiga, con la quale stava Vercesi.
Da parte sua, la GCF conserva lo spirito di apertura che aveva caratterizzato la Sinistra italiana prima e durante la guerra. Ma, contrariamente al PCInt che si apre ai quattro venti senza stare tanto a guardare la natura di chi frequenta, i contatti stabiliti dalla GCF si basano, come quelli di “Bilan”, su dei criteri politici ben precisi che permettono di distinguersi chiaramente dalle organizzazioni non proletarie. Così, nel maggio 1947, la GCF partecipa ad una conferenza internazionale organizzata per iniziativa del Communistenbond dei Paesi Bassi (di tendenza consiliarista) in compagnia, tra gli altri, del gruppo Le Proletaire uscito dall’RKD, della Frazione belga e della Federazione autonoma di Torino che si era scissa dal PCInt per i suoi disaccordi sulla partecipazione alle elezioni. Durante i preparativi di questa conferenza, alla quale Communistenbond aveva invitato anche la Federazione anarchica, la GCF insiste sulla necessità di criteri di selezione più precisi che scartino i gruppi, come gli anarchici ufficiali, che avevano partecipato al governo della Repubblica spagnola e alla Resistenza[11].
Tuttavia, l’essenziale dell’apporto della GCF alla lotta del proletariato, in questo periodo dominato dalla controrivoluzione, si situa nel campo dell’elaborazione programmatica e teorica. Il considerevole sforzo di riflessione realizzato dalla GCF la porta a precisare la funzione del partito rivoluzionario superando le concezioni “leniniste” classiche, o a riconoscere la definitiva ed irreversibile integrazione dei sindacati e del sindacalismo nello stato capitalista. Su queste questioni, la Sinistra tedesco-olandese aveva fatto, fin dagli anni ‘20, una seria critica delle posizioni errate di Lenin e dell’Internazionale Comunista. Il confronto della Frazione italiana, prima della guerra, e della GCF, dopo, con le posizioni di questa corrente, hanno permesso alla GCF di riprenderne alcune critiche fatte all’IC, senza però cadere nelle esagerazioni di questa sulla questione del partito (al quale finisce col negare ogni funzione). La GCF si dimostra inoltre capace di andare oltre sulla questione sindacale (dato che accanto al rigetto del sindacalismo classico, la Sinistra tedesco-olandese preconizzava una forma di sindacalismo di “base”, basandosi per esempio sulle “Unions”). Sulla questione sindacale, in particolare, si manifesta tutta la differenza tra la Sinistra tedesca e la Sinistra italiana. La prima riesce a comprendere molto rapidamente, nel corso degli anni ‘20, gli assi essenziali di una questione (per esempio sulla natura capitalista dell’URSS o sulla natura dei sindacati) ma non facendo una riflessione sistematica nell’elaborazione delle nuove posizioni, finisce per rimettere in discussione alcuni dei fondamenti del marxismo o a precludersi qualsiasi approfondimento ulteriore di queste questioni. La Sinistra italiana, da parte sua, è molto più prudente. Prima delle sbandate di Vercesi a partire dal 1938, ha la continua preoccupazione di sottomettere ad una critica sistematica i passi che fa nella riflessione per verificare se questi non si discostino dal quadro del marxismo. Così facendo è stata capace di andare molto più lontano nella riflessione e di elaborare delle analisi ben più audaci, per esempio sulla fondamentale questione dello Stato. È questa dinamica, acquisita all’interno della Frazione italiana, che permette a Marc di dare impulso all’enorme lavoro di riflessione fatto dalla GCF. Un lavoro che porta questa organizzazione a continuare l’elaborazione della posizione della Frazione sulla questione dello Stato nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, e a dare alla questione del capitalismo di Stato una visione più ampia che la sola analisi dell’URSS per evidenziare il carattere universale di questa manifestazione fondamentale della decadenza del modo di produzione capitalista.
Questa analisi è sviluppata, in particolare, nell'articolo “L’evoluzione del capitalismo e la nuova prospettiva” pubblicato su “Internationalisme” n.46 (e ripubblicato nella Revue Internationale, n.21). Questo testo, scritto da Marc nel maggio 1952, costituisce, in qualche modo, il testamento politico della GCF. Infatti, Marc lascia la Francia nel giugno 1952 per andare in Venezuela. Questa par-tenza corrisponde ad una decisione collettiva della GCF la quale, di fronte alla guerra di Corea, valuta che è ormai inevitabile e a breve scadenza, lo scoppio di una terza guerra mondiale tra il blocco americano e il blocco russo (come viene spiegato nel testo). Una tale guerra che avrebbe colpito principalmente l’Europa rischiava di distruggere completamente i pochi gruppi comunisti - ed in particolare la GCF - che erano sopravvissuti a quella precedente. “Mettere in salvo” al di fuori dell’Europa un certo numero di militanti non corrispondeva dunque alla preoccupazione personale di salvare la pelle (per tutta la seconda guerra mondiale Marc ed i suoi compagni hanno dato prova di essere pronti ad esporsi a rischi enormi per difendere le posizioni rivoluzionarie nelle peggiori condizioni possibili), ma allo scopo di assicurare la sopravvivenza dell’organizzazione stessa. Tuttavia, il trasferimento in un altro continente del suo militante più formato e sperimentato dà un colpo fatale alla GCF, i cui militanti rimasti in Francia, nonostante l’assidua corrispondenza con Marc, non riescono a mantenere in vita l’organizzazione nel periodo di profonda controrivoluzione. Per delle ragioni che non possiamo qui sviluppare, la terza guerra mondiale non c’è stata. È chiaro che questo errore di analisi è costato la vita alla GCF (e probabilmente, tra gli errori commessi dal nostro compagno nel corso della sua lunga militanza, questo è quello che ha avuto le conseguenze più gravi). Comunque la GCF aveva lasciato tutto un bagaglio politico e teorico sul quale si sarebbero basati i gruppi che hanno dato origine alla CCI.
La “Corrente Comunista Internazionale”
Per più di dieci anni, mentre la controrivoluzione continua a pesare sulla classe operaia, Marc conosce un isolamento particolarmente penoso. Egli segue le attività delle organizzazioni rivoluzionarie che si sono mantenute in Europa e resta in contatto con esse ed alcuni dei suoi membri. Allo stesso tempo continua una riflessione su un certo numero di questioni che la GCF non aveva potuto chiarire sufficientemente. Ma, per la prima volta nella sua vita, rimane privato di questa attività organizzata che costituisce il quadro per eccellenza di una tale riflessione. È una prova molto dolorosa, come lo esprime lui stesso:
“Il periodo di reazione del dopoguerra è stato una lunga marcia nel deserto, in particolare in seguito alla scomparsa del gruppo Internationalisme dopo 10 anni di esistenza. È stato il deserto dell’isolamento per una quindicina di anni.”
Questo isolamento durò fino al momento in cui riuscì a raccogliere intorno a sé un piccolo gruppo di liceali che costituiranno il nucleo di una nuova organizzazione:
“Ed è nel 1964 che si costituisce in Venezuela un gruppo di elementi molto giovani. E questo gruppo continua ancora oggi. Vivere quarant’anni nella controrivoluzione, nella reazione, e sentire all’improvviso la speranza, sentire di nuovo che la crisi del capitale è tornata a bussare, che i giovani sono lì e, a partire da ciò, sentire questo gruppo crescere un po’ alla volta, svilupparsi attraverso il 1968, attraverso la Francia e allargarsi poi in dieci paesi, tutto ciò è veramente una gioia per un militante. Questi anni, questi ultimi venticinque anni, sono certamente i miei anni più felici. È in questi anni che ho potuto realmente sentire la gioia di questo sviluppo e la convinzione che si ricominciava, che si era finalmente usciti dalla sconfitta e che la classe operaia andava ricostituendosi, che le forze rivoluzionarie si riprendevano. Avere la gioia di partecipare in prima persona, di dare tutto ciò che si ha, il meglio di sé stessi a questa ricostruzione, è una gioia enorme. È questa gioia io la devo alla CCI...”.
A differenza di quanto fatto per le altre organizzazioni nelle quali Marc aveva militato, non rievocheremo qui la storia della CCI su cui abbiamo fornito degli elementi in occasione del suo decimo anniversario (vedi Rivista Internazionale n.9). Ci limiteremo a segnalare alcuni fatti mettendo in rilievo l’enorme contributo del nostro compagno al processo che ha condotto alla formazione dell’organizzazione. Così, prima ancora della costituzione formale della CCI, è a lui che va attribuita essenzialmente la chiarezza politica di quel piccolo gruppo venezuelano che pubblicava Internacionalismo (lo stesso nome della rivista della GCF); in particolare sulla questione della liberazione nazionale, tema a cui risultava molto sensibile questo paese e sul quale sussistevano enormi confusioni nello stesso campo proletario. Allo stesso tempo la politica di ricerca di contatti con gli altri gruppi di questo ambiente che conduceva Internacionalismo, sul continente americano ed in Europa, era perfettamente in linea con quella della GCF e della Frazione. E ancora, nel gennaio 1968, quando non si parlava che della “prosperità” del capitalismo e della sua capacità di eliminare le crisi (finanche tra alcuni rivoluzionari), quando fiorivano le teorie di Marcuse sulla “integrazione della classe operaia”, quando i rivoluzionari che Marc aveva incontrato nel corso di un viaggio in Europa nell’estate ‘67 avevano dato prova, per la maggior parte, di un totale scetticismo sulle potenzialità della lotta del proletariato che secondo loro si trovava ancora in piena controrivoluzione, il nostro compagno non ebbe paura di scrivere, nel n.8 di Internacionalismo:
“Non siamo dei profeti e non abbiamo la pretesa di indovinare quando e in che modo si svilupperanno gli avvenimenti futuri. Ma la cosa di cui noi siamo effettivamente sicuri e coscienti è che non è possibile fermare quel processo nel quale è immerso attualmente il capitalismo (...) e che questo lo porta direttamente alla crisi. E siamo anche sicuri che il processo inverso di sviluppo della combattività della classe, che si vede ora in maniera generale, condurrà la classe operaia ad una lotta sanguinosa e diretta per la distruzione dello stato borghese.”
Una conferma eclatante di ciò si avrà alcuni mesi dopo con lo sciopero generalizzato del maggio ‘68 in Francia. Evidentemente non è ancora il momento di “una lotta diretta per la distruzione dello stato borghese”, ma è sicuramente quella di una ripresa storica del proletariato mondiale stimolata dalle prime manifestazioni della crisi aperta del capitalismo dopo la più profonda controrivoluzione della storia. Una tale previsione non è frutto di chiaroveggenza, ma più semplicemente della padronanza del marxismo del nostro compagno e della sua fiducia verso le capacità rivoluzionarie della classe, che non crolla anche nei peggiori momenti della controrivoluzione. Immediatamente Marc parte per la Francia, percorrendo l’ultima parte del suo viaggio in autostop in quanto i trasporti in questo paese erano paralizzati. Riprende contatto con i suoi vecchi compagni della GCF e entra in discussione con tutta una serie di gruppi e di elementi dell'ambiente politico[12]. Questo lavoro, assieme a quello di un giovane militante di Internacionalismo venuto in Francia fin dal 1966, sarà determinante per la formazione e lo sviluppo del gruppo Revolution Internationale, che giocherà il ruolo di polo di raggruppamento attorno a cui si formerà la CCI.
Ugualmente non potremo rendere conto di tutti gli apporti politici e teorici del nostro compagno all’interno della nostra organizzazione a partire dalla sua costituzione. Basti dire che, su tutte le questioni essenziali che si sono poste nella CCI, e dunque all’insieme della classe, su tutti i passi avanti che abbiamo realizzato, il contributo del nostro compagno è stato decisivo. In genere era Marc per primo che sollevava i punti nuovi su cui era importante soffermarsi. Questa vigilanza permanente, questa capacità di identificare rapidamente - e in profondità - le questioni nuove alle quali era necessario dare una risposta, e quelle vecchie sulle quali potevano sussistere delle confusioni all’interno dell’ambiente politico, si sono espresse attraverso i primi 64 numeri della Revue Internationale. Gli articoli pubblicati su queste questioni non erano sempre scritti direttamente da Marc perché, non avendo mai studiato e soprattutto costretto ad esprimersi in delle lingue, come il francese, che aveva imparato solo da adulto, scrivere rappresentava per lui un grande sforzo. Tuttavia è sempre stato il principale ispiratore dei testi che hanno permesso alla nostra organizzazione di far fronte alla responsabilità di attualizzazione permanente delle posizioni comuniste. Come per esempio in occasione del crollo del blocco dell’Est e dello stalinismo.
Ma il contributo di Marc alla vita della CCI non si è limitato all’elaborazione ed all’approfondimento delle posizioni politiche e delle analisi teoriche. Fino agli ultimi istanti della sua vita, pur continuando a riflettere sull’evoluzione della situazione mondiale e a trasmettere, nonostante lo sforzo enorme che ciò gli comportava, queste riflessioni ai compagni che si recavano a fargli visita in ospedale, si è preoccupato anche dei minimi dettagli della vita e del funzionamento della CCI. Per lui non sono mai esistite funzioni “subalterne” che potevano essere riservate a dei compagni meno formati teoricamente. Come si è sempre preoccupato che l’insieme dei militanti dell’organizzazione fosse capace della più grande chiarezza politica possibile, che le questioni teoriche non fossero riservate a degli “specialisti”, così non ha mai esitato a prendere parte a tutte le attività pratiche e quotidiane. Marc ha sempre dato ai giovani militanti della CCI l’esempio di un militante completo, impegnato con tutte le sue capacità nella vita di questo organo indispensabile del proletariato che è la sua organizzazione rivoluzionaria. Il nostro compagno ha saputo trasmettere alle nuove generazioni di militanti tutta l’esperienza che aveva accumulato sui vari piani nel corso di una vita militante di una lunghezza e di una intensità eccezionali. E una tale esperienza i giovani la potevano acquisire non soltanto attraverso la lettura dei suoi testi politici ma anche nella vita quotidiana dell'organizzazione e con la presenza di Marc.
Per questi motivi Marc ha occupato un posto del tutto eccezionale nella vita del proletariato. Mentre la controrivoluzione ha eliminato, o ha portato alla sclerosi, le organizzazioni politiche che la classe operaia aveva prodotto nel passato, egli ha costituito un ponte, un anello insostituibile tra le organizzazioni che avevano partecipato alla ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra e quelle che saranno confrontate alla prossima ondata rivoluzionaria. Nella sua Storia della rivoluzione russa Trotsky viene spinto a chiedersi quale posto particolare ed eccezionale abbia ricoperto Lenin al suo interno. Pur rifacendo sue le tesi classiche del marxismo sul ruolo degli individui nella storia, Trotsky conclude che, senza Lenin che era riuscito a imprimere il raddrizzamento e l’“armamento” politico del partito bolscevico, la rivoluzione o non avrebbe potuto avere luogo o si sarebbe conclusa con un fallimento. È chiaro che, senza Marc, la CCI non esisterebbe affatto, o per lo meno non nella sua forma attuale di organizzazione più importante del campo politico rivoluzionario internazionale (senza parlare della chiarezza delle sue posizioni sulla quale, evidentemente, altri gruppi rivoluzionari possono avere un punto di vista differente dal nostro). In particolare la sua presenza e la sua attività hanno permesso che tutto l’enorme e fondamentale lavoro effettuato dalle frazioni di sinistra escluse dall’IC, ed in particolare quello della frazione italiana, non solo non sparisse, ma che al contrario fosse messo a fruttificare. In questo senso, se il nostro compagno non ha mai avuto, all’interno della classe operaia, una notorietà neanche lontanamente paragonabile a quelle di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Trotsky o anche di Bordiga o di Pannekoek, e non poteva essere altrimenti visto che la maggior parte della sua vita militante si è svolta nel periodo della controrivoluzione, non bisogna aver timore di affermare che il suo contributo alla lotta del proletariato si situa allo stesso livello di quello di altri rivoluzionari.
Il nostro compagno si è sempre mostrato refrattario a questo tipo di confronti. Ed è sempre con la più grande semplicità che egli ha compiuto i suoi compiti militanti, non rivendicando mai un “posto d’onore” all’interno dell’organizzazione. La sua grande fierezza lui non l’ha posta nel contributo eccezionale che ha dato quanto nel fatto che, fino alla fine, è rimasto fedele, con tutto il suo essere, alla lotta del proletariato. Ed anche questo è stato un insegnamento prezioso per le nuove generazioni di militanti che non hanno avuto l'occasione di conoscere l’enorme dedizione alla causa rivoluzionaria delle generazioni del passato. È anzitutto su questo piano che noi vogliamo essere all’altezza della lotta che, senza ormai la sua presenza vigile e lucida, calorosa e appassionata, siamo determinati a proseguire.
CCI
[1] I militanti qui menzionati sono solo i più noti tra quelli che riuscirono a superare il periodo della controrivoluzione senza abbandonare le loro convinzioni comuniste. Bisogna notare che, a differenza di Mark, la maggior parte di loro non è riuscita a fondare o mantenere in vita organizzazioni rivoluzionarie. È il caso, per esempio, di Mattick, Pannekoek e Canne-Meijer, figure di spicco del movimento “consiliarista” paralizzate dalle loro concezioni organizzative o addirittura, come nel caso di quest’ultimo (vedi nella nostra Rivista Internazionale n. 37, The bankruptcy of councilism [15] in lingua inglese o La faillite du conseillisme [16] in lingua francese) dall’idea che il capitalismo sarebbe capace di superare indefinitamente le sue crisi, escludendo ogni possibilità di socialismo. Allo stesso modo Munis, valoroso e coraggioso militante proveniente dalla sezione spagnola della corrente trotskista, non avendo mai potuto rompere completamente con le concezioni delle sue origini e rinchiuso in una visione volontarista che rigettava il ruolo della crisi economica nello sviluppo della lotta di classe, non è stato in grado di dare ai nuovi elementi che si sono uniti a lui nel Fomento Obrero Revolucionario (FOR) un quadro teorico che permettesse loro di continuare seriamente l’attività di questa organizzazione dopo la scomparsa del suo fondatore. Bordiga e Damen, da parte loro, si sono mostrati capaci di animare formazioni che sono sopravvissute alla loro morte (il Partito Comunista Internazionale e il Partito Comunista Internazionalista); tuttavia, essi hanno avuto grandi difficoltà (soprattutto Bordiga) a superare le posizioni dell’Internazionale Comunista, ormai obsolete, cosa che ha costituito un handicap per le loro organizzazioni e che ha portato ad una crisi gravissima all’inizio degli anni ‘80 (nel caso del PCInt bordighista) o a un’ambiguità permanente su questioni vitali come quelle del sindacalismo, del parlamentarismo e delle lotte nazionali (nel caso del PCInternazionalista, come si è visto in occasione delle conferenze internazionali della fine degli anni ‘70). Fu inoltre un po’ il caso di Jan Appel, uno dei grandi nomi del KAPD, che rimase segnato dalle posizioni di questa organizzazione senza riuscire realmente ad aggiornarle. Tuttavia, appena si è formata la CCI, questo compagno si è riconosciuto nell’orientamento generale della nostra organizzazione e le ha apportato tutto l’appoggio che le sue forze gli permettevano. Bisogna notare che nei riguardi di tutti questi militanti, nonostante dei disaccordi talvolta molto importanti che lo separavano da loro, Marc nutriva la più grande stima e provava per la maggior parte di loro un profondo affetto. Questa stima e questo affetto non si limitavano d’altra parte a questi soli compagni, ma si estendevano a tutti quei militanti meno noti ma che avevano, agli occhi di Marc, l’immenso merito di essere rimasti fedeli alla causa rivoluzionaria nei momenti peggiori della storia del proletariato.
[2] A Marc era caro quell’episodio della vita di Rosa Luxemburg quando, in occasione del congresso dell’Internazionale socialista, nel 1896 -lei aveva 26 anni- Rosa osa scagliarsi contro tutte le “autorità” dell’Internazionale per combattere ciò che sembrava essere divenuto un principio intangibile del movimento operaio: la rivendicazione dell’indipendenza della Polonia.
[3] Modo di procedere che è opposto a quello di Bordiga, per il quale il programma del proletariato è “invariante” dal 1848. Non ha però, naturalmente, niente a che vedere con quello dei “revisionisti” alla Bernstein o, più recentemente, alla Chaulieu, mentore del gruppo “Socialisme ou Barbarie” (1949-1965). È anche completamente diverso da quello del movimento consiliarista che, poiché la rivoluzione russa del 1917 era sfociata in una variante del capitalismo, pensa che fu una rivoluzione borghese, o che si rivendica ad un “nuovo” movimento operaio in opposizione al “vecchio” (la seconda e la terza internazionale) che avrebbe fatto fallimento.
[4] Rispetto all’atteggiamento della Frazione di fronte agli avvenimenti di Spagna, vedi in particolare la Rivista Internazionale n° 1 [17].
[5] Sulla Frazione italiana vedi il nostro libro “La Sinistra Comunista d'Italia.”
[6] Sulla questione delle relazioni partito-frazione si veda la nostra serie di articoli nella Rivista Internazionale (1989-91):
n° 59, The Italian Left, 1922-1937 [18] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (1° partie) [19] in lingua francese;
n° 61, The international communist left, 1937-52 [20] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (2° partie) [21];
n° 64, The Fraction-Party from Marx to Lenin, 1848-1917 [22] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (3° partie - I. De Marx à la 2e Internationale) [23];
n° 65, The Bolsheviks and the Fraction [24] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (3° partie - II. Lénine et les bolcheviks) [25].
[7] Per quindici anni il nostro compagno, come documento ufficiale riuscì ad ottenere solo un ordine di espulsione dal territorio francese, per cui ogni due settimane doveva chiedere alle autorità competenti di rimandare l’esecuzione di quest’ordine. Era una spada di Damocle che il democratico governo di Francia, “terra d’asilo e dei diritti dell’uomo”, aveva sospeso sulla sua testa, in quanto Marc era obbligato costantemente ad impegnarsi a non svolgere attività politica, cosa che naturalmente non osservava. Allo scoppio della guerra, questo stesso governo decide che questo “indesiderabile apolide” è comunque utile come carne da cannone per la difesa della patria. Fatto prigioniero dall’esercito tedesco, riesce a fuggire prima che le autorità di occupazione scoprano che è un ebreo. Va, insieme alla sua compagna Clara, a Marsiglia dove la polizia, riscoprendo la sua situazione di prima della guerra, rifiuta di rilasciargli qualsiasi certificazione. Paradossalmente, saranno proprio le autorità militari a obbligare le autorità civili a cambiare opinione in favore di questo “servitore della Francia”, tanto più “meritevole”, ai loro occhi, perché non era la sua patria.
[8] Bisogna notare che questa analisi, simile a quella dei trotskisti, non ha mai portato la Frazione a chiamare alla “difesa dell'URSS”. Sin dagli inizi degli anni ‘30, e gli avvenimenti di Spagna hanno perfettamente illustrato questa posizione, la Frazione considerava lo Stato “sovietico” come uno dei peggior nemici del proletariato.
[9] Va sottolineato che, nonostante i passi falsi di Vercesi, Marc lo ha sempre tenuto in grande stima personale. Questa stima si estendeva, inoltre, a tutti i membri della Fazione Italiana, di cui parlava sempre nei termini più calorosi. Bisogna averlo sentito parlare di questi militanti, quasi tutti operai, il Piccino, Tulio, Stefanini, di cui ha condiviso la lotta nelle ore più buie di questo secolo, per misurare l’attaccamento che provava per loro.
[10] Gli articoli di Internationalisme pubblicati nella Rivista Internazionale sono i seguenti:
n°21, 2° trim. 1980: Internationalisme 1952: The evolution of capitalism and the new perspective [26] in inglese e L’évolution du capitalisme et la nouvelle perspective - 1952 Internationalisme [27] in francese.
n°32, l° trim. 1983: The task of the hour: formation of the party or formation of cadres [28] in inglese e La tache de l'heure formation du parti ou formation des cadres. Internationalisme (août-1946) [29] in francese.
n°33, 2° trim. 1983: Against the concept of the "brilliant leader" [30] in inglese e Problèmes actuels du mouvement ouvrier - Extraits d'Internationalisme n°25 (août-1947) - La conception du chef génial [31] in francese
n°34, 3° trim. 1983 : Republication: Current problems of the workers' movement - Internationalisme (August 1947) [32] in inglese e Problèmes actuels du mouvement ouvrier (Internationalisme n°25 août-1947) - Contre la conception de la discipline du PCI [33] in francese.
n°36, l° trim. 1984: The Second Congress of the Internationalist Communist Party [34] in inglese e Le deuxième congres du parti communiste internationaliste (Internationalisme n°36, juillet 1948) [35] in francese.
N°59, 4° trimestre 1989 : 50 years ago: The real causes of the Second World War [13] in inglese e Il y a 50 ans : les véritables causes de la 2eme guerre mondiale [14] in lingua francese, dove è riprodotto anche il Manifesto de L’Etincelle del gennaio 1945;
n°61, 2° trim. 1990: The Russian Experience: Private Property and Collective Property [36] in inglese
n°25, 2° trim, 1981: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 1) [37] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (1ère partie) [38] in francse ;
n°27, 4° trim. 1981: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 2) [39] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (2ème partie) [40] in francese ;
n°28, 1° trim. 1982: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 3) [41] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (3ème partie) [42] in francese ;
n°30, 3° trim. 1982: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 4) [43] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (4ème partie) [44] in francese.
[11] Questa stessa preoccupazione di stabilire dei criteri precisi nella convocazione delle conferenze dei gruppi comunisti è stata manifestata dalla CCI contro la vaghezza in cui indulgeva il PCInt/Battaglia Comunista all’epoca della 1a conferenza del maggio 1977. Vedi a questo riguardo nella Rivista Internazionale i seguenti articoli:
n°10, 3° trim. 1977: International Conference called by the PCI (Battaglia Comunista) [45] in inglese e Rencontre internationale convoquée par le P.C.I. "Battaglia Comunista" mai 1977 [46] in francese;
n°13, 2° trim. 1978: Reply to the Internationalist Communist Party (Battaglia Comunista) [47] in inglese e Réponse au P.C. Internazionalista "Battagua Comunista" [48] in francese;
n°17, 2° trim. 1979: Second International Conference [49] in inglese e 2eme conférence internationale [50] in francese;
n°22, 3° trim. 1980 : Sectarianism, an inheritance from the counter-revolution that must be transcended [51] in inglese e Le sectarisme, un héritage de la contre- révolution à dépassé [52] in francese;
n°40, 1° trim. 1985: The Constitution of the IBRP: An Opportunist Bluff, Part 1 [53] in inglese e La constitution du BIPR : un bluff opportuniste – 1° partie [54] in francese;
n°41, 2° trim. 1985: The Constitution of the IBRP: An Opportunist Bluff, Part 2 [55] in inglese e La constitution du BIPR : un bluff opportuniste – 2° partie [56] in francese;
n°53, 2° trim. 1988: 20 years since May 68: Evolution of the political milieu (1st part: 1968-77) [57] in inglese e Vingt ans depuis mai1968 : évolution du milieu prolétarien (1° partie) (1968-1977) [58] in francese;
n°54, 3° trim. 1988: 20 years since 1968: The evolution of the proletarian political milieu, II [59] in inglese e L’évolution du milieu politique depuis 1968 (2eme partie) [60] in francese ;
n°55, 4° trim. 1988: Decantation of the PPM and the Oscillations of the IBRP [61] in inglese e Décantation du milieu politique prolétarien et oscillations du BIPR [62] in francese ;
n°56, 1° trim. 1989: 20 years since 1968: The evolution of the proletarian political milieu, III [63] in inglese e Vingt ans depuis 1968: l'évolution du milieu politique depuis 1968 (3ème partie) [64] in francese.
[12] Si manifesta in questa occasione uno dei tratti del suo carattere che non ha niente a che vedere con quello di un “teorico da salotto”: presente in tutti i luoghi in cui si svolgeva il movimento, nelle discussioni ma anche nelle manifestazioni, trascorse una notte intera dietro una barricata ben deciso, con un gruppo di giovani elementi, a “resistere fino al mattino” contro la polizia ... proprio come aveva fatto la capretta del signor Seguin di fronte al lupo nel racconto di Alphonse Daudet.
Con la rapida successione nel corso degli ultimi due anni di avvenimenti di considerevole importanza storica (crollo del blocco dell'est, guerra del Golfo), con la constatazione dell'entrata del capitalismo nella fase ultima della sua decadenza, la fase della decomposizione[2], è importante che i rivoluzionari facciano la maggiore chiarezza possibile sull'importanza del militarismo nelle nuove condizioni del mondo d’oggi.
1) Contrariamente alla corrente bordighista, la CCI non ha mai considerato il marxismo come una "dottrina invariante", ma come un pensiero vivo per il quale ogni avvenimento storico importante è occasione di un arricchimento. In effetti tali avvenimenti permettono o di confermare il quadro e le analisi sviluppate anteriormente, o di rimettere in discussione alcune di esse, imponendo uno sforzo di riflessione per riaggiustare degli schemi prima validi ma ormai superati, oppure, apertamente, di elaborarne di nuovi, adatti a rendere conto della nuova realtà. Le organizzazioni ed i militanti rivoluzionari hanno la responsabilità specifica e fondamentale di compiere questo lavoro di riflessione, avendo cura, come fecero i nostri predecessori, di avanzare allo stesso tempo con prudenza e audacia:
In particolare, di fronte a tali avvenimenti storici, è importante che i rivoluzionari sappiano distinguere le analisi che sono diventate superate da quelle che restano valide, per evitare un doppio pericolo: o sclerotizzarsi o “gettare il bambino con l’acqua sporca”. Più precisamente, è necessario mettere bene in evidenza ciò che in queste analisi è essenziale, fondamentale, e conserva la sua validità nelle différenti circostanze storiche, rispetto a ciò che è secondario e occasionale. In breve, bisogna saper fare la differenza tra i fatti essenziali di una realtà e le sue différenti manifestazioni particolari.
2) Da un anno la situazione mondiale ha conosciuto sconvolgimenti notevoli che hanno modificato sensibilmente la fisionomia del mondo quale era uscito dalla seconda guerra imperialista. La CCI ha seguito con attenzione questi avvenimenti per capire il loro significato storico e per esaminare in quale misura essi sconfessavano o confermavano il quadro di analisi valido prima.
Per noi questi avvenimenti storici (crollo dello stalinismo, scomparsa del blocco dell'est, smembramento del blocco dell'ovest), se non potevano essere previsti nelle loro spécificità, si integravano perfettamente nel quadro di analisi e di comprensione del periodo storico presente elaborato anteriormente dalla CCI: la fase di decomposizione.
Le stesso vale par la guerra del Golfo Persico. Ma l'importanza di questi avvenimenti dà alla nostra organizzazione la responsabilità di capire l'impatto e la ripercussioni delle caratteristiche della fase di decomposizione sulla questione del militarismo e delle guerra, di esaminare come questa questione si pone in questo nuovo périodo storico.
Il militarismo nella decadenza del capitalismo
3) II militarismo e la guerra costituiscono un dato fondamentale nella vita del capitalismo dall'entrata di questo sistema nel suo périodo di decadenza. Da quando il mercato mondiale è stato completamente costituito, all'inizio di questo secolo, da che il mondo è stato divise in riserve di caccia coloniali! e commerciali per le différenti nazioni capitaliste avanzate, l'intensificazione e lo scatenamento della concorrenza commerciale tra queste nazioni non hanno potuto trovare altro sbocco che un aumento delle tensioni militari, nella costituzione di arsenali sempre più imponenti e nella sottomissione crescente della vita economica e sociale alle nécessita della sfera militare. Nei fatti il militarismo e la guerra imperialista costituiscono la manifestazione centrale dell'entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza (è proprio lo scoppio della prima guerra mondiale che segna l'inizio di questo periodo), a un punto tale che per i rivoluzio-nari di allora 1'imperialismo e il capitalismo decadente diventano sinonimi. Non essendo 1'imperialismo una manifestazione particolare del capitalismo ma il suo modo di vita per tutto il nuovo périodo storico, non sono questi o quegli Stati ad essere imperialisti, ma tutti gli Stati, come diceva Rosa Luxemburg. In realtà, se 1'imperialismo, il militarismo e la guerra si identificano a tal punto con il periodo di decadenza, è perché quest'ultima corrisponde proprio al fatto che i rapporti di produzione capitalisti sono diventati un freno allo sviluppo delle forze produttive: il carattere perfettamente irrazionale, sul piano economico globale, delle spese militari e della guerra non fa che tradurre l'aberrazione che costituisce il mantenere questi rapporti di produzione. In particolare, l'autodistruzione permanente e crescente che risulta da questo modo di vita costituisce un simbolo dell'agonia di questo sistema, rivela chiaramente che esso è condannato dalla storia.
Capitalismo di Stato e blocchi imperialisti
4) II capitalismo, nella sua decadenza, con-frontato ad una situazione in cui la guerra è onnipresente nella vita della società, ha sviluppato due fenomeni che costituiscono le maggiori caratteristiche di questo periodo: il capitalismo di Stato e i blocchi imperialisti. Il capitalismo di Stato, la cui prima significativa manifestazione data dalla prima guerra mondiale, risponde alla necessita per ogni paese, in vista del confronto con le altre nazioni, di ottenere il minimo di disciplina al suo interno da parte dei différenti settori della società, di ridurre al massimo gli scontri tra le classi ma anche tra frazioni rivali della classe dominante, al fine di mobilitare e controllare l'insieme del suo potenziale economico. Allo stesso modo, la costituzione dei blocchi imperialisti corrisponde al bisogno di imporre una disciplina simile tra le differenti borghesie nazionali per limitare i loro reciproci antagonismi e di riunirle per lo scontro supremo tra i due campi militari. E man mano che il capitalismo è sprofondato nella sua decadenza e crisi storica, queste due caratteristiche non hanno fatto che rin-forzarsi.
In particolare, il capitalismo di Stato esteso a tutto un blocco imperialista, quale si è sviluppato all'indomani della seconda guerra mondiale, traduceva l'aggravarsi di questi due fenomeni. Tutto questo, il capitalismo di stato e i blocchi imperialisti, e la congiunzione tra i due, non porta a nessuna "pacificazione" dei rapporti tra différenti settori dei capitale e ancor meno ad un "rafforzamento" di questo. Al contrario, essi non sono che dei mezzi che secerne la società capitalista per tentare di resistere ad una crescente tendenza al suo disfacimento[3].
L’imperialismo nella fase di decomposizione del capitalismo
5) La decomposizione générale della società costituisce la fase ultima dei periodo di decadenza del capitalismo. In questo senso, in questa fase non sono rimesse in causa le caratteristiche proprie dei periodo di decadenza: la crisi storica dell'economia capitalista, il capitalismo di Stato, il militarismo e l'imperialismo. Di più, nella misura in cui la decomposizione si presenta come il culmine delle contraddizioni nelle quali si dibatte in modo crescente il capitalismo dall'inizio della sua decadenza, le caratteristiche proprie di questo periodo si trovano, nella fase ultima, ancora più accentuate:
Lo stesso vale per il militarismo e l'imperialismo, come si è potuto già costatare negli anni '80, durante i quali il fenomeno della decomposizione è apparso e si è sviluppato. E la scomparsa della divisione del mondo tra le due costellazioni imperialiste risultante dal crollo dei blocco dell'est non può rimettere in discussione tale realtà. Infatti non è la costituzione dei blocchi imperialisti che dà origine al militarismo e all'imperialismo. E' vero il contrario: la costituzione dei blocchi non è che la conseguenza estrema (che ad un certo momento può diventare un'aggravante), una manifestazione dell'infognamento del capitalismo decadente nel militarismo e la guerra. In un certo senso la formazione dei blocchi rispetto all'imperialismo è come lo stalinismo rispetto al capitalismo di Stato. Come la fine dello stalinismo non rimette in causa la tendenza storica al capitalismo di Stato, la scomparsa attuale dei blocchi imperialisti non implica la minima rimessa in causa della presa dell'imperialismo sulla vita della società. La differenza fondamentale risiede nel fatto che se la fine dello stalinismo corrisponde all'eliminazione di una forma particolarmente aberrante del capitalismo di Stato, la fine dei blocchi non fa che aprire la porta ad una forma ancora più barbara, aberrante e caotica dell'imperialismo.
6) Questa analisi era già stata elaborata dalla CCI al momento del crollo del blocco dell'est:
"Nel. periodo di decadenza del capitalismo, TUTTI gli Stati sono imperialisti e prendono disposizioni per assumere questa realtà: economia di guerra, armamenti, ecc. E' perciò che 1'aggravamento delle convulsioni dell'economia mondiale non potrà che attizzare le lacerazioni tra i différenti Stati, anche e sempre più sul piano militare. La differenza con il periodo appena terminato è che questi scontri e antagonismi, che prima erano contenuti e utilizzati dai due grandi blocchi imperialisti, adesso passeranno in primo piano. La scomparsa del gendarme imperialista russo, e quella che sta per avvenire per il gendarme americano di fronte ai suoi partner di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità locali. Queste rivalità e questi scontri non possono, all'ora attuale, degenerare in un conflitto mondiale (anche supponendo che il proletariato non sia più capace di opporsi). Per contro, a causa della scomparsa della disciplina imposta dai blocchi, questi conflitti rischiano di crescere in numero e violenza, specie nei paesi dove il proletariato è più debole" (Febbraio 1990, vedi Rivista Internazionale n.14)
"II peggioramento della crisi mondiale dell'economia capitalista va necessariamente a pro-vocare un aumento delle contraddizioni interne della classe borghese. Queste contraddizioni, come per il passato, si manifesteranno sul piano degli antagonismi guerrieri: nel capitalismo decadente la guerra commerciale non può che sfociare nella fuga in avanti della guerra armata. In questo senso, le illusioni pacifiste che potrebbero svilupparsi in seguito alle "più calde" relazioni tra l'URSS e gli Stati Uniti devono essere combattute in modo risoluto: gli scontri militari tra Stati non sono sul punto di scomparire. (...) Ciò che cambia rispetto al passato è che questi antagonismi militari non prendono più all'ora attuale la forma di un confronto tra i due blocchi imperialisti. .." (“Risoluzione sulla situazione internazionale”, giugno '90, su Revue Internationale n°63)
Questa analisi è stata ampiamente confermata dalla guerra nel Golfo persico.
La guerra del Golfo: prima manifestazione della nuova situazione mondiale
7) Questa guerra:
In questo senso, la guerra del Golfo non è, come afferma la maggior parte dei milieu politico proletario, una "guerra per il prezzo del petrolio". E non la si potrebbe ridurre neanche ad una "guerra per il controllo dei Medio Oriente", anche se questa regione è cosi importante. Inoltre, l'operazione militare nel Golfo non cerca solo di prevenire il caos che si sviluppa nel "Terzo Mondo". Naturalmente tutti questi elementi possono giocare un ruolo. E' vero, infatti, che la maggioranza dei paesi occidentali è interessata ad un petrolio a basso prezzo (contrariamente all'URSS che, tuttavia, partecipa pienamente - relativamente ai suoi ridotti mezzi - all'azione contro l’Iraq), ma non è con i mezzi che sono stati impiegati (e che hanno fatto salire il prezzo del petrolio ben al di là delle esigenze dell’Iraq) che si otterrà un tale abbassamento dei prezzi. E' vero anche che il controllo dei campi petroliferi da parte degli Stati Uniti presenta per questo paese un interesse incon-testabile e rafforza la sua posizione di fronte ai rivali commerciali (Europa dell'ovest e Giappone), ma perché questi stessi rivali li sostengono in questa impresa? Allo stesso modo è chiaro che l'URSS è interessata alla stabilizzazione di una regione vicina alle sue province dell'Asia centrale e del Caucaso già particolarmente agitate. Ma il caos che si sviluppa in URSS non interessa solo questo paese; i paesi dell'Europa centrale e dell'Europa occidentale sono particolarmente interessati a ciò che avviene nella zona dell'antico blocco dell'est. Più in generale, se i paesi avanzati si preoccupano del caos che si sviluppa in certe regioni del "Terzo Mondo" è perché essi stessi si ritrovano fragili di fronte a questo caos, a causa della nuova situazione nella quale si trova il mondo oggi.
8) In realtà è fondamentalmente il caos regnante già in una buona parte del mondo e che minaccia ora i grandi paesi sviluppati e i loro reciproci rapporti che è alla base dell'operazione "Scudo nel deserto" e dei suoi annessi. In effetti, con la scomparsa della divisione del mondo tra i due blocchi imperialisti è venuto meno uno dei fattori essenziali che manteneva una certa coesione tra questi Stati. La tendenza specifica del nuovo periodo è l'"ognuno per se" e, eventualmente, per gli Stati più potenti, a porre la loro candidatura alla "leadership" di un nuovo blocco. Ma nello stesso tempo, la borghesia di questi paesi, misurando i pericoli che comporta una tale situazione, cerca di reagire di fronte a questa tendenza. Con la nuova scalata nel caos generale che comportava l'avventura irakena (favorita di nascosto dall'atteggiamento "conciliante" manifestato dagli Stati Uniti prima del 2 agosto nei riguardi dell'Iraq con il fine di "dare l'esempio" in seguito), la "comunità internazionale", come la chiamano i mass-media e che non si limita all'antico blocco dell'ovest visto che oggi ne fa parte anche l'URSS, non aveva altre risorse che piazzarsi dietro l'autorità della prima potenza mondiale, e particolarmente della sua forza militare, la sola capace di andare a fare la polizia in qualsiasi parte del mondo. Ciò che mostra dunque la guerra del Golfo è che, di fronte alla tendenza al caos generalizzato proprio della fase di decomposizione, e alla quale il crollo del blocco dell'est ha dato un colpo di acceleratore considerevole, non c'è altra uscita per il capitalismo, nel suo tentativo di tenere assieme le differenti parti di un corpo che tende a smembrarsi, che l'imposizione del pugno di ferro che costituisce la forza delle armi[5]. In questo senso, i mezzi stessi che esso utilizza per tentare di contenere un caos sempre più mortale sono un fattore di aggravamento considerevole della barbarie guerriera nella quale è caduto il capitalismo.
La ricostruzione di nuovi blocchi non è all’ordine del giorno
9) Mentre la formazione dei blocchi si presenta storicamente come la conseguenza dello sviluppo del militarismo e dell'imperialismo, l'acuirsi di questi due ultimi nella fase attuale di vita del capitalismo costituisce, paradossalmente, un freno alla riformazione di un nuovo sistema di blocchi che prendano il posto di quelli che sono scomparsi. La storia (soprattutto quella del secondo dopoguerra) ha messo in evidenza il fatto che la scomparsa di un blocco imperialista (per esempio l'"Asse") mette all'ordine del giorno lo smembramento dell'altro (gli “alleati") ma anche la ricostituzione di una nuova coppia di blocchi antagonisti (Est ed Ovest). E' perciò che la presente situazione porta con se, sotto l'impulso della crisi e dell'acuirsi delle tensioni militari, una tendenza verso la riformazione di due nuovi blocchi imperialisti. Tuttavia, il fatto stesso che la forza delle armi sia divenuta - come lo conferma la guerra del Golfo- un fattore preponderante nel tentativo di limitare il caos mondiale da parte dei paesi avanzati costituisce un freno considerevole a questa tendenza. In effetti, questa stessa guerra ha sottolineato la superiorità soverchiante (per non dire di più) della potenza militare degli Stati Uniti nei confronti di quella degli altri paesi sviluppati: in realtà, questa potenza militare, da sola, è oggi almeno equivalente a quella di tutti gli altri paesi del globo riuniti. E un tale squilibrio non è colmabile subito, non esiste alcun paese in grado, in tempi relativamente brevi, di opporre a quello degli USA un potenziale militare che gli permetta di pretendere il posto guida di un blocco che possa rivaleggiare con quello diretto da questa potenza. E su tempi più lunghi, la lista dei candidati a un tale posto è estremamente limitata.
10) In effetti, è fuori questione, per esempio, che il capo del blocco appena affondato, l'URSS, possa un giorno riconquistare tale posto. In realtà, il fatto che questo paese abbia giocato tale ruolo nel passato costituisce in se una sorta di aberrazione, un accidente della storia. L'URSS per il suo considerevole arretramento su tutti i piani (economico, ma anche politico e culturale), non disponeva di attributi che gli permettessero di costituire "naturalmente" intorno a se un blocco imperialista[6]. Se essa ha potuto accedere a tale rango, è stato "grazie" a Hitler, che l'ha fatta entrare nella guerra nel 1941, e degli "alleati" che, a Yalta, l'hanno ricompensata per aver costituito un secondo fronte contro la Germania e l'hanno rimborsata del tributo di 20 milioni di morti pagati dalla sua popolazione sotto la forma della piena disposizione dei paesi dell'Europa centrale che le sue truppe avevano occupato durante la ritirata tedesca[7]. D'altronde è stato proprio perché non poteva tenere questo ruolo di testa che l'URSS è stata costretta, per conservare il suo impero, ad imporre al suo apparato produttivo un'economia di guerra che l'ha completamente rovinata. Il crollo spettacolare del blocco dell'Est, oltre che sanzionare il fallimento di una forma di capitalismo di Stato particolarmente aberrante (per il fatto che non proveniva da uno sviluppo "organico" del capitale, ma risultava dall'eliminazione della borghesia classica da parte della rivoluzione del 1917), non poteva che tradurre la rivincita della storia nei confronti di questa aberrazione di partenza. E' per questa ragione che mai più l'URSS potrà giocare, malgrado i suoi arsenali considerevoli, un ruolo di primo piano sulla scena internazionale. E ciò tanto più che la dinamica di smembramento del suo impero esterno non può che proseguire al suo interno, spogliandola in fin dei conti dei territori che essa aveva colonizzato nel corso dei secoli passati. Per aver tentato di giocare un ruolo di potenza mondiale che era al di sopra delle sue forze, la Russia è condannata a ritornare al posto di terzo ordine che le apparteneva prima di Pietro il Grande.
I due soli candidati potenziali al titolo di capo blocco, il Giappone e la Germania, non hanno essi stessi la capacità, in tempi prevedibili, d'assumere un tale ruolo. Da parte sua, il Giappone, malgrado la sua potenza industriale e il suo dinamismo economico, non potrà mai pretendere di raggiungere un tale rango per la sua posizione geografica decentrata rispetto alla regione che concentra la più forte densità industriale: l'Europa Occidentale. Quanto alla Germania, il solo paese che potrebbe eventualmente tener un ruolo che le è appartenuto già per il passato, la sua potenza .militare attuale (non dispone neanche dell'arma atomica, il che è tutto dire) non le permette di pensare di rivaleggiare con gli Stati Uniti su questo terreno per molto tempo. E ciò tanto più che man mano che il capitalismo s'affossa nella sua decadenza, è sempre più indispensabile per il capo del blocco disporre di una supériorità militare massiccia sui suoi vassalli per poter mantenere il suo rango.
11) All'inizio del periodo di decadenza, e fino ai primi anni della seconda guerra mondiale, poteva esistere una certa "parità" tra differenti! partner di una coalizione imperialista, benché il bisogno di un capo gruppo si sia sempre fatto sentire. Per esempio, nella prima guerra mondiale, non esisteva, in termini di potenza militare operativa, una fondamentale disparità tra i tre “vincitori”: Gran Bretagna, Francia e USA. Questa situazione era già cambiata in modo molto importante nel corso della seconda guerra, dove i "vincitori" erano posti sotto la dipendenza stretta degli Stati Uniti che manifestavano una considerevole supériorità sui loro "alleati". Essa si accentuava ulteriormente durante il periodo di "guerra fredda" (appena terminato), dove ogni capo blocco, Stati Uniti e URSS, soprattutto per il controllo degli armamenti nucleari più sofisticati, disponeva di una supériorità che soverchiava completamente quella degli altri paesi del proprio blocco. Una tale tendenza si spiega con il fatto che, con l'affossamento del capitalismo nella sua decadenza:
Questo ultimo fattore è come il capitalismo di Stato: più le différenti frazioni di una borghesia nazionale tendono ad affrontarsi tra di loro, con 1'aggravamento della crisi che accresce la loro concorrenza, e più lo Stato deve rinforzarsi per poter esercitare la sua autorità su di esse. Allo stesso modo, più la crisi storica, e la sua forma aperta, produce danni, più un capo blocco deve essere forte per contenere e controllare le tendenze al sue smembramento tra le différenti frazioni nazionali che lo compongono. Ed è chiaro che nella fase ultima della decadenza, quella della decomposizione, un tale fenomeno non può che aggravarsi ancora fino a dimensioni considèrevoli.
E' per questo insieme di ragioni, e soprattutto per l'ultima, che la ricostituzione di una nuova coppia di blocchi imperialisti non solo non è possibile prima di molti anni, ma può benissimo non aver mai più luogo, intervenendo prima la rivoluzione o la distruzione dell’umanità. Nel nuovo périodo storico in cui siamo entrati, e gli avvenimenti del Golfo lo confermano, il mondo si présenta con un carattere di instabilità, dove regna la tendenza al "ciascuno per se", dove le alleanze tra Stati non avranno più il carattere di stabilità che caratterizzava i blocchi, ma saranno dettati dalla nécessità del momento. Un mondo di disordine cruento, di caos sanguinoso nel quale il gendarme americano tenterà di far regnare un minimo di ordine con l'uso sempre più massiccio e brutale della propria potenza militare.
12) II fatto che nel prossimo periodo il mondo non sia più diviso in blocchi imperialisti, che una sola potenza - gli USA - eserciti la "leadership" mondiale, non significa per nulla che oggi sia corretta la tesi del "super-impérialismo" (o "ultraimperialismo") quale fu sviluppata da Kautsky nel corso della prima guerra mondiale. Questa tesi era stata elaborata prima della guerra dalla corrente opportunista che si sviluppava nella Socialdemocrazia. Essa trovava la sua radice nella visione gradualista e riformista secondo cui le con-traddizioni (tra classi e tra nazioni) nel seno della sociétà capitalista erano destinate ad attenuarsi sino a scomparire. La tesi di Kautsky supponeva che i différenti settori del capitale finanziario internazionale fossero capaci di unificarsi per stabilire una dominazione stabile e pacifica sull'insieme del mondo. Questa tesi, che si presentava come "marxista", fu naturalmente combattuta da tutti i rivoluzionari, ed in particolare da Lenin (vedi in particolare "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo"), che mise in evidenza che un capitalismo senza sfruttamento e concorrenza tra capitali non è più capitalismo. E' chiaro che questa posizione rivoluzionaria resta del tutto valida oggi.
Allo stesso modo, la nostra analisi non può essere confusa con quella sviluppata da Chaulieu (Castoriadis), uno dei principali animatori del vecchio gruppo francese "Socialisme ou barbarie", che aveva almeno il vantaggio di essere esplicita nel rigetto del marxismo. Secondo questa analisi il mondo si sarebbe incamminato verso un "Terzo sistema", non nell'armonia cara ai riformisti, ma attraverso brutali convulsioni. Ogni guerra mondiale conduce all'eliminazione di una grande potenza. La terza guerra mondiale era chiamata a non lasciare in piazza che un solo blocco che avrebbe fatto regnare il suo ordine su un mondo dove le crisi economiche sarebbero scomparse e nel quale lo sfruttamento capitalista della forza lavoro sarebbe stato rimpiazzato da una sorta di schiavitù, un regno dei "dominanti" sui "dominati".
Il mondo d'oggi, dopo il crollo del blocco dell'est e quale si présenta di fronte alla decomposizione, non resta meno capitalista. Crisi economica insolubile e sempre più profonda, sfruttamento sempre più féroce della forza lavoro, dittatura della legge del valore, inasprimento della concorrenza tra capitali e degli antagonismi imperialisti tra nazioni, regno del militarismo senza freni, distruzioni massicce e massacri a catena: ecco la sola realtà che esso può offrire. E come unica prospettiva la distruzione dell'umanità.
13) Più che mai dunque la questione della guerra resta centrale nella vita del capitalismo e costituisce, di conseguenza, un elemento fondamentale per la classe operaia. L'importanza di questa questione non è evidentemente nuova. Essa era già centrale sin dalla prima guerra mondiale (come messo in evidenza dai congressi internazionali di Stoccarda nel 1907 e di Basilea nel 1912). Essa diventa ancora più decisiva, evidentemente, nel corso del primo macello imperialista, come messo in evidenza dall'azione di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Liebcnecht, nonché dalla rivoluzione in Russia e Germania. Essa conserva tutta la sua acutezza tra le due guerre mondiali, in particolare durante la guerra di Spagna, senza parlare, evidentemente, dell'importanza che essa riveste nel corso del più grande olocausto di questo secolo, tra il 1939 e il 1945. Essa ha conservato infine tutta la sua importanza nel corso delle differenti guerre di "liberazione nazionale" dopo il 1945, momenti dello scontro tra i due blocchi imperialisti. Nei fatti, dopo l'inizio del secolo, la guerra è stata la questione più decisiva che abbia affrontato il proletariato e le sue minoranze rivoluzionarie, molto prima della questione sindacale o parlamentare, per esempio. E non poteva che essere cosi nella misura in cui la guerra costituisce la forma più concentrata della barbarie del capitalismo décadente, quella che esprime la sua agonia e la minaccia che fa pesare sulla sopravvivenza dell'umanità.
Nel periodo attuale in cui, più ancora che nei decenni passati, la barbarie guerriera sarà un dato permanente e onnipresente della situazione mondiale, implicando in modo crescente i paesi sviluppati (nei soli limiti che potrà fissarle il proletariato di questi paesi), la questione della guerra è ancora più essenziale per la classe operaia. E' noto che la CCI ha messo in evidenza da molto tempo che, contrariamente al passato, lo sviluppo di una prossima ondata rivoluzionaria non verrà fuori dalla guerra, ma dall'aggravamento della crisi economica. Questa analisi resta del tutto valida: le mobilitazioni operaie, i punti di partenza dei grandi scontri di classe, proverranno dagli attacchi economici. Nello stesso modo, sul piano della presa di coscienza, 1'aggravamento della crisi sarà un fattore fondamentale rivelando il fallimento storico del modo di produzione capitalista. Ma, proprio su questo piano della presa di coscienza, la questione della guerra è chiamata, ancora una volta, a giocare un ruolo di prim'ordine:
14) E' vero che la guerra può essere utilizzata contro la classe operaia molto più facilmente che la stessa crisi e gli attacchi economici perché:
D'altronde è ciò che è successo finora con la guerra del Golfo. Ma questo tipo di impatto non può che essere limitato nel tempo. Più a lungo termine:
la tendenza non potrà che rovesciarsi. E tocca evidentemente ai rivoluzionari essere al primo posto di questa presa di coscienza: la loro responsabilità sarà sempre più decisiva.
15) Nell'attuale situazione storica, l'intervento dei comunisti all'interno della classe è determinato, oltre che dall'aggravarsi considerevole della crisi economica e degli attacchi che ne risultano contro l'insieme del proletariato, da:
E’ importante dunque che questa questione figuri in permanenza in primo piano nella propaganda dei rivoluzionari. E nei periodi, come quelli attuali, in cui questa questione si trova nei primi piani dell'attualità internazionale, è importante che essi mettano a profitto la particolare sensibilizzazione degli operai a questo riguardo, dandovi una priorità ed una insistenza tutta particolare.
In particolare, le organizzazioni rivoluzionarie avranno il dovere di vegliare e:
CCI, 4 Ottobre 1990
[1] Vedi “Guerra, militarismo e blocchi imperialisti” nella Revue internationale n°52 e n°53.
[2] Per 1'analisi della CCI sulla questione della decomposizione, vedi Rivista Internazionale n°14.
[3] E' tuttavia importante sottolineare una differenza notevole tra capitalismo di Stato e blocchi imperialisti. Il primo non può essere rimesso in causa dai conflitti tra le diverse frazioni della classe capitalista (altrimenti è la guerra civile, che può caratterizzare certe zone arretrate del capitalismo, ma non i suoi settori più avanzati): come regola générale è lo Stato, rappresentante dell'insieme del capitale nazionale, che riesce ad imporre la sua autorità alle diverse componenti di quest'ultimo. I blocchi imperialisti, invece, non presentano lo stesso carattere di perennità. In primo luogo essi non si costituiscono che in vista della guerra mondiale: in un periodo in cui questa non è momentanéamente all'ordine del giorno (come nel corso degli anni '20), essi possono anche scomparire. In seconde luogo non esiste, per ogni Stato, alcuna "predestinazione" definitiva per questo o quel blocco: è a seconda delle circostanze che i blocchi si costituiscono, in funzione di criteri economici, geografici, militari, politici, ecc. Perciò la storia presenta numerosi esempi di Stati che hanno cambiato blocco in seguito alla modifica di uno di questi fattori. Questa differenza tra lo Stato capitalista e i blocchi non ha niente di misterioso. Essa corrisponde al fatto che il livello più alto di unità al quale la borghesia possa pervenire è quello della nazione, nella misura in cui lo Stato nazionale è per eccellenza lo strumento della difesa dei suoi interessi (mantenimento dell’”ordine”, commesse, politica monetaria, protezione doganale, ecc.). E’ perciò che un’alleanza in seno a un blocco imperialista non è altro che un conglomerato di interessi nazionali fondamentalmente antagonisti, destinato a preservare questi interessi nazionali nella giungla internazionale. Decidendo di allinearsi ad un blocco piuttosto che ad un altro, una borghesia non ha altra preoccupazione che garantire i suoi interessi nazionali. In fin dei conti anche se possiamo considerare il capitalismo come un’entità globale, bisogna sempre ricordare che esso esiste, concretamente, sotto forma di capitali concorrenti e rivali.
[4] In realtà è lo stesso modo di produzione capitalista che, nella sua decadenza e ancor più nella sua fase di decomposizione, costituisce un’aberrazione dal punto di vista degli interessi dell’umanità. Ma in questa agonia barbara del capitalismo alcune sue forme, come lo stalinismo, prendendo origine da circostanze storiche particolari, comportano delle caratteristiche che le rendono ancora più vulnerabili e le condannano a scomparire prima che sia l’insieme del sistema ad essere distrutto dalla rivoluzione proletaria o in seguito alla distruzione dell’umanità.
[5] In questo senso, il modo in cui sarà garantito l’”ordine” del mondo nel nuovo periodo tenderà sempre più a somigliare al modo in cui l’URSS manteneva l’ordine nel suo vecchio blocco: con il terrore e la forza delle armi. Nel periodo di decomposizione, e con l’aggravarsi delle convulsioni economiche del capitale in agonia, sono le forme più brutali e barbare dei rapporti tra Stati che tenderanno a diventare la regola per tutti i paesi del mondo.
[6] Nei fatti, le ragioni per cui la Russia non poteva rappresentare una locomotiva per la rivoluzione mondiale (è per questa ragione che i rivoluzionari come Lenin e Trotsky aspettavano la rivoluzione in Germania perché essa prendesse a rimorchio la rivoluzione russa), erano le stesse che ne facevano un candidato del tutto inadatto al ruolo di testa di blocco.
[7] Un’altra ragione per cui gli alleati hanno dato all’URSS una piena disponibilità dei paesi dell’Europa centrale risiede nel fatto che essi contavano su questa potenza per farne la “polizia” contro il proletariato di questa regione. La storia ha mostrato (a Varsavia, precisamente) come questa fiducia era meritata.
Nella Ruhr, nel cuore della Germania, più di 80.000 lavoratori hanno invaso le strade e bloccato le strade per protestare contro l'annuncio di licenziamenti nelle miniere. Il 21 e 22 settembre, al di fuori di qualunque consegna sindacale (il che è significativo in un paese apprezzato per la "disciplina" dei "partner sociali"), i minatori della regione di Dortmund hanno scioperato spontaneamente, trascinando con sé le loro famiglie, i loro bambini, dei disoccupati e dei lavoratori di altri settori, chiamati a manifestare la loro solidarietà.
Quando le notizie delle dimostrazioni sono state rese note dai giornali, una gran quantità di persone sono scese in piazza per esprimere il loro sostegno e la loro solidarietà. Ma la borghesia era pronta a questa esplosione di collera e i sindacati si erano ritagliati dei margini di trattativa come ad esempio la riduzione del numero di licenziamenti.
Ma la cosa sorprendente è che i minatori, dopo un paio di giorni di lotta, sono tornati al lavoro. Questo ritorno al lavoro, lungi dal significare una caduta di combattività, esprime piuttosto sia il fatto che i lavoratori stanno ancora cercando di capire quanto profondi siano gli attacchi che stanno subendo ed anche un segno di maturità nella misura in cui hanno voluto evitare di bruciare le loro risorse in azioni inutili e ostinate.
Questo movimento esprime un passo avanti non solo a livello di combattività ma anche a livello di coscienza. Soprattutto in relazione alla riflessione sulla natura della crisi, sull'importanza centrale della questione sociale e della posizione del proletariato come classe nella società antagonista agli interessi del capitale. Possiamo così vedere come alcuni degli aspetti del riflusso della coscienza dei lavoratori in seguito al collasso del blocco dell'est cominciano visibilmente ad invertirsi.
Questo movimento, assieme alle notizie frammentarie ma insistenti su episodi di lotta di classe un pò ovunque nel mondo, conferma che siamo ormai entrati pienamente nella ripresa delle lotte, anche se molti sono i problemi che restano.
LA RIPRESA DELLA LOTTA DI CLASSE
Oggi più che mai la sola forza che può intervenire contro la catastrofe economica è la classe operaia. E' infatti la sola classe sociale capace di frantumare le barriere nazionali, settoriali e di categoria dell'"ordine capitalista". E' viceversa la divisione all'interno del proletariato, rafforzata dalla decomposizione attuale della società, a mantenere queste barriere, a lasciare campo libero alle misure "sociali" in tutte le direzioni prese nei vari paesi.
L'interesse della classe operaia, di tutti quelli che subiscono ovunque lo stesso sfruttamento e gli stessi attacchi da parte dello Stato capitalista, del governo, dei padroni, dei partiti e dei sindacati, è l'unità più ampia possibile del massimo numero di persone, nell'azione e nella riflessione, per trovare i mezzi per organizzarsi e per sviluppare una direzione nella lotta contro il capitalismo.
Il fatto che gli operai di Germania, dopo aver subito l'anno scorso per dei mesi le manovre sindacali, reagiscano adesso alla stangata che subiscono, è un segno del risveglio della combattività del proletariato internazionale. Questo avvenimento, il più significativo del momento, non è isolato. Nello stesso momento hanno luogo altre manifestazioni in Germania, tra le altre: 70.000 operai contro il piano di licenziamenti alla Mercedes, diverse decine di migliaia a Duisburg contro 10.000 licenziamenti nella metallurgia. In diversi paesi aumenta il numero di scioperi che, sebbene siano spesso canalizzati dai sindacati grandi e piccoli, mostrano tuttavia che è finita la passività. Quello che dobbiamo attenderci è una lenta e lunga serie di manifestazioni operaie, di scontri tra proletariato e borghesia, a livello internazionale.
La ripresa internazionale della lotta di classe nelle condizioni di oggi non è facile. Numerosi fattori contribuiscono a frenare e finanche ad impedire lo sviluppo della combattività e della coscienza del proletariato:
Questi ostacoli il proletariato li dovrà affrontare nello sviluppo stesso delle sue lotte. Il capitalismo mostra sempre più il fallimento generale ed irreversibile del proprio sistema. La brutale accelerazione della crisi, moltiplicando in poco tempo le sue conseguenze disastrose contro la classe operaia, ha certo sulle prime l'effetto di uno shock, ma costituisce anche un terreno favorevole ad una mobilitazione sul terreno di classe, intorno alla difesa degli interessi fondamentali del proletariato. L'intervento attivo delle organizzazioni rivoluzionarie, che sono parte attiva della lotta di classe e che difendono la prospettiva del comunismo, contribuirà poi a che la classe operaia trovi i mezzi per organizzare e orientare questo scontro nel senso dei suoi interessi e quindi nel senso degli interessi di tutta l'umanità.
LA FINE DEI "MIRACOLI"
Ormai da parecchio nessuno osa più parlare di "miracolo economico" nel cosiddetto terzo mondo visto il livello di miseria raggiunto in quest'area del mondo. Il continente africano è ormai praticamente quasi del tutto abbandonato a sé stesso. In Asia la vita umana vale meno di quella di un animale nella maggior parte delle regioni. Di anno in anno le carestie toccano regioni sempre più ampie, coinvolgendo decine di milioni di persone. In America latina epidemie di malattie che erano completamente scomparse stanno facendo stragi.
D'altra parte la prosperità e il benessere promessi, all'indomani del crollo del blocco dell'Est, proprio alle popolazioni di questi paesi sono ben lungi dall'arrivare. Di fatto le iniezioni di "capitalismo liberale" fatte allo stalinismo agonizzante non hanno salvato dal fallimento economico questa forma estrema di statalizzazione puramente capitalista che si è nascosta per sessanta anni dietro la menzogna di "socialismo" o di "comunismo". Anche lì la povertà aumenta in maniera vertiginosa e le condizioni di vita sono sempre più catastrofiche per l'immensa maggioranza della popolazione.
Anche nei paesi "sviluppati" i "miracoli economici" sono ormai finiti. La piaga della disoccupazione e gli attacchi alle condizioni di vita della classe operaia su tutti i fronti riporta brutalmente in primo piano la crisi economica. Mentre la propaganda del "capitalismo trionfante" sul "fallimento del comunismo" non cessa di martellare che non c'è "niente di meglio che il capitalismo", la crisi economica mostra sempre di più che il peggio è davanti a noi.
I FORTI ATTACCHI CONTRO LA CLASSE OPERAIA
La crisi mette a nudo le contraddizioni fondamentali di un capitalismo non solo incapace di assumere la sopravvivenza della società ma responsabile peraltro della distruzione delle stesse forze produttive, prima tra tutte quella del proletariato.
Oggi che la crisi raddoppia di intensità gli Stati "democratici" sono presi alla gola, devono levarsi la maschera. Piuttosto che offrire una qualunque prospettiva, anche lontana, di prosperità e di pace, il capitalismo schiaccia ulteriormente le condizioni di vita della classe operaia e fomenta la guerra. Le residue illusioni che si mantengono tra i lavoratori delle grandi concentrazioni industriali dell'Europa occidentale, dell'America del nord e del Giappone sui "privilegi" che gli si fa credere di avere ancora per tenerli buoni, tendono a crollare in seguito agli attacchi che ricadono su questo settore di proletariato.
La menzogna della "ristrutturazione" dell'economia, che è servita da giustificazione nelle precedenti ondate di licenziamenti nei settori "tradizionali" dell'industria e dei servizi, fa ormai acqua da tutte le parti. Infatti è nei settori dell'industria già "modernizzati", come l'automobilistica o l'aeronautica, nei settori "di punta" come l'elettronica e l'informatica, nei servizi più "vantaggiosi" delle banche e delle assicurazioni, nel settore pubblico già ampiamente "sgrassato" nel corso degli anni '80, nei settori delle poste, della salute e della scuola, che ricadono i numerosi piani di riduzione degli effettivi, di cassa integrazione e di licenziamenti, che toccano centinaia di migliaia di lavoratori.
Nessun settore scappa alle "esigenze" della crisi economica generale dell'economia mondiale. La necessità per ogni unità capitalista ancora in attività di "ridurre i propri costi" per reggere alla concorrenza si manifesta a tutti i livelli, dall'impresa più piccola a quella più grande, fino allo Stato cui compete la responsabilità della difesa della "competitività" del capitale nazionale. Nei paesi più "ricchi", essi stessi trascinati nella recessione, la disoccupazione aumenta ormai in maniera vertiginosa. Non esiste in tutto il mondo capitalista nessuna regione in cui l'economia abbia buona salute.
In media un lavoratore su cinque è disoccupato nei paesi industrializzati. E un disoccupato su cinque lo è da più di un anno, con sempre minori possibilità di ritrovare un impiego. L'esclusione totale di ogni mezzo normale di sussistenza diviene un fenomeno di massa: i "nuovi poveri" e i "senza fissa dimora" si contano ormai a milioni, ridotti alle peggiori privazioni nelle grandi città.
La disoccupazione di massa che si sviluppa oggi non costituisce una riserva di mano d'opera per una futura ripresa dell'economia. Non vi sarà alcuna ripresa che permetterà al capitalismo di integrare o reintegrare nella produzione la massa crescente di decine di milioni di disoccupati dei paesi "sviluppati". Anzi finanche il minimo vitale alla loro sussistenza viene sempre più messo in discussione. La massa di disoccupati di oggi non costituisce più l'"esercito di riserva" del capitalismo, quello di cui parlava Marx nel secolo scorso. Questa va infatti a ingrossare la massa di tutti quelli che sono già completamente esclusi da ogni accesso a delle condizioni di esistenza normali, come nei paesi del "terzo mondo" o dell'ex blocco dell'est. Essa è concretamente la manifestazione della tendenza alla pauperizzazione assoluta provocata dal fallimento definitivo del modo di produzione capitalista.
Per quelli che mantengono ancora un lavoro, gli aumenti di salario sono ridicoli e comunque erosi dall'inflazione, quando non sono del tutto bloccati. Sempre più frequenti sono poi le riduzioni nette di salario. A questo attacco diretto al salario si aggiungono poi gli aumenti dei vari contributi, tasse e imposte, degli affitti delle case, dei trasporti, della sanità e per tasse e libri scolastici. La realtà di oggi è che una parte crescente delle entrate delle famiglie deve essere consacrata al sostegno di figli o di parenti senza lavoro.
La classe operaia deve combattere energicamente questa situazione. I sacrifici reclamati agli operai oggi, da ogni Stato, in nome della solidarietà "nazionale", non faranno che produrre altri sacrifici domani perché non esiste "uscita dalla crisi" nel quadro del capitalismo.
DI FRONTE AD UNA CRISI IRREVERSIBILE E' INDISPENSABILE LA LOTTA DI CLASSE
Ormai anche quelli che si fanno difensori della menzogna del buon funzionamento del capitalismo hanno più di un problema a giustificare la loro posizione. Ora che le statistiche mostrano dei valori di crescita assolutamente ridicoli, non osano neanche più parlare di "ripresa economica". Tutt'al più parlano di una "pausa" nella recessione, avendo cura di precisare che "se una ripresa interverrà, questa sarà molto debole e molto lenta...". Questo linguaggio prudente mostra come la classe dominante sia ancora più sguarnita oggi rispetto alle precedenti recessioni degli ultimi 25 anni.
Nessuno osa più prevedere l'"uscita dal tunnel". Quelli che non vedono il carattere irreversibile della crisi e credono nell'immortalità del modo di produzione capitalista non possono che ripetere che "ci sarà necessariamente una ripresa economica poiché vi è sempre stata una ripresa dopo ogni crisi". Questa formula, che ricorda il vecchio adagio del contadino secondo cui "dopo la pioggia, viene sempre il sereno", la dice lunga sull'incapacità assoluta della classe capitalista di padroneggiare le leggi della propria economia.
Ultimo esempio in ordine di tempo: lo sfaldamento dello SME (Sistema monetario europeo) per tutto un periodo di quest'anno fino al suo crollo nel corso dell'estate. L'impossibilità per gli Stati dell'Europa occidentale di dotarsi di una moneta unica costituisce un brutale colpo di arresto al progetto di costruzione di una "unità europea" che doveva, secondo i suoi difensori, essere un esempio della capacità del capitalismo di instaurare una cooperazione economica, politica e sociale. Dietro le turbolenze monetarie dell'estate, quello che è emerso è ancora una volta la legge incontenibile dello sfruttamento e della concorrenza capitalista secondo cui:
Mentre all'interno di ogni singola nazione le borghesie affilano le loro armi contro la classe operaia, sul piano internazionale si moltiplicano i motivi di disaccordi e di scontri. "L'intesa tra i popoli", il cui modello doveva essere quello tra i grandi paesi capitalisti, cede il passo ad una guerra economica senza quartiere. Il mercato mondiale è ormai da tempo saturo. E' divenuto troppo stretto per permettere il normale funzionamento dell'accumulazione del capitale, l'allargamento della produzione e dei consumi necessari alla realizzazione del profitto, motore di questo sistema.
Ma a differenza dei dirigenti di una semplice impresa capitalista che, in caso di fallimento, mettono la chiave sotto la porta, procedono alla liquidazione dell'azienda e vanno a cercare altrove i profitti che sono venuti a mancare, la classe capitalista nel suo insieme non può pronunciare il proprio fallimento e procedere alla liquidazione del modo di produzione capitalistico. Ciò significherebbe pronunciare la propria scomparsa, cosa che nessuna classe sfruttatrice sarebbe capace di fare. La classe dominante non si ritirerà dalla scena sociale in punta di piedi dicendo "ho fatto il mio tempo". Essa difenderà viceversa fino alla fine, con le unghie e con i denti, i suoi interessi e privilegi.
Tocca alla classe operaia distruggere il capitalismo. In conseguenza della sua collocazione nei rapporti di produzione capitalisti, essa è la sola capace di bloccare la macchina infernale del capitalismo decadente. Non disponendo di alcun potere economico nella società, senza interessi particolari da difendere, il proletariato non ha altro da vendere al capitalismo se non la propria forzalavoro. Esso è pertanto la sola forza portatrice di una prospettiva di nuovi rapporti sociali liberati dalla divisione in classi, dalla penuria, dalla miseria, dalle guerre e dalle frontiere.
L'unica prospettiva che resta per l'umanità è quella di una rivoluzione comunista internazionale, prospettiva su cui la classe si incamminerà cominciando a fornire oggi una risposta di massa agli attacchi feroci del capitalismo, primo passo di una lotta storica contro la distruzione sistematica delle forze produttive oggi in atto a livello mondiale.
settembre 93 OF
L'EVOLUZIONE DEI CONFLITTI IMPERIALISTI
1) Raramente, dopo la fine della seconda guerra mondiale, il mondo ha conosciuto una moltiplicazione e un'intensificazione dei conflitti guerrieri come quelle a cui si assiste oggi. Si diceva che la guerra del Golfo, all'inizio del 1991, avrebbe instaurato un "nuovo ordine mondiale", basato sul "Diritto". Dopo, la serie di conflitti che doveva succedere alla fine della divisione del mondo tra i due mastodontici imperialismi non ha smesso di estendersi ed acuirsi. L'Africa e l'Asia del sud-est, terreni tradizionali degli scontri imperialisti, hanno continuato ad essere sconvolti da convulsioni e dalla guerra. Liberia, Ruanda, Angola, Somalia, Afganistan, Cambogia: questi paesi sono oggi sinonimo di scontri armati e di desolazione malgrado tutti gli "accordi di pace" e gli interventi della "comunità internazionale" patrocinati direttamente o indirettamente dall'ONU. A queste "zone in tempesta" sono venuti ad aggiungersi il Caucaso e l'Asia centrale che pagano al caro prezzo dei massacri inter etnici la scomparsa dell'URSS. Infine, quel porto di stabilità costituito dall'Europa dalla fine della seconda guerra mondiale è oggi in preda ad uno dei conflitti più sanguinosi e barbari che si siano visti. Questi scontri esprimono in modo tragico le caratteristiche del mondo capitalista in decomposizione. Essi derivano, in buona parte, dalla situazione nuova creatasi a causa di quello che costituisce, a tutt'oggi, la manifestazione più importante di questa nuova fase della decadenza capitalista: il crollo dei regimi stalinisti e del blocco dell'Est. Ma, contemporaneamente, questi conflitti sono ulteriormente aggravati da quella che è una delle caratteristiche generali e fondamentali di questa decadenza: l'antagonismo tra le diverse potenze imperialiste. Così, il sedicente "aiuto umanitario" in Somalia non è che un pretesto ed uno strumento dello scontro tra la due principali potenze che si oppongono oggi in Africa: gli Stati Uniti e la Francia. Dietro le varie cricche che si disputano il potere a Kabul si profilano gli interessi delle potenze regionali come il Pakistan, l'India, l'Iran, la Turchia, l'Arabia Saudita, potenze che, per parte loro, iscrivono i loro interessi ed i loro antagonismi all'interno di quelli dei "Grandi" come gli Stati Uniti o la Germania. Infine, le convulsioni che hanno messo a ferro e fuoco l'ex-Yugoslavia a poche centinaia di chilometri dall'Europa "avanzata", traducono, esse stesse, i principali antagonismi che dividono oggi il pianeta.
2) L'ex-Yugoslavia è diventata un punto focale nelle rivalità tra le principali potenze del mondo. Se gli scontri ed i massacri che vi si svolgono da due anni hanno trovato terreno fertile negli antagonismi etnici ancestrali messi sotto silenzio dal regime stalinista, e che il crollo di questo ha fatto risorgere, certo i sordidi calcoli delle grandi potenze hanno costituito un fattore notevole di accentuazione di questi antagonismi. E' certo perché la Germania ha incoraggiato la secessione delle Repubbliche del nord, Slovenia e Croazia, allo scopo di costituirsi uno sbocco verso il Mediterraneo, che si è aperta il vaso di Pandora iugoslavo. E' certo perché gli altri Stati europei, insieme agli Stati Uniti, si erano opposti a questa offensiva tedesca che hanno, direttamente o indirettamente con il loro immobilismo, incoraggiato la Serbia e le sue milizie a scatenare la "purificazione etnica" nel nome della "difesa delle minoranze". Nei fatti, l'ex-Yugoslavia costituisce una specie di riassunto, un esempio parlante e tragico dell'insieme della situazione mondiale nel campo dei conflitti imperialisti.
3) In primo luogo, gli scontri che devastano oggi questa parte del mondo sono una nuova conferma della totale irrazionalità economica della guerra imperialista. Già da molto tempo, e sulla scia della "Sinistra comunista di Francia", la CCI ha rilevato la differenza fondamentale tra le guerre del periodo ascendente del capitalismo, che avevano una certa razionalità per lo sviluppo di questo sistema, e quelle del periodo di decadenza che non fanno che esprimere la totale assurdità economica di un modo di produzione agonizzante. Se l'aggravarsi degli antagonismi imperialisti ha come causa ultima la fuga in avanti di tutte le borghesie nazionali poste di fronte al blocco totale dell'economia capitalista, i conflitti guerrieri non potrebbero apportare alcuna "soluzione" alla crisi, sia a livello dell'insieme dell'economia mondiale che per quella di un qualunque paese in particolare. Come già notava Internationalisme nel 1945, non è più la guerra che è al servizio dell'economia, ma piuttosto l'economia che si è messa al servizio della guerra e della sua preparazione. E questo fenomeno non ha fatto che amplificarsi successivamente. Nel caso della ex-Yugoslavia, nessuno dei protagonisti può sperare nel benché minimo profitto economico dalla sua implicazione nel conflitto. E' evidente per tutte le Repubbliche che si fanno la guerra attualmente: le massicce distruzioni dei mezzi di produzione e della forza lavoro, la paralisi dei trasporti e dell'attività produttiva, l'enorme prelievo rappresentato dagli armamenti a danno dell'economia locale non vanno a beneficio di nessuno dei nuovi Stati in campo. Ugualmente, contrariamente all'idea che si è diffusa nell'ambiente politico proletario, questa economia totalmente devastata non potrà assolutamente costituire un mercato solvibile per la produzione eccedente dei paesi industrializzati. Non sono dei mercati che le grandi potenze si disputano nel territorio della ex-Yugoslavia ma delle posizioni strategiche destinate a preparare quella che è diventata la principale attività del capitalismo decadente: la guerra imperialista ad un livello sempre più vasto.
4) La situazione nella ex-Yugoslavia viene ugualmente a confermare un punto che la CCI aveva sottolineato da molto tempo: la fragilità dell'edificio europeo. Questo, con le sue varie istituzioni, si era costituito essenzialmente come strumento del blocco americano di fronte alla minaccia del blocco russo. L'interesse comune dei differenti Stati dell'Europa occidentale di fronte a questa minaccia (che non escludeva il tentativo di alcuni tra loro, come la Francia di De Gaulle di limitare l'egemonia americana) aveva costituito un fattore notevole di stimolo alla cooperazione, specialmente economica, tra questi stati. Una tale cooperazione non era stata in grado di superare le rivalità economiche tra loro, risultato che non poteva essere raggiunto nel capitalismo, ma aveva permesso l'instaurarsi di una certa "solidarietà" di fronte alla concorrenza commerciale del Giappone e degli Stati Uniti. Con il crollo del blocco dell'est, le basi dell'edificio europeo si sono trovate lesionate. Ormai, l'Unione Europea, che il trattato di Maastricht dalla fine del 1991 ha fatto succedere alla CEE, non potrebbe più essere considerato come uno strumento di un blocco occidentale che ha lui stesso cessato di esistere. Al contrario, questa struttura è divenuta l'arena degli antagonismi imperialisti che sono nati o sono venuti a galla con la scomparsa della vecchia configurazione del mondo. E' quanto è stato messo molto ben in evidenza dagli scontri in Jugoslavia, con la profonda divisione degli Stati europei incapaci di mettere in atto una benché minima politica comune di fronte ad un conflitto che si sviluppava alle loro porte. Oggi, "l'Europa unita" può ancora essere utilizzata dall'insieme dei suoi membri come bastione contro la concorrenza commerciale del Giappone e degli Stati Uniti o come strumento contro l'immigrazione e le lotte della classe operaia. Ma la sua componente diplomatica e militare ne fanno l'oggetto di una disputa sempre più acuta tra quelli (particolarmente la Francia e la Germania) che vogliono farle svolgere un ruolo come struttura capace di rivaleggiare con la potenza americana (preparando la costituzione di un futuro blocco imperialista) e gli alleati degli Stati Uniti (essenzialmente la Gran Bretagna ed i Paesi bassi) che invece svolgono il ruolo di freno di una tale tendenza. (1)
5) L'evoluzione del conflitto nei Balcani è venuta ugualmente ad illustrare una delle altre caratteristiche della situazione mondiale: gli ostacoli sul cammino della ricostituzione di un nuovo sistema di blocco imperialista. Come la CCI ha sottolineato fin dal 1989, la tendenza verso un tale sistema è stata messa all'ordine del giorno da quando il vecchio è scomparso con il crollo del blocco dell'Est. L'emergere di un candidato alla direzione di un nuovo blocco imperialista, che rivaleggi con quello che sarebbe capeggiato dagli Stati Uniti, si è rapidamente confermato con l'avanzata delle posizioni della Germania in Europa centrale e nei Balcani, e ciò quando la libertà di manovra militare e diplomatica di questo paese era ancora limitata dagli obblighi ereditati dalla sua sconfitta nella seconda guerra mondiale. L'ascesa della Germania si è largamente basata sulla sua potenza economica e finanziaria, ma ha anche potuto beneficiare del sostegno di un suo vecchio complice all'interno della CEE, la Francia (azione concertata rispetto all'Unione Europea, creazione di un esercito comune, ecc.). Tuttavia, la Yugoslavia ha evidenziato tutte le contraddizioni che dividono questo tandem: mentre la Germania sosteneva senza indugi la Slovenia e la Croazia, la Francia ha mantenuto per un lungo periodo una politica pro-serba che l'ha fatta schierare con la posizione iniziale della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, il che ha permesso a questa potenza di frapporre ostacoli all'interno dell'alleanza privilegiata tra i due principali paesi europei. Anche se questi due paesi hanno consacrato delle energie particolari al fatto che il cruento imbroglio jugoslavo non comprometta la loro cooperazione (vedi il sostegno della Bundesbank al franco francese contro gli attacchi della speculazione), è sempre più chiaro che non ripongono le stesse speranze nella loro alleanza. La Germania, per la sua potenza economica e la sua posizione geografica, aspira alla leadership di una "Grande Europa" che non sarebbe se non l'asse centrale di un nuovo blocco imperialista. Se è d'accordo nel far giocare un tale ruolo alla struttura europea, la borghesia francese, che dal 1870 ha potuto constatare a sue spese la potenza della sua vicina orientale, non vuole però accontentarsi del posto di secondo piano che questa si propone di concederle. E' perciò che la Francia non è interessata ad uno sviluppo troppo ingente della potenza militare tedesca (accesso al Mediterraneo, armamento nucleare, in particolare) che vedrebbe sminuire le carte vincenti di cui essa ancora dispone per tentare di mantenere una certa parità con la sua vicina nella direzione dell'Europa e alla testa della contestazione della egemonia americana. La riunione di Parigi dell'11 marzo fra Vance, Owen e Milosevic sotto la presidenza di Mitterrand, sta lì ad illustrare, ancora una volta, questa realtà. Così, una delle condizioni perché si ricostituisca una nuova divisione del mondo tra due blocchi imperialisti, l'accrescimento molto sostanzioso delle capacità militari della Germania porta con sé la minaccia di difficoltà serie tra i due paesi europei che sono candidati a capeggiare un nuovo blocco. Il conflitto nella ex-Jugoslavia è dunque venuto a confermare che non è per niente sicuro che giunga a compimento la tendenza verso la ricostituzione di un tale nuovo blocco: la situazione geopolitica specifica delle due borghesie che se ne fanno le principali protagoniste è una ulteriore difficoltà che si somma a quelle generali proprie del periodo di decomposizione che acuisce il "ciascuno per sé" tra tutti gli Stati.
6) Il conflitto nella ex-Jugoslavia infine viene a confermare una delle caratteristiche maggiori della situazione mondiale: i limiti dell'efficacia dell'operazione "Tempesta del Deserto" del 1991 destinata ad affermare la leadership degli Stati Uniti sul mondo. Come la CCI ha affermato all'epoca, questa operazione di grande respiro non aveva come principale bersaglio il regime di Saddam Hussein e nemmeno gli altri paesi della periferia che avrebbero potuto essere tentati ad imitare l'Irak. Per gli Stati Uniti, ciò che si trattava anzitutto di affermare, era il loro ruolo di "gendarme del mondo" di fronte alle convulsioni derivanti dal crollo del blocco russo ed in particolare di ottenere l'obbedienza da parte delle altre potenze occidentali che, con la fine della minaccia venuta dall'Est, si sentivano spuntare le ali. Appena pochi mesi dopo la guerra del Golfo, l'inizio degli scontri in Yugoslavia ha mostrato il fatto che queste stesse potenze, ed in particolare la Germania, erano ben determinate a far prevalere i loro interessi imperialisti a scapito degli Stati Uniti. In un secondo tempo questo paese, se da un lato è riuscito a mettere in evidenza l'impotenza della Unione europea rispetto ad una situazione che è di sua competenza e la mancanza di accordo che regna nelle fila di quest'ultima, compreso tra i migliori alleati che sono la Francia e la Germania, non è riuscito tuttavia a contenere realmente l'avanzata degli altri imperialismi, in particolare quello tedesco che ha, complessivamente, raggiunto i suoi fini nella ex-Yugoslavia. Un tale smacco è evidentemente grave per la prima potenza mondiale perché non può che andare a favore della tendenza di numerosi paesi, su tutti i continenti, a mettere a profitto la nuova situazione mondiale per allentare la morsa a loro imposta dallo Zio Sam per decenni. E' per questa ragione che cresce l'attivismo degli Stati Uniti attorno alla Bosnia subito dopo aver fatto mostra della loro forza militare con il massiccio e spettacolare spiegamento "umanitario" in Somalia e l'interdizione dello spazio aereo del sud dell'Irak.
7) Anche quest'ultima operazione militare ha confermato una serie di fatti evidenziati dalla CCI prima. Essa ha mostrato il fatto che il vero bersaglio individuato dagli Stati Uniti in questa parte del mondo non è l'Irak, poiché è servita a rafforzare il regime di Saddam Hussein sia all'interno che all'estero, ma piuttosto i loro "alleati", coinvolti ancora una volta, ma con minor successo del 1991 (il terzo ladrone della "coalizione", la Francia, si è accontentata questa volta di inviare degli aerei da ricognizione). In particolare, essa ha costituito un messaggio in direzione dell'Iran, la cui crescente potenza militare si accompagna al rafforzamento dei suoi legami con alcuni paesi europei, precisamente la Francia. Questa operazione è venuta a confermare ugualmente, poiché il Kuwait non era più coinvolto, che la guerra del Golfo non era motivata dalla questione del prezzo del petrolio o della conservazione da parte degli Stati Uniti della loro "rendita petrolifera", come avevano affermato i gauchistes e anche, ad un certo punto, alcuni gruppi dell'ambiente proletario. Se questa potenza è interessata a conservare e rafforzare la sua presa sul Medio Oriente ed i suoi giacimenti petroliferi, non è fondamentalmente per delle ragioni commerciali o strettamente economiche. E' innanzitutto per essere in grado, se ce ne sarà bisogno, di privare i suoi rivali giapponesi ed europei dei loro approvvigionamenti di una materia prima essenziale per un'economia sviluppata e maggiormente per ogni impresa militare (materia prima di cui dispone d'altronde abbondantemente il principale alleato degli Stati Uniti, la Gran Bretagna).
8) Così, i recenti eventi hanno confermato che, di fronte ad un accentuarsi del caos mondiale e del "ciascuno per sé" ed all'ascesa in forza dei suoi nuovi rivali imperialisti, la prima potenza mondiale dovrà sempre più fare uso della forza militare per preservare la sua supremazia. I terreni potenziali di scontro non mancano e non fanno che moltiplicarsi. Fin da oggi, il subcontinente indiano, dominato dall'antagonismo fra Pakistan ed India, si trova sempre più coinvolto, come testimoniano per esempio gli scontri in questo ultimo paese tra comunità religiose, che se sono una testimonianza della decomposizione, sono attizzati da questo antagonismo. Ugualmente, l'Estremo Oriente è oggi il teatro di manovre imperialistiche di grande ampiezza come, in particolare, il riavvicinamento tra la Cina ed il Giappone (sigillato dalla visita a Pechino per la prima volta nella storia, dell'Imperatore giapponese). E' più che probabile che questa configurazione delle linee di forze imperialiste non farà che confermarsi nella misura in cui:
Gli antagonismi che mettono alle strette la prima potenza mondiale ed i suoi alleati non risparmiano nemmeno il continente americano in cui i tentativi ripetuti di colpo di stato contro Carlos Andres Perez in Venezuela o la costituzione della NAFTA, al di là delle loro cause o implicazioni economiche e sociali, hanno come fine di frapporre ostacoli alle mire e all'accrescimento dell'influenza di alcuni stati europei. Così la prospettiva mondiale sul piano delle tensioni imperialiste è caratterizzata da un'ascesa ineluttabile di queste con una crescente utilizzazione della forza militare da parte degli Stati Uniti, e non è certo la recente elezione del democratico Clinton alla testa di questo paese che potrebbe rovesciare questa tendenza, ma al contrario. Fino ad oggi queste tensioni si sono sviluppate essenzialmente come ripercussioni del crollo del vecchio blocco dell'Est. Ma sempre più saranno aggravate dalla caduta catastrofica nella sua crisi mortale dell'economia capitalista.
L'EVOLUZIONE DELLA CRISI ECONOMICA
9) L'anno 1992 si è caratterizzato con un aggravarsi considerevole della situazione dell'economia mondiale. In particolare, la recessione aperta si è generalizzata raggiungendo paesi inizialmente risparmiati, come la Francia, e tra i più solidi come la Germania ed il Giappone. Se l'elezione di Clinton rappresenta la prosecuzione, ed anche il rafforzamento, della politica della prima potenza mondiale sull'arena imperialista, essa simboleggia la fine di tutto un periodo nell'evoluzione della crisi e delle politiche borghesi per farvi fronte. Essa prende atto della caduta definitiva delle "reaganomics" che avevano suscitato le speranze più folli nelle fila della classe dominante e numerose illusioni tra i proletari. Oggi, nei discorsi borghesi, non si fa più alcun cenno alle mitiche virtù della "deregulation" e del "meno Stato". Anche uomini politici appartenenti a forze che si erano fatte sostenitrici delle "reaganomics", come Major in Gran Bretagna, ammettono, di fronte all'accumularsi delle difficoltà dell'economia, la necessità in essa di "più Stato".
10) Gli "anni Reagan", prolungati dagli "anni Bush", non hanno affatto rappresentato una inversione della tendenza storica, propria della decadenza capitalistica, di rafforzamento del capitalismo di Stato. Durante questo periodo, delle misure come l'aumento massiccio delle spese militari, il salvataggio del sistema delle casse di risparmio da parte dello Stato federale (che comporta un prelevamento di 1000 miliardi di dollari dal suo bilancio) o la caduta volontaristica dei tassi di interesse al disotto del livello dell'inflazione hanno rappresentato una crescita significativa dell'intervento dello Stato nell'economia della prima potenza mondiale. Nei fatti, quali che siano i temi ideologici impiegati, quali che siano le modalità, la borghesia non può mai, nel periodo di decadenza, rinunciare a fare appello allo Stato per assemblare i pezzi di un'economia che tende al collasso, per tentare di barare con le leggi capitalistiche (ed è il solo che possa farlo, in particolare attraverso la stampa della carta moneta). Tuttavia, con:
lo Stato federale non poteva evitare un intervento molto più aperto, a viso scoperto, in questa economia. In questo senso, il significato dell'elezione del democratico Clinton alla testa dell'esecutivo americano non può essere ridotto a dei soli imperativi ideologici. Questi imperativi non sono trascurabili, proprio allo scopo di favorire una maggiore adesione dell'insieme della popolazione degli Stati Uniti alla politica imperialista della borghesia di questo paese. Ma, molto più importante, il "New Deal" di Clinton è il segno della necessità di un riorientamento significativo della politica di questa borghesia, un riorientamento che Bush, troppo legato alla politica precedente, non era il più adatto ad attuare.
11) Questo riorientamento politico, contrariamente alle promesse del candidato Clinton, non potrebbe rimettere in discussione il peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia, che viene definita "classe media" per i bisogni della propaganda. Le centinaia di miliardi di dollari di economia annunciati da Clinton alla fine di febbraio 1993, rappresentano una crescita considerevole dell'austerità destinata ad alleggerire l'enorme deficit federale e a migliorare la competitività della produzione USA sul mercato mondiale. Tuttavia, questa politica si confronta con dei limiti insuperabili. La riduzione del deficit, se sarà veramente realizzata, non potrà che accentuare le tendenze al rallentamento dell'economia che era stata drogata da questo stesso deficit per quasi un decennio. Un tale rallentamento, riducendo le entrate fiscali (malgrado l'aumento previsto delle imposte) porterà ad aggravare ancora questo deficit. Così, quali che siano le misure applicate, la borghesia si trova di fronte ad un vicolo cieco: invece di un rilancio dell'economia e di una riduzione del suo indebitamento (ed in particolare quello dello Stato), essa è condannata, con una scadenza che non potrà essere rimandata per molto, ad un nuovo rallentamento dell'economia ed ad un aumento irreversibile dell'indebitamento.
12) Lo stallo nel quale si trova l'economia americana non fa che esprimere quello dell'insieme dell'economia mondiale. Tutti i paesi sono stretti in una morsa le cui ganasce hanno per nome caduta della produzione ed esplosione dell'indebitamento (ed in particolare quello dello Stato). E' la manifestazione eclatante della crisi di sovrapproduzione irreversibile nella quale affonda il modo di produzione capitalista da più di due decenni. Successivamente, l'esplosione dell'indebitamento del "terzo mondo", dopo la recessione mondiale del 1973-74, poi l'esplosione del debito americano (sia interno che estero), dopo quella del 1981-82, avevano permesso all'economia mondiale di limitare le manifestazioni dirette, e soprattutto di mascherare l'evidenza, di questa sovrapproduzione. Oggi, le drastiche misure che si propone di applicare la borghesia USA segnano la messa da parte definitiva della "locomotiva" americana che aveva tirato l'economia mondiale negli anni 1980. Il mercato interno degli Stati Uniti si ferma sempre più, ed in modo irreversibile. E se ciò non succede per una migliore competitività delle merci made in USA, ciò avverrà attraverso un aumento senza precedenti del protezionismo di cui Clinton, fin dal suo insediamento, ha dato un assaggio (aumento dei diritti sui prodoti agricoli, l'acciaio, gli aerei, chiusura dei mercati pubblici, ...). Così, la sola prospettiva che possa attendere il mercato mondiale è quella di un restringimento crescente ed irrimediabile. E ciò tanto più perché esso è di fronte ad una crisi catastrofica del credito simbolizzata dai fallimenti delle banche sempre più numerosi: a forza di abusare in modo folle dell'indebitamento, il sistema finanziario internazionale si trova sull'orlo di un'esplosione che porterà al precipitare in modo apocalittico del crollo dei mercati e della produzione.
13) Un altro fattore che viene ad aggravare lo stato dell'economia mondiale è il caos crescente che si sviluppa nelle relazioni internazionali. Quando il mondo viveva sotto l'egida dei due giganti imperialisti, la necessaria disciplina che dovevano rispettare gli alleati all'interno di ciascun blocco non si esprimeva solo sul piano militare e diplomatico, ma anche sul piano economico. Nel caso del blocco occidentale, è attraverso delle strutture come l'OCSE, il FMI, il G7 che gli alleati, che erano nello stesso tempo i principali paesi avanzati, avevano stabilito, sotto l'egida del capo fila americano, un coordinamento delle loro politiche economiche e un modus vivendi per contenere le loro rivalità commerciali. Oggi, la scomparsa del blocco occidentale, che fa seguito al crollo di quello dell'Est, ha inferto un colpo decisivo a questo coordinamento (anche se se ne sono mantenute le vecchie strutture) e lascia il campo libero del "ciascuno per sé" nelle relazioni economiche. Concretamente, la guerra commerciale non può che scatenarsi ancora di più, venendo ad accentuare le difficoltà e l'instabilità dell'economia mondiale che ne sono la causa. E' quanto manifesta l'attuale paralisi nei negoziati del GATT. Questi avevano ufficialmente per oggetto di limitare il protezionismo tra "compagni" al fine di favorire gli scambi mondiali e dunque la produzione delle differenti economie nazionali. Il fatto che questi negoziati siano divenuti un'asta, in cui gli antagonismi imperialisti si sovrappongono alle semplici rivalità commerciali, non può che provocare l'effetto inverso: una maggiore disorganizzazione ancora di questi scambi, delle accresciute difficoltà per le economie nazionali.
14) Così, la gravità della crisi ha raggiunto, con l'inizio dell'ultimo decennio del secolo, un livello qualitativamente superiore a quanto il capitalismo abbia mai conosciuto finora. Il sistema finanziario mondiale cammina sull'orlo del precipizio al rischio continuo e crescente di precipitarvi. La guerra commerciale sta per scatenarsi ad un livello mai visto. Il capitalismo non potrà trovare una nuova "locomotiva" per rimpiazzare la locomotiva americana ormai fuori uso. In particolare, i mercati straordinari che si era pensato avrebbero rappresentato i paesi anticamente dominati da regimi stalinisti non sono mai esistiti se non nell'immaginazione di qualche settore della classe dominante (e anche in quella di alcuni gruppi dell'ambiente proletario). Lo sfaldamento senza speranza di queste economie, il baratro senza fondo che esse rappresentano per ogni tentativo di investimento che si propone di raddrizzarle, le convulsioni politiche che agitano la classe dominante e che vengono ulteriormente ad amplificare la catastrofe economica, tutti questi elementi indicano che esse sono sul punto di sprofondare in una situazione simile a quella del Terzo Mondo, che lungi dal poter costituire una boccata d'ossigeno per le economie più sviluppate, esse diventeranno un fardello che peserà sempre più sulle loro spalle. Infine, se in queste ultime l'inflazione ha qualche possibilità di essere contenuta, come è fino ad oggi, ciò non si concretizza affatto in un superamento delle difficoltà economiche che ne sono l'origine. E' al contrario l'espressione della riduzione drammatica dei mercati che esercita una potente pressione alla caduta sul prezzo delle merci. La prospettiva dell'economia mondiale è dunque alla caduta crescente della produzione con la messa da parte di una parte sempre più considerevole del capitale investito (fallimenti a catena, desertificazione industriale, ecc.) e una riduzione drastica del capitale variabile, il che significa, per la classe operaia, oltre che degli attacchi accresciuti contro tutti gli aspetti del salario, dei licenziamenti massicci, una crescita senza precedenti della disoccupazione.
LE PROSPETTIVE DELLA LOTTA DI CLASSE
15) Gli attacchi capitalistici di ogni tipo che si scatenano oggi e che non possono che amplificarsi, colpiscono un proletariato che è stato sensibilmente indebolito nel corso degli ultimi tre anni, un indebolimento che ha toccato sia la sua coscienza che la sua combattività.
E' il crollo dei regimi stalinisti d'Europa e lo smembramento dell'intero blocco dell'Est alla fine del 1989, che ha costituito il fattore essenziale di regresso della coscienza nel proletariato. L'identificazione, fatta da tutti i settori borghesi, per mezzo secolo, di questi regimi col "socialismo", il fatto che questi regimi non siano caduti sotto i colpi della lotta di classe operaia ma al seguito di una implosione della loro economia, ha permesso lo scatenamento di massicce campagne sulla "morte del comunismo", sulla "vittoria definitiva dell'economia liberale" e della "democrazia", sulla prospettiva di un "nuovo ordine mondiale" fatto di pace, di prosperità e di rispetto del Diritto. Se la stragrande maggioranza dei proletari delle grandi concentrazioni industriali aveva smesso, già da tempo, di farsi illusioni sui pretesi "paradisi socialisti", la scomparsa ingloriosa dei regimi stalinisti ha tuttavia inferto un colpo decisivo all'idea che poteva esistere sulla terra una cosa diversa dal sistema capitalista, che l'azione del proletariato poteva condurre ad una alternativa a questo sistema. Ed un tale danno alla coscienza nella classe è stata ulteriormente aggravato dall'esplosione dell'URSS, in seguito al colpo di stato fallito di agosto 1991, una esplosione che riguardava il paese che era stato il teatro della rivoluzione proletaria all'inizio del secolo.
D'altra parte, la crisi del Golfo a partire dall'estate 1990, l'operazione "Tempesta del deserto" all'inizio del 1991, hanno generato un profondo senso di impotenza tra i proletari che si sentivano totalmente incapaci di agire o di avere un peso rispetto a degli eventi della cui gravità erano coscienti, ma che restavano di competenza esclusiva di "quelli in alto". Questo sentimento ha potentemente contribuito ad indebolire la combattività operaia in un contesto in cui questa combattività era già stata alterata, benché in modo minore, dai fatti dell'est l'anno precedente. E questo indebolimento della combattività è stato ancora aggravato dall'esplosione dell'URSS, due anni dopo il crollo del suo blocco, come dallo sviluppo contemporaneo degli scontri nella ex-Jugoslavia.
16) Gli eventi che sono precipitati dopo il crollo del blocco dell'Est, apportando su tutta una serie di questioni una smentita alle campagne borghesi del 1989, hanno contribuito a scalzare una parte delle mistificazioni nelle quali era stata spinta la classe operaia. Così, la crisi e la guerra del Golfo hanno cominciato a portare dei colpi decisivi alle illusioni sull'instaurazione di una "era di pace" che Bush aveva annunciato all'epoca della caduta del rivale imperialista dell'Est. Nello stesso tempo, il comportamento barbaro della "grande democrazia" americana e dei suoi accoliti, i massacri perpetrati contro i soldati iracheni e le popolazioni civili hanno contribuito a smascherare la menzogne sulla "superiorità" della democrazia, sulla vittoria del "diritto delle nazioni" e dei "diritti dell'uomo". Infine, l'aggravarsi catastrofico della crisi, la recessione aperta, i fallimenti, le perdite registrate dalle imprese considerate come le più prospere, i licenziamenti massicci in tutti i settori e in particolare in queste imprese, la crescita inesorabile della disoccupazione, tutte queste manifestazioni irrisolvibili che incontra l'economia capitalista sono sul punto di regolare il loro conto alle menzogne sulla "prosperità" del sistema capitalista, sulla sua capacità di superare le difficoltà che avevano ingoiato il suo preteso rivale "socialista". La classe operaia non ha ancora digerito l'insieme dei colpi che erano stati inferti nel periodo precedente alla sua coscienza. In particolare l'idea che può esistere un'alternativa al capitalismo non deriva automaticamente dalla constatazione crescente del fallimento di questo sistema e può ben sfociare nella disperazione. Ma in seno alla classe le condizioni di un rigetto delle menzogne borghesi, di porsi delle questioni in profondità sono sul punto di svilupparsi.
17) Questa riflessione nella classe operaia prende corpo in un momento in cui l'accumulazione degli attacchi capitalisti e la loro crescente brutalità la obbligano a scuotersi dal torpore che l'aveva invasa da molti anni. Di volta in volta:
sono venuti a mettere in evidenza che il proletariato era sul punto di aprire la morsa che lo imprigionava dall'inizio degli anni 1990, che si liberava dalla paralisi che l'aveva costretto a subire senza reagire gli attacchi sferrati da allora dalla borghesia. Così, la situazione attuale si distingue fondamentalmente da quella che era stata messa in evidenza al precedente congresso della CCI quando si era constatato che: "... gli apparati della sinistra della borghesia hanno tentato già da molti mesi di lanciare dei movimenti di lotta prematuri con lo scopo di intralciare questa riflessione (in seno al proletariato) e di spargere ulteriore confusione nelle fila operaie." In particolare, l'atmosfera di impotenza che dominava allora tra la maggioranza dei proletari e che favoriva le manovre borghesi volte a provocare delle lotte minoritarie destinate ad impantanarsi nell'isolamento, tende sempre più a lasciare il posto alla volontà di scontrarsi con la borghesia, di rispondere con determinazione ai suoi attacchi.
18) Così, fin da oggi, il proletariato dei principali paesi industrializzati è in grado di rialzare la testa confermando ciò che la CCI non ha mai smesso di affermare: "il fatto che la classe operaia detiene sempre tra le sue mani le chiavi dell'avvenire" (Risoluzione del 9° Congresso della CCI) e che aveva annunciato con fiducia: "... è certo perché il corso storico non è stato rovesciato, perché la borghesia non è riuscita con le sue molteplici campagne e manovre ad infliggere una sconfitta decisiva al proletariato dei paesi avanzati e ad imbrigliarlo dietro le sue bandiere, che il riflusso subito da quest'ultimo, sia al livello della sua coscienza che della sua combattività, sarà necessariamente superato." (Risoluzione del 29 marzo 1992, Revue Internationale n° 70). Tuttavia questa ripresa della lotta di classe si annuncia difficile. I primi tentativi fatti dal proletariato dopo l'autunno 1992 mettono in evidenza che esso subisce ancora il peso del riflusso. In buona parte, l'esperienza, le lezioni acquisite nel corso delle lotte degli anni 1980, non sono state ancora fatte proprie dalla grande maggioranza degli operai. In cambio, la borghesia ha, fin d'ora, dato prova di aver tratto gli insegnamenti dalle lotte precedenti:
Inoltre, la borghesia si è mostrata capace di utilizzare il riflusso della coscienza nella classe per introdurre dei falsi obiettivi e rivendicazioni nelle lotte operaie (divisione del lavoro, "diritti sindacali", difesa dell'impresa, ecc.).
19) Più in generale, è ancora lungo il cammino che attende il proletariato prima che sia capace di affermare la sua prospettiva rivoluzionaria. Dovrà evitare le trappole classiche che tutte le forze della borghesia disporranno sistematicamente sul suo cammino. Nello stesso tempo dovrà confrontarsi con tutto il veleno che la decomposizione del capitalismo fa penetrare fra le fila operaie e che la classe dominante (di cui le difficoltà politiche legate alla decomposizione non intaccano la sua capacità di manovra contro il suo nemico mortale) utilizzerà in maniera cinica:
20) Questo ultimo aspetto della situazione attuale mette in rilievo la complessità della questione della guerra come fattore della presa di coscienza del proletariato. Questa complessità è stata già ampiamente analizzata dalle organizzazioni comuniste, e specie dalla CCI, nel passato. Fondamentalmente essa consiste nel fatto che, se la guerra imperialista costituisce una delle manifestazioni maggiori della decadenza del capitalismo, simboleggiando in particolare l'assurdità di un sistema all'agonia ed indicando la necessità di rovesciarlo, il suo impatto sulla coscienza nella classe operaia dipende strettamente dalle circostanze nelle quali essa scoppia. Così la guerra del Golfo, due anni fa, ha contribuito seriamente a che gli operai dei paesi avanzati (paesi che erano praticamente tutti implicati in questa guerra, direttamente od indirettamente) superassero le illusioni diffuse dalla borghesia l'anno precedente, partecipando così alla chiarificazione della coscienza del proletariato. Invece la guerra nella ex-Jugoslavia non ha affatto contribuito al processo di chiarificazione della coscienza del proletariato, il che è comprovato dal fatto che la borghesia non ha avuto bisogno di organizzare delle manifestazioni pacifiste nel momento in cui molti paesi avanzati (come la Francia e la Gran Bretagna) hanno, fin d'ora, inviato migliaia di uomini sul campo. Lo stesso dicasi per l'intervento massiccio del gendarme USA in Somalia. E' chiaro così che, quando il gioco sordido dell'imperialismo può dissimularsi dietro i paraventi "umanitari", cioè finché gli è permesso di presentare i suoi interventi guerrieri come destinati ad alleviare l'umanità dalle calamità dovute alla decomposizione capitalista, non può, attualmente, essere messo a profitto dalle grandi masse operaie per rafforzare la loro coscienza e la loro determinazione di classe. Tuttavia, la borghesia non potrà in tutte le circostanze nascondere il volto odioso della sua guerra imperialista dietro la maschera dei "buoni sentimenti". L'ineluttabile aggravarsi degli antagonismi tra le grandi potenze, costringendole, anche in assenza del pretesto "umanitario" (come per la guerra del Golfo), a degli interventi sempre più diretti, massicci e carnefici (il che costituisce, in fin dei conti, una delle caratteristiche maggiori di tutto il periodo di decadenza del capitalismo), tenderà a far aprire gli occhi agli operai sulle vere poste in gioco della nostra epoca. Ciò è vero per la guerra come per altre manifestazioni dello stallo storico del sistema capitalistico: quando sono una conseguenza della decomposizione di questo sistema, esse si presentano come un ostacolo alla presa di coscienza nella classe; non è che intese come manifestazione generale dell'insieme della decadenza che esse possono costituire un elemento positivo in questa presa di coscienza. E questa potenzialità tenderà a divenire sempre più realtà a mano a mano che la gravità della crisi e degli attacchi borghesi, cosi come lo sviluppo delle lotte operaie, permetteranno alle masse proletarie di identificare la linea che unisce l'impasse economico del capitalismo ed il suo tuffarsi nella barbarie guerriera.
21) Così, l'evidenza della crisi mortale del modo di produzione capitalista, manifestazione prima della sua decadenza, le terribili conseguenze che essa avrà per tutti i settori della classe operaia, la necessità per questa di sviluppare, contro queste conseguenze, le lotte nelle quali ricomincia ad impegnarsi, vanno a costituire un potente fattore nella sua presa di coscienza. L'aggravarsi della crisi evidenzierà sempre più che essa non deriva da una "cattiva gestione", che i borghesi "virtuosi" e gli Stati "propri" sono altrettanto incapaci degli altri di superarla, che essa esprime l'impasse mortale di tutto il capitalismo. Lo spiegamento massiccio delle lotte operaie costituirà un potente antidoto contro gli effetti deleteri della decomposizione, permettendo di superare progressivamente, con la solidarietà di classe che queste lotte implicano, l'atomizzazione, il "ciascuno per sé" e tutte le divisioni che pesano sul proletariato: tra categorie, branche di industria, tra immigrati e nazionali, tra disoccupati e operai al lavoro. In particolare, se a causa del peso della decomposizione, i disoccupati non hanno potuto, nel corso del decennio passato, e contrariamente agli anni 1930, entrare nella lotta (se non in maniera molto puntuale) se non potranno giocare un ruolo d'avanguardia paragonabile a quello dei soldati nella Russia del 1917, come si sarebbe potuto prevedere, lo sviluppo massiccio delle lotte proletarie permetterà loro, specie nelle manifestazioni di strada, di ricongiungersi alla lotta generale della loro classe, e ciò tanto più che, tra loro, la proporzione di quelli che hanno già un'esperienza di lavoro associato e della lotta sul luogo di lavoro non potrà andare che crescendo. Più in generale se la disoccupazione non è un problema specifico dei senza lavoro ma piuttosto una questione che tocca e riguarda tutta la classe operaia, in particolare in quella che costituisce una manifestazione tragica ed evidente del fallimento storico del capitalismo, sono certo queste stesse lotte a venire che permetteranno all'insieme del proletariato di prenderne pienamente coscienza.
22) E' così, e fondamentalmente, attraverso queste lotte di risposta agli attacchi incessanti contro le sue condizioni di vita che il proletariato dovrà superare le conseguenze del crollo dello stalinismo che ha apportato un colpo di una tale violenza alla sua apprensione della sua prospettiva, alla sua coscienza che esiste un'alternativa rivoluzionaria alla società capitalista moribonda. Queste lotte "ridaranno fiducia alla classe operaia, le ricorderanno che essa costituisce, fin da oggi, una forza considerevole nella società e permetteranno ad una massa crescente di operai di rivolgersi nuovamente verso la prospettiva del rovesciamento del capitalismo" (Risoluzione del 29 marzo 1992). E più questa prospettiva sarà presente nella coscienza operaia, più la classe disporrà di carte vincenti per giocare le trappole borghesi, per sviluppare pienamente le sue lotte, per prenderle efficacemente in mano, estenderle e generalizzarle. Per sviluppare questa prospettiva, la classe non ha solo per compito di riprendersi dal disorientamento subito nell'ultimo periodo e di riappropriarsi delle lezioni delle sue lotte degli anni 1980; essa dovrà così riannodare il filo storico delle sue tradizioni comuniste. L'importanza centrale di questo sviluppo della coscienza non può che sottolineare l'immensa responsabilità che spetta alla minoranza rivoluzionaria nel periodo attuale. I comunisti devono partecipare attivamente a tutte le lotte di classe al fine di svilupparne le potenzialità, di favorire al meglio il recupero della coscienza del proletariato indebolita dal crollo dello stalinismo, di contribuire a ridargli fiducia in sé stesso e di mettere in evidenza la prospettiva rivoluzionaria che queste lotte contengono implicitamente. Ciò va di pari passo con la denuncia della barbarie militare del capitalismo decadente e, più in generale, la messa in guardia contro la minaccia che questo sistema in decomposizione fa pesare sulla sopravvivenza stessa dell'umanità. L'intervento deciso dell'avanguardia comunista è una condizione indispensabile del successo definitivo della lotta di classe proletaria.
CCI, aprile 1993
(1) Sembra così ancora una volta che gli antagonismi imperialisti non ricoprano automaticamente le rivalità commerciali, anche se, con il crollo del blocco dell'Est, la carta imperialista mondiale di oggi è più vicina rispetto a quella precedente , il che permette ad un paese come gli Stati Uniti di utilizzare, precisamente nei negoziati del GATT, la sua potenza economica e commerciale come arma di ricatto nei confronti dei suoi alleati. Come la CEE poteva essere talvolta uno strumento del blocco imperialista dominato dalla potenza americana pur favorendo la concorrenza commerciale dei suoi membri contro quest'ultima, dei paesi come la Gran Bretagna o i Paesi Bassi possono molto ben fondarsi oggi sull'Unione Europea per far valere i loro interessi commerciali rispetto a questa potenza pur rappresentando i suoi interessi imperialisti in Europa.
E' dunque necessario dimostrare che tutte le chiacchiere sull'unità europea servono solo a preparare la strada a nuove alleanze militari in vista del confronto armato, sbocco ultimo della crisi capitalista.
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I differenti progetti di unificazione europea sono spesso presentati come tappe verso la creazione della nuova "Nazione Europa" capace di avere un notevole peso economico e politico nel mondo. Una simile idea ha avuto una grande popolarità, tanto più che settori interi della borghesia se ne sono fatti portavoce entusiastici, parlando di "Stati Uniti d'Europa", sull'esempio degli Stati Uniti d'America.
L'IMPOSSIBILITA' DI UNA NUOVA NAZIONE VITALE NELLA DECADENZA DEL CAPITALISMO
Gli Stati Uniti di Europa oggi sono un'utopia e chi afferma il contrario non prende in considerazione i due presupposti indispensabili alla loro realizzazione. Il primo fattore è di carattere generale ed è che la formazione di nuove nazioni può avvenire solo in periodi storici particolarmente favorevoli e questo non lo è. Il secondo fattore è quello della violenza necessaria ad un simile processo, che non può essere portato a termine grazie alla "buona volontà dei governi" o "le aspirazioni dei popoli", qualsiasi cosa dica la propaganda borghese. L'esistenza stessa della borghesia è legata alla proprietà (privata o statale che sia) e la nascita di uno Stato comporta necessariamente l'espropriazione violenta di alcune frazioni nazionali borghesi da parte di altre. E' d'altronde sufficiente dare uno sguardo alla storia della nascita delle nazioni dal Medio Evo ai giorni nostri per rendersene conto.
Nel Medio Evo la situazione sociale, economica e politica è stata così descritta da Rosa Luxemburg: "Durante il Medio Evo, quando il feudalesimo dominava, i legami tra le parti e regioni di uno stesso Stato erano estremamente deboli. Così, ogni città importante produceva con il suo circondario cittadino la maggioranza delle merci di cui aveva bisogno; analogamente aveva le sue leggi, il suo governo, le sue milizie; le città più grandi e ricche dell'occidente a volte conducevano per conto proprio delle guerre e concludevano trattati con potenze straniere. Ogni comunità di una certa importanza aveva una sua vita isolata ed ogni porzione del dominio di un signore feudale o anche ognuna delle proprietà di un semplice cavaliere costituivano un piccolo Stato semi-indipendente" (1).
Ma all'interno stesso del feudalesimo sono già all'opera le forze che metteranno all'ordine del giorno il suo superamento: "La rivoluzione nei metodi produttivi e nelle relazioni commerciali avvenuta alla fine del Medio Evo, l'aumento dei mezzi di produzione e lo sviluppo di un'economia basata sulla circolazione del danaro e sul commercio internazionale, assieme alla creazione degli eserciti permanenti, tutto ciò favorì lo sviluppo del potere monarchico e l'affermazione dell'assolutismo. La tendenza centrale dell'assolutismo fu la creazione di un apparato statale centralizzato. Il 16° e 17° secolo costituiscono il fulcro dello scontro tra la centralizzazione assolutistica ed i resti del particolarismo feudale" (1). Il processo di costruzione di Stati moderni centralizzati, cominciato dai monarchi assolutisti, fu portato a termine dalla borghesia: "L'abolizione delle dogane interne e delle autonomie, sia fiscali sia giudiziarie, nelle varie municipalità e nelle terre signorili, furono le prime preoccupazioni della borghesia moderna. Di pari passo andò la creazione di una possente macchina statale che combinasse tutte le funzioni: dall'amministrativa sotto controllo del governo centrale alla legislativa affidata al Parlamento, dalle forze armate unificate sotto il comando del governo, alle dogane uniformate di fronte ai paesi stranieri, alla moneta unica valida in tutto il paese, ecc. Analogamente lo Stato moderno ha uniformato il più possibile l'educazione laica nelle scuole, l'insegnamento religioso nelle parrocchie, organizzando secondo gli stessi principi l'insieme dell'apparato statale. In una parola, la tendenza dominante del capitalismo è la massima centralizzazione possibile" (1).
All'interno di questo processo di formazione delle nazioni moderne la guerra ha sempre giocato un ruolo di primo ordine, sia per eliminare le resistenze interne dei settori retrogradi, sia per delimitare in modo vantaggioso le frontiere rispetto agli Stati confinanti. La Germania ci offre un buon esempio del ruolo della violenza nella costituzione di uno Stato forte: dopo aver sconfitto l'Austria e sottomesso i principi tedeschi, è la vittoria del 1871 contro la Francia che permette alla Prussia di imporre in modo stabile l'unità tedesca.
Analogamente la costituzione degli Stati Uniti d'America nel 1776, benché le sue origini non nascano da una società feudale (le colonie americane conquistarono l'indipendenza con le armi contro la madrepatria inglese), fornisce un'ulteriore illustrazione in questo senso: "Il primo nucleo dell'Unione delle colonie inglesi in Nord America, che erano state fino ad allora l'una indipendente dall'altra, che differivano tra loro sia politicamente che socialmente e che avevano interessi per molti versi divergenti, questo primo nucleo fu creato dalla rivoluzione" (1). Ma bisognò attendere la vittoria del Nord nella guerra di secessione del 1861 perché venisse a termine la costruzione di uno Stato moderno dalla forte coesione come sono gli Stati Uniti oggi: "E' in quanto difensori del centralismo che gli Stati del Nord agirono, rappresentando così lo sviluppo del grande capitale moderno, del moderno macchinismo, della libertà individuale e della libertà di fronte alla legge, cioè i veri e propri caratteri del lavoro salariato, della democrazia e del progresso borghese" (1).
L'800 vede la costituzione di nuove nazioni (Germania, Italia) o la lotta accanita per una tale costituzione (Ungheria, Polonia). Tutto questo "non è assolutamente fortuito, ma corrisponde alla spinta esercitata dall'economia capitalista in pieno sviluppo che trova nella nazione il quadro più appropriato per il suo ulteriore sviluppo" (2).
L'entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, agli inizi del secolo, impedisce ormai l'emergere di nuove nazioni capaci di inserirsi come validi concorrenti nella pattuglia dei paesi più industrializzati (3). Non a caso le sei maggiori potenze industriali negli anni '80 (Usa, Giappone, Russia, Germania, Francia e Inghilterra) sono le stesse sei dall'inizio del secolo. Nel contesto della decadenza del capitalismo e della competizione imperialista per mercati ormai saturi di merci, le nazioni arrivate in ritardo sull'arena mondiale tendono a restare sempre più in ritardo rispetto al plotone di testa. Marx sottolineava già nell'800 l'antagonismo permanente che esiste fra tutte le frazioni nazionali della borghesia: "La borghesia vive in uno stato di guerra permanente: prima contro l'aristocrazia, poi contro quelle frazioni della stessa borghesia i cui interessi contrastano con il progresso dell'industria, sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri" (4). Se la contraddizione con le resistenze feudali è stata ormai liquidata dal capitalismo, quella fra le diverse nazioni borghesi non ha fatto che esacerbarsi nella fase di decadenza. Basta questo a mostrare il carattere ipocrita e menzognero di tutte le chiacchiere sulla unione pacifica di diversi paesi.
Tutte le nazioni che nasceranno in questa fase, come per esempio la Jugoslavia (28 settembre 1918), risulteranno da modifiche di frontiere, da spezzettamenti di paesi sconfitti durante le guerre mondiali, e si troveranno quindi del tutto prive degli attributi necessari ad una grande nazione.
La fase attuale ed ultima della decadenza, quella della decomposizione della società, non solo è sfavorevole alla nascita di nuove nazioni, ma addirittura spinge alla disgregazione quelle dotate di minore coerenza. L'URSS è esplosa per questo e la sua esplosione ha agito come moltiplicatore di dissociazione in tutto l'Est europeo, dalla Cecoslovacchia alla Jugoslavia.
Poiché l'Europa non si è costituita in nazione alla fine dell'800, quando la nascita di nuove nazioni era ancora possibile, è del tutto impossibile che ci riesca adesso. Tuttavia, vista l'importanza dell'area - la più forte concentrazione industriale del mondo - è inevitabile che essa sia il teatro in cui si annodano e si sciolgono le alleanze imperialiste determinanti nel rapporto di forze internazionale. Così, dalla fine della II guerra mondiale fino al crollo dell'Est, l'Europa ha costituito la prima linea di fronte al blocco russo. Ancora oggi, dopo la disgregazione dell'ormai inutile blocco occidentale, l'Europa è il teatro principale del confronto fra Stati Uniti e Germania, i capifila dei futuri blocchi imperialisti, se arriveranno a costituirsi. A questa rete di alleanze imperialiste si sovrappone (ed a volte si contrappone) la mutevole rete di alleanze economiche contro la concorrenza di altri paesi.
L'EUROPA: UNO STRUMENTO DELL'IMPERIALISMO AMERICANO
Dopo la II guerra mondiale, l'Europa - semi distrutta - rischiava di cadere nelle mani dell'imperialismo russo. Per gli Usa era vitale sostenerla per renderla meno vulnerabile: il piano Marshall, votato nel 1948 e che prevedeva per il periodo 1948-1952 un aiuto di 17 miliardi di dollari, fu lo strumento di cui l'imperialismo Usa si servì per raggiungere i suoi obiettivi (5). La sua attuazione fu una delle pedine mosse in quegli anni dai due capifila imperialisti per costituire i loro blocchi. Nello stesso 1948 il blocco occidentale mette a segno la rottura della Jugoslavia con Mosca, il che impedisce la costituzione di una Federazione Balcanica filorussa assieme alla Bulgaria ed all'Albania, e la creazione del Patto di Assistenza di Bruxelles, che lega militarmente gli Stati del BENELUX, la Francia e la Gran Bretagna. Questo patto si trasformerà l'anno successivo nel Patto Atlantico, che porterà infine alla creazione della NATO nel 1950. Nel frattempo la Russia non dorme: dà inizio alla "guerra fredda" con il blocco di Berlino ed il colpo di stato filorusso in Cecoslovacchia (1948), costituisce nel 1949 il COMECON (Consiglio di assistenza economica) fra i paesi del suo blocco. Dall'Europa la polarizzazione dilaga nel resto del mondo: tanto per fare un esempio, dal 1946 al 1954 si svolge il primo round del confronto indocinese che terminerà con la disfatta delle truppe francesi a Dien Bien Phu.
Il piano Marshall funge da collante per i paesi beneficiari e la struttura che lo gestisce, l'"Organizzazione Europea di Cooperazione Economica", è l'antesignana di tutti gli "accordi" che la seguiranno. Tuttavia sono le necessità imperialistiche a dettare questi accordi ed in particolare quello della "Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio" (Ceca). "Il partito europeista animato da Robert Shumann si afferma nel 1949-50, nel momento in cui più si teme un'offensiva dell'URSS, e in cui si desidera rafforzare la capacità di resistenza europea, mentre contemporaneamente si varano sul piano politico il Consiglio di Europa e la Nato. Così si precisa il disegno di superare i particolarismi e di procedere verso la messa in comune delle grandi risorse europee, che sono alle basi della sua potenza, e cioè il carbone e l'acciaio" (6). E' così che nel 1952 nasce la Ceca, mercato comune per il carbone e l'acciaio tra Francia, Germania, Italia e BENELUX. Benché questa nuova comunità sia più autonoma della OECE, la sua funzione essenziale è ancora il rafforzamento economico - e dunque politico - della prima linea occidentale di fronte al blocco russo. Il fatto che la Gran Bretagna non faccia parte della Ceca non costituisce un indebolimento di questa vista la posizione geografica della Gran Bretagna e il suo forte legame con gli Usa.
La creazione della CEE (Comunità Economica Europea) nel 1957, con lo scopo di arrivare "alla soppressione graduale dei diritti di dogana, all'armonizzazione delle politiche monetarie, finanziarie e sociali, alla libera circolazione della mano d'opera ed al libero gioco della concorrenza" (6) costituisce un'altra tappa del processo di rafforzamento della coesione del blocco occidentale. Anche se, in prospettiva, essa costituisce un potenziale concorrente degli Usa, la CEE è in un primo momento uno stimolo al loro sviluppo economico: "L'Europa costituisce il luogo privilegiato degl'investimenti economici americani che, dopo il 1950, si sono moltiplicati di 15 volte. Il movimento dei capitali è rimasto relativamente modesto fino al 1957 (anno di creazione della CEE, ndr), per accelerare in seguito. La creazione del mercato continentale europeo portò gli americani a modificare la loro strategia per diversi motivi: la creazione di un sistema comunitario di tariffe rischiava di escluderli; i vecchi investimenti rischiavano di essere superati perché, all'interno di un mercato unificato risultava, tanto per fare un esempio, più vantaggioso investire in Italia o in Belgio, in termini di manodopera, tasse o sovvenzioni statali. Infine e soprattutto il nuovo mercato europeo rappresentava un insieme paragonabile agli Usa in popolazione, potenza industriale e, a medio termine, in livello di vita e presentava dunque delle potenzialità di vendita da non sottovalutare" (6).
In effetti lo sviluppo economico dell'Europa fu tale (nel corso degli anni '60 diventò la prima potenza industriale del mondo) che i suoi prodotti diventarono concorrenti diretti di quelli americani. Ma la somma statistica delle varie economie non significava affatto unità economica o politica, resa impossibile dai contrastanti interessi economici. Tanto per fare un esempio la Germania richiedeva un allargamento della CEE e maggiori scambi con gli Usa perché aveva bisogno di collocare le sue eccedenze di merci, mentre la Francia si batteva per una CEE più chiusa per proteggere la sua industria dalla concorrenza internazionale. Lo scontro fra la Francia e gli altri paesi si polarizza sulle reiterate domande di ammissione dell'Inghilterra che fino ad allora non aveva voluto aderire. Il governo De Gaulle, per scrollarsi di dosso la tutela americana, sosteneva che non poteva partecipare alla Comunità un paese che avesse relazioni "privilegiate" con gli Usa.
Così, "la CEE fu un successo molto relativo e non riuscì ad imporre una strategia comune. Il fallimento dell'EURATOM, nel 1969-70, ed il mezzo successo dell'aereo europeo Concorde, sono lì a testimoniarlo" (6). Tutto questo non deve sorprenderci nella misura in cui una strategia comune ed autonoma dell'Europa sul piano politico e in buona parte su quello economico, si sarebbe necessariamente scontrata con i limiti imposti dalla disciplina del blocco dominato dagli Usa.
Con il crollo del blocco avversario dell'Est questa disciplina è scomparsa provocando la dissoluzione, nei fatti, del blocco occidentale che era tenuto insieme dalla necessità di opporsi all'imperialismo russo. Il solo fattore di coesione attuale dell'Europa è di ordine economico, e cioè la necessità di accordarsi in qualche modo contro la concorrenza americana e giapponese. Ma questo fattore di coesione di per sè stesso è troppo debole per resistere alle tensioni imperialiste crescenti che attraversano e dilaniano l'Europa.
L'EUROPA: TERRENO DI LOTTA PER IL PREDOMINIO DA PARTE DEI GRANDI IMPERIALISMI
Gli accordi economici che sono alla base della CEE affermano il libero scambio all'interno della comunità, con tuttavia delle clausole che permettono ai vari paesi di proteggere almeno in parte certi settori della loro produzione. Di pari passo si sviluppano le misure protezionistiche, aperte o dissimulate, contro i paesi estranei alla CEE. In effetti gli accordi non mirano tanto ad eliminare la concorrenza fra i paesi europei, quanto a combattere la concorrenza Usa e giapponese. Ne sono una testimonianza gli ostacoli ipocriti messi all'importazione di auto giapponesi, per proteggere l'industria automobilistica europea. Così come ne è testimonianza (sull'altro fronte) l'accanimento con cui gli Usa cercano di incrinare il fronte europeo durante i negoziati GATT, riuscendovi, tra l'altro, nella faccenda delle sovvenzioni all'agricoltura.
Al di là di queste misure strettamente economiche ne esistono altre, allo stato di progetto o già in vigore, il cui scopo evidente è quello di rafforzare i legami fra i vari paesi. Così, per "proteggersi contro l'immigrazione di massa" e contemporaneamente contro "i fattori di destabilizzazione interna", sono stati approvati gli accordi di Schengen, firmati da Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo ed Olanda, cui si sono poi aggiunti Spagna e Portogallo.
Il significato di questi accordi non è tanto economico quanto politico perché rafforzando l'interdipendenza dei paesi membri, aprono la possibilità ad una maggiore indipendenza rispetto agli Usa. E questa possibilità non è una ipotesi campata in aria perché fra i paesi firmatari c'è la Germania che è il solo paese che abbia una possibilità di costituire un nuovo blocco contrapposto agli Usa. E' per questa ragione che Inghilterra e Olanda, fedeli alleati europei degli Stati Uniti, si dedicano ad un aperto lavoro di sabotaggio di questi tentativi di costruzione di un'Europa più "politica".
Le tensioni interimperialiste escono ancora più allo scoperto quando si tratta di accordi di cooperazione militare fra i paesi europei che sono in prima linea nel progetto di resistenza rispetto all'egemonia Usa. La condanna inglese della creazione della Brigata franco-tedesca, così come la reazione olandese: "L'Europa non deve essere sottomessa agli accordi franco-tedeschi", mostrano chiaramente gli schieramenti sul campo. Non a caso gli Usa, al di là di qualche dichiarazione di pura facciata, si sono sempre opposti al trattato di Maastricht, e questo nonostante il fatto che i suoi alleati inglesi ed olandesi siano in grado di paralizzare dall'interno gli accordi grazie al loro diritto di veto (8).
E' tuttavia evidente che anche questo ostruzionismo degli alleati degli Usa può arrivare fino ad un certo punto, pena la loro progressiva emarginazione dagli accordi europei. Se si arrivasse a tanto, la Comunità Europea si spaccherebbe, con evidenti danni economici per tutti, ma si accelererebbero i preparativi di costituzione di un nuovo blocco opposto agli Stati Uniti.
UN TERRENO PROPIZIO ALLE CAMPAGNE IDEOLOGICHE CONTRO LA CLASSE OPERAIA
Dato che il "progetto europeo" non è che una favola, che serve solo a mascherare il processo di costituzione di un nuovo blocco imperialista, la classe operaia non ha evidentemente niente da guadagnare a scendere in campo a favore di questo o quell'imperialismo. Vanno quindi rispediti al mittente sia gli appelli dei nazionalisti "ultrà", che si presentano come i "garanti dell'integrità nazionale" o anche come i "difensori degli interessi operai minacciati dall'Europa del capitale", sia gli appelli dei non meno nazionalisti sostenitori della "casa europea". Fra le menzogne utilizzate da questi ultimi alcune sono diventate veri e propri slogan della propaganda borghese.
"L'unità della maggioranza dei paesi europei porterà la pace nel mondo o almeno in Europa". Alla base di questa stupidaggine c'è l'idea che, se Francia e Germania sono alleate, non sarà più riproponibile lo scenario della I e II guerra mondiale. Questo sarà forse possibile (sempre che la Francia non cambi idea all'ultimo momento, passando al campo Usa), ma non cambia granché. Lo sviluppo di un'unità politico-militare dell'Europa non significa altro che l'apertura di una dinamica di formazione di un nuovo blocco imperialista intorno alla Germania. Se la classe operaia lascia alla borghesia le mani libere per costituire un nuovo blocco, allora ci sarà una nuova guerra mondiale ed a questo punto da che parte stiano i francesi non cambierà granché per i proletari.
"Una simile unione permetterebbe agli europei di evitare le calamità (miseria, fame, massacri etnici) che devastano la maggioranza degli altri paesi". Questa idea è complementare a quella precedente. Da una parte si cerca di far credere che potranno esistere delle isole felici, non toccate dalla crisi mondiale del capitalismo. Dall'altra si cerca di martellare nelle teste degli operai che questo miracolo sarebbe possibile se la classe operaia europea si affidasse alle frazioni "illuminate" e "lungimiranti" della sua borghesia, abbandonando al suo destino i proletari degli altri paesi. In una parola se accetta di sottomettersi alla difesa dei loro interessi nazionali, a sue spese.
"La classe operaia è in buona parte su posizioni reazionarie e nazionaliste, visto che si oppone in maggioranza all'unità europea". E' vero che, sottoposti alla propaganda borghese, gli operai si sono fatti spesso trascinare in questo falso dibattito, in particolare in occasione dei referendum su Maastricht. Ed è ugualmente vero che non sono stati insensibili ad appelli "in difesa delle loro condizioni di vita" che nascondevano in modo più o meno velato richiami al nazionalismo o alla xenofobia vera e propria. Questa è certamente una debolezza da parte dei lavoratori che sono permanentemente esposti alla pressione dell'ideologia. Ma alla borghesia non basta spingerli a schierarsi su un falso fronte, deve anche rinfacciare loro di essersi schierati. E così tutta la repellente schiera di commentatori, preti e sociologi imperversa su giornali e televisioni a spiegare che è fra gli operai che si trovano i "nuovi razzisti", in modo da dividere ulteriormente la classe in "reazionari" e "progressisti".
Di fronte alle menzogne sul "superamento delle frontiere" o sulla "Europa dei popoli", così come di fronte agli appelli alla chiusura nazionalista per "proteggersi dai costi sociali dell'Unione Europea" gli operai non hanno nessuna scelta da fare. La loro sola via è quella della lotta intransigente contro tutte le frazioni della borghesia per la difesa delle loro condizioni di esistenza e lo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria, attraverso la crescita della loro solidarietà ed unità internazionale di classe. La loro sola via di salvezza è la messa in pratica della vecchia e sempre attuale parola d'ordine del movimento operaio: "Gli operai non hanno patria. Proletari di tutti i paesi, unitevi!".
20/2/93 M.
1. Rosa Luxemburg, in "La questione nazionale".
2. "La lotta del proletariato nella decadenza del capitalismo. Lo sviluppo di nuove nazioni capitaliste", in Revue Internationale n.23.
3. Vedi l'articolo "Nazioni nate morte", Revue Internationale n.69.
4. Il Manifesto Comunista
5. Non a caso l'iniziativa di questo piano di aiuti "civili" fu il super generale Marshall, capo di Stato Maggiore dell'esercito Usa durante la II guerra mondiale.
6. "La seconda metà del XX secolo", libro 6°, pag.241, Pierre Leon, in "Storia economica e sociale del mondo".
7. Una simile iniziativa mostra come la Francia (ma anche la Spagna e l'Italia) senta il bisogno di rafforzarsi di fronte al potente e vicino alleato tedesco.
8. La politica degli Stati Uniti come su un duplice binario. Da una parte si oppongono ai tentativi francesi e tedeschi di associarsi per rendersi autonomi. Dall'altra creano un loro "Mercato Comune" per prepararsi ad una situazione mondiale sempre più difficile. La NAFTA, Associazione per il libero scambio nordamericano, mercato comune con Messico e Canada, non è un semplice accordo economico, ma un tentativo di rafforzare il controllo sull'area direttamente influenzata dagli Usa, sia contro le tendenze alla decomposizione sia contro le "incursioni" dei concorrenti europei e giapponesi.
Quando la classe operaia mostra apertamente la sua forza, minacciando di paralizzare la macchina produttiva, facendo indietreggiare lo Stato, scatenando un fermento di vita nell'insieme della società, come fu il caso, per esempio, durante lo sciopero di massa dell'estate 1980 in Polonia, la questione: "la classe operaia è la forza rivoluzionaria della nostra epoca?" sembra assurda. In Polonia, come in tutte le lotte sociali che hanno scosso il capitalismo, il cuore del movimento sociale non era altro che il cuore della classe operaia: i cantieri navali del Baltico, la siderurgia di Nova Huta, le miniere della Slesia.
Quando gli operai arrivano a rompere le forze che li atomizzano in polvere impotente, quando la loro unione esplode in faccia alla classe dominante, facendo vacillare tutto il suo edificio, costringendola a fare marcia indietro, è facile, se non evidente, comprendere come e perchè la classe operaia è la sola forza capace di concepire e di intraprendere un rovesciamento rivoluzionario della società.
Ma quando la lotta aperta cessa, quando il capitale riprende il controllo e reinstalla la sua cappa di piombo sulla società, ciò che sembrava così evidente in un dato momento pare sfumare anche nel ricordo, e il capitale decadente impone ai suoi sudditi la propria sinistra visione del mondo: quella di una classe operaia sottomessa, atomizzata, che entra in ranghi silenziosi tutte le mattine in fabbrica, incapace di rompere le sue catene.
Non mancano allora dei "teorici" per spiegare a chi vuole ascoltarli che la classe operaia è nei fatti parte integrante del sistema, che essa ha un posto da difendere e che solo degli illuministi ciechi per il loro fanatismo possono vedere in questa massa di individui sottomessi la portatrice della nuova società.
Quelli che difendono sempre apertamente le bontà del sistema capitalista, sia nella forma "occidentale" che stalinista, non hanno altro credo. Ma i periodi di riflusso della lotta operaia fanno anche regolarmente riapparire dei gruppi o pubblicazioni che teorizzano i "dubbi" sulla natura storica della classe operaia, dubbi che si esprimono anche tra quelli che rivendicano la rivoluzione comunista e che, inoltre, non hanno illusioni nè sulla natura dei paesi cosiddetti "socialisti", nè su quella dei partiti occidentali sedicenti "operai".
La vecchia idea anarchica e populista secondo la quale la rivoluzione sarà essenzialmente l'opera non di una classe economica specifica, ma dell'insieme degli uomini che, in un modo o in un altro, subiscono l'inumanità del capitalismo, guadagna terreno.
Proprio come al momento del riflusso delle lotte operaie dopo l'ondata del 1968-744, l’ideologia "modernista", l'ideologia della "teoria moderna della rivoluzione" che rigetta "il vecchio movimento operaio" e il suo "marxismo impolverato" sembra conoscere attualmente, con il ripiegamento delle lotte operaie dopo la Polonia, un certo ritorno. Ne sono testimonianza, fra le altre, in Francia l'apparizione della rivista La Banquise ed il passaggio al ritmo trimestrale della rivista La guerre sociale, e in Gran Bretagna la riapparizione di Solidarity (1).
Queste pubblicazioni sono relativamente differenti fra di loro, ma esse condividono tutte lo stesso rigetto di questa idea di base del “vecchio marxismo”: la classe operaia è la sola forza veramente rivoluzionaria della società; la distruzione del capitalismo e l'apertura verso una società comunista esigono un periodo di transizione caratterizzato dalla dittatura politica di questa classe.
Non abbiamo l'intenzione di sviluppare qui una critica completa dell'insieme delle idee difese da questo tipo di corrente. (...).
Quello che ci importa è riaffermare, in un momento di riflusso provvisorio delle lotte della classe operaia e di maturazione accelerata delle contraddizioni sociali che conducono alla rivoluzione comunista, il ruolo centrale di questa classe, perché essa è la classe rivoluzionaria e perché, quando si ignora questa realtà essenziale della nostra epoca, ci si condanna da una parte a non comprendere il corso della storia che si sviluppa sotto i nostri occhi (vedere il pessimismo larvato de La Banquise) e dall'altra parte a cadere nelle trappole più grossolane dell'ideologia borghese (vedere le ambiguità di La guerre sociale e di Solidarity sul sindacato Solidarnosc in Polonia).
Ciò è tanto più necessario in quanto, come gli studenti radicali del '68, certi gruppi modernisti sviluppano spesso un'analisi lucida e documentata di certi aspetti del capitalismo decadente, cosa che non fa che aggiungere credibilità alle loro scempiaggini politiche.
CHE COSA E' IL PROLETARIATO?
Per Marx, come per tutti i marxisti, i termini di classe operaia e di proletariato sono sempre stati sinonimi. Tuttavia fra quelli che mettono in discussione la natura rivoluzionaria della classe operaia, senza tuttavia osare richiamarsi direttamente all'anarchismo o al populismo radicale della fine del secolo scorso, é frequente inventare una distinzione fra i due termini. La classe operaia comprenderebbe gli operai e gli impiegati che vediamo tutti i giorni sotto il dominio del capitale con le loro lotte per miglioramenti salariali e per l'occupazione. Il proletariato sarebbe una forza rivoluzionaria dai contorni più o meno indeterminati, comprendente un po' tutto quello che, in un momento o in un altro, può rivoltarsi contro l'autorità dello Stato. Esso può andare dall'operaio della metallurgia al teppista di professione, passando per le prostitute, ricchi o poveri, omosessuali o studenti, secondo il pensiero "modernista". (Vedere il fascino che esercitavano i fuorilegge sull'Internazionale Situazionista o su Le Mouvement Communiste; vedere il giornale Il teppista della metà degli anni '70; vedere la fissazione di Solidarity sul femminismo).
Per la rivista Invariance (di Camatte), nel 1974, la definizione di proletariato finì per essere allargata al suo massimo: l'intera umanità. Dalla comprensione che il dominio del capitale era diventato sempre più totalitario e impersonale sulla società se ne deduceva che era tutta la "comunità umana" che doveva rivoltarsi contro il capitale. Cosa che equivaleva a negare la lotta di classe come dinamica della rivoluzione.
Oggi, La Guerre sociale ci offre un'altra definizione, più restrittiva, ma di poco più precisa:
"Il proletario non è l'operaio, e nemmeno gli operai e gli impiegati, lavoratori dei livelli bassi. Il proletario non è il produttore, anche se il produttore può essere proletario. Il proletario è quello che è 'tagliato da', è 'l'escluso', è il 'senza risorse'" (La guerre sociale n.6, "Lettera aperta ai compagni del 'Partito Comunista Internazionale mantenuto'", dicembre 1982).
E' vero che il proletariato é escluso, tagliato da ogni capacità reale di controllo sulla vita sociale, e dunque sulla sua propria vita; é vero che, contrariamente a certe classi sfruttate precapitalistiche, egli non possiede i suoi mezzi di produzione e vive senza risorse. Ma non é solo questo. Il proletario non è un "povero" come un altro. Egli é anche un produttore, il produttore del plusvalore che viene trasformato in capitale. Egli é sfruttato collettivamente, e la sua resistenza al capitale è immediatamente collettiva. E queste sono differenze sostanziali.
Allargare la definizione di proletariato non significa accrescere la classe rivoluzionaria, ma diluirla nella nebbia dell'umanesimo.
* * * * * * * * *
La Banquise, al seguito di Invariance, crede di poter fare riferimento a Marx per allargare la nozione di proletariato.
"Il prodotto si trasforma(...) in prodotto sociale, prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un personale da lavoro combinato, le cui membra hanno una parte più grande o più piccola nel maneggio dell'oggetto del lavoro. Quindi col carattere cooperativo del processo lavorativo si amplia necessariamente il concetto del lavoro produttivo e del veicolo di esso, cioè del lavoratore produttivo. Ormai per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate." (Marx, Il Capitale, Libro I, sezione V, cap. 14, Editori Riuniti)
Tuttavia, quello che Marx mette in rilievo qui non è che tutti nel mondo sarebbero diventati produttivi o proletari. Quello che egli sottolinea, è che la qualità specifica del compito assolto da questo o quel lavoratore non costituisce, nel capitalismo sviluppato, un criterio, una determinazione valida per stabilire se egli è produttivo o no. Modificando il processo di produzione secondo i suoi bisogni, il capitale sfrutta l'insieme della forza lavoro che esso compra, come quella di un lavoratore produttivo. L'utilizzazione concreta che esso fa di ognuno dei suoi salariati, operaio di panetteria o impiegato d'ufficio, produttore di armi o spazzino, è secondario dal punto di vista del sapere chi è sfruttato dal capitale. E' l'insieme complessivo che lo è. Il proletariato, la classe operaia include senz'altro oggi la maggior parte dei lavoratori del settore detto "terziario".
Per quanto si sia sviluppata, la dominazione del capitale non ha generalizzato a tutta la società la condizione di proletario. Il capitale ha generato una enorme massa di marginalizzati senza lavoro, soprattutto nei paesi sottosviluppati. Esso ha lasciato sopravvivere dei settori precapitalisti, come i piccoli contadini, il piccolo commercio, l'artigianato, le libere professioni.
Il capitale domina tutti i settori della società. E tutti quelli che subiscono il suo dominio nella miseria hanno delle ragioni per rivoltarsi contro di esso. Ma solo la parte che è direttamente legata al capitale attraverso il salariato e la produzione di plusvalore è veramente antagonista al capitale: essa sola costituisce il proletariato, la classe operaia.
PERCHÉ IL PROLETARIATO E' LA CLASSE RIVOLUZIONARIA?
Prima di Marx, la dinamica della storia della società rimaneva un mistero. Si faceva ricorso a delle nozioni di tipo religioso, come "La Provvidenza", al genio dei capi militari, o alla Storia con al S maiuscola, per tentare, invano, di tracciare un quadro coerente. Dimostrando il posto centrale della lotta di classe in questa dinamica, il marxismo ha, per la prima volta, permesso di comprenderla.
Tuttavia, facendo ciò, il marxismo non ha fornito una maniera di interpretare il mondo, ma una visione del mondo che permette allo stesso tempo di trasformarlo. Marx considerava che la sua scoperta fondamentale non era l'esistenza della lotta di classe in sè - che i teorici borghesi avevano già individuato - ma il fatto che la lotta di classe conduce alla dittatura del proletariato.
L'antagonismo inconciliabile tra classe operaia e capitale - dice Marx - deve condurre a una lotta rivoluzionaria per la distruzione dei rapporti sociali capitalisti e l'instaurazione di una società di tipo comunista. Questa rivoluzione avrà come protagonista la classe operaia; essa si dovrà organizzare in maniera autonoma, in quanto classe, rispetto al resto della società ed esercitare una dittatura politica al fine di distruggere da cima a fondo le basi del vecchio regime.
E' questa analisi che i modernisti rigettano:
"Per trasformare realmente le loro condizioni di esistenza, i proletari non devono sollevarsi in quanto 'classe operaia'; ma è questo la cosa più difficile, perché essi si battono proprio a partire dalle loro condizioni di esistenza. La contraddizione non sarà chiarita teoricamente se non quando essa sarà stata superata nella pratica." (La Banquise n° 1, "Prima della sconfitta", p. 11). "Il proletariato non deve ergersi in forza sociale prima di cambiare il mondo". (idem, n° 2, "La storia delle nostre origini", p. 29).
"Ma, fin d'ora, si finisce per chiudersi in questa oppressione se non la si attacca in quanto proletari, o in quanto esseri umani, e non sulla base di una specificità - che diventa sempre più illusoria - da conservare o da difendere. Il peggio è fare di questa specificità il depositario di una capacità di rivolta". (La guerre sociale, n° 5, "Verso la comunità umana", p. 32, sottolineatura nostra).
I modernisti non sanno che cos'è il proletariato fondamentalmente perché essi non comprendono perché il proletariato è rivoluzionario. Perché dovrebbe organizzarsi separatamente, in quanto classe, visto che esso deve battersi per l'eliminazione delle classi? Per i modernisti la classe operaia, in quanto classe, non è più rivoluzionaria di altri: in quanto classe, la sua lotta resta limitata ai miglioramenti salariali e alla difesa del lavoro da schiavo. Invece di costituirsi in classe politica, il proletariato dovrebbe cominciare con il negarsi come classe e affermarsi in quanto "esseri umani".
Il peggio, dice La guerre sociale, è fare di una specificità - essere operaio, per esempio - il depositario di una capacità di rivolta.
Con i modernisti, la storia sembra sempre cominciare con loro. La Comune di Parigi, lo sciopero di massa in Russia nel 1905, la Rivoluzione d'ottobre del 1917, il movimento rivoluzionario in Germania nel 1919, tutto ciò non ha dimostrato niente, non ha insegnato niente.
"La contraddizione non sarà chiarita teoricamente se non quando essa sarà stata superata nella pratica" dice La Banquise. Ma chi ha condotto le lotte rivoluzionarie contro il capitale da più di mezzo secolo se non la classe operaia che si batteva per la difesa delle sue aspirazioni specifiche?
Perché è sempre stato così?
"Perché nel proletariato pienamente sviluppato è fatta astrazione da ogni umanità, perfino dalla parvenza; perché nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita dell'odierna società nella loro forma più inumana; perché l'uomo nel proletariato ha perduto sé stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è stato spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa - dall'espressione pratica della necessità - alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione." (Marx, "La sacra famiglia", cap. 4, Ed. Riuniti).
Questa è la specificità della classe operaia: i suoi interessi immediati e storici coincidono con quelli dell'intera umanità, il che non è per nessuna altra classe della società. Il proletariato non può liberarsi del salariato capitalista, la forma più matura dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, senza eliminare ogni forma di sfruttamento, "tutte le inumane condizioni di vita della società attuale". Ma da ciò non deriva affatto che tutte le parti dell'umanità possiedano la forza materiale e la coscienza indispensabile per intraprendere una rivoluzione comunista.
La classe operaia trae la sua forza innanzitutto dalla sua posizione centrale nel processo di produzione. Il capitale non è macchine e materie prime; il capitale è un rapporto sociale. Quando, attraverso la sua lotta, la classe operaia rifiuta questo rapporto, il capitale è immediatamente paralizzato. Non c'è capitale senza plusvalore, non c'è plusvalore senza lavoro dei proletari, è in questo che risiede la potenza dei movimenti di sciopero di massa. Ciò spiega in parte perché la classe operaia può intraprendere materialmente la distruzione del capitalismo. Ma ciò non basta per spiegare perché essa può gettare le basi di una società comunista.
Gli schiavi di Spartaco, nell'antichità, o i servi della gleba nel feudalesimo avevano anch'essi una situazione centrale, determinante nel processo di produzione. Tuttavia le loro rivolte non potevano sboccare in una prospettiva comunista.
"La divisione della società in una classe che sfrutta e una classe che è sfruttata, in una classe che domina e una classe che è oppressa, è stata la conseguenza necessaria del precedente angusto sviluppo della produzione. Sino a quando il complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che supera soltanto di poco ciò che è necessario per un'esistenza stentata di tutti, sino a quando perciò il lavoro impegna tutto o quasi tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, necessariamente la società si divide in classi." (Engels, "AntiDuhring, parte 3, cap. 2, Editori Riuniti).
Il proletariato è portatore del comunismo perché la società capitalista ha creato i mezzi materiali della sua realizzazione. Sviluppando le ricchezze materiali della società al punto di permettere una abbondanza sufficiente per sopprimere le leggi economiche, cioè le leggi della gestione della penuria, il capitalismo ha aperto una prospettiva rivoluzionaria per la classe che esso sfrutta.
Infine, il proletariato è portatore della rivoluzione comunista perché è il portatore della coscienza comunista. Se si escludono le visioni semireligiose precapitalistiche di una società senza sfruttamento, il progetto di una società comunista senza proprietà privata, senza classi, dove la produzione sia orientata esclusivamente verso il soddisfacimento dei bisogni umani, appare e si sviluppa con l'esistenza della classe operaia e delle sue lotte. Le idee socialiste di Babeuf, Saint-Simon, Owen, Fourier, traducono lo sviluppo della lotta operaia alla fine del 18° secolo e all'inizio del 19°. La nascita del marxismo, la prima teoria coerente e scientificamente fondata del comunismo coincide con l'apparizione della classe operaia come forza politica specifica (Movimento Cartista in Inghilterra, Rivoluzioni del 1848). Da allora, in una maniera o in un'altra, con più o meno chiarezza a seconda dei casi, tutte le lotte importanti della classe operaia hanno ripreso le idee comuniste.
Le idee comuniste, la teoria rivoluzionaria, non si sono sviluppate che attraverso e in vista della comprensione delle lotte operaie. Tutti i grandi passi avanti della teoria della rivoluzione comunista sono state il prodotto, non delle pure deduzioni logiche di qualche pensatore da biblioteca, ma dell'analisi militante e impegnata dei grandi passi del movimento reale della classe operaia.
Ancora, è per questo che è solamente la classe operaia che ha messo in pratica (Comune di Parigi, Ottobre '17) la distruzione del potere capitalista in una direzione comunista.
La storia del movimento comunista non è altro che la storia del movimento operaio.
* * * * *
Questo vuol dire che il proletariato può fare la rivoluzione tutto solo ignorando il resto della società? Dopo il 19° secolo, il proletariato sa che il comunismo deve essere "l'unificazione del genere umano". L'esperienza della rivoluzione russa ha dimostrato l'importanza per la sua lotta dell'appoggio di tutti gli strati sfruttati. Ma l'esperienza ha anche messo in evidenza che solo il proletariato è capace di offrire un programma rivoluzionario coerente. L'unificazione dell'umanità, e in un primo tempo di tutti gli sfruttati, non può farsi che sulla base dell'attività e del programma della classe operaia. Organizzandosi in maniera separata, il proletariato non divide la società, esso si dà i mezzi per condurre la sua unificazione comunista.
E' perciò che, contrariamente a quello che affermano i modernisti, la marcia verso la rivoluzione comunista comincia con l'organizzazione unitaria della classe operaia come forza autonoma, con la dittatura del proletariato.
LO SCOMBUSSOLAMENTO DEL MODERNISMO
Il periodo storico
Comprendere il periodo storico attuale ignorando che è la classe operaia che è la forza rivoluzionaria, è difficile quanto capire la fine del regime feudale senza tener conto dello sviluppo della borghesia rivoluzionario.
Difficilmente si può sapere se le condizioni di un rovesciamento rivoluzionario si sviluppano o meno se non si sa ancora identificare il protagonista di una tale rivoluzione.
Chiunque conosce la storia del movimento operaio e comprende la sua natura rivoluzionaria sa che il processo che conduce il proletariato alla rivoluzione comunista non ha niente di lineare o di automatico. E' una dinamica dialettica fatta di arretramenti e di avanzate, dove solo una lunga pratica ed esperienza della lotta permette a dei milioni di proletari, sotto la pressione della miseria, di unificarsi, di ritrovare le lezioni delle lotte passate, si scoperchiare la cappa ideologica della classe dominante, per lanciarsi in un nuovo assalto contro l'ordine stabilito.
Ma quando nelle lotte operaie come classe non si vede che delle lotte senza uscita, senza comprenderle nella loro dinamica e potenzialità rivoluzionarie, non si può che rimanere sconcertati. Se non si vede nelle lotte come quelle della Polonia '80 che delle lotte "interne al capitalismo", è normale che si sia depressi, 15 anni dopo il Maggio '68; è normale che non si veda il fatto che, malgrado il riflusso momentaneo delle lotte operaie dopo il 1980, gli scioperi che, puntualmente, scoppiano qui e lì nel cuore dei paesi industrializzati (Belgio '82, Italia '83) dimostrano che non si assiste ad un imbrigliamento degli operai dietro gli interessi dell'economia nazionale e i suoi rappresentanti sindacali, ma, al contrario, a degli scontri sempre più violenti fra operai e sindacati.
E' così che il n° 1 de La Banquise si apre con questa frase caratterizzata dalla nostalgia delle barricate del 1968 a Parigi e da un tono depressivo:
"Sotto le pietre, la spiaggia, dicevamo prima della grande glaciazione. Oggi, la banchisa ha ricoperto tutto. Dieci, venti, cento metri di ghiaccio sopra le pietre, allora, la spiaggia..."
E' una depressione tanto senile quanto era infantile l'illusione degli studenti radicali del '68 che credevano che si potesse "tutto, e subito".
L'impotenza e la confusione del modernismo di fronte alla lotta operaia
Non è per niente un caso che pubblicazioni moderniste come Solidarity o La Guerre sociale abbiano cessato di uscire al momento delle lotte operaie in Polonia. Come la piccola borghesia di cui è una espressione "radicale", la corrente modernista vive nell'ambiguità e l'esitazione tra il rigetto dell'ideologia borghese e un disprezzo per le lotte terra terra degli operai. Quando la forza della rivoluzione si afferma, anche in maniera embrionaria, come in Polonia, la storia tende a sbarazzarsi delle ambiguità e quindi delle ideologie che vi pullulano. E' quello che è momentaneamente successo al modernismo durante l'anno 1980.
Ma lo scombussolamento politico di questa corrente non si arresta disgraziatamente all'impotenza. Essa può arrivare alla difesa delle posizioni più piattamente gauchistes quando deve pronunciarsi su una lotta operaia.
E' così che La Guerre Sociale si ritrova a fianco di trotskysti e altri democratici a ripetere che il sindacato Solidarnosc - l'organizzatore della sconfitta del proletariato in Polonia - è un organo proletario:
"Incontestabilmente Solidarnosc è un organo del proletariato. Il fatto che alla sua testa ci siano degli elementi usciti da strati sociali non operai (intellettuali ed altri) non toglie nulla al fatto che il proletariato fin dall'inizio si sia riconosciuto in esso. Come spiegare, se no, l'adesione della quasi totalità del proletariato polacco? Come spiegare l'influenza del sindacato su questo?" ("La Guerre Sociale", n° 6)
E' questo il modo di ragionamento limitato tipico dei gauchistes nello spirito della III Internazionale in degenerazione. Secondo questa logica la Chiesa polacca, che ha più fedeli polacchi di Solidarnosc, dovrebbe essere anch’essa "incontestabilmente un organo del proletariato"... e il Papa, Lenin!
La Guerre Sociale parla anche in termini generali della natura dei sindacati, ma solo per resuscitare la vecchia zuppa ambigua del gruppo "Pouvoir Ouvrier" (fine degli anni '60, proveniente anch'esso da Socialisme ou Barbarie) della “doppia natura dei sindacati”:
“Il sindacato non è un organo del capitale, una macchina da guerra contro il proletariato, ma l'espressione organizzativa del suo rapporto col capitale, antagonismo e cooperazione. Esso esprime allo stesso tempo che il capitale non è niente senza il proletariato e, in termini immediati, viceversa." (idem)
Nel capitalismo decadente non c'è cooperazione tra capitale ed operai che possa tornare a profitto di questi ultimi. La visione che identifica, nella nostra epoca, i sindacati alla classe operaia, non è nient'altro che quella della propaganda delle classi dominanti (che sanno d'altronde cooperare a livello mondiale per costruire una credibilità a Solidarnosc). Essa poggia sull'idea che ci possa essere conciliazione tra l'interesse del capitale e l'interesse del proletariato; essa ignora la natura rivoluzionaria della classe operaia. E' così che la Guerre Sociale può fare candidamente la seguente constatazione:
"La differenza sostanziale tra Solidarnosc e il proletariato polacco è che il primo teneva conto degli interessi economici nazionali e internazionali, necessari alla sopravvivenza del sistema, mentre il secondo ha proseguito la difesa dei suoi interessi immediati senza preoccuparsi minimamente dei problemi della valorizzazione del capitale" (Idem)
Solo ignorando la natura rivoluzionaria del proletariato, considerando questo essenzialmente come una parte del capitale e non come il suo distruttore, si può vedere una qualunque identità tra gli "interessi economici nazionali e internazionali" del capitale e gli "interessi immediati" del proletariato.
* * * * *
Il proletariato è la prima classe rivoluzionaria che sia allo stesso tempo una classe sfruttata. Il processo di lotte che lo conduce alla rivoluzione comunista è inevitabilmente marcato da periodi di riflusso, di ripiego. Questi ripieghi non si concretizzano solo in una diminuzione del numero di lotte operaie. Anche sul piano della coscienza il proletariato subisce un disorientamento che si traduce nell'indebolimento delle sue espressioni politiche rivoluzionarie e facilita il risorgere delle correnti che coltivano "il dubbio" sulla classe operaia.
La rottura del 1968, dopo quasi un mezzo secolo di controrivoluzione trionfante, ha aperto un corso verso lo sviluppo di scontri di classe sempre più decisivi. Questo corso non è stato rovesciato dal riflusso del dopo Polonia, come non lo fu con il riflusso del 1975-78. Le condizioni storiche di questo riflusso di consumano alla stessa velocità con cui si approfondisce la crisi economica del capitalismo e la realtà si incarica di distruggere, lentamente ma sistematicamente, i pilastri dell'ideologia borghese decadente (natura operaia dei paesi dell'est, Stato sociale, democrazia parlamentare, sindacati, lotte di liberazione nazionale, ecc.).
Maturano tutte le condizioni affinché la lotta del proletariato torni a ricordare, con tutta la sua forza, l'avvenire dell'umanità è rovesciare tutti i dubbi sulla sua natura rivoluzionaria.
RV
1. Questi tre gruppi sono direttamente o indirettamente legati a Socialisme ou Barbarie, rivista degli anni 50-60, il cui principale animatore, Castoriadis (alias Chaulieu, Cardan, Coudray) teorizzò lungamente il superamento del marxismo.
Se la risposta del proletariato alla prima guerra mondiale è abbastanza nota, meno noti sono gli episodi di lotta di classe che non mancarono di manifestarsi anche durante la seconda guerra mondiale, in particolare in Italia. Quando gli storici e i propagandisti della borghesia ne parlano, è per cercare di dimostrare che gli scioperi del '43 in Italia costituirono l'inizio della resistenza "antifascista", e quest'anno, nel cinquantenario di quegli episodi, i sindacati italiani non hanno mancato di rilanciare questa mistificazione, con le loro "commemorazioni" nazionaliste e patriottiche.
E' alla confutazione di queste menzogne, e alla riaffermazione della capacità della classe di rispondere alla guerra imperialista sul suo proprio terreno che è dedicato questo articolo.
1943: IL PROLETARIATO ITALIANO SI OPPONE AI SACRIFICI DELLA GUERRA
In effetti già nella seconda metà del 1942, quando ancora le sorti della guerra erano tutte aperte e il fascismo sembrava saldo al potere, nelle grandi fabbriche del nord Italia ci furono scioperi sporadici contro il razionamento e per aumenti salariali. Non erano che le prime avvisaglie del malcontento che la guerra aveva creato tra le fila proletarie, per tutti i sacrifici che essa comportava.
Il 5 marzo 1943 comincia lo sciopero alla Mirafiori di Torino, nel giro di pochi giorni si allarga ad altre fabbriche coinvolgendo decine di migliaia di operai. Le rivendicazioni sono molto chiare e semplici: aumento delle razioni di viveri, aumenti salariali e... fine della guerra. Nel corso del mese le agitazioni si allargano alle grandi fabbriche di Milano, all'intera Lombardia, alla Liguria e in altre parti d'Italia.
La risposta del potere fascista fu quello del bastone e della carota: arresto degli operai più in vista ma anche concessioni rispetto alle rivendicazioni più immediate. Benché Mussolini sospettasse che dietro gli scioperi ci fossero le forze antifasciste, non poteva permettersi il lusso di far crescere la protesta operaia. E in effetti i suoi sospetti erano poco fondati, gli scioperi sono totalmente spontanei, partono dalla base operaia e dal suo malcontento contro i sacrifici della guerra, tant'è vero che agli scioperi partecipavano anche gli operai "fascisti".
"L'elemento tipico di questa azione fu il suo carattere classista che, sul piano storico, conferisce agli scioperi del 1943-44 una fisionomia propria, unitaria, tipica, anche rispetto all'azione generale condotta unitariamente dai Comitati di liberazione nazionale" (Sergio Turone: Storia del sindacato in Italia, pag. 14) (1).
"Valendomi solo del mio prestigio di vecchio organizzatore sindacale affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente" (Dichiarazione del sottosegretario Tullio Cianetti, citata nel libro di Turone, pag. 17).
Il comportamento degli operai non impressionò solo i gerarchi fascisti, ma l'intera borghesia italiana, che negli scioperi di marzo vide il rinascere dello spettro proletario, un nemico ben più pericoloso degli avversari sul campo di battaglia. Da questi scioperi la borghesia trae la consapevolezza che il regime fascista non è più adatto a contenere il malcontento operaio e prepara la sua sostituzione e la riorganizzazione delle sue forze "democratiche".
Il 25 luglio il re destituisce Mussolini, lo fa arrestare e dà l'incarico di formare un nuovo governo al maresciallo Badoglio. Una delle prime preoccupazioni di questo governo è la rifondazione dei sindacati "democratici" per creare nuovi contenitori in cui far confluire la protesta operaia che nel frattempo si era data propri organismi di conduzione e quindi era al di fuori di qualunque controllo. Il ministro delle Corporazioni (si chiamava ancora così!), Leopoldo Piccardi, fa liberare il vecchio dirigente sindacale socialista Bruno Buozzi dal confino e gli propone l'incarico di commissario alle organizzazioni sindacali. Buozzi chiede e ottiene come vice-commissari il comunista Roveda e il democristiano Quadrello. La scelta della borghesia è ben studiata, Buozzi è molto conosciuto per aver partecipato agli scioperi del 1922 (l'occupazione delle fabbriche), in cui aveva dimostrato la sua fede borghese adoperandosi per contenere la possibile crescita del movimento.
Ma gli operai non sapevano che farsene della democrazie borghese e delle sue promesse. Se avevano sfidato il regime fascista era innanzitutto perché non ne potevano più dei sacrifici imposti loro dalla guerra, e il governo Badoglio chiedeva loro di continuare a sopportarla.
Così a metà agosto '43 gli operai di Torino e Milano scendono di nuovo in sciopero chiedendo con ancora più forza di prima la fine della guerra. Le autorità locali rispondono ancora una volta con la repressione, ma più efficace di questa risultò il viaggio di Piccardi, Buozzi e Roveda al nord per incontrare i rappresentanti degli operai e convincerli a riprendere il lavoro. Prima ancora di avere rifondato le loro organizzazioni, i sindacalisti del regime "democratico" cominciano il loro sporco lavoro antioperaio!
Presi tra repressione, concessioni e promesse, gli operai ritornano al lavoro, aspettando gli eventi. Questi cambiano rapidamente. Già nel luglio gli alleati erano sbarcati in Sicilia, l'8 settembre Badoglio firma l'armistizio con gli alleati, scappa al sud insieme al re e chiede alla popolazione di continuare la guerra contro i nazifascisti. Dopo qualche manifestazione di entusiasmo, la reazione è quella di una smobilitazione disordinata. Molti soldati gettano via le divise e se ne tornano a casa, oppure si nascondono.
Gli operai, che non erano capaci di insorgere sul proprio terreno di classe, non accettano di prendere le armi contro i tedeschi e tornano al lavoro, preparandosi ad avanzare le loro rivendicazioni immediate contro i nuovi padroni dell'Italia del nord. In effetti l'Italia è divisa in due: al sud ci sono le truppe alleate e una parvenza di governo legale; al nord comandano invece di nuovo i fascisti, o per meglio dire le truppe tedesche.
Anche senza una partecipazione popolare, nei fatti la guerra continua. I bombardamenti alleati nel nord Italia si fanno ancora più duri e con essi diventano più dure le condizioni di vita degli operai. Così, nel novembre-dicembre gli operai riprendono la via della lotta, affrontando questa volta una repressione ancora più dura. Accanto agli arresti stavolta c'è una minaccia ancora più pericolosa: la deportazione in Germania.
Coraggiosamente gli operai avanzano le loro rivendicazioni. A novembre scioperano gli operai di Torino, le cui rivendicazioni vengono in buona parte accettate. All'inizio di dicembre scendono in sciopero gli operai di Milano, anche qui promesse e minacce da parte delle autorità tedesche. Significativo il seguente episodio: "Alle 11,30 arriva il generale Zimmerman il quale intima: chi non riprende il lavoro esca dallo stabilimento; chi esce è dichiarato nemico della Germania. Tutti gli operai escono dallo stabilimento" (Da un giornale clandestino del PCI, citato da Turone, pag. 47). A Genova il 16 dicembre gli operai scendono in piazza, ma questa volta le autorità tedesche usano il pugno forte: ci sono scontri con morti e feriti, scontri che proseguono sempre con la stessa durezza per tutto il mese di dicembre in tutta la Liguria.
E' questo il segnale della svolta: il movimento si è indebolito, anche a causa della divisione dell'Italia in due; i tedeschi, in difficoltà sul fronte, non possono più consentire l'interruzione della produzione e affrontano con risolutezza la questione operaia (anche perché questa comincia a presentarsi, con scioperi, all'interno della stessa Germania); infine il movimento comincia a snaturarsi, a perdere il suo carattere spontaneo e classista, grazie anche al lavorio delle forze "antifasciste" che cercano di dare alla protesta operaia il carattere di lotta "di liberazione", favoriti in questo dal fatto che numerose avanguardie operaie per sfuggire alla repressione riparano in montagna, dove vengono arruolate nelle bande partigiane. In effetti ci sono ancora scioperi nella primavera del '44 e del '45, ma ormai la classe operaia ha perso l'iniziativa.
GLI SCIOPERI DEL 1943: UNA LOTTA CLASSISTA E NON UNA GUERRA ANTIFASCISTA
La propaganda borghese cerca di presentare tutto il movimento di scioperi dal '43 al '45 come una lotta antifascista. I pochi elementi che abbiamo ricordato dimostrano che non è così. Gli operai lottano contro la guerra e i sacrifici che essa impone loro. E per farlo si scontrano contro i fascisti quando questi sono ufficialmente al potere (nel marzo), contro il governo non più fascista di Badoglio (nell'agosto), contro i nazisti quando questi sono i veri padroni del nord Italia (nel dicembre).
Quello che invece è vero è che le forze "democratiche" e della sinistra borghese, PCI in testa, fin dall'inizio cercano di snaturare il carattere classista della lotta operaia per deviarla su quello borghese della lotta patriottica e antifascista. Ed è a questo lavoro che dedicano tutti i loro sforzi: colte di sorpresa dal carattere spontaneo del movimento, le forze "antifasciste" sono costrette ad inseguirlo, cercando nel corso stesso degli scioperi di inserire le loro parole d'ordine "antifasciste" in mezzo a quelle degli scioperanti; spesso i militanti locali si mostrano incapaci di farlo, prendendosi per questo tutti i rimproveri dei dirigenti dei loro partiti. Tutti presi dalla loro logica borghese, i dirigenti di questi partiti non riescono, o hanno difficoltà, a capire che per gli operai lo scontro è sempre contro il capitale, quale che sia la forma in cui si presenta: "ricordiamo quanta fatica facemmo nei primi tempi della lotta di liberazione a far capire a operai e contadini che non avevano una formazione comunista (sic!), che capivano che bisognava lottare contro i tedeschi magari, ma che dicevano 'per noi, che siano padroni gli italiani o i tedeschi, poi non ha tanta differenza'" (E. Sereni, dirigente all'epoca del PCI, in "Il governo del CL", citato da Romolo Gobbi: Operai e resistenza, pag.34) (2).
E no, signor Sereni, gli operai capivano benissimo che il loro nemico era il capitalismo, che era contro di esso che bisognava battersi, quale che fosse la forma in cui si presentava; così come voi, borghesi come i fascisti che combattevate, capivate che era proprio questo il pericolo contro cui vi battevate!
Non siamo certo tra quelli che negano la necessità della lotta politica per una vera emancipazione del proletariato; il problema è quale politica, su quale terreno, in che prospettiva. Quella della lotta "antifascista" era una politica tutta patriottica e nazionalborghese, che non metteva in discussione il potere del capitale. Invece, anche se solo in nuce, la più semplice rivendicazione "pane e pace", se portata fino in fondo, e fu questo che gli operai italiani non furono capaci di fare, conteneva in sé la prospettiva della lotta al capitalismo, che questa pace e questo pane non era capace di concedere.
NEL 1943 LA CLASSE OPERAIA DIMOSTRA DI NUOVO LA SUA NATURA ANTAGONISTA AL CAPITALE...
"Pane e pace", una parola d'ordine semplice e immediata, che fece tremare di paura la borghesia mettendo in pericolo i suoi piani imperialisti. Pane e pace era la parola d'ordine su cui si era mosso il proletariato russo nel 1917 e a partire dalla quale aveva cominciato il suo cammino rivoluzionario che lo portò alla presa del potere nell'ottobre. Ed infatti anche nel 1943 non mancarono gruppi operai che negli scioperi del '43 avanzavano la parola d'ordine di formazione dei Soviet, ed è noto, così come è riconosciuto a volte anche dalle ricostruzioni dei partiti "antifascisti", che in buona parte degli operai la partecipazione alla resistenza era vista non in funzione patriottica ma anticapitalista.
Infine, il timore della borghesia era giustificata dal fatto che movimenti di sciopero ci furono anche in Germania nello stesso 1943 e successivamente in Grecia, Belgio, Francia e Gran Bretagna (3).
Con questi movimenti la classe operaia ritorna sulla scena sociale minacciando il potere borghese. L'aveva già fatto, vittoriosamente, nel 1917, quando la rivoluzione russa aveva costretto i contendenti a mettere fine prematuramente alla guerra mondiale, per affrontare tutti uniti il pericolo proletario che dalla Russia si andava estendendo all'intera Europa.
Come abbiamo visto, gli scioperi in Italia accelerarono la caduta del fascismo ed anche l'uscita dell'Italia dalla guerra. Con questa sua azione la classe operaia confermò anche nella seconda guerra mondiale di essere l'unica forza sociale capace di opporsi alla guerra. Contrariamente infatti al pacifismo piccolo-borghese, che manifesta per "chiedere" al capitalismo di essere meno bellicoso, la classe operaia, quando agisce sul proprio terreno di classe, mette in discussione il potere stesso del capitalismo, e quindi la sua possibilità di continuare le proprie imprese belliche.
Potenzialmente, gli scioperi del '43 contenevano la stessa minaccia del 1917: la prospettiva di un processo rivoluzionario del proletariato.
Le frazioni rivoluzionarie dell'epoca colsero, sopravvalutandola, questa possibilità e si diedero da fare per favorirla. La Frazione Italiana della Sinistra Comunista (che pubblicava prima della guerra la rivista Bilan), superando le difficoltà che aveva conosciuto all'inizio della guerra, tenne, insieme al neonato Nucleo Francese della Sinistra Comunista, una conferenza nell'agosto del 1943 a Marsiglia, sull'onda dell'analisi secondo cui gli avvenimenti italiani avevano aperto una fase prerivoluzionaria per cui era giunto il momento della "trasformazione della frazione in partito" e del ritorno in Italia per contrastare il tentativo dei falsi partiti operai di "mettere il bavaglio alla coscienza rivoluzionaria" del proletariato. Comincia così tutto un lavoro di difesa del disfattismo rivoluzionario che portò la Frazione a diffondere nel giugno del 1944 un manifesto agli operai d'Europa irreggimentati nei diversi eserciti in guerra perché fraternizzassero e rivolgessero la loro lotta contro il capitalismo, quello democratico come quello fascista.
Anche i compagni che erano rimasti in Italia si riorganizzano e, sulla base di un'analisi simile a quella di Bilan, fondano il Partito Comunista Internazionalista. Questa organizzazione comincia anch'essa un lavoro di disfattismo rivoluzionario, combattendo il patriottismo delle formazioni partigiane e propagandando la rivoluzione proletaria (4).
Dopo cinquant'anni, se non possiamo non ricordare con orgoglio il lavoro e l'entusiasmo di questi compagni (alcuni dei quali persero la vita per questo), dobbiamo però riconoscere che l'analisi che li sorreggeva era sbagliata.
...MA LA GUERRA NON E' LA SITUAZIONE MIGLIORE PER LO SVILUPPO DI UN PROCESSO RIVOLUZIONARIO
I movimenti di lotta che abbiamo ricordato, e in particolare quelli dell'Italia nel 1943, dimostrano indubbiamente il risorgere del proletariato sul proprio terreno di classe e l'inizio di un potenziale processo rivoluzionario. Tuttavia l'esito non fu lo stesso del movimento nato contro la guerra nel 1917: il movimento del 1943 in Italia non riuscì a mettere fine alla guerra come quello in Russia e poi in Germania dell'inizio del secolo, e nemmeno riuscì ad evolvere fino ad uno sbocco rivoluzionario (che solo avrebbe potuto anche mettere fine alla guerra).
Le ragioni di questa sconfitta sono diverse, alcune di ordine generale, altre specifiche della situazione in cui si svilupparono questi avvenimenti.
Innanzitutto se è vero che la guerra spinge il proletariato ad agire in modo rivoluzionario, questo avviene principalmente nei paesi vinti. Il proletariato dei paesi vincitori resta generalmente molto più sottomesso ideologicamente alla classe dominante, cosa che contrasta l'indispensabile estensione mondiale che la sopravvivenza del potere proletario richiede. Inoltre, se la lotta arriva ad imporre la pace alla borghesia, essa si priva di per ciò stesso delle condizioni straordinarie che hanno fatto nascere questa lotta. In Germania, per esempio, il movimento rivoluzionario che condusse all'armistizio del 1918 soffrì fortemente, dopo questo, della pressione di tutta una parte di soldati che tornati dal fronte non avevano che un desiderio: rientrare nelle loro famiglie, gioire di questa pace tanto desiderata e a così caro prezzo conquistata. In realtà, la borghesia tedesca aveva tirato le lezioni della Rivoluzione in Russia in cui il proseguimento della guerra da parte del governo provvisorio, successore del regime zarista dopo il febbraio '17, aveva costituito il miglior alimento dell'ascesa rivoluzionaria in cui i soldati avevano giocato un ruolo di primo piano. Per questo il governo tedesco firmò l'armistizio con l'Intesa fin dall'11 novembre, due giorni dopo l'inizio dell'ammutinamento nella flotta da guerra a Kiel.
Dall'altro lato, questi insegnamenti del passato sono messi a profitto dalla borghesia nel periodo che precede la seconda guerra mondiale. La classe dominante si lancia nella guerra solo dopo essersi assicurata che il proletariato fosse completamente assoggettato. La sconfitta del movimento rivoluzionario degli anni venti aveva spinto il proletariato in un profondo scombussolamento, alla demoralizzazione si erano aggiunte le mistificazioni sul "socialismo in un paese solo" e sulla "difesa della patria socialista". Questo scombussolamento consente peraltro alla borghesia di fare la prova generale della guerra mondiale attraverso la guerra di Spagna, dove l'eccezionale combattività del proletariato spagnolo viene deviata sul terreno della lotta antifascista e dove lo stalinismo riesce a trascinare su questo terreno borghese anche importanti battaglioni del restante proletariato europeo.
Infine, nel corso della guerra stessa, quando nonostante questa debolezza di partenza il proletariato comincia ad agire sul proprio terreno di classe, la borghesia prende subito le sue misure.
In Italia, dove più forte era il pericolo, la borghesia, come abbiamo visto, si affretta a cambiare regime e poi alleanze. Nell'autunno del 1943 l'Italia è divisa in due, con il sud in mano agli alleati e il resto occupato dai nazisti; su consiglio di Churchill ("bisogna lasciar cuocere l'Italia nel suo brodo"), gli alleati ritardano la loro avanzata verso il nord ottenendo così due risultati: da un lato si lascia all'esercito tedesco il compito di reprimere il movimento proletario, dall'altro si consente alle forze "antifasciste" il compito di deviare questo stesso movimento dal terreno di una lotta anticapitalista a quello della lotta antifascista. Nel giro di quasi un anno questa operazione riesce, e da allora l'azione proletaria, anche se continua a rivendicare miglioramenti immediati, non è più autonoma. D'altra parte agli occhi dei proletari la continuazione della guerra è dovuta all'occupazione nazista, per cui la propaganda delle forze antifasciste ha facile gioco.
Quella della guerra partigiana come lotta popolare è in gran parte una favola, perché essa fu una guerra vera e propria organizzata dalle forze alleate e antifasciste e in cui la popolazione veniva arruolata a forza (o con l'inganno ideologico) come in qualsiasi altra guerra; è però anche vero che il fatto che fu lasciato ai nazisti il compito di reprimere il movimento proletario e di risultare i responsabili della continuazione della guerra, favorì il crescere di un odio antifascista e quindi la propaganda delle forze partigiane.
In Germania, forte dell'esperienza del primo dopoguerra, la borghesia mondiale ha condotto un'azione sistematica per evitare il ritorno di avvenimenti simili a quelli del 1918-19. In primo luogo, poco prima della fine della guerra, gli Alleati procedono a uno sterminio di massa delle popolazioni dei quartieri operai attraverso bombardamenti senza precedenti di grandi città come Amburgo o Dresda, dove, il 13 febbraio 1945, 135.000 persone (il doppio di Hiroshima) muoiono sotto le bombe. Questo obiettivo non aveva nessun valore militare (e d'altra parte le armate tedesche erano già in piena rotta): si tratta in realtà di terrorizzare ed impedire ogni organizzazione del proletariato. In secondo luogo, gli Alleati rigettano ogni proposta di armistizio fino a che non hanno occupato la totalità del territorio tedesco: essi vogliono amministrare direttamente questo territorio sapendo che la borghesia tedesca vinta rischia di non essere capace di controllare da sola la situazione. Infine, dopo la capitolazione di questa, e in stretta collaborazione con essa, gli Alleati trattengono per lunghi mesi i prigionieri di guerra tedeschi, al fine di evitare la miscela esplosiva che il loro ricongiungimento con la popolazione civile avrebbe potuto costituire.
In Polonia, nel corso della seconda metà del 1944, è l'Armata Rossa che lascia lo sporco compito di massacrare gli operai insorti a Varsavia alle forze naziste: l'Armata Rossa aspettò dei mesi a pochi chilometri da Varsavia che le truppe tedesche soffocassero la rivolta. La stessa cosa avvenne a Budapest all'inizio del 1945.
Così in tutta l'Europa la borghesia, forte dell'esperienza del 1917, e messa sull'avviso dai primi scioperi operai, non aspetta che il movimento cresca e si rafforzi: con lo sterminio sistematico, con il lavoro di deviazione delle forze staliniste e antifasciste, essa riesce a bloccare il pericolo proletario e impedirgli di crescere.
50 ANNI DOPO IL 1943 IL PROLETARIATO DEVE TRARRE LE SUE LEZIONI
Il proletariato non riuscì a bloccare la seconda guerra mondiale, nè tantomeno riuscì a sviluppare un movimento rivoluzionario. Ma come per tutte le battaglie del proletariato, le sconfitte possono essere trasformate in armi per il domani, se il proletariato ne trae le giuste lezioni. E queste lezioni, tocca in primo luogo ai rivoluzionari metterle in evidenza, identificarle con chiarezza. Un tale lavoro presuppone in particolare che essi, sulla base di una profonda assimilazione dell'esperienza del movimento operaio, non restino prigionieri degli schemi del passato, come accade ancora oggi alla maggior parte dei gruppi rivoluzionari, come Battaglia Comunista o le diverse cappelle della tendenza bordighista.
In forma molto sintetica, ecco le principali lezioni che bisogna tirare dall'esperienza di mezzo secolo del proletariato.
Contrariamente a quello che pensavano i rivoluzionari del passato, la guerra generalizzata non crea le migliori condizioni per la rivoluzione proletaria. Questo è tanto più vero oggi in cui i mezzi di distruzione esistenti renderebbero un eventuale conflitto mondiale così devastante da impedire qualsiasi possibilità di reazione proletaria.
Se c'è una lezione che i proletari devono tirare dalla loro esperienza passata è che per lottare contro la guerra oggi, essi dovranno agire prima di una guerra mondiale; durante, sarebbe troppo tardi.
Oggi, le condizioni per un nuovo conflitto mondiale non ci sono ancora: da un lato il proletariato non è irreggimentato perché la borghesia possa scatenare un tale conflitto, unica soluzione che essa conosce alla sua crisi storica. Dall'altro lato il crollo del blocco dell'est, se ha messo in moto, come la CCI ha messo in evidenza, una tendenza alla formazione di due nuovi blocchi imperialisti, si è ancora molto lontani dalla loro effettiva costituzione, e senza blocchi non ci può essere guerra mondiale.
Questo non vuol dire che la tendenza alla guerra e delle guerre vere e proprie non esistano; dalla guerra del Golfo del 1991 a quella della Yugoslavia oggi, passando per i tanti conflitti diffusi per il mondo, ce ne è abbastanza per capire come il crollo del blocco dell'est non abbia aperto un periodo di nuovo ordine mondiale, ma al contrario un periodo di instabilità crescente che può portare a un nuovo conflitto mondiale (a meno che la società non sia distrutta prima dalla decomposizione) se il proletariato non lo precederà con la sua azione rivoluzionaria. La coscienza di questa tendenza alla guerra è un fattore importante per il rafforzamento di questa possibilità rivoluzionaria.
L'altro e più potente fattore di presa di coscienza del fallimento del capitalismo è la crisi economica, una crisi economica catastrofica che non può trovare soluzione all'interno del capitalismo. L'insieme di questi due fattori creano delle condizioni migliori per la crescita rivoluzionaria della lotta proletaria. Ma questo sarà possibile se i rivoluzionari stessi sapranno abbandonare le vecchie idee del passato e adattare il loro intervento alle nuove condizioni storiche.
HELIOS
1. Sergio Turone, Storia del Sindacato in Italia, editori Laterza.
2. Romolo Gobbi, Operai e Resistenza, Mussolini editore. Questo libro, benché marcato dall'impostazione consiliarista-apolitica dell'autore, mostra bene il carattere anticapitalista e spontaneo del movimento del '43; così come mostra bene, anche attraverso le ampie citazioni tratte dall'archivio del PCI, il carattere nazionalista e patriottico dell'azione del PCI in questo movimento.
3. Per altri particolari su questo periodo vedere: Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia, edizioni Quaderni Piacentini.
4. Sull'azione della Sinistra Comunista durante la guerra, vedere il nostro libro La Sinistra Comunista Italiana 1927-52, richiedibile al nostro indirizzo.
L'esplosione dei nazionalismi in quella che fu l'URSS e del suo impero dell'Europa dell'Est, così come lo sviluppo di gigantesche campagne ideologiche "antifasciste" in particolare nei paesi dell'Europa occidentale, danno a queste righe scritte alla fine degli anni '40 tutta la loro attualità (2).
Per l'ordine costituito, oggi, è sempre più difficile giustificare ideologicamente il suo dominio: glielo impedisce il disastro generato dalle sue leggi. Ma di fronte alla sola forza capace di abbatterlo e di instaurare un altro tipo di società, di fronte al proletariato, la classe dominante dispone ancora di armi ideologiche capaci di dividere il suo nemico e di mantenerlo sottomesso alle frazioni nazionali del capitale. Il nazionalismo e l'"antifascismo" sono in prima linea nell'arsenale controrivoluzionario della borghesia.
A. Stinas riprende l'analisi marxista di Rosa Luxemburg sulla questione nazionale ricordando che nel capitalismo arrivato alla sua fase imperialista "(...) la nazione si è liberata della sua missione storica. Le guerre di liberazione nazionale e le rivoluzioni democratico-borghesi sono ormai prive di senso". A partire da ciò egli denuncia e distrugge l'argomentazione di tutti coloro che hanno chiamato a partecipare alla "resistenza antifascista" durante la II guerra mondiale con il pretesto che la sua stessa dinamica "popolare" e "antifascista" poteva condurre alla rivoluzione.
Stinas e l'Uci (Unione comunista internazionalista) fanno parte di quel pugno di rivoluzionari che durante la seconda guerra mondiale seppero andare controcorrente di fronte a tutti i nazionalismi e rifiutarono di sostenere la "democrazia" contro il fascismo, abbandonando l'internazionalismo proletario in nome della "difesa dell'Urss" (3).
Poiché sono poco conosciuti anche nel milieu rivoluzionario, in parte per il fatto che i loro lavori esistono solo in lingua greca, è utile dare qualche elemento sulla loro storia.
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Stinas apparteneva alla generazione dei comunisti che conobbero il grande periodo dell'ondata rivoluzionaria internazionale che mise fine alla I Guerra mondiale. Restò fedele per tutta la sua vita alle speranze sollevate dall'Ottobre rosso del 1917 e dalla rivoluzione tedesca del 1919. Membro del Partito Comunista Greco (in un periodo in cui i PC non erano ancora passati nel campo della borghesia) fino alla sua espulsione nel 1931, egli fu, in seguito, membro dell'Opposizione leninista che pubblicava il periodico Bandiera del Comunismo e che si richiamava a Trotsky, simbolo internazionale della resistenza allo stalinismo.
Nel 1933, in Germania, Hindenburg dà il potere a Hitler e il fascismo diventa il regime ufficiale. Stinas sostiene che la vittoria del fascismo suona la campana a morte dell'Internazionale Comunista (così come il 4 agosto del 1914 aveva segnato la morte della II Internazionale), che le sue sezioni sono definitivamente perse per la classe operaia, che da organi di lotta quali erano all'origine esse si sono trasformate in nemici del proletariato. Il compito dei rivoluzionari nel mondo intero è dunque la costituzione di nuovi partiti rivoluzionari al di fuori dell'IC e contro di essa.
Un intenso dibattito provoca una crisi nell'organizzazione trotskista e Stinas la lascia dopo essere stato posto in minoranza. Nel 1935 entra ne Il Bolscevico, un'organizzazione che si era staccata dall'archeomarxismo, per costituire, a partire da questa, una nuova organizzazione che prese il nome di Unione Comunista Internazionalista. L'Uci era all'epoca la sola sezione riconosciuta in Grecia della Lega Comunista Internazionalista (Lci) - la IV Internazionale sarà costituita solo nel 1938.
L'Uci, dal 1937, aveva rifiutato la parola d'ordine, fondamentale per la IV Internazionale, della "difesa dell'Urss". Stinas e i suoi compagni non erano arrivati a questa posizione come sbocco di un dibattito sulla natura sociale dell'Urss, ma dopo un esame critico delle parole d'ordine e della politica della Lci di fronte all'imminenza della guerra. L'Uci voleva sopprimere tutti gli aspetti del suo programma attraverso i quali il socialpatriottismo avrebbe potuto infiltrarsi con la copertura della difesa dell'Urss.
Durante la seconda guerra imperialista Stinas, da internazionalista intransigente, resta fedele ai principi del marxismo rivoluzionario quali quelli difesi ed applicati da Lenin e dalla Luxemburg durante la I guerra mondiale.
L'Uci, dopo il 1934, era la sola corrente trotskista in Grecia. Durante gli anni della guerra e dell'occupazione, isolato dagli altri paesi, questo gruppo era convinto che tutti i trotskisti lottassero allo stesso modo, controcorrente e sulle stesse linee dell'Uci.
Le prime informazioni sulla posizione dell'Internazionale Trotskista lasciarono Stinas e i suoi compagni a bocca aperta. La lettura del testo francese "I trotskisti nella lotta contro i nazisti" gli fornirono le prove che i trotskisti avevano combattuto i tedeschi come tutti i bravi patrioti. Poi seppero dell'atteggiamento odioso di Cannon e del Socialist Workers Party negli USA.
La IV Internazionale durante la guerra, cioè durante le condizioni che mettono alla prova le organizzazioni della classe operaia, si era sbriciolata. Le sue sezioni, alcune apertamente, altre con la scusa della "difesa dell'Urss", erano passate al servizio delle rispettive borghesie e avevano contribuito al massacro imperialista.
L'Uci, nell'autunno del 1947, ruppe ogni legame politico e organizzativo con la IV Internazionale. Negli anni che seguirono, anni del peggiore periodo controrivoluzionario, quando i gruppi rivoluzionari erano ridotti a minuscole minoranze e quando coloro che erano rimasti fedeli ai principi dell'internazionalismo proletario e della rivoluzione d'ottobre erano completamente isolati, Stinas diventò il principale rappresentante in Grecia della corrente "Socialisme ou barbarie". Questa corrente, che non arrivò mai a fare completa chiarezza sui rapporti di produzione capitalistici in Urss - sviluppando la teoria di una sorta di terza via fondata su una nuova divisione fra "dirigenti" e "diretti" - si allontanò sempre di più dal marxismo per chiudere definitivamente con esso negli anni '60. Alla fine della sua vita Stinas non ebbe più alcuna vera attività politica organizzata. Si avvicinò agli anarchici e morì nel 1987.
CR
MARXISMO E NAZIONE
La nazione è il prodotto della storia, come la tribù, la famiglia, la città. Ha un ruolo storico necessario e dovrà sparire una volta svolto questo compito.
La classe portatrice di questa organizzazione sociale è la borghesia. Lo stato nazionale si confonde con lo stato della borghesia e, storicamente, l'opera progressista della nazione e del capitalismo si ricongiungono: creare, con lo sviluppo delle forze progressive, le condizioni materiali del socialismo.
Questa opera progressista ha la sua fine nell'epoca dell'imperialismo, delle grandi potenze imperialiste, con i loro antagonismi e le loro guerre.
La nazione ha esaurito la sua missione storica. Le guerre di liberazione nazionale e le rivoluzioni democratico-borghesi sono ormai prive di senso.
All'ordine del giorno c'è la rivoluzione proletaria che non genera, nè mantiene, ma abolisce le frontiere e unisce tutti i popoli della terra in una comunità mondiale. La difesa della nazione e della patria, nella nostra epoca, non sono altro che la difesa dell'imperialismo, del sistema sociale che genera le guerre, che non può vivere senza guerra e che porta l'umanità al caos e alla barbarie. Questo è vero sia per le grandi potenze imperialistiche che per le piccole nazioni le cui classi dirigenti sono, e non possono che essere, i complici e gli alleati delle grandi potenze.
"Al momento attuale il socialismo è la sola speranza dell'umanità. Al di sopra di pezzi di mondo capitalista che finalmente stanno crollando, brillano a lettere di fuoco le parole del Manifesto Comunista: socialismo o caduta nella barbarie" (R. Luxemburg, 1918).
Il socialismo è compito degli operai del mondo intero e il terreno della sua edificazione, tutta l'estensione della crosta terrestre. La lotta per il rovesciamento del capitalismo e l'edificazione del socialismo unisce tutti gli operai del mondo. La geografia fissa una ripartizione di compiti: il nemico immediato degli operai di ciascun paese è la propria classe dirigente; è il loro settore del fronte internazionale di lotta per rovesciare il capitalismo mondiale.
Se le masse lavoratrici di ciascun paese non prendono coscienza che esse sono solo una parte di una classe che è mondiale, non potranno mai impegnarsi sul cammino della loro emancipazione sociale.
Non è il sentimentalismo che fa sì che la lotta per il socialismo in un dato paese sia parte integrante della lotta per la società socialista mondiale, ma l'impossibilità del socialismo in un solo paese. L'unico "socialismo" dai colori nazionali e con l'ideologia nazionale che ci ha dato la storia è quello di Hitler e l'unico "comunismo" nazionale quello di Stalin.
La lotta all'interno di ciascun paese contro la classe dirigente e la solidarietà con le masse lavoratrici del mondo intero sono, alla nostra epoca, i due principi fondamentali del movimento delle masse popolari per la loro liberazione economica, politica e sociale. Questo vale tanto per la "pace" che per la guerra.
La guerra fra i popoli è fraticida, la sola guerra giusta è quella dei popoli che fraternizzano al di là delle nazioni e delle frontiere contro i loro sfruttatori.
Il compito dei rivoluzionari, in tempo di "pace" come in tempo di guerra, è quello di aiutare le masse a prendere coscienza dei fini e dei mezzi del loro movimento, a sbarazzarsi della tutela delle burocrazie politiche e sindacali, a prendere nelle loro mani i propri interessi, a non avere fiducia in nessun'altra "direzione" che quella degli organi esecutivi che hanno esse stesse eletto e che possono revocare in ogni istante, ad acquistare le coscienze della loro responsabilità politica e, all'inizio, soprattutto ad emanciparsi dal mito nazionale e patriottico.
Questi sono i principi del marxismo rivoluzionario quali Rosa Luxemburg li ha formulati e messi in pratica e che hanno diretto la sua politica e la sua azione durante la prima guerra mondiale. Questi principi hanno guidato la nostra politica e la nostra azione nella seconda guerra mondiale (...)
LA RESISTENZA ANTIFASCISTA: UN’APPENDICE DELL'IMPERIALISMO
Il "movimento della resistenza", cioè la lotta contro i tedeschi in tutte le sue forme, dal sabotaggio alla guerra partigiana, nei paesi occupati non può essere giudicata fuori del contesto della guerra imperialista di cui essa è parte integrante. Il suo carattere progressivo o reazionario non è determinato dalla partecipazione delle masse, nè dagli obiettivi antifascisti, nè dall'oppressione dell'imperialismo tedesco, ma in funzione del carattere della guerra: progressista o reazionaria.
L'ELAS come l'EDES (4) erano eserciti che continuavano la guerra contro i tedeschi e gli italiani all'interno del paese. Solo questo determina la nostra posizione nei loro confronti. Partecipare al movimento di resistenza, quali che siano le parole d'ordine e le motivazioni, significa partecipare alla guerra. Indipendentemente dalle disposizioni delle masse e dalle intenzioni della loro direzione, questo movimento, in ragione della guerra che ha condotto nelle condizioni del secondo massacro imperialista, è l'organo e l'appendice del campo imperialista alleato. (...)
Il patriottismo delle masse e il loro atteggiamento rispetto alla guerra, anche se contrari ai loro interessi storici, sono fenomeni molto conosciuti dalla guerra precedente e Trotsky, in tantissimi testi, aveva instancabilmente messo in guardia sul pericolo che i rivoluzionari potessero essere sorpresi e potessero lasciarsi trascinare dalla corrente. Il dovere dei rivoluzionari internazionalisti è quello di tenersi al di sopra della corrente e di difendere controcorrente gli interessi storici del proletariato. Questo fenomeno non si spiega solo per i mezzi tecnici utilizzati, la propaganda, la radio, la stampa, le sfilate, l'atmosfera di esaltazione creata all'inizio della guerra, ma anche dallo spirito della masse quale risulta dall'evoluzione politica anteriore, dalle disfatte della classe operaia, dal suo scoraggiamento, dalla perdita di fiducia nella sua forza e nei mezzi di azione, dalla dispersione del movimento internazionale e dalla politica opportunista condotta dai suoi partiti. Non esiste nessuna legge storica che fissi il lasso di tempo finito il quale le masse, all'inizio trascinate nella guerra, finiranno col rialzarsi. Sono le condizioni politiche concrete che svegliano la coscienza di classe. Le conseguenze orribili della guerra fanno sparire l'entusiasmo patriottico. Con la crescita dello scontento, l'opposizione agli imperialisti ed ai propri dirigenti che ne sono gli agenti, si approfondisce di più e risveglia in loro la coscienza di classe. Le difficoltà della classe dirigente aumentano, la situazione evolve verso la rottura dell'unità interna, il crollo del fronte interno e verso la rivoluzione. I rivoluzionari internazionalisti contribuiscono all'accelerazione dei ritmi di questo processo obiettivo con la lotta intransigente contro tutte le organizzazioni patriottiche e socialpatriottiche, aperte o mascherate, con l'applicazione conseguente della politica del disfattismo rivoluzionario.
Gli strascichi della guerra, nelle condizioni dell'Occupazione, hanno avuto un'influenza completamente diversa sulla psicologia delle masse e sui loro rapporti con la borghesia. La loro coscienza di classe è caduta nell'odio nazionalista, costantemente rafforzato dal comportamento barbaro dei tedeschi; la confusione si è aggravata, l'idea di nazione e del suo destino è stata posta al di sopra delle differenze sociali, l'unità nazionale si è rafforzata e le masse sono sempre più sottomesse alla loro borghesia, rappresentata dalle organizzazioni di resistenza nazionale. Il proletariato industriale, spezzato dalle disfatte precedenti e col suo peso specifico eccezionalmente diminuito, si è trovato prigioniero di questa situazione spaventosa durante tutta la durata della guerra.
Se la collera ed il sollevamento delle masse contro l'imperialismo tedesco nei paesi occupati erano "giusti", quelli delle masse tedesche contro l'imperialismo alleato, contro i barbari bombardamenti dei quartieri operai erano altrettanto giusti. Ma questa collera giustificata, che è rafforzata con tutti i mezzi dai partiti della borghesia di ogni sfumatura, poteva essere sfruttata solo dagli imperialisti per i loro interessi. Il compito dei rivoluzionari rimasti al di sopra della corrente è quello di dirigere questa collera contro la "propria" borghesia. Solo questo scontento contro la nostra "propria" borghesia può diventare una forza storica, il mezzo per sbarazzarsi una volta per tutte delle guerra e delle distruzioni.
Nel momento in cui il rivoluzionario, durante la guerra, fa solo allusione all'oppressione dell'imperialismo "nemico" nel suo paese, diventa vittima della ristretta mentalità nazionalista e della logica socialpatriottica e taglia i legami che uniscono il pugno di operai rivoluzionari che sono restati fedeli alla loro bandiera nei diversi paesi, nell'inferno in cui il capitalismo in decomposizione ha gettato l'umanità. (...)
La lotta contro i nazisti nei paesi occupati dai tedeschi era un inganno e uno dei mezzi utilizzati dall'imperialismo alleato per mantenere le masse incatenate al suo carro di guerra. La lotta contro i nazisti era compito del proletariato tedesco, ma essa era possibile solo se gli operai di tutti i paesi combattevano contro la propria borghesia. L'operaio dei paesi occupati che combatteva i nazisti combatteva per conto dei propri sfruttatori, non per i propri interessi e coloro che l'hanno trascinato e spinto in questa guerra erano, quali che fossero le loro intenzioni e le loro giustificazioni, degli agenti degli imperialisti. L'appello ai soldati tedeschi a fraternizzare con gli operai dei paesi occupati nella comune lotta contro i nazisti era, per il soldato tedesco, un inganno dell'imperialismo alleato. Solo l'esempio della lotta del proletariato greco contro la "propria" borghesia che, nella condizione di occupazione significava lottare contro le organizzazioni nazionaliste, avrebbe potuto svegliare la coscienza di classe degli operai tedeschi irreggimentati e rendere possibile la fraternizzazione e, infine, la lotta del proletariato tedesco contro Hitler.
L'ipocrisia e l'inganno sono strumenti indispensabili alla conduzione della guerra, alla stessa stregua dei carri armati, degli aerei o dei cannoni. La guerra non è possibile senza la conquista delle masse. Ma per conquistarle è necessario che esse credano di combattere per la difesa dei loro beni. Tutte le parole d'ordine, tutte le promesse di "libertà, prosperità, schiacciamento del fascismo, riforme socialiste, repubblica popolare, difesa dell'URSS, ecc.", mirano a questo fine. Questo lavoro è riservato soprattutto ai partiti "operai" che utilizzano la loro autorità, la loro influenza, i loro legami con le masse lavoratrici, le tradizioni del movimento operaio perché questo si lasci meglio ingannare e strangolare. Le illusioni delle masse sulla guerra, senza le quali essa è impossibile, non la rendono per questo progressista e solo i più ipocriti socialpatrioti possono servirsene per giustificarla. Tutte le promesse, tutti i proclami, tutte le parole d'ordine dei PC e PS in questa guerra non sono che delle trappole. (...)
La trasformazione di un movimento in lotta politica contro il regime capitalista non dipende da noi e dalla forza di convinzione delle nostre idee, ma dalla natura stessa di questo movimento. "Accelerare e facilitare la trasformazione del movimento di resistenza in movimento di lotta contro il capitalismo" sarebbe stato possibile se questo movimento, nel suo sviluppo, avesse potuto creare da sè, nei rapporti di classe, la coscienza e, nella psicologia di massa, delle condizioni più favorevoli alla trasformazione in lotta politica generale contro la borghesia e dunque in rivoluzione proletaria.
La lotta della classe operaia per le sue rivendicazioni economiche e politiche immediate può trasformarsi nel corso del suo sviluppo, in lotta politica d'insieme per rovesciare la borghesia. Ma essa è resa possibile dalla forma stessa di questa lotta: le masse, con l'opposizione alla loro borghesia, al suo stato e con la natura di classe delle sue rivendicazioni, si sbarazzano delle illusioni nazionaliste riformiste e democratiche, si liberano dell'influenza delle classi nemiche, sviluppano la loro coscienza, la loro iniziativa, il loro spirito critico e la fiducia in esse stesse. Con l'estensione del campo di lotta le masse partecipano sempre più numerose e più profondamente è scavato il suolo sociale, più si distinguono chiaramente i fronti delle classi e più il proletariato rivoluzionario diventa l'asse principale delle masse in lotta. L'importanza del partito rivoluzionario è enorme per accelerare i ritmi, per la presa di coscienza, per l'assimilazione dell'esperienza, per la comprensione da parte delle masse, per organizzare il sollevamento e assicurarne la vittoria. Ma è il movimento stesso, con la sua natura e la sua logica interna, che dà forza al partito. E' un processo obiettivo di cui la politica del movimento rivoluzionario è l'espressione cosciente. La crescita del "movimento di resistenza" ha avuto, proprio per la sua natura, il risultato esattamente inverso: ha portato alla rovina la coscienza di classe, ha rafforzato le illusioni e l'odio nazionalisti, ha disperso ed atomizzato ancora di più gli operai nella massa anonima della nazione, li ha sottomessi maggiormente alla borghesia nazionale, ha portato in superficie ed alla direzione gli elementi più ferocemente nazionalisti.
Oggi, ciò che resta del movimento di resistenza (l'odio e i pregiudizi nazionalisti, i ricordi e le tradizioni di questo movimento che fu così abilmente utilizzato dagli stalinisti e dai socialisti) è l'ostacolo più grosso ad un orientamento di classe delle masse. Se ci fossero state delle possibilità oggettive affinchè si trasformasse in lotta politica contro il capitalismo, queste avrebbero dovuto manifestarsi senza la nostra partecipazione. Ma da nessuna parte abbiamo vista una tendenza proletaria sorgere da questi ranghi, per quanto confusa potesse essere. (...)
Il cedimento dei fronti e l'occupazione militare del paese, come di quasi tutta l'Europa da parte degli eserciti dell'Asse, non cambiano il carattere della guerra, non creano una questione nazionale e non modificano i nostri obiettivi strategici nè i nostri compiti fondamentali. Il compito del partito proletario in queste condizioni è quello di rendere più acuta la lotta contro gli organismi nazionalisti e di proteggere la classe operaia dall'odio antitedesco e dal veleno nazionalista.
I rivoluzionari internazionalisti partecipano alle lotte delle masse per le loro rivendicazioni economiche e politiche immediate, tentano di dare un chiaro orientamento di classe e si oppongono con tutte le loro forze allo sfruttamento nazionalista di queste lotte. Invece di prendersela con i tedeschi o gli italiani essi spiegano perché la guerra è scoppiata, guerra la cui barbarie nella quale viviamo è la conseguenza inevitabile, denunciano con coraggio i crimini del loro "proprio" campo imperialista e della borghesia rappresentata delle differenti organizzazioni nazionaliste, chiamano le masse alla fraternizzazione coi soldati italiani e tedeschi per la lotta comune per il socialismo. Il partito proletario condanna tutte le lotte patriottiche per quanto massicce possano essere e quale che sia la loro forma, e chiamano apertamente gli operai ad astenersene.
Il disfattismo rivoluzionario, nelle condizioni di Occupazione, incontra degli ostacoli spaventosi e mai visti prima. Ma le difficoltà non possono cambiare i nostri compiti. Al contrario, più la corrente è forte, più l'attaccamento del movimento rivoluzionario ai suoi principi deve esser rigoroso, più deve opporsi alla corrente con intransigenza. Solo questa politica lo renderà capace domani di esprimere i sentimenti delle masse rivoluzionarie e di trovarsi così alla loro testa. La politica della sottomissione alla corrente, cioè la politica del rafforzamento del movimento di resistenza, aggiungerebbe un ostacolo supplementare ai tentativi di orientamento di classe degli operai e distruggerebbe il partito.
Il disfattismo rivoluzionario, la politica internazionalista contro la guerra e contro il movimento di resistenza mostra oggi, e mostrerà sempre di più negli eventi rivoluzionari a venire, tutta la sua forza ed il suo valore.
A. Stinas
1. Tratto dalle sue "Memorie di un rivoluzionario". Questa opera, scritta nell'ultimo periodo della sua vita, copre essenzialmente gli avvenimenti degli anni che vanno dal 1912 al 1950 in Grecia: dalle guerre balcaniche che annunciavano la I guerra mondiale alla guerra civile, prolungamento del secondo olocausto del 1939-45. L'ironia della storia ha fatto sì che siano le edizioni "La Brèche" legate alla 4a Internazionale di Mandel che hanno pubblicato in francese queste memorie. La loro pubblicazione è certamente dovuta a quello che fu "il papa della 4a Internazionale" dal 1943 al 1961, Pablo ed al suo nazionalismo essendo egli stesso greco, dato che il libro denuncia senza ambiguità le azioni dei trotskisti durante la seconda guerra mondiale e dopo.
2. La Grecia, paese di Stinas, è scosso -al momento in cui scriviamo- da un'ondata di nazionalismo orchestrata dal governo e da tutti i grandi partiti "democratici". Questi, nel dicembre 1992, hanno fatto sfilare un milione di persone nelle strade di Atene per difendere il nome di Macedonia per la provincia greca contro il "riconoscimento" della Macedonia nella ex-Yugoslavia in decomposizione!
3. Stinas ignorava che ci fossero altri gruppi a difendere in altri paesi le sue stesse posizioni: le correnti della Sinistra comunista italiana (in Francia ed in Belgio in particolare), tedesco-olandese (il Communistenbond Spartacus, in Olanda), dei gruppi in rotta col trotskismo come quello di Munis, in esilio in Messico, o il RKD composto di militanti austriaci e francesi.
4. Nome di eserciti della resistenza controllati essenzialmente dagli stalinisti e dai socialisti.
L'anarchia ed il caos che caretterizzano oggi i rapporti tra le frazioni della borghesia, in particolare a livello internazionale, non sono solo il risultato del terremoto, costituito dal crollo del blocco dell'Est. Questo disfacimento ancora in corso, come mostrano i recenti eventi nella regione caucasica, non è - esso stesso - che una manifestazione di una realtà più profonda, la stessa realtà che spiega la guerra nella ex-Yugoslavia o i 900.000 ruandesi che marciscono nei campi profughi nello Zaire: la decadenza avanzata del capitalismo, la sua decomposizione come sistema storico.
Quando un sistema sociale entra nella sua fase di decadenza, cioè quando le leggi, i rapporti sociali di produzione che lo caratterizzano sono divenuti obsoleti, inadatti alle possibilità e alle necessità della società, la stessa base dei profitti e dei privilegi della classe dominante si riduce e si indebolisce a sua volta. La coesione della classe dominante tende allora a disgregarsi in una infinità di conflitti di interessi in ogni senso. Come animali selvatici sempre più affamati, che non possono sopravvivere che a spese degli altri, le frazioni sempre più numerose della classe al potere si dilaniano tra loro, distruggendo la civilizzazione che avevano contribuito a costruire. Come le molteplici armate della Roma decadente facevano cadere in rovina con i loro continui conflitti i resti dell'Impero in decomposizione, come i signori feudali del basso Medioevo distruggevano degli interi raccolti con i loro conflitti locali permanenti, così le potenze imperialiste del nostro secolo hanno fatto patire all'umanità le peggiori distruzioni della sua storia. I mezzi e le dimensioni del dramma sono cambiati. Le catapulte fatte di legno e di pelle di animali hanno lasciato il posto ai missili autoguidati e il campo di battaglia ha preso le dimensioni dell'intero pianeta. Ma la natura del fenomeno è la stessa. La società si autodistrugge in un caos indescrivibile, prigioniera di rapporti economici, sociali divenuti troppo stretti. Oggi, tuttavia, è l'esistenza stessa della umanità che è in gioco.
Le forze della disgregazione all'opera
Per misurare la dimensione del caos dominante oggi al livello dei rapporti internazionali, si possono distinguere due aspetti. Vi è da una parte un caos generale, "ordinario", onnipresente ed in piena espansione; dall'altra, all'interno di questo, vi sono degli antagonismi più importanti, espressione della tendenza alla ricostituzione di "blocchi" o di alleanze e che segnano delle linee di forza più determinanti: questo è il caso dell'antagonismo che oppone gli Stati Uniti, vecchio capo del blocco, alla Germania riunificata, che si candida al ruolo di capo di un nuovo blocco.
Il caos ordinario
Più i governi organizzano delle riunioni internazionali, dei summit tra responsabili delle grandi potenze, e più scoppiano in maniera aperta le divisioni. Le organizzazioni internazionali, sia che si tratti dell'ONU, della NATO, della CSCE, della UE, etc. appaiono sempre più come mascherate grottesche e impotenti, in cui solo il cinismo prevale sull'ipocrisia. I massmedia si compiacciono a piagnucolare sulle "incomprensioni" tra i paesi membri, sulle "divergenze di metodo" che paralizzano questi templi del "accordo delle nazioni". Ma la realtà dei rapporti internazionali è quella del regno di "tutti contro tutti". Ogni paese è costantemente combattuto tra la necessità di difendere i suoi interessi contro quelli degli altri e, simultaneamente, la necessità di alleanze per poter sopravvivere in una guerra sempre più irrazionale e spietata. I milioni di vittime che questi antagonismi,ogni anno, provocano ai quattro angoli del pianeta non fermano il gioco al massacro al quale si dedicano i capitali nazionali e, in primo luogo, le grandi potenze.
Gli ultimi mesi del 1994 sono stati ricchi di nuove manifestazioni di questo caos frenetico in cui le alleanze si fanno e si disfano in una instabilità sempre maggiore.
Il segno più tangibile che rivela oggi l'importanza e la profondità di questa instabilità si trova nella evoluzione attuale dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Quello che sembrava un riferimento immutabile nei rapporti internazionali, conosce i suoi momenti più difficli dal 1956, all'epoca della crisi del canale di Suez. The Economist, nel suo supplemento annuale, parla di "una amicizia che sfuma". Un rapporto del Pentagono, nello stesso senso, accusa la Francia di favorire la guerra in Jugoslavia per inasprire i rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
In un summit ordinario a Chartes, nell'ottobre 1994, la Gran Bretagna e la Francia decidono la realizzazione di un "gruppo di forze aeree combinate" e di una iniziativa comune volte ad incoraggiare la creazione di una forza interafricana di intervento che agirebbe nel quadro del "mantenimento della pace" nell' Africa, anglofona o francofona. Gli inglesi non considerano più l'Unione Europea come "un sottomarino dei Francesi in seno alla NATO" ed i giornalisti insistono sulla forza che rappresenta l'alleanza delle due sole potenze nucleari d'Europa.
Così, oggi, la Gran Bretagna non fa che allontanarsi dagli Stati Uniti; essa cerca di adottare, per difendere i suoi propri interessi, delle politiche che sono apertamente in contrasto con questi, come si può constatare in Africa e soprattutto nei Balcani.
L'alleanza americano-russa, altro pilastro della costruzione del "nuovo ordine mondiale", è stata messa anch'essa a dura prova. La questione dell'allargamento della NATO verso i paesi che facevano prima parte del blocco dell'URSS (ciò che la Russia chiame il suo "estero vicino"), in particolare la Polonia e la Repubblica ceca, diventa giorno dopo giorno il pomo di discordia maggiore tra le due potenze. "Nessun paese terzo può dettare le condizioni di allargamento della NATO", ha risposto seccamente un funzionario americano alle proteste della Russia.
L'asse franco-tedesco, colonna vertebrale dell'Unione europea, si vede a sua volta messo in discussione : "Noi siamo ad anni luce dalla posizione tedesca", dichiarava un funzionario francese per riassumere l'opposizione francese ad ogni "comunitarizzazione" della politica estera e della sicurezza della UE. La Francia teme che l'Europa diventi semplicemente un "super-Stato tedesco". D'altronde la Germania paventa fortemente un'alleanza franco-britannica nel 1995 contro la visione di una Europa federale alla tedesca e che non avrebbe altro obiettivo che controbilanciare le aspirazioni egemoniche di Bonn.
Oggi la coesione dei grandi blocchi della guerra fredda appare come un lontano ricordo di unità e di ordine, tanto il "concerto delle nazioni" è divenuto una cacofonia barbara. Una cacofonia che ha il volto delle 500.000 vittime del genocidio ruandese, dei milioni di cadaveri che, dalla Cambogia all'Angola, dal Messico all'Afghanistan, insanguinano il pianeta.
All'interno di questo processo di disgregazione, l'implosione dell'ex-URSS non è ancora completata. La federazione della Russia, che veniva considerata l'ultima spiaggia contro le forze centrifughe che avevano fatto scoppiare il vecchio impero, si trova confrontato a queste stesse forze al suo interno, nelle piccola repubblica di Abkhazia, nella repubblica del Tataristan ... in totale in più di una dozzina di regioni. L'intervento massiccio dell'esercito russo in Cecenia (1) traduce la volontà di una parte della classe dominante russa di mettere un freno a queste tendenze che continuano a disgregare ciò che era, appena cinque anni fa, la potenza imperialista capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti.
Ma il grado raggiunto dalla decomposizione nella ex-URSS è tale che questa operazione di "ristabilimento dell'ordine" è sul punto di trasformarsi in una nuova fonte di caos interno.
Sul posto, la resistenza all'intervento russo è stata più violenta e "popolare" del previsto. E' in una atmosfera di isterismo nazionalista e anti-russo generalizzato nella popolazione che il presidente della Cecenia, Dudaiev, ha potuto esclamare, al momento dell'inizio dell'avanzata dell'esercito russo: "Il suolo deve bruciare sotto i loro piedi! E' una guerra a morte!" . Il presidente della repubblica russa di Ingoucenia, altra repubblica caucasica, vicina alla Cecenia, ha minacciato l' estensione del conflitto proclamando: "La guerra del Caucaso é cominciata!".
Fin dai primi scontri, i russi hanno incontrato una viva resistenza che ha inflitto loro rapidamente delle serie perdite in uomini e materiale.
Ma soprattutto, questa operazione ha provocato una nuova frattura nella classe dirigente russa, già molto divisa. Sul terreno, fin dall'inizio, uno dei generali russi (Ivan Babitchev) rifiuta di avanzare sulla capitale Grozny e fraternizza con la popolazione cecena : "Non è colpa nostra se siamo qui. Questa operazione è in contrasto con la Costituzione. E' vietato utilizzare l'esercito contro il popolo." Nel momento in cui scriviamo, molti altri generali si sarebbero localmente collegati a questo movimento di contestazione.
A Mosca, le divisioni sono altrettanto drammatiche. "Oggi in Russia vi sono due conflitti per la Cecenia, uno nel Caucaso e un altro, più pericoloso, a Mosca.", dichiarava all'inizio dell'operazione Emile Paine, uno dei consiglieri di Boris Eltsin. In effetti, contro l'intervento si proclamano sia dei militari "prestigiosi" che il vecchio primo ministro di Eltsin, Egor Gaidar o anche Gorbaciov...
Per il presidente Clinton, la crisi in Cecenia è un "problema interno" e per Willy Claes, Segretario Generale della NATO, "un affare interno". "Non è negli interessi (degli Stati Uniti) nè certo in quelli della Russia avere una Russia in disgregazione" ha dichiarato Warren Christopher alla televisione, il 14 dicembre, mostrando l'inquietudine profonda della borghesia americana rispetto ai problemi del suo alleato.
Ma il problema non è così "interno" come lo si vuol far credere. Da una parte perchè la Cecenia gode di una certa simpatia da parte delle forze straniere, in particolare della vicina Turchia e, probabilmente, della Germania. D'altra parte perchè questa situazione non è che una manifestazione spettacolare di un processo mondiale.
Questo imputridimento drammatico della situazione in Russia non è solo, come pretendono i discorsi "liberali", la conseguenza dei danni fatti dallo stalinismo (mistificatoriamente identificato con il comunismo); non è una specificità dell'Europa orientale. La Russia non è che uno dei luoghi in cui la decomposizione generalizzata del capitalismo mondiale è più avanzata.
Le tendenze alla ricostituzione dei blocchi
Un insieme di briganti imperialisti non può esistere senza la tendenza alla costituzione di bande e di capi banda. I numerosi conflitti che oppongono le nazioni capitaliste tendono inevitabilmente a strutturarsi secondo gli antagonismi che oppongono i più potenti. E tra questi antagonismi, quello che oppone i due principali boss influenza tutti gli altri: l'opposizione tra gli Stati Uniti e la Germania riunificata, tra il vecchio capo del blocco occidentale e il solo serio pretendente a costituire la testa di un nuovo blocco. Questo conflitto si manifesta nella vita politica di numerosi paesi.
Il summit dell'Organizzazione della Conferenza Islamica, per esempio, tenuto a Casablanca (dicembre 1994) non ha potuto evitare di diventare un attacco dei paesi islamici alleati degli Stati Uniti contro quelli che si riavvicinano all'Europa. Fin dall'inizio lo schieramento condotto da Hassan II del Marocco (punta di lancia riconosciuta della diplomazia americana) e Moubarak d'Egitto (il paese nel mondo che, dopo Israele, riceve il più grosso aiuto americano), ha polemizzato con "certi Stati islamici" che appoggiano i terroristi, che "hanno venduto la loro anima al demonio", cioè all'Iran e al Sudan, i cui legami con le potenze europee sono noti.
In Messico, nello Stato del Chiapas, dove si trovano gli Zapatisti, vi sono due governatori: uno del PRI, il partito al governo in Messico dal 1929, che ha sempre saputo agire in stretta alleanza con il grande fratello "yankee" pur servendosi di un linguaggio "anti-imperialista"; l'altro, Avendano, il governatore alleato degli Zapatisti, che rifiuta di riconoscere l'elezione del candidato del PRI a causa delle frodi, e controlla un terzo dei comuni della provincia. Quest'ultimo dichiara che solo l'Europa può dargli l'appoggio necessario per trionfare.
Nella stessa Europa, la questione della scelta tra l'opzione americana e l'opzione tedesco-europea lacera le classi dominanti. In Gran Bretagna, in seno al partito al potere, da tempo permane un braccio di ferro che si è recentemente concretizzato nel fatto che gli "euroscettici" hanno messo praticamente Major in minoranza alla camera dei Comuni sulla questione dei contributi da versare all'Unione Europea. Major sta pensando alla possibilità di un referendum sulla questione.
In Italia, paese per molto tempo definito "la portaaerei degli Stati Uniti in Europa", ma anche uno dei pilastri della Unione Europea, la guerra tra i due campi scuote la classe politica, anche se la vera posta in gioco resta per lo più mascherata. Carlo de Benedetti non ha tuttavia avuto timore di attaccare il governo di Berlusconi (pro-americano) in termini espliciti: "l'Italia si allontana dall'Europa ed entra in una spirale distruttiva". E' questa opposizione di fondo che è la prima ragione dell'instabilità governativa in cui è tuffato questo paese.
In Francia, la classe politica, in piena campagna elettorale presidenziale, vive tante profonde divisioni in questo canpo, in particolare tra i partiti della maggioranza governativa. Ed è a colpo di scandali e di arresti di uomini politici che si regolano i contrasti.
Poichè non hanno questo tipo di scelta da fare, solo le borghesie tedesca e americana sembrano un pochino coerenti per quel che riguarda la loro politica internazionale, anche se non senza difficoltà.
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Dopo il crollo dell'URSS, la Germania ha fatto grossi passi in avanti sul piano internazionale: oltre alla sua riunificazione, essa ha sviluppato con sicurezza la sua zona di influenza sui paesi dell'Europa centrale, vecchi membri del blocco dell'Est; ha intensificato i suoi legami con dei paesi molto importanti strategicamente come la Turchia o l'Iran, e la Malesia; essa ha proseguito nella costruzione e l'allargamento della Unione Europea con l'integrazione di nuovi paesi che le sono particolarmente vicini, come l'Austria; nella ex-Yugoslavia, ha imposto il riconosciemnto internazionale della Slovenia e della Croazia, suoi alleati, che le aprono un accesso al Mediterraneo. La nuova Germania riunificata si è così affermata senza equivoci come il solo candidato credibile alla costituzione di un blocco antagonista a quello degli USA.
La politica internazionale americana si caratterizza con una offensiva che ha due dimensioni principali: da una parte, preservare la posizione dominante del capitale americano; dall'altra, distruggere sistematicamente le posizioni dei nuovi rivali europei. Gli Stati Uniti riaffermano la loro posizione di prima potenza facendo ricorso a delle operazioni militari spettacolari, che costringono spesso i vecchi alleati a schierarsi dietro di loro (guerra del Golfo del 1991, intervento in Somalia, invasione di Haiti, nuova operazione nel Golfo nell'ottobre 1994, ecc.); col mantenere in piedi degli organismi internazionali concepiti alla fine della II guerra mondiale, per assicurare il loro controllo sugli alleati, come la NATO, senza d'altronde ingannare i principali interessati ("Più che mai gli Stati Uniti vogliono fare della Nato una succursale del dipartimento di Stato e del Pentagono" - dichiarava recentemente un diplomatico francese (2); con il consolidare e tenere ben strette le proprie zone di influenza più vicine attraverso la creazione di "zone di libero scambio", come il NAFTA che raggruppa gli Stati Uniti, il Canada ed il Messico, o i progetti di nuovi accordi per raggruppare tutta la zona del Pacifico o la totalità del continente americano (durante il mese di dicembre 1994, Clinton ha convocato successivamente, in Malesia poi a Miami, due summit spettacolari di capi di Stato, destinati a promuovere questi progetti).
Parallelamente gli Stati Uniti attaccano metodicamente le zone di influenza dei vecchi "alleati" europei, in particolare quelle delle ex-potenze coloniali e principali forze militari del continente: la Francia, e la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti hanno così cacciato la Francia dal Libano, dall'Irak, dal Ruanda. Minacciano fortemente le sue posizioni negli altri paesi dell'Africa nera e magrebina (in particolare l'Algeria, dove appoggiano delle frazioni del movimento islamico). Hanno inoltre reso più debole la posizione della Gran Bretagna in alcune delle sue vecchie riserve di caccia, come l'Africa del sud e il Kuwait.
Se i blocchi costituiti nel fuoco dell'ultima guerra mondiale sono stati per decenni dei fattori di relativa stabilità, perlomeno al loro interno, oggi la lotta per la costituzione di nuovi blocchi si rivela al contrario uno dei principali fattori di instabilità e di caos.
La decomposizione delle relazioni internazionali nel capitalismo decadente della fine del 20° secolo assume le forme del trionfo di "tutti contro tutti" e dell'accentuarsi della legge del più forte.
La guerra nella ex-Yugoslavia costituisce il focolaio degli scontri più significativo del periodo. 250.000 persone uccise, un milione di feriti a poche centinaia di chilometri dai grandi centri industriali dell'Europa; quattordici paesi militarmente presenti dietro le bandiere delle Nazioni Unite (3); cinque grandi potenze (Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna) che utilizzano le molteplici divisioni della classe dominante locale, acuite dal crollo dell'URSS, per farne un campo di battaglia (in cui la carne da cannone è essenzialmente autoctona) e che, dall'alto del loro "gruppo di contatto", tirano le fila dell'evolversi dei rapporti di forza in campo.
Chi è dietro chi nella ex-Yugoslavia?
"So che l'opera della Forpronu era discutibile. Ma l'idea dell'ONU, organizzazione di pace al di sopra delle nazioni, mi piaceva molto. Io ero piuttosto naif . Ora, ho l'impressione che per cinque mesi ho aiutato i Serbi. Io ho l'intima convinzione che la Francia è dalla parte serba, che la Francia pensa che il casino nei Balcani sarebbe minore con la stabilità serba." (4)
Queste parole di un casco blu francese di 25 anni (5) riassumono bene il contrasto esistente tra le illusioni di coloro che credono ai discorsi dei loro governanti sulla Yugoslavia e la cruda realtà sul terreno.
Dacchè esistono le classi, per imbrigliare gli sfruttati nelle carneficine guerriere, le classi dominanti hanno sempre fatto ricorso alle menzogne e alle mistificazioni. Le religioni ed i loro preti sono così sempre stati il complemento indispensabile dei militari e dei responsabili politici. Nella nostra epoca, è il totalitarismo dei massmedia, l'indottrinamento delle masse, scientificamente organizzato in modo "dittatoriale" o sotto le forme più sofisticate della "democrazia", che gioca questo ruolo di reclutatore di carne da cannone e di giustificatore dei massacri. La guerra nella ex-Yugoslavia non fa eccezione alla regola. Ma raramente una guerra sarà stata coperta da una tale quantità di menzogne e di ipocrisia.
Le potenze implicate dichiarano tutte di volere la pace e la Forpronu si considera una "organizzazione di pace al di sopra delle nazioni". Ma tutte appoggiano, armano una delle parti impegnate sul campo, senza dirlo apertamente, cioè mostrandosi in pubblico ostili alla parte che in segreto esse sostengono. In realtà, dietro i discorsi umanitari e pacifisti, ogni potenza spinge alla guerra, non fosse altro che per intralciare le alleanze e i passi in avanti dei concorrenti. Così, per esempio, il Pentagono ha reso pubblico un rapporto secondo il quale la Francia tenta di far continuare il conflitto nella ex-Yugoslavia per inasprire i contrasti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il che è certamente vero; gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno entrambi altrettanto interesse al proseguimento della guerra, al fine di acuire l'opposizione tra Francia e Germania; la Russia vi ritrova il riconoscimento del suo statuto di grande potenza e si permette di giocare utilizzando gli antagonismi che oppongono le potenze occidentali tra loro; quanto alla Germania, che ha messo il fuoco alle polveri con il suo appoggio all'indipendenza della Slovenia e della Croazia, essa non può volere la pace che quando vedrà le posizioni dei suoi alleati sul posto favorevolmente consolidate.
Il velo delle menzogne umanitarie e pacifiste si è un po' più lacerato recentemente in occasione dell'inizio dei grandi scontri per la sacca di Bihac. Questa zona, al nord della Bosnia, occupa un posto strategicamente importante, nel cuore della Krajina, quella parte della Croazia controllata dai serbi. E' importante per i bosniaci e per i serbi, ma essa è soprattutto cruciale per la Croazia (6). L'importanza della posta in gioco ha fatto venire alla luce, ancora più chiaramente del solito, in che modo le potenze internazionali partecipano alla guerra.
Gli Stati Uniti hanno platealmente incoraggiato l'esercito bosniaco a marciare su Bihac, togliendo unilateralmente l'embargo sulla vendita di armi a questo paese. Ciò ha sollevato un coro di proteste da parte delle altre potenze che tuttavia sanno tutte da molto tempo che Washington arma segretamente la Bosnia e le ha anche fornito dei "consiglieri militari". Il ministro francese degli affari esteri riassumeva la reazione generale dei membri della NATO contro le enormi libertà che si prende il primo dei boss : "Noi lamentiamo che un membro permanente del Consiglio di sicurezza abbia potuto unilateralmente esonerarsi dall'applicazione di una risoluzione che aveva votato e di decisioni prese di comune accordo in seno all'Alleanza" (7).
Ma l'atteggiamento dei francesi, come quello dei loro alleati del momento, i britannici, non è più conforme alle decisioni prese nelle conferenze diplomatiche. L'impressione del casco blu francese di avere "aiutato i Serbi", mentre si supponeva dovesse proteggere la popolazione civile contro questi ultimi, non è sbagliata. Due mesi fa, il governo francese aveva ritirato i suoi caschi blu dall'enclave di Bihac (furono rimpiazzati dalle inesperte truppe del Bangladesh) aprendo la porta ai futuri scontri. Per tutto il tempo dell'attacco dei Serbi, le truppe della Forpronu (dirette dai britannici e dai francesi) danno prova di una complice impotenza. Il 5dicembre, Izetbegovic, il presidente bosniaco, denuncia apertamente i Francesi e gli inglesi come "i protettori dei Serbi". Il senatore americano Robert Dole, futuro capo della maggioranza repubblicana al Senato, dichiara che, dall'inizio del conflitto, l'ONU non ha fatto che "aiutare gli agressori Serbi". Il governo croato denuncia Yashushi Akashi, il giapponese, rappresentante speciale del Segretario generale dell'ONU nella ex-Yugoslavia, come "pro-serbo" (8).
Di fronte a queste accuse ancora una volta i governi francese e britannico giocano a fare gli offesi e minacciano di ritirare le loro truppe. Gli Stati Uniti, che hanno sempre ripetuto di non potersi permettere di inviare un solo "ragazzo" nella terra Yugoslava, sembrano approfittare dell'occasione per dichiarare che, in questo caso, sarebbero pronti ad inviare 25.000 uomini per aiutare il ritiro della Forpronu. "E' a ciò che servono gli alleati", ha dichiarato un funzionario americano (9). E' da notare che la Germania si è affrettata anche essa ad offrire i suoi servigi, cioè i bombardieri Tornado, per contribuire alla partenza dei francesi e degli inglesi.
Gli eventi di Bihac hanno mostrato, ancora una volta, come gli americani appoggiano la Bosnia, ed i Francesi, con i britannici, i Serbi. L'atteggiamento degli Stati Uniti che dichiarano, da quando i Serbi sono entrati nella città di Bihac, : "i Serbi hanno vinto la guerra in Bosnia", mostra, d'altronde, che Washington non dimentica la Croazia ed il suo alleato tedesco. La posizione degli USA è chiara: i Croati devono accettare i rapporti di forza imposti dai Serbi, essi devono fare la pace con i Serbi della Krajina, cioè accettare che l'enclave di Bihac, così come il terzo dei territori croati che i Serbi hanno conquistato nella prima parte della guerra, restino nelle mani dei Serbi. Così, rispetto alla Germania, gli Stati Uniti utilizzano i Serbi. Il recente viaggio "privato" di Carter per discutere direttamente con i serbi di Bosnia ne è una prova.
Non vi è niente di "umanitario" nell'intervento delle grandi potenze nella ex-Yugoslavia. Non si tratta che di una guerra per i più sordidi interessi imperialisti. Una guerra che, contrariamente alle litanie ripetute da più di tre anni, è lungi dall'incamminarsi verso una conclusione pacifica: l'offensiva americana si è scontrata con una grossa resistenza, e ciò non può che essere fonte dell'intensificazione dei conflitti; d'altronde, la Croazia non ha ancora attuato le sue minacce di intervento, ma, se lo farà, la conflagrazione sarà ancora più generale.
Il capitalismo in decomposizione non può vivere senza guerre e le guerre non possono essere eliminate senza il rovesciamento del capitalismo.
E' vitale che il proletariato comprenda la vera natura di questa nuova guerra dei Balcani. Non per dilettarsi ad analizzare le strategie imperialiste in sè, ma per combattere il senso di impotenza che la borghesia cerca di instillare rispetto a questo conflitto. Comprendere il ruolo determinante che giocano le grandi potenze in questa guerra, significa comprendere che il proletariato dei paesi centrali ha la possibilità di fermare una tale follia. Che lui solo può offrire una via di uscita alla barbara situazione di stallo nella quale la decadenza del capitalismo spinge l'umanità e di cui la guerra nella ex-Yugoslavia non è che una delle manifestazioni più spettacolari.
RV, 27 dicembre 1994
1. Questa piccola repubblica della Federazione Russa (un milione e mezzo di abitanti, 13.000 chilometri quadrati) situata tra il Mar Nero ed il Mar Caspio, ricca di petrolio, tra-dizionale luogo di passaggio e di traffici di ogni tipo (armi, droga in particolare), organizzata in gran parte secondo il sistema di clan familiari con ramificazioni anche nelle gran-di città della Russia sotto forme mafiose, a maggioranza mussulmana, si è autoproclamata indipendente nel 1991. Questa indipendenza non è mai stata riconosciuta nè dalla Russia nè da altri. Dall'estate 1994, la Russia vi ha provocato una guerra civile, armando e sostenendo un movimento di rivolta della minoranza russa contro il regime di Dudaiev.
2. Libération, 1/12/1994.
3. Le forze del Forpronu in Yugoslavia contano 23.000 uomini in Bosnia-Erzegovina, con quasi 8.000 automezzi. Paesi partecipanti: Belgio, Canada, Danimarca, Stati Uniti, Spagna, Granbretagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia e Turchia, membri della Nato, ai quali bisogna aggiungere il Pakistan, il Bangladesh e l'Ucraina.
4. Libération, 13/12/1994.
5. Si tratta di un giovane che stava facendo il suo regolare servizio militare e che ha accettato di partire "volontario per l'azione estera", cioè contrattando un salario come mercenario. La borghesia delle principali potenze industriali occidentali non può ancora permettersi di inviare dei soldati di leva in una operazione militare perché non troverebbe d’accordo il proletariato.
6. Le autorità croate hanno dichiarato, dall'inizio degli scontri di Bihac, che non potrebbero accettare la caduta dell'enclave: "Noi abbiamo detto che se non vi è soluzione negoziata a Bihac, vista la sua importanza strategica, visto il numero dei rifugiati che rischia di riaggiungere il nostro paese, noi saremmo obbligati ad intervenire... L'occidente ci ha costretto a non intervenire fino ad oggi..." (Dichiarazioni di un alto funzionario croato, Le Monde, 29/11/94). "L'esercito croato è pronto per la guerra, ma ciò avverrà al momento propizio, tanto sul piano interno che internazionale." (Dichiarazione del comandante in capo dell'esercito croato, Liberation, 30/11/94).
7. Le Monde, 16/11/94.
8. Akashi si era già rivelato al momento della presa di Gorazde da parte dei Serbi nell'aprile 1994, con il suo rifiuto di ricorrere ai raid aerei per fermare l'offensiva serba.
9. International Herald Tribune, 9/12/94.
Ad ascoltare la propaganda della classe dominante, si potrebbe credere che questa non ha che una preoccupazione: il bene dell'umanità. I discorsi ideologici sulla "difesa delle libertà e della democrazia", sui "diritti dell'uomo" o l' "aiuto umanitario" è in completa contraddizione con la realtà. Il clamore con cui vengono accompagnati questi discorsi è pari alla menzogna che essi diffondono. Come già diceva Goebbels, il capo della propaganda nazista: "Più la menzogna è grande, maggiori sono le possibilità che vi si creda". Questa "regola" viene applicata continuamente dalla borghesia mondiale. Lo Stato del capitalismo decadente ha sviluppato tutto un apparato mostruoso di propaganda, riscrivendo la storia, coprendo di un frastuono assordante gli avvenimenti, per mascherare la natura barbara e criminale del capitalismo, che non è più portatore di alcun progresso per l'umanità. Questa propaganda pesa notevolmente sulla coscienza della classe operaia. D'altronde questo è il suo scopo.
L'articolo che segue mostra come dietro i discorsi propagandistici di circostanza, la borghesia del capitalismo decadente è una classe di gangsters, le cui molteplici frazioni sono pronte a tutto per la difesa dei loro interessi nello scontro che le vede confrontarsigareggiare nell'arena capitalista ed imperialista e nel fronte che le unisce di fronte al pericolo proletario.
Per ben combattere il nemico, bisogna conoscerlo. Ciò è particolarmente vero per il proletariato per il quale la coscienza, la chiarezza di cui deve dar prova nella sua lotta, è l'arma principale. La sua capacità di smascherare le menzogne della classe dominante, di vedere dietro lo schermo della propaganda, in particolare quella "democratica", la realtà della barbarie del capitalismo e della classe che lo incarna, è determinante per la sua futura capacità di giocare il proprio ruolo storico: porre fine con la rivoluzione comunista al periodo più cupo che l'umanità abbia mai conosciuto.
Dopo molti anni, gli scandali a ripetizione che hanno smagliato la vita politica della classe dominante in Italia, in particolare le vicissitudini della Loggia P2 (Propaganda 2), della rete Gladio e dei legami con la mafia, hanno permesso di sollevare un angolo del velo pudico con cui si copre lo Stato democratico e di avere sentore della realtà sordida e criminale del suo funzionamento. La pista sanguinosa dei molteplici attentati terroristici e mafiosi, dei "suicidi" sullo sfondo di crolli finanziari trova la sua origine nel cuore stesso dello Stato, nelle sue tortuose manovre per assicurare la propria egemonia. Uno "scandalo" caccia l'altro e la classe dominante sa ben utilizzare l'apparente novità di ogni episodio per far dimenticare i precedenti. Oggi le altre grandi "democrazie" occidentali indicano col dito la borghesia italiana colpevole di tali misfatti, per meglio far credere che si tratta di una situazione particolare e specifica. Machiavelli e la Mafia, così come il Chianti ed il Parmigiano non sono prodotti tipici italiani? Tuttavia, tutta la storia scandalistica della borghesia italiana e le ramificazioni che essa mette a nudo mostra esattamente il contrario. Ciò che è specifico per l'Italia è che le apparenze democratiche qui sono più fragili che nelle altre democrazie storiche. Quando si guarda un pò più da vicino, gli scandali in Italia mettono in evidenza che ciò che essi svelano non è caratteristico dell'Italia, ma è al contrario l'espressione della tendenza generale del capitalismo decadente al totalitarismo statale e degli antagonismi imperialisti mondiali che hanno segnato il 20° secolo.
La storia dell'Italia dall'inizio del secolo lo mostra ampiamente.
LA MAFIA: al cuore dello Stato e della strategia imperialista
Nella metà degli anni 20 Mussolini dichiarò guerra alla Mafia. "Io la prosciugherò come ho prosciugato le paludi pontine" afferma. Le truppe del prefetto Mori hanno proprio questo incarico in Sicilia. Ma gli anni passano e Cosa Nostra resiste e quando si profila la prospettiva della 2^ guerra mondiale, la Mafia con le sue solide basi nel sud Italia e negli Stati Uniti diventa un elemento strategico importante per i futuri belligeranti. Nel 1937, Mussolini, interessato a rafforzare la sua influenza tra gli italo-americani per tentare di installare così una "quinta colonna" in territorio nemico, accoglie a braccia aperte Vito Genovese, il consigliere di Lucky Luciano, boss della Mafia americana, nei guai con la giustizia. Genovese diventa un protetto del regime fascista, invitato più volte alla tavola del Duce a mangiare gli spaghetti dell'amicizia in compagnia, tra gli altri, di celebrità come il conte Ciano, genero di Mussolini e Ministro degli affari esteri e di Herman Goering. Riceverà nel 1943 la più alta onorificenza del regime fascista; il Duce in persona gli appunterà sul petto l'Ordine di Commendatore. Genovese restituisce il favore al regime fascista, eliminando dei mafiosi che non comprendono le nuove regole del gioco, organizzando l'assassinio a New York di un giornalista italo-americano, Carlo Tresca, responsabile di un influente giornale antifascista, Il Martello. Ma soprattutto il luogotenente di Lucky Luciano mette a profitto la sua situazione di privilegio per mettere sù una struttura di traffico in ogni genere e sviluppare la sua rete di influenza: il prefetto di Napoli, Albini, diventa un suo fedelissimo e Genovese riesce a farlo nominare nel 1943 sottosegretario di Stato agli interni. Ciano, che si dà alla droga, cade anche lui nelle mani di Genovese, da cui dipende per il suo approvvigionamento.
In questo periodo negli Stati Uniti, con l'entrata in guerra nel 1941, viene riconosciuta l'importanza strategica della Mafia. Sul piano interno, si tratta di evitare la creazione di un fronte all'interno degli immigrati italiani, e la Mafia che controlla - tra l'altro - i sindacati dei portuali e dei camionisti, settori vitali per il trasporto delle provviste degli eserciti, diventa in queste condizioni un interlocutore fondamentale dello Stato americano. Per rafforzare la sua posizione, la Mafia organizza nel febbraio 1942 il sabotaggio, nel porto di New York, del piroscafo Normandia, incendiato mentre erano in corso i lavori di trasformazione in battello per il trasporto di truppe. Poco dopo uno sciopero generale dei portuali, fomentato dal sindacato mafioso paralizza l'attività del porto. Alla fine, la Marina americana chiede a Washington l'autorizzazione a negoziare con la Mafia ed il suo capo Lucky Luciano, allora in prigione; autorizzazione che Roosevelt si affretterà a concedere. Benchè questo fatto sia sempre stato smentito dallo Stato americano ed i dettagli dell'operazione Underworld (questo fu il suo nome) sempre classificati come segreti, benchè Lucky Luciano abbia sempre proclamato fino alla morte che tutto ciò non erano che "pazzie e stronzate per dei coglioni" (dal testamento di Lucky Luciano), dopo decenni di silenzio, il fatto che lo Stato americano abbia stipulato un'alleanza con la Mafia è oggi generalmente riconosciuto. Conformemente a quanto promesso, Luciano verrà liberato alla fine della guerra ed "esiliato" in Italia. Per giustificare questa grazia, Thomas Dewey, colui che da procuratore aveva organizzato l'arresto e il processo di Luciano dieci anni prima, e che, grazie a questa pubblicità, era nel frattempo diventato il governatore dello Stato di New York, dichiarò in un'intervista al New York Post: "Una inchiesta esauriente ha stabilito che l'aiuto apportato da Luciano alla Marina durante la guerra è stato considerevole e prezioso."
La Mafia ha effettivamente reso servizi molto importanti allo Stato americano durante la guerra. Dopo aver piazzato le sue carte in entrambi i campi, quando a metà del 1942 il rapporto di forze pende nettamente a favore degli Alleati, la Mafia mette le sue forze a disposizione degli Stati Uniti. Sul piano interno, impegna i suoi sindacati nello sforzo di guerra. Ma è soprattutto in Italia che mostra il suo ruolo. Durante lo sbarco del 1943 in Sicilia le truppe americane beneficiano dell'efficace sostegno della Mafia locale. Sbarcati il 10 luglio, i soldati americani fanno una vera passeggiata, incontrano poca opposizione e dopo solo sette giorni Palermo è sotto il loro controllo. Contemporaneamente, l'8^ armata britannica, che probabilmente non ha beneficiato dello stesso sostegno mafioso, ha dovuto battersi per cinque settimane e subire numerose perdite per raggiungere parzialmente i suoi obiettivi.
Questa alleanza con la Mafia avrebbe, secondo alcuni storici, salvato la vita a 50.000 soldati americani. Il generale Patton a partire da questo momento chiamerà il padrino siciliano Don Calogero Vizzini, organizzatore di questa sconfitta italo-tedesca, il "Generale Mafia".In cambio, questi, che era stato alcuni anni in prigione, verrà eletto sindaco della sua città, Villalba, sotto l'occhio compiaciuto degli Alleati. Una settimana dopo la caduta di Palermo, il 25 luglio, Mussolini è eliminato dal Gran Consiglio fascista ed un mese dopo l'Italia capitola. In questo processo che segue lo sbarco in Sicilia, il ruolo della rete di influenza costituita da Genovese sarà molto importante. Così, Ciano partecipa a fianco di Badoglio all'eliminazione di Mussolini. La struttura di mercato nero messa in piedi nella zona di Napoli lavorerà in perfetta armonia con le forze Alleate per un reciproco profitto. Vito Genovese diventerà l'uomo di fiducia di Charlie Poletti, governatore militare americano di tutta l'Italia occupata. In seguito Genovese, di ritorno negli Stati Uniti, diventerà là il principale boss mafioso del dopoguerra.
L'alleanza che si è stretta durante la guerra tra lo Stato americano e la Mafia non si scioglie con la fine del conflitto. L'Onorata Società è un partner che si rivelato troppo efficace ed utile per rischiare che vada a servire altri interessi, quando con la fine della seconda guerra mondiale, lo Stato americano vede profilarsi l'emergenza di un nuovo rivale imperialista: l'URSS.
LA RETE "GLADIO": una struttura di manipolazione per gli interessi strategici del blocco
Nell'ottobre 1990, il presidente del consiglio Giulio Andreotti rivela l'esistenza di una organizzazione clandestina, parallela ai servizi segreti ufficiali, finanziata dalla CIA, integrata alla NATO ed incaricata di far fronte ad una eventuale invasione russa e, per estensione, a lottare contro l'influenza comunista: la rete Gladio. Con ciò egli provoca un bel casino, e non solo in Italia, ma a livello internazionale, perchè questo tipo di struttura era stato costituito in tutti i paesi del blocco occidentale sotto il controllo degli Stati Uniti.
"Ufficialmente", la rete Gladio è stata costituita nel 1956, ma la sua origine vera risale alla fine della guerra. Prima ancora che la seconda guerra mondiale fosse finita, quando il destino delle forze dell'Asse era già segnato, il nuovo antagonismo che si sviluppa tra gli Stati Uniti e l'URSS polarizza l'attività degli stati maggiori e dei servizi segreti. I crimini di guerra e le responsabilità sono dimenticate in nome della guerra che comincia contro l'influenza del nuovo avversario russo. In tutta Europa, i servizi Alleati, ed in particolare, americani, operano un reclutamento a tutto campo dei vecchi fascisti e nazisti, di pendagli da forca, di ogni sorta di avventurieri, in nome della sacrosanta lotta contro il "comunismo". I "vinti" trovano in ciò una occasione per rifarsi una verginità a buon mercato.
In Italia, la situazione è particolarmente delicata per gli interessi occidentali. Vi è il Partito stalinista più forte dell'Europa occidentale che esce dalla guerra con un'aureola di gloria per il suo determinate ruolo nella resistenza contro il fascismo. Mentre si preparano le elezioni del 1948, in conformità alla nuova costituzione nata con la Liberazione, aumenta l'inquietudine tra gli strateghi occidentali, perchè nessuno è certo del risultato, ed una vittoria del PCI sarebbe una catastrofe. In effetti mentre la Grecia è preda della guerra civile ed il PC minaccia di prendervi il potere con la forza, e la Jugoslavia è ancora nell'orbita russa, la caduta dell'Italia sotto l'influenza dell'URSS costituirebbe un disastro strategico di primaria importanza per gli interessi occidentali, con il rischio di perdere il controllo del Mediterraneo e dunque l'accesso al Medio Oriente.
Per far fronte a questa minaccia, la borghesia italiana dimentica in fretta le divisioni della guerra. Nel marzo 1946, viene sciolto l'Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, incaricato di epurare lo Stato dagli elementi che si erano troppo invischiati nel sostegno a Mussolini. I partigiani sono smobilitati. Le autorità nominate dai Comitati di liberazione, in particolare a capo della polizia, sono sostituite da responsabili già nominati da Mussolini. Dal 1944 al 1948, si stima che il 90 % del personale dell'apparato statale del regime fascista viene reintegrato nelle sue funzioni.
La campagna elettorale che dovrebbe santificare la nuova repubblica democratica è al suo culmine. L'apparato finanziario ed industriale, l'esercito, la polizia, che erano stati i principali sostenitori del regime fascista, si mobilitano e, di fronte al pericolo "comunista", abbracciano la causa della difesa della democrazia occidentale, il loro vecchio nemico. Il Vaticano, frazione essenziale della borghesia italiana che, dopo aver sostenuto il regime di Mussolini, aveva fatto il doppio gioco durante la guerra, come d'abitudine, si lancia così nella campagna elettorale ed il Papa davanti ai 300.000 fedeli riuniti in Piazza San Pietro, dichiara che "colui che offrirebbe aiuto ad un partito che non riconosce Dio sarebbe un traditore ed un disertore". La Mafia, nel sud Italia, si impegna attivamente nella campagna elettorale, finanziando la Democrazia Cristiana, dando indicazioni di voto alla sua clientela.
Tutto ciò sotto l'occhio benevolo e con il sostegno attivo degli Stati Uniti, Nei fatti lo stato americano non risparmia i suoi sforzi. Negli USA, viene lanciata una campagna "lettere all'Italia", perchè gli italo-americano inviino alla loro famiglia in Italia delle lettere con la raccomandazione di un "buon" voto. La radio Voce dell'America che durante la guerra, deprecava i misfatti del regime fascista, da ora per tutta la giornata denuncia i pericoli del "comunismo". Due settimane prima delle elezioni, viene approvato il Piano Marshall, ma gli Stati Uniti non avevano atteso questo per inondare di dollari il governo italiano. Alcune settimane prima era stato votato dal Congresso un aiuto di 227 milioni di dollari. I partiti e le organizzazioni ostili al PCI ed al Fronte democratico ad esso federato ricevono un aiuto suonante e traboccante: la stampa americana stima in 20 milioni di dollari le somme spese in queste circostanze.
Ma nel caso in cui tutto questo non fosse sufficiente a sconfiggere il Fronte democratico del PCI, gli Stati Uniti preparano una strategia segreta destinata a far fronte ad un eventuale governo dominato dagli stalinisti. Le diverse frazioni della borghesia italiana contrarie al PCI - responsabili dell'apparato statale, esercito, polizia, grandi industriali e finanzieri, Vaticano, boss mafiosi - sono contattati dai servizi segreti americani che coordinano le loro azioni. Viene creata la struttura di una rete clandestina di resistenza ad una eventuale vittoria "comunista". Il reclutamento avviene tra i "vecchi" fascisti, l'esercito, la polizia, l'ambiente mafioso e, in generale, tra tutti gli "anti-comunisti" convinti. Il risorgere di gruppi fascisti è incoraggiato in nome della difesa delle "libertà". Vengono clandestinamente distribuite delle armi. E' presa in considerazione l'eventualità di un colpo di Stato militare e non è un caso se, pochi giorni prima delle elezioni, 20.000 carabinieri sono impegnati in manovre con mezzi blindati e se il ministro degli Interni, Mario Scelba, dichiara di aver organizzato una struttura capace di far fronte ad una insurrezione armata. In caso di vittoria del PCI è prevista la secessione della Sicilia. Gli Stati Uniti possono contare per ciò su Cosa Nostra che sostiene con questa intenzione la lotta "indipendentista" di Salvatore Giuliano, mentre lo stato maggiore americano considera seriamentte l'ipotesi di una occupazione della Sicilia e della Sardegna da parte delle sue forze armate.
Alla fine, il 16 aprile 1948, con il 48 % dei voti la Democrazia Cristiana la spunta con 40 seggi di maggioranza. Il PCI è mandato all'opposizione. Gli interessi occidentali sono salvi. Ma le prime elezioni della nuova repubblica democratica italiana uscita dalla Liberazione non hanno avuto niente di democratico. Esse sono il prodotto di una gigantesca manipolazione. E in ogni caso, se il risultato fosse stato sfavorevole, le forze "democratiche" dell'Occidente sarebbe state pronte ad organizzare un colpo di Stato, a seminare il disordine, a suscitare una guerra civile per restaurare il loro controllo sull'Italia. E' sotto questi auspici e in queste condizioni "democratiche" che è nata la repubblica italiana. Ne porta i segni ancora oggi.
Per giungere a questo risultato elettorale, al di là del quadro ufficiale del funzionamento "democratico", è stata messa in piedi sotto la lunga mano degli Stati Uniti una struttura clandestina, che raggruppa i settori della borghesia più favorevoli agli interessi occidentali che costituisce la cricca dominante dello Stato italiano. Quella che sarà più tardi chiamata la rete Gladio raggruppa così segretamente un cervello politico: il vertice; un corpo economico: i differenti clan interessati che ne tirano profitto finanziandolo; un braccio armato: la soldataglia, reclutata dai servizi segreti, ed incaricata degli affari sporchi. Questa struttura ha mostrato la sua efficacia e verrà tenuta in piedi. Nei fatti con lo sviluppo degli antagonismi imperialisti del periodo detto della "guerra fredda", con la presenza di un PC molto potente in Italia, quello che era valido dal punto di vista degli interessi strategici occidentali all'indomani della guerra resta attuale.
Tuttavia, manipolare i risultati elettorali, attraverso uno stretto controllo dei partiti politici, dei principali organi dello Stato, dei mass media e del cuore dell'economia, non era sufficiente. Sussisteva il pericolo di un rovesciamento della situazione a favore del PCI. Alla fine della guerra, per fronteggiare la "sovversione comunista", l'organizzazione Gladio (o il suo equivalente, comunque si chiamasse) ha preparato l'eventualità di un colpo di Stato militare per conto del blocco occidentale.
Tuttavia, a ben considerare, questi complotti, più che dei veri tentativi di colpo di Stato falliti, sembrano al contrario dei preparativi "nel caso in cui" e delle manovre per mantenere una certa atmosfera politica. Nei fatti, nel 1969, l'Italia è scossa da un'ondata di scioperi, l'"autunno caldo", che segna la ripresa della lotta di classe e risveglia, nella testa degli strateghi della NATO, la paura di una destabilizzazione della situazione sociale italiana. All'indomani del 1969, viene elaborata una strategia destinata a ristabilire l'ordine e a rafforzare lo Stato: la "strategia della tensione".
LA "STRATEGIA DELLA TENSIONE": la provocazione come metodo di governo
Nel 1974, Roberto Caballero, un funzionario del sindacato fascista CISNAL, dichiara in un'intervista a L'Europeo: "Quando dei tumulti scuotono il paese (disordini, tensioni sindacali, violenze), l'Organizzazione si mette in azione per creare le condizioni di un ristabilimento dell'ordine; se i disordini non ci sono, vengono creati dall'organizzazione stessa, per il tramite di tutti quei gruppi di estrema destra (quando non si tratta di gruppi di estrema sinistra) oggi implicati nei processi sulla sovversione nera" e precisa anche che il gruppo dirigente di questa organizzazione "che comprende rappresentanti dei servizi segreti italiani ed americani così come di potenti società multinazionali, ha scelto una strategia di disordine e di tensioni che giustifica il ristabilimento dell'ordine".
Nel 1969 sono 145 gli attentati commessi. Il punto culminante, quell'anno, sarà raggiunto il 12 dicembre con le esplosioni a Roma e Milano, che fanno 16 morti e un centinaio di feriti. L'inchiesta su questi attentati si indirizza per tre anni sulla pista anarchica prrima di orientarsi, malgrado tutti gli ostacoli frapposti, sulla pista nera, quella della estrema destra e dei servizi segreti. Il 1974 è segnato da due esplosioni mortali a Brescia (7 morti, 90 feriti) e su di un treno, l'Italicus (12 morti, 48 feriti). Ancora una volta viene alla luce la pista nera. Tuttavia a partire da quest'anno, il 1974, il terrorismo "nero" dell'estrema destra lascia il posto al terrorismo delle Brigate rosse che raggiunge il suo culmine con il rapimento e l'assassinio del presidente del Consiglio, Aldo Moro. Ma nel 1980 l'estrema destra ricompare violentemente con il sanguinoso attentato della stazione di Bologna (90 morti) che le viene alla fine attribuito. Ancora una volta l'istruttoria tocca i servizi segreti e nuovamente dei generali responsabili di questi servizi andranno sotto processo.
La "strategia della tensione" è stata attuata con cinismo ed efficacia per accentuare un clima di terrore e giustificare così il rafforzamento dei mezzi di repressione e di controllo della società da parte dello Stato. Il legame tra il terrorismo di estrema destra ed i servizi segreti è stato chiaramente sottolineato dalle inchieste condotte, anche se queste nel complesso sono state insabbiate. Invece, per quel che riguarda il terrorismo di estrema sinistra, fatto da gruppi come le Brigate rosse e Prima linea, questi legami non sono stati ancora dimostrati in modo chiaro dalle inchieste di polizia. Tuttavia, anche là, con il passare del tempo, si accumulano gli elementi che tendono a dimostrare che il terrorismo "rosso" è stato incoraggiato, manipolato, utilizzato, se non talvolta direttamente diretto dallo Stato e dai suoi servizi segreti paralleli.
Bisogna notare che gli attentati delle Brigate rosse hanno alla fine lo stesso risultato di quelli dei neofascisti: creare un clima di insicurezza favorevole alle campagne ideologiche dello Stato volte a giustificare il rafforzamento delle sue forze repressive. Nella seconda metà degli anni 1970, essi vengono come il cacio sui maccheroni per far dimenticare ciò che le inchieste cominciavano a mettere in evidenza: cioè che gli attentati, dal 1969 al 1974, non erano opera di anarchici, ma di elementi fascisti utilizzati dai servizi segreti. Accompagnati da una fraseologia rivoluzionaria, questi attentati "rossi" sono il mezzo migliore per seminare la confusione nel processo di chiarificazione della coscienza che era sul punto di operarsi in seno alla classe operaia. Essi consentono di far sentire notevolmente il peso della repressione sugli elementi più avanzati del proletariato e nell'ambiente rivoluzionario, assimilati al terrorismo. In breve, dal punto di vista dello Stato, il terrorismo "rosso" è molto più utile di quello "nero". E' d'altra parte per questo che, in un primo tempo, i massmedia della borghesia al servizio dello Stato attribuiscono i primi attentati realizzati dall'estrema destra a degli anarchici; questo era lo scopo della manovra: una provocazione.
"Può capitare che di fronte alla sovversione comunista i governi dei paesi Alleati diano prova di passività o indecisione. Lo spionaggio militare degli Stati Uniti deve avere i mezzi per lanciare delle operazioni speciali capaci di convincere i governi alleati e l'opinione pubblica della realtà del pericolo d'insurrezione. Lo spionaggio militare degli Stati Uniti dovrebbe cercare di infiltrarsi nei centri di insurrezione tramite agenti in missione speciale incaricati di formare alcuni gruppi di azione in seno ai movimenti più radicali." Questa citazione è estratta da US Intelligence Field Manual, manuale delle spie americane, che i responsabili di Washington dicono falso. Ma esso è stato riconosciuto autentico dal Colonello Oswald Le Winter, vecchio agente della CIA e ufficiale di collegamento in Europa, in un documentario televisivo su Gladio. Il fatto fu confermato da Licio Gelli, capo della Loggia P2 in una intervista per questo stesso documentario televisivo. Le Winter, inoltre, dà un esempio del suo contenuto concreto dichiarando in questa stessa intervista: "Nelle Brigate rosse c'erano infiltrati così come nella Baader-Meinhof e Action Directe. Molte di queste organizzazioni terroriste di sinistra erano infiltrate e sotto controllo", e precisa che "dei rapporti e dei documenti emessi dal nostro ufficio di Roma attestavano che le Brigate rosse erano state infiltrate e che il loro nucleo dirigente riceveva gli ordini da Santovito.". Il generale Santovito era all'epoca il capo dei servizi segreti italiani (SISMI). Fonte più affidabile, Federico Umberto d'Amato, vecchio capo della polizia politica e ministro degli Interni dal 1972 al 1974, racconta con fierezza: "Le Brigate rosse sono state infiltrate. E' stato difficile perchè erano dotate di una struttura molto chiusa e molto efficace. Ciò nonostante, sono state infiltrate in modo sostanziale, con ottimi risultati."
Più di ogni altro attentato commesso dalle Brigate rose, il rapimento di Aldo Moro , l'assassinio della sua scorta, il suo sequestro e la sua esecuzione finale nel 1978, fanno sospettare una manovra di un clan nello Stato e dei servizi segreti. Ci si meraviglia che le Brigate rosse, composte da giovani elementi ribelli, molto motivati e convinti, ma senza una grande esperienza della guerra clandestina, abbiano potuto condurre a buon fine un'operazione di tale portata. L'inchiesta mette in luce molti fatti sconvolgenti: presenza di un membro dei servizi segreti sul luogo del rapimento, i proiettili sparati hanno subito un trattamento speciale utilizzato nei servizi speciali, ecc. Mentre lo scandalo suscitato dalla scoperta del coivolgimento dello Stato negli attentati dal 1969 al 1974, falsamente attribuiti agli anarchici, cominciava ad essere dimenticato, rinasceva il dubbio nell'opinione pubblica italiana sulla presenza dello Stato dietro gli attentati delle Brigate rosse. Nei fatti Aldo Moro è rapito alla vigilia della firma del "Compromesso storico" che doveva sugellare un'alleanza di governo tra la Democrazia cristiana ed il PCI, e di cui Moro era l'artefice. La sua vedova dichiara: "Avevo saputo da mio marito, o da un'altra persona, che intorno al 1975 lo avevano avvertito che i suoi tentativi di portare tutte le forze politiche a governare insieme per il bene del paese non piacevano a certi gruppi e a certe persone. Gli avevano detto che se si ostinava a voler realizzare il suo progetto politico, rischiava di pagare molto cara la sua testardaggine.". Il "Compromesso storico" avrebbe avuto per risultato di aprire le porte del governo al PCI. Moro, che era al corrente, in quanto presidente del Consiglio, dell'esistenza di Gladio, pensava probabilmente che il lavoro di infiltrazione svolto per anni in seno a questo partito, per sottrarlo all'influenza dell'Est, ed il suo allontanamento crescente dalle scelte politiche russe, lo rendevano accettabile agli occhi dei suoi alleati occidentali. Ma il modo in cui lo Stato lo abbandonò durante il suo sequestro mostra che le cose non stavano così. Alla fine il "Compromesso storico" non fu firmato. La morte di Moro corrisponde dunque perfettamente alla logica degli interessi difesi da Gladio. E quando D'Amato parla di "ottimi risultati" ottenuti con l'infiltrazione nelle Brigate rosse, pensa all'assassinio di Moro?
Le varie inchieste urtavano sempre con l'ostruzionismo di certi settori statali, le manovre amministrative dilatorie e il sacrosanto segreto di Stato. Ma con lo smascheramento della Loggia P2 nel 1981, i giudici vedono i loro sospetti confermati per quel che riguardava l'esistenza di una struttura parallela, di un governo occulto che tirava le corde nell'ombra e organizzava la "strategia della tensione".
LA LOGGIA P2: il vero potere occulto dello Stato
Nel 1981 la Guardia di Finanza scopre la lista di 963 "fratelli" membri della Loggia P2. Su questa lista figurano il Gotha della borghesia italiana: 6 ministri in carica, 63 alti funzionari ministeriali, 60 politici tra cui Andreotti e Cossiga, 18 giudici e procuratori, 83 grandi industriali tra cui Agnelli, Pirelli, Falck, Crespi, banchieri quali Calvi e Sindona, membri del Vaticano come il Cardinale Casaroli, grandi nomi del settore delle comunicazioni come Rizzoli, proprietario del Corriere della Sera, o Berlusconi, quasi tutti i responsabili dei servizi segreti degli ultimi anni, tra cui i generali Allavena, capo del SIFAR dal giugno 1965 al giugno 1966, Miceli nominato alla testa dei servizi segreti nel 1970, l'ammiraglio Casardi, suo successore, il generale Santovito, allora capo del SISMI, 14 generali dell'esercito, 9 ammiragli, 9 generali dei carabinieri, 4 generali dell'aereonautica e 4 della guardia di finanza, per non citare che gli ufficiali più alti in grado. Ma vi erano anche universitari, sindacalisti, responsabili di gruppi di estrema destra. Ad esclusione dei radicali, degli estremisti di sinistra e del PCI, tutto il ventaglio politico italiano vi è rappresentato. Questa lista tuttavia non è certamente completa. Al momento dello scandalo furono citati numerosi altri nomi, senza che potesse essere apportata alcuna prova. Sono anche corse voci, non verificabili, sulla partecipazione di influenti membri del PCI alla P2.
Tuttavia, si potrebbe pensare che in questo non vi è niente di strano. Nei fatti, capita spesso di ritrovare nelle fila della franco-massoneria numerosi notabili che praticano i suoi riti e che la utilizzano per coltivare le loro relazioni e riempire le loro agende di indirizzi. La personalità del Gran Maestro, Licio Gelli, è tuttavia inquietante.
A capo di questa loggia, Gelli è sconosciuto al grande pubblico, ma lo sviluppo dedll'inchiesta e le rivelazioni che si succedono mostrano l'influenza determinante che egli ha esercitato sulla politica italiana durante gli anni. Personaggio dalla storia edificante, Gelli ha cominciato la sua carriera come membro del partito fascista. A 18 anni milita nelle "camicie nere" che vanno a combattere in Spagna. Durante la guerra collabora attivamente con i nazisti ai quali consegna dozzine di partigiani e di disertori. A partire dal 1943 sembra che cominci a fare il doppio gioco contattando la Resistenza ed i servizi segreti americani. Dopo la guerra si rifugia in Argentina e ritorna senza problemi in Italia nel 1948. All'inizio degli anni '60 si iscrive alla Franco-massoneria, partecipa alla loggia Propaganda due, di cui diventa rapidamente il Gran Maestro e dove è raggiunto dai principali responsabili dei servizi segreti. La sua potenza allora è confermata da numerose testimonianze. Al matrimonio di uno dei suoi figli, eminenti personalità come il presidente del Consiglio Amintore Fanfani e, sembra, il papa Paolo VI, inviano dei sontuosi regali. Secondo gli inquirenti, in segno di amicizia, Agnelli gli avrebbe offerto un telefono in oro massiccio. All'inizio degli anni '80, Gelli telefona quasi ogni giorno al presidente del Consiglio, al ministro del Commercio e dell'Industria, a quello degli Affari esteri, ai dirigenti dei principali partiti politici della Penisola (democristiano, socialista, socialdemocratico, repubblicano, liberale e neofascista). Nella sua casa vicino Firenze e nei saloni privati del lussuoso albergo Excelsior in cui riceve, sfila il Gotha dello stato maggiore italiano, in particolare Andreotti, che è nei fatti il suo rappresentante politico ufficiale, la sua anima nera.
La conclusione della commissione di inchiesta sulla Loggia P2 non manca di interesse. Essa afferma che Gelli "appartiene ai servizi segreti di cui è il capo; la Loggia P2 e Gelli sono l'espressione di una influenza esercitata dalla massoneria americana e dalla CIA su Palazzo Giustiniani dopo la sua riapertura dopo la guerra; un'influenza che testimonia della dipendenza economica rispetto alla Massoneria americana e al suo capo Frank Gigliotti.". Gigliotti è lui stesso un agente della CIA. Nel 1990, un ex-agente della CIA, Richard Brenneke, in una intervista alla televisione che fa scandalo dichiara: "Il governo degli Stati Uniti finanziava la P2 fino a 10 milioni di dollari per mese.". Ecco è tutto chiaro. La P2 e Gladio sono la stessa cosa. L'atto d'accusa del 14 giugno 1986 testimonia della "esistenza in Italia di una struttura segreta composta da militari e da civili che, essendosi dati per scopo ultimo il condizionamento degli equilibri politici esistenti attraverso il controllo dell'evoluzione democratica del paese, ha tentato di realizzare questo obiettivo servendosi dei mezzi più vari, tra i quali il ricorso diretto agli attentati commessi da organizzazioni neo-fasciste" e parla di "una sorta di governo invisibile nel quale la P2, dei settori deviati dei servizi segreti, il crimine organizzato ed il terrorismo sono strettamente legati."
Ma tuttavia, questa lucida constatazione dei giudici non fa cambiare granché nel funzionamento dello Stato italiano. Sospettato di aver finanziato l'attentato di Bologna, Gelli se ne va all'estero. Arrestato in una banca svizzera il 13 settembre 1982, mentre ritirava 120 milioni di dollari da un conto cifrato, l'anziano personaggio sarà l'autore di una inverosimile evasione dalla prigione ginevrina il 10 agosto 1983, e svanirà nel nulla, fino a che, quattro anni dopo, si consegnerà alle autorità svizzere. Dalla Svizzera Gelli sarà estradato in Italia. Ma mentre, in sua assenza, era stato, nel 1988, condannato a 10 anni di prigione, verrà rigiudicato nel 1990 e alla fine assolto. Lo scandalo della P2 è banalizzato, dimenticato. La Loggia P2 è scomparsa ma, non abbiamo dubbi, un'altra struttura occulta ha dovuto rimpiazzarla, altrettanto efficace. Nel 1990, Cossiga, presidente della Repubblica e ex-membro della P2, potrà dichiarare con soddisfazione a proposito di Gladio che è "fiero del fatto che il segreto abbia potuto essere conservato per 45 anni". Dimenticate le dozzine di vittime degli attentati, dimenticati i molteplici assassinii. Nuovi scandali vengono a far dimenticare i vecchi.
QUALCHE LEZIONE
Tutti questi avvenimenti, in cui la grande storia dell'Italia confina con il crimine e la rende diversa, hanno avuto poca risonanza al di fuori della penisola. Tutto ciò è apparso come dei "fatti italiani", senza rispondenza con ciò che capitava nelle altre grandi democrazie occidentali. Nella stessa Italia, il ruolo della Mafia è stata presentato soprattutto come un prodotto regionale del Sud d'Italia, la "strategia della tensione" come l'opera di settori deviati dei servizi segreti, e gli scandali politici come un semplice problema di corruzione di alcuni politici. In breve, le vere lezioni sono state evitate e, tra scandali e rivelazioni, tra processi reclamizzati e dimissioni di responsabili statali, è stata mantenuta in piedi l'illusione di una lotta dello Stato contro queste minacce all'ordine democratico. Tuttavia, quello che mette chiaramente in evidenza questa breve storia degli "affari" che hanno scosso la repubblica italiana dagli anni 1930 è tutt'altro.
- Gli "affari" non sono un prodotto specifico italiano, ma il risultato dell'attività internazionale della borghesia, in un contesto di rivalità imperialiste acuite. In queste condizioni questo significa che l'Italia, lungi dall'essere un'eccezione, è al contrario un esempio di ciò che esiste dappertutto.
- Non sono l'espressione di una minoranza deviata della classe dominante, ma traducono il funzionamento totalitario dello Stato del capitalismo decadente, anche se questo si nasconde dietro la maschera della democrazia.
Sia la storia dell'ascesa di Cosa Nostra che le rivelazioni dell'esistenza delle reti Gladio e della Loggia P2, mostrano che non si tratta di affari italiani, bensì di affari internazionali.
Ciò è particolarmente evidente nell'affare Gladio. La rete Gladio era, per definizione, una struttura segreta della NATO, dunque internazionale. Era la cinghia di trasmissione clandestina del controllo degli Stati Uniti sui paesi del loro blocco, destinata ad opporsi alle manovre dell'imperialismo avverso e ai rischi di destabilizzazione sociale con tutti i mezzi, anche i meno leciti. E' per questo che era segreta. Come esisteva e agiva in Italia, essa è esistita ed ha agito negli altri paesi del blocco occidentale. Non vi è ragione perchè sia altrimenti: alle stesse cause, gli stessi effetti.
Con questo chiarimento, si possono meglio comprendere le forze che erano all'opera dietro il colpo di Stato dei colonelli in Grecia nel 1967, quello di Pinochet in Cile nel 1973, o ancora tutti quelli che si sono avuti in America Latina durante gli anni 1970.
Ancora, non è solo in Italia che, a partire dalla fine degli anni 1960, si sono sviluppate delle ondate di attentati terroristici, che hanno aiutato lo Stato a condurre delle intense campagne ideologiche volte a scombussolare la classe operaia che riprendeva il cammino della lotta e giustificare così il rafforzamento del suo apparato repressivo. In Germania, in Francia, in Gran Bretagna, in Giappone, in Spagna, in Belgio, negli Stati Uniti, alla luce dell'esempio italiano, si può pensare con ragione che dietro le azioni terroristiche di gruppi di estrema destra, di estrema sinistra, nazionalisti, vi è la mano dello Stato e dei suoi servizi segreti, e l'espressione di una strategia internazionale organizzata sotto gli auspici del blocco.
Inoltre, l'esempio edificante in Italia del ruolo della Mafia rivela che non si tratta di un fenomeno molto recente nè di un prodotto specificamente locale. L'integrazione della Mafia nel cuore dello Stato italiano non è un fatto nuovo: essa data da più di cinquanta anni. Non è il prodotto di una semplice e lenta cancrena affarista che colpirebbe solo i politici più corrotti: è il risultato del rovesciamento delle alleanze che si è operato durante la seconda guerra mondiale. La Mafia, per conto degli Alleati, ha giocato un ruolo determinante nella caduta del regime di Mussolini e, come ricompensa dei suoi servigi, ha guadagnato un posto centrale nello Stato. L'alleanza creatasi con la guerra, non si scioglie con la fine di questa. La Mafia resterà, come cricca della borghesia italiana, il principale punto d'appoggio degli Stati Uniti. Il peso ed il ruolo importante della Mafia in seno allo Stato italiano è dunque, prima di tutto, il risultato della strategia imperialista americana.
Alleanza contro natura tra il campione americano della difesa della democrazia e il simbolo del crimine in nome degli imperativi strategici mondiali? Alleanza sì, contro natura certamente no. La realtà italiana non fa che mettere in evidenza un fenomeno mondiale del capitalismo decadente: nel nome dei sacrosanti imperativi della ragion di Stato e degli interessi imperialisti, le grandi potenze che tutti i giorni, sui mezzi di informazione, declamano le loro convinzioni democratiche, stringono, nel retroscena, delle alleanze che mostrano la falsità di tutti i loro discorsi ufficiali. E' una banalità constatare che tutti i dittatori che imperversano alla periferia sottosviluppata del capitalismo restano in piedi grazie al patrocinio interessato di una potenza o di un'altra. Vale lo stesso per i clans mafiosi nel mondo: la loro attività può svilupparsi impunemente perchè essi sanno rendere anche dei servizi preziosi ai diversi imperialismi dominanti che si dividono il paese.
Sono sempre più spesso parte integrante delle frazioni dominanti della borghesia dei paesi in cui operano. Questo è evidente per tutta una serie di paesi la cui produzione ed esportazione di droga costituisce l'attività economica principale, favorendo in seno alla classe dominante l'ascesa delle bande che controllano questo settore dell'economia capitalista che assume sempre più importanza. Ma questa realtà non è appannaggio dei paesi sottosviluppati e l'esempio viene dall'alto della gerarchia del capitalismo mondiale. Così l'alleanza tra lo Stato americano e la Mafia italiana, durante la seconda guerra mondiale, trova la sua corrispondenza a livello interno negli Stati Uniti dove, nella stessa occasione, la branca americana di Cosa Nostra è nei fatti invitata a partecipare con i suoi mezzi agli affari di Stato. Ancora in Giappone la situazione non fa che ricordare quella dell'Italia e i recenti scandali scoppiativi mettono in luce l'onnipresenza dei legami tra i politici e la Mafia locale. L'esempio italiano è dunque altrettanto valido per le prime due potenze economiche mondiali dove ciò che si chiama Mafia ha conquistato un posto privilegiato in seno allo Stato. Ciò non è tuttavia solamente dovuto al peso economico considerevole a seguito del dominio di settori economici estremamente redditizi - droga, gioco, prostituzione, racket, ecc -, ma anche ai servizi "specializzati" che queste bande di gangsters possono fornire e che rispondono perfettamente ai bisogni dello Stato del capitalismo decadente.
E' vero che la borghesia, anche la più "rispettabile", ha sempre saputo, quando ciò era necessario, utilizzare i servizi di agenti speciali, o quelli delle sue frazioni meno frequentabili per delle attività "non ufficiali", cioè illegali anche secondo le sue leggi. Nel 19° secolo, gli esempi non mancano: lo spionaggio certamente, ma anche l'utilizzo di picchiatori per spezzare degli scioperi o l'utilizzazione di Mafie locali per favorire la penetrazione coloniale. Ma in questa epoca questo aspetto della vita del capitalismo era limitato e circostanziale. Dopo la sua entrata nella fase di decadenza all'inizio del secolo, il capitalismo è in una situazione di crisi permanente. Non può più, per assicurare il suo dominio, basarsi sulla tangibilità del progresso che apporta, perchè questo non c'è più. Per perpetuare il suo potere, sempre più, deve ricorrere alla menzogna e alla manipolazione. Inoltre, nel corso del 20° secolo, segnato da due guerre mondiali, l'acuirsi delle tensioni imperialiste è divenuto un fattore determinante della vita del capitalismo. In quel campo di battaglia che è diventato il pianeta, tutti i colpi, anche i più sordidi, sono consentiti per assicurarne la sopravvivenza. Per rispondere a queste necessità, il funzionamento dello Stato ha dovuto adattarsi. Nella misura in cui la manipolazione e la menzogna, vuoi per i bisogni della difesa imperialista vuoi per il controllo sociale, sono divenuti degli aspetti essenziali della sua sopravvivenza, il segreto e la sua conservazione sono diventati un aspetto centrale della vita dello Stato capitalista; il funzionamento democratico classico della borghesia e del suo Stato, come era nel 19° secolo, non è più possibile. Esso non è mantenuto che come illusione destinata a mascherare la realtà di un funzionamento statale totalitario, che non ha niente più di democratico. Non solo il potere effettivo si è concentrato nelle mani dell'esecutivo, a spese del legislativo, la cui rappresentazione, il parlamento, è divenuto un semplice paravento destinato ad alimentare le campagne propagandistiche, ma di più, in seno stesso a questo esecutivo, il potere è concentrato nelle mani degli specialisti del segreto e delle manipolazioni di tutti i tipi. In queste condizioni non solo lo Stato ha dovuto reclutare un'abbondante mano d'opera specializzata, creando una moltitudine di servizi speciali, gli uni più segreti degli altri, ma al suo interno è stata conseguentemente favorita l'ascesa delle fazioni della borghesia più esperta nel segreto e nell'attività "illegale". In questo processo lo Stato totalitario ha esteso la sua presa sull'insieme della società, compresi i suoi bassifondi, giungendo ad una simbiosi straordinaria in cui diventa difficile distinguere un rappresentante politico da un uomo d'affari, da un agente segreto o da un gangster, e viceversa.
Questa è la ragione di fondo del ruolo crescente dei settori mafiosi nella vita del capitale. Ma la Mafia non è il solo esempio. L'affare della Loggia P2 mostra che la Massoneria è uno strumento ideale, per il suo funzionamento occulto e le sue ramificazioni internazionali, per essere utilizzato come rete di influenza da parte dei servizi segreti per i bisogni della politica imperialista. E' d'altra parte da molto tempo che le diverse sette massoniche nel mondo sono state coinvolte dal potere statale e messe al servizio delle potenze imperialiste occidentali che le utilizzano secondo i loro piani. Questo è d'altra parte probabilmente il caso della maggior parte delle società segrete di una certa importanza.
Ma la Loggia P2 non era solo uno strumento della politica imperialista americana. Essa era innanzitutto una parte del capitale italiano e mostrava, al di là del linguaggio democratico, la realtà del funzionamento dello Stato e del suo totalitarismo. Essa raggruppava al suo interno dei clan della borghesia che dominano in modo occulto lo Stato da anni. Ciò non vuol dire che raggruppava tutta la borghesia italiana. Già a priori il PCI ne era escluso, rappresentando un'altra fazione dall'orientamento in politica estera rivolto a Est. E' ugualmente probabile che in seno al capitale italiano esistano altre cricche, il che potrebbe spiegare perchè è scoppiato lo scandalo. All'interno della Loggia P2 coabitavano d'altronde vari clan accomunati da interessi convergenti sotto la protezione americana di fronte al comune pericolo rappresentato dall'imperialismo russo e dalla sovversione "comunista". La lista trovata nella villa di Gelli permette di individuare alcuni di questi gruppi: i grandi industriali del nord, il Vaticano, un settore molto importante dell'apparato statale, in particolare gli stati maggiori dell'esercito e dei servizi segreti, e in maniera più discreta, la Mafia. Il legame di questa ultima con la Loggia P2 si rivelava con la presenza dei banchieri Sindona e Calvi, il primo morto avvelenato in prigione e il secondo stranamente impiccato sotto un ponte di Londra, entrambi implicati in scandali finanziari quando gestivano contemporaneamente i fondi del Vaticano e quelli della Mafia. Strane alleanze, perfettamente significative del capitalismo contemporaneo. La Loggia P2 ci presenta un cocktail sulfureo che mostra ancora una volta che spesso la realtà supera la finzione più sfrenata: società segrete, Vaticano, partiti politici, ambienti industriali, affaristici e finanziari, Mafia, giornalisti, sindacalisti, universitari, ecc..
Nei fatti con la Loggia P2 è venuto alla luce il vero centro di decisione occulto che ha governato i destini del capitalismo italiano dopo la guerra. Gelli si definiva lui stesso, con un umorismo cinico, il "grande burattinaio", quello che, dietro le quinte tirava le corde e le cui "marionette" erano gli uomini politici. Il grande gioco democratico dello Stato italiano non era dunque che un'abile messinscena. Le decisioni più importanti erano prese in tutt'altri posti rispetto alle strutture ufficiali (assemblee nazionali, ministeri, presidenza del Consiglio, ecc.) dello Stato italiano. Questa struttura segreta di potere si è mantenuta in piedi indipendentemente dai risultati delle molteplici consultazioni elettorali che si sono svolte durante tutti questi anni. D'altronde, la Loggia P2 aveva tutti gli assi nella manica per manipolare le elezioni, come nel 1948, e mantenere il PCI in disparte. Quasi tutti i leaders dei partiti democristiani, repubblicani, socialisti, erano suoi devotissimi e il gioco "democratico" della "alternanza" non era che un imbroglio. La realtà del potere, quella, non cambiava. Dietro le quinte, Gelli e la sua Loggia P2 continuavano a controllare lo Stato.
Anche in questo, non vi è alcun motivo per parlare di una specificità italiana, anche se altrove il centro occulto di decisione non prende necessariamente l'aspetto un po' folcloristico di una loggia massonica. Da qualche anno l'aggravarsi brutale della crisi e lo sconvolgimento degli schieramenti imperialisti, dovuto alla scomparsa del blocco dell'Est, hanno messo sottosopra le alleanze tra i gruppi che esistono in seno a ciascun capitale nazionale. Lungi dall'essere espressione di una repentina volontà di restaurare un funzionamento democratico, le campagne che si sviluppano oggi in numerosi paesi, in nome della pulizia dello Stato dai suoi elementi più putridi, non sono che l'espressione del regolamento di conti tra le diverse cricche per il controllo centrale dello Stato. La manipolazione dei massmedia, l'uso a ragion veduta dei dossier compromettenti, sono le armi di questa lotta che può anche prendere altre forme più sanguinose.
Nei fatti, tutto ciò mostra, a ben vedere, che lungi dall'essere un'eccezione, l'Italia, che da anni è teatro di scandali politici era l'esempio edificante e premonitore di ciò che si è oggi generalizzato.
JJ
Nei numeri 90, 91, 92 della rivista Programme Communiste (Rivista teorica, in francese, del Partito Comunista Internazionale, che in italiano pubblica il giornale Il Comunista) (1) si trova un lungo studio su "La guerra imperialista nel ciclo borghese e nell'analisi marxista", che fa il punto delle concezioni di questa organizzazione su una questione di primaria importanza per il movimento operaio. Le posizioni politiche fondamentali che vi sono affermate costituiscono una chiara difesa dei principi proletari di fronte a tutte le menzogne portate avanti dai vari agenti della classe dominante. Certi sviluppi teorici, però, sui quali sono fondati questi principi e le previsioni che ne vengono fuori, non sono sempre all'altezza delle affermazioni di principio e rischiano di indebolirle anziché di rafforzarle. Questo articolo si propone di sottomettere a critica queste concezioni teoriche errate al fine di sviluppare su basi più solide possibili la difesa dell'internazionalismo proletario.
La CCI, contrariamente ad altre organizzazioni che si richiamano anch'esse alla Sinistra Comunista (soprattutto i vari Partiti Comunisti Internazionali appartenente alla corrente 'bordighista'), ha sempre stabilito un chiara distinzione fra le formazioni che si trovano nel campo proletario da quelle che si trovano in quello borghese (come i differenti rappresentanti della corrente trotskista, per esempio). Con queste ultime non potrebbe esserci nessun dibattito politico: la responsabilità dei rivoluzionari è quella di denunciarli come strumenti della classe dominante destinati, grazie al loro linguaggio "operaio" o "rivoluzionario", a deviare il proletariato dal suo terreno di classe per sottometterlo, mani e piedi legati, agli interessi del capitale. Per contro, fra le organizzazioni del campo proletario, il dibattito politico è non solo una possibilità, ma un dovere. Questo dibattito non ha niente a che vedere con uno scambio di idee quale può ritrovarsi nei seminari universitari, è una lotta per la difesa e la chiarezza delle posizioni comuniste. In questo senso può prendere la forma di una viva polemica, proprio perché le questioni in gioco sono di primaria importanza per il movimento di classe e perché ogni comunista sa bene che un piccolo errore teorico o politico può avere delle conseguenze drammatiche per il proletariato. Però, anche nella polemica occorre sapere riconoscere ciò che è corretto nelle posizioni dell'organizzazione che si critica.
Una ferma difesa delle posizioni di classe
Il PCInternazionale ("Il Comunista") si richiama alle posizioni della sinistra comunista italiana, cioè una delle correnti internazionali che ha mantenuto delle posizioni di classe durante la degenerazione dell'Internazionale Comunista nel corso degli anni '20. Nell'articolo pubblicato da Programme Communiste (PC) si può constatare che su tutta una serie di questioni essenziali questa organizzazione non ha perso di vista le posizioni di questa corrente. In particolare questo articolo contiene una riaffermazione chiara delle posizioni comuniste di fronte alla guerra imperialista. La denuncia di questa non ha niente a vedere con quella dei pacifisti o degli anarchici:
"Il marxismo è completamente estraneo alle formule vuote ed astratte che fanno dell'"antibellicismo" un principio astorico e che vedono in maniera metafisica nelle guerre il Male assoluto. Il nostro atteggiamento si fonda su un'analisi storica e dialettica delle crisi belliche in legame con la nascita, lo sviluppo e la morte delle forme sociali.
Distinguiamo dunque:
a) le guerre di progresso (o di sviluppo) borghese nell'area europea dal 1792 al 1871
b) le guerre imperialiste caratterizzate dall'urto reciproco fra nazioni nel capitalismo ipersviluppato
c) le guerre rivoluzionarie proletarie". (PC, n° 90, p. 19)
"L'orientamento fondamentale è quello di prendere posizione per le guerre che spingono in avanti lo sviluppo generale della società e contro le guerre che lo ostacolano o lo ritardano. In conseguenza, siamo per il sabotaggio delle guerre imperialiste, non perché queste siano più crudeli o più spaventose delle precedenti, ma perché si oppongono al divenire storico dell'umanità; perché la borghesia imperialista e il capitale mondiale non giocano più alcun ruolo 'progressista', ma, al contrario, sono divenuti un ostacolo allo sviluppo generale della società..." (PC, n° 90, p.22).
La CCI potrebbe sottoscrivere pienamente queste frasi che sono le stesse che abbiamo scritto a parecchie riprese nella nostra stampa territoriale e in questa stessa rivista. (2)
Ugualmente, la denuncia del pacifismo del PCInt. è particolarmente chiara e penetrante:
"...il capitalismo non è 'vittima' della guerra provocata da questo o quell'energumeno, o da "spiriti maligni" resti di epoche barbare contro i quali occorrerebbe, periodicamente, difendersi. (...) il pacifismo borghese deve necessariamente sfociare nel bellicismo. Il sogno idilliaco di un capitalismo pacifico nei fatti non è innocente. E' un sogno grondante sangue. Se si ammette che capitalismo e pace possono coesistere in maniera non contingente e momentanea, ma in maniera permanente, quando crescono i venti di guerra si è obbligati a riconoscere che qualcosa di estraneo minaccia lo sviluppo pacifico, umanitario del capitalismo e che questo, dunque, va difeso, anche con le armi se gli altri mezzi non bastano raggruppando attorno ad esso gli uomini di buona volontà e gli "amanti della pace". Il pacifismo compie allora la sua giravolta finale e si tramuta in bellicismo, in fattore attivo e agente diretto della mobilitazione bellica. Si tratta dunque di un processo obbligato che deriva dalla dina-mica interna del pacifismo. Questo tende a trasformarsi naturalmente in bellicismo..." (PC n° 90, pag. 22).
Da questa analisi del pacifismo il PCInt. fa uscire fuori un orientamento corretto rispetto ai pretesi movimenti contro la guerra che vediamo fiorire periodicamente nella nostra epoca. Con il PCInt., noi consideriamo che può esistere evidentemente un antimilitarismo di classe (come quello che si è manifestato nel corso della I guerra mondiale e che ha portato alla rivoluzione in Russia e in Germania). Ma questo antimilitarismo non può svilupparsi partendo dalle mobilitazioni orchestrate dalle anime candide della borghesia:
"Rispetto agli attuali "movimenti per la pace", la nostra consegna "positiva" è quella di un intervento dall'esterno a carattere propagandistico e di proselitismo verso gli elementi proletari catturati dal pacifismo e inglobati nelle mobilitazioni piccolo borghesi al fine di strapparli da questo genere di inquadramento e di azione politica. Diciamo in particolare a questi elementi che non è nelle parate pacifiste di oggi che si prepara l'antimilitarismo di domani, ma nella lotta intransigente di difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, rompendo con gli interessi dell'impresa e dell'economia nazionale. Come le disciplina del lavoro e la difesa dell'economia nazionale preparano la disciplina delle trincee e la difesa della patria, il rifiuto di difendere e di rispettare oggi gli interessi dell'impresa e dell'economia nazionale preparano l'antimilitarismo e il disfattismo di domani." (PC n° 92, p.61). Come vedremo più avanti il disfattismo non è più una parola d'ordine adatta alla situazione presente o a venire; nonostante ciò teniamo a sottolineare tutta la validità di questo atteggiamento.
Infine l'articolo di PC è ugualmente molto chiaro per quanto riguarda il ruolo della democrazia borghese nella preparazione e nello svolgersi della guerra imperialista:
"...Nei 'nostri' stati civili, il capitalismo regna grazie alla democrazia (...) quando il capitalismo spinge sulla scena cannoni e generali, lo fa appoggiandosi sulla democrazia, i suoi meccanismi e riti ipnotici" (PC n° 91, p. 38).
"L'esistenza di un regime democratico permette allo Stato una maggiore efficacia militare perché permette di potenziare al massimo tanto la preparazione alla guerra quanto la capacità di resistenza del paese in guerra." (ibid.)
"... il fascismo in pratica può fare appello solo al sentimento nazionale, spinto fino all'isteria razzista, per cementare 'l'unità nazionale', mentre la democrazia possiede una risorsa ancora più potente per saldare l'insieme della popolazione alla guerra imperialista: il fatto che la guerra emana direttamente dalla volontà popolare liberamente espressa nelle elezioni, e appare così, grazie alla mistificazione delle consultazioni elettorali, come una guerra di difesa degli interessi e delle speranze delle masse popolari e in particolare delle masse lavoratrici". (PC n° 91, p.41)
Abbiamo riprodotto queste lunghe citazioni da 'Programme Communiste' (e avremmo potuto darne altre, in particolare concernenti le illustrazioni storiche delle tesi presentate) perché esse rappresentano esattamente la nostra posizione sulle questioni viste sopra. Piuttosto che riaffermare con parole nostre i nostri principi riguardanti la guerra imperialista, ci è parso utile mettere in evidenza la profonda unità di vedute che esiste su questa questione in seno alla Sinistra Comunista, unità di vedute che costituisce il nostro patrimonio comune.
Tuttavia, come è importante sottolineare questa unità di principi, è altrettanto dovere dei rivoluzionari mettere in evidenza le inconseguenze e le incoerenze teoriche dalla corrente 'bordighista' che indeboliscono considerevolmente la sua capacità di dare una bussola efficace al proletariato. E la prima di queste inconseguenze risiede nel rifiuto di questa corrente di riconoscere la decadenza del modo di produzione capitalistico.
La "non-decadenza" alla maniera bordighista
Il riconoscimento che dall'inizio del secolo e particolarmente dalla I guerra mondiale la società capitalista è entrata nella fase di decadenza costituisce una delle pietre angolari della prospettiva del movimento comunista. Nel corso del primo olocausto imperialista, rivoluzionari come Lenin, per appoggiare la necessità da parte del proletariato di rifiutare ogni partecipazione a questo, di "trasformare la guerra imperialista in guerra civile", si basano su un'analisi simile (vedi in particolare 'L'imperialismo, fase suprema del capitalismo'). Analogamente l'entrata del capitalismo nel periodo di decadenza è al centro delle posizioni politiche dell'Internazionale Comunista al momento della sua fondazione nel 1919. E' proprio perché il capitalismo è diventato un sistema decadente che non c'è più lo spazio per lottare al suo interno per ottenere delle riforme, come era preconizzato dai partiti operai della II Internazionale, ma che il solo compito che possa darsi il proletariato è quello di realizzare la rivoluzione mondiale. E' in particolare su questa base di granito che, in seguito, la Sinistra Comunista internazionale e, soprattutto, la sua frazione italiana ha potuto elaborare l'insieme delle sue posizioni politiche (3).
Tuttavia, è l'originalità di Bordiga e della corrente di cui è stato l'ispiratore quella di negare che il capitalismo sia entrato nel periodo di decadenza (4). Tuttavia il PCInt. (Il Comunista) è obbligato a riconoscere che dall'inizio del secolo qualcosa è cambiato, sia nella natura delle crisi economiche che in quella della guerra.
Sulla natura della guerra, le citazioni del PCInt. che abbiamo riprodotto sopra parlano da sole: esiste effettivamente una differenza fondamentale fra le guerre che potevano essere condotte dagli stati capitalisti nel secolo scorso. Ad esempio, 6 decenni separano le guerre napoleoniche contro la Prussia dalla guerra franco-prussiana del 1870, mentre quest'ultima è lontana solo 4 decenni da quella del 1914. Ma la guerra del 1914 tra la Francia e la Germania è fondamentalmente differente da tutte le precedenti fra queste due nazioni: è per questo che Marx poteva chiamare gli operai tedeschi a partecipare alla guerra del 1870 (vedere il primo Indirizzo del Consiglio Generale dell'AIT sulla guerra franco-tedesca) sempre situandosi perfettamente sul terreno della classe proletaria, mentre i socialdemocratici tedeschi che chiamavano gli operai alla "difesa nazionale" nel 1914 si ponevano decisamente sul terreno borghese. E' esattamente ciò che i rivoluzionari come Lenin o Rosa Luxemburg hanno difeso con le unghie e con i denti a quell'epoca contro i socialsciovinisti che pretendevano di ispirarsi alle posizioni di Marx nel 1870: questa posizione non era più valida perché la guerra aveva cambiato natura, e questo cambiamento risultava esso stesso da un cambiamento fondamentale nella vita dell'insieme del modo di produzione capitalistico.
Programme Communiste, d'altronde, non dice cose diverse quando afferma (come abbiamo visto sopra) che le guerre imperialiste "si mettono contro il divenire storico dell'umanità; perché la borghesia imperialista e il capitalismo mondiale non giocano più alcun ruolo 'progressista', ma , al contrario, sono diventate un ostacolo allo sviluppo generale della società". Ugualmente, riprendendo una citazione di Bordiga, considera che "Le guerre imperialiste mostrano che la crisi di disgregazione del capitalismo è inevitabile in ragione dell'apertura del periodo in cui la sua espansione non esalta più l'aumento delle forze produttive, ma ne fa dipendere l'accumulazione da un distruzione ancora più grande" (PC n° 90, p.25). Nonostante ciò, chiuso nei vecchi dogmi bordighisti, il PCInt. è incapace di trarne la conseguenza logica da un punto di vista del materialismo storico: il fatto che il capitalismo mondiale sia divenuto un ostacolo allo sviluppo generale della società significa semplicemente che questo modo di produzione è è entrato nel periodo di decadenza. Quando Lenin o la Luxemburg, nel 1914, facevano questa constatazione, non tiravano fuori un coniglio dal cilindro: non facevano che applicare scrupolosamente la teoria marxista alla comprensione dei fatti storici dell'epoca. Il PCInt. (Il Comunista) come l'insieme degli altri "PCInt." appartenenti alla corrente 'bordighista', si richiamano al marxismo. E' un'ottima cosa: oggi solo delle organizzazioni che basano le loro posizioni programmatiche sugli insegnamenti del marxismo possono pretendere di difendere la prospettiva rivoluzionaria del proletariato. Sfortunatamente il PCInt. ci dà la prova della difficoltà che incontra nella comprensione di questo metodo. In particolare ama impiegare abbondantemente il termine "dialettica", ma, come l'ignorante che per nascondersi usa parole difficili, non sa di che cosa parla.
Per esempio, per quanto riguarda la natura delle crisi, ecco che cosa possiamo leggere in PC:
"Le crisi decennali del giovane capitalismo avevano un'incidenza piuttosto piccola; avevano più il carattere di crisi commerciali internazionali che della macchina industriale. Esse non incidevano sulle potenzialità della struttura industriale (...) Erano crisi di disoccupazione, cioè di chiusura delle industrie. Le crisi moderne sono crisi di disgregamento di tutto il sistema che, in seguito, deve, penosamente, ricostruire le diverse strutture." (PC n° 90, p.28).
Segue tutta una serie di statistiche che dimostrano l'ampiezza considerevole delle crisi del XX secolo, senza paragone con quelle del secolo scorso. Qui, non percependo che la differenza di ampiezza fra questi due tipi di crisi è rivelatrice non solo di una differenza fondamentale fra esse, ma anche del modo di vita del sistema che colpiscono, il PCInt. dimentica uno degli elementi di base della dialettica: la trasformazione della quantità in qualità. In effetti per il PCInt. la differenza fra i due tipi di crisi resta nell'ambito del quantitativo e non ne riguarda i meccanismi fondamentali. Ed è ciò che rivela scrivendo:
"Nel secolo scorso si registrarono otto crisi mondiali: 1836, 1848, 1856, 1883, 1886 e 1894. La durata media dei cicli secondo i lavori di Marx era di 10 anni. A questo ritmo "giovanile" segue, nel periodo che va dall'inizio del secolo al 2° conflitto mondiale, una successione più rapida delle crisi: 1901, 1908, 1914, 1920, 1929. A un capitalismo smisuratamente cresciuto corrisponde un aumento della composizione organica (...) cosa che porta a una crescita del tasso dell'accumulazione: la durata media del ciclo si riduce così a 7 anni." (PC n° 90, p.27).
Questa aritmetica sulla durata dei cicli dimostra che il PCInt. mette sullo stesso piano le convulsioni economiche del secolo scorso con quelle di questo secolo, senza comprendere che la natura stessa della nozione di ciclo è fondamentalmente cambiata. Accecato dalla parola divina di Bordiga, il PCInt. non vede che, secondo le parole di Trotsky, le crisi del XIX secolo erano i battiti del cuore del capitalismo, mentre quelle del XX secolo sono i rantoli della sua agonia.
E' la stessa cecità manifestata dal PCInt. quando tenta di mettere in evidenza il legame fra crisi e guerra. In maniera molto argomentata e sistematica, mancando di essere rigorosa (lo vedremo oltre), PC tenta di stabilire che, nel periodo attuale, la crisi capitalista sbocca necessariamente nella guerra mondiale. E' una preoccupazione del tutto meritevole perché ha il merito di rifiutare il discorso illusorio e criminale del pacifismo. Non viene, però, in mente al PCInt. di chiedersi se il fatto che le crisi del XIX secolo non conducevano alla guerra mondiale, o almeno a guerre localizzate, non derivi da una differenza di fondo rispetto a quelle del XX secolo. Ancora una volta il PCInt. dà prova di un "marxismo" ben misero: non di tratta nemmeno di una incomprensione di ciò che significa la parola dialettica, si tratta di un rifiuto o almeno di incapacità di esaminare in profondità - al di là di una fissazione su apparenti analogie che potrebbero esistere fra i cicli del passato e quelli di oggi - i fenomeni principali, quelli determinanti, della vita del modo di produzione capitalistico.
Così il PCInt. si mostra incapace, a proposito di una questione così importante come quella della guerra imperialista, di applicare in maniera soddisfacente la teoria marxista, comprendendo la differenza fondamentale che esiste fra la fase ascendente del capitalismo e quella di decadenza. La confessione palese di questa incapacità risiede nel fatto che il PCInt. tenta di attribuire alle guerre del periodo attuale una razionalità economica simile a quella che potevano avere le guerre del secolo scorso.
Razionalità e irrazionalità della guerra
La nostra stampa ha già pubblicato numerosi articoli sulla questione dell'irrazionalità della guerra nel periodo di decadenza del capitalismo (5). La nostra posizione non ha niente a che vedere con una "scoperta originale" della nostra organizzazione; essa è basata sulle acquisizioni fondamentali del marxismo dall'inizio del XX secolo, espresse soprattutto da Lenin e Rosa Luxemburg. Queste acquisizioni sono state formulate con molta chiarezza nel 1945 dalla Sinistra Comunista di Francia contro la teoria revisionista sviluppata da Vercesi alla vigilia della seconda guerra mondiale, teoria che aveva condotto la sua organizzazione, la Frazione Italiana della Sinistra Comunista, ad una paralisi totale al momento dello scoppio del conflitto imperialista:
"All'epoca del capitalismo ascendente, le guerre (...) esprimevano la marcia ascendente di maturazione, di allargamento e di espansione del sistema economico capitalista. (...) Ogni guerra si giustificava e portava i suoi frutti aprendo un nuovo campo di un maggiore espansione, assicurando lo sviluppo di una produzione capitalistica maggiore (...) La guerra fu il mezzo indispensabile al capitalismo per aprirsi possibilità di ulteriore sviluppo, in un'epoca in cui queste possibilità potevano essere aperte solo per mezzo della violenza. In seguito, il crollo del mondo capitalista, che ha storicamente esaurito tutte le possibilità di sviluppo, mostra nella guerra moderna, la guerra imperialista, l'espressione di questo crollo, che senza aprire nessuna possibilità di sviluppo ulteriore per la produzione non fa che affondare nell'abisso le forze produttive e accumulare a un ritmo accelerato rovine su rovine." (Rapporto sulla situazione internazionale alla Conferenza della Sinistra Comunista di Francia del luglio 1945, ripubblicata sulla nostra Révue Internationale n° 59)
Abbiamo visto che anche il PCInt. fa questa distinzione, però non ne trae le giuste conclusioni e, dopo avere fatto un passo in una giusta direzione, ne fa due in senso inverso cercando una razionalità economica alle guerre imperialiste del XX secolo.
Questa razionalità, "la dimostrazione delle ragioni economiche fondamentali che spingono tutti gli stati alla guerra" (PC n° 92, p.54) il PCInt. cerca di trovarla nella citazione di Marx: "Una distruzione periodica di capitale è diventata una condizione necessaria all'esistenza di un qualsiasi tasso di interesse corrente (...) Considerato da questo punto di vista, queste terribili calamità che siamo abituati ad attendere con tanta paura e apprensione (...) non sono probabilmente che il correttivo naturale e necessario di una opulenza eccessiva ed esagerata, la 'vis medicatrix' grazie alla quale il nostro sistema sociale quale è attualmente configurato ha la possibilità di liberarsi di tanto in tanto di un sovrappiù sempre rinascente che ne minaccia l'esistenza e di tornare a uno stato sano e solido" (Grundrisse). In realtà, la distruzione di capitale, evocata qui da Marx, è quella provocata dalle crisi cicliche della sua epoca (e non dalla guerra) in un momento in cui le crisi costituiscono i battiti del cuore del sistema capitalistico (anche se esse pongono già in prospettiva i limiti storici di questo sistema). In numerosi passi della sua opera, Marx dimostra che il modo con cui il capitalismo supera le crisi risiede non solo in una distruzione (o piuttosto una devalorizzazione) di capitale momentaneamente eccedente ma anche, e soprattutto, nella conquista di nuovi mercati, particolarmente all'esterno della sfera dei rapporti di produzione capitalistici (6). E poiché il mercato mondiale non si estende indefinitamente, poiché i settori extra-capitalisti non possono che restringersi fino a scomparire completamente man mano che il capitale sottomette il pianeta alle sue leggi, il capitalismo è condannato a convulsioni sempre più catastrofiche.
E' un'idea che sarà sviluppata in maniera più sistematica da Rosa Luxemburg nell'Accumulazione del capitale ma che essa non ha per niente inventato, come certi ignoranti pretendono. Una simile idea appare d'altronde in filigrana in certi passaggi del testo di PC ma, quando questo fa riferimento a Rosa Luxemburg, non è per appoggiarsi sui suoi notevoli sviluppi teorici che spiegano con grande chiarezza il meccanismo delle crisi del capitalismo e in particolare perché le leggi di questo sistema lo condannano storicamente, ma è per riprendere per proprio conto la sola idea veramente contestabile che si possa trovare nell'Accumulazione del capitale, la tesi secondo la quale il militarismo potrebbe costituire un 'campo d'accumulazione' che dà parziale sollievo al capitalismo di fronte alle sue contraddizioni economiche (vedi PC n° 91, pp. da 31 a 33). Sfortunatamente proprio in una simile idea si era smarrito Vercesi alla fine degli anni '30, cosa che l'ha condotto a pensare che il formidabile sviluppo della produzione di armamenti a partire dal 1933, permettendo un rilancio della produzione capitalista, allontanava di gran lunga la prospettiva di una guerra mondiale. Per contro, quando PC vuole dare una spiegazione sistematica del meccanismo della crisi, al fine di mettere in evidenza il legame che esiste fra questa e la guerra imperialista, adotta una visione unilaterale basata in maniera preponderante sulla tesi della caduta tendenziale del tasso di profitto.
"Da quando il modo di produzione capitalista è divenuto dominante, la guerra è legata in maniera determinista alla legge stabilita da Marx della caduta tendenziale del tasso del profitto medio che è la chiave della tendenza del capitalismo verso la catastrofe finale" (PC n° 90, p.23).
Segue un riassunto, che PC prende a prestito da Bordiga, (Dialogato con Stalin), della tesi di Marx secondo la quale l'aumento continuo nel valore delle merci (per il progresso costante delle tecniche produttive) di ciò che è dovuto alle macchine e alle materie prime in rapporto a ciò che è dovuto al lavoro dei salariati, conduce a una tendenza storica alla caduta del saggio del profitto, nella misura in cui solo il lavoro degli operai è in grado di produrre un profitto (di produrre più valore di quanto costi).
Occorre segnalare che nella sua analisi, PC (e Bordiga, citato abbondantemente) non ignora la questione dei mercati e il fatto che la guerra imperialista sia la conseguenza della concorrenza tra Stati imperialisti:
"La progressione geometrica della produzione impone a ciascun capitalismo nazionale di esportare, di conquistare sui mercati esterni degli sbocchi adeguati per la produzione. E siccome ciascun polo nazionale d'accumulazione è sottoposto alla stessa regola, la guerra fra gli stati imperialisti è inevitabile. Dalla guerra economica e commerciale, dai conflitti finanziari, dalle dispute per le materie prime, dagli scontri politici e diplomatici che ne vengono fuori, si arriva finalmente alla guerra aperta. Il conflitto latente fra stati scoppia all'inizio sotto forma di conflitti militari limitati a certe zone geografiche, di guerre localizzate in cui le grandi potenze non si affrontano direttamente, ma per interposte persone; ma esso scoppia infine in una guerra generalizzata, caratterizzata dall'urto diretto dei grandi mostri statali dell'imperialismo, lanciati gli uni contro gli altri dalla violenza delle loro contraddizioni interne. Tutti gli stati minori sono presi nel conflitto il cui teatro si estende necessariamente a tutto il pianeta. Accumulazione-crisi-guerre locali-guerra mondiale." (PC n°90, p.24)
Non si può che sottoscrivere questa analisi che ritaglia ciò che i marxisti hanno messo in avanti a partire dalla prima guerra mondiale. Però, là dove casca l'asino è che la ricerca dei mercati esterni è vista da PC solo come la conseguenza della caduta tendenziale del tasso del profitto, mentre, al di là di questo aspetto specifico, il capitalismo come un tutto ha un bisogno permanente di mercati al di fuori della propria sfera di dominio, come l'ha magistralmente dimostrato Rosa Luxemburg, per potere realizzare la parte di plusvalore destinata a essere reinvestita dal capitale in un ciclo ulteriore in vista della sua accumulazione. A partire da questa visione unilaterale, PC attribuisce alla guerra imperialista una funzione economica precisa, conferendole una vera razionalità nel funzionamento del capitalismo:
"La crisi trae la sua origine dall'impossibilità di proseguire l'accumulazione, impossibilità che si manifesta quando l'accrescimento della massa della produzione non riesce più a compensare la caduto del saggio del profitto. La massa di pluslavoro totale non è più in grado di assicurare profitto al capitale anticipato, di riprodurre le condizioni di redditività degli investimenti. Distruggendo capitale costante (lavoro morto) su grande scala, la guerra gioca un ruolo economico fondamentale: grazie alle spaventose distruzioni dell'apparato produttivo, permette, nei fatti, una futura gigantesca espansione della produzione per rimpiazzare ciò che è stato distrutto, dunque una espansione parallele del profitto, del plusvalore, cioè del pluslavoro di cui si ciba il capitale. Le condizioni di ripresa del processo di accumulazione sono ristabilite. Il ciclo economico riparte. (...) Il sistema capitalistico mondiale entra vecchio in guerra ma vi trova un bagno di ringiovanimento nel bagno di sangue che gli dà nuova gioventù e ne esce con la vitalità di un robusto neonato" (PC n° 90, p.24).
La tesi di PC non è nuova. Essa è stata messa in avanti e sistematizzata da Grossmann negli anni '20 e ripresa, dopo di lui, da Mattick, uno dei teorici del movimento consiliarista. Essa può riassumersi in modo molto semplice nei termini seguenti: distruggendo capitale costante, la guerra fa abbassare la composizione organica del capitale e permette, perciò, un innalzamento del saggio del profitto. Il fatto è che non è mai stato provato che al momento delle riprese che hanno seguito le guerre mondiali, la composizione organica del capitale sia stata inferiore a quanto lo fosse stata alla vigilia. E' successo proprio il contrario. Se si prende il caso della II guerra mondiale, ad esempio, è chiaro che nei paesi colpiti dalle distruzioni della guerra la produttività media del lavoro e dunque il rapporto fra capitale costante e capitale variabile ha rapidamente raggiunto, all'inizio degli anni '50, quello che era nel 1939. Nei fatti, il potenziale produttivo ricostruito è considerevolmente più moderno di quello che era stato distrutto. E', d'altronde, ciò che PC constata esso stesso per farne giustamente una delle cause del boom del dopo-guerra (!): "L'economia di guerra trasmette inoltre al capitalismo tanto i progressi tecnologici e scientifici realizzati dalle industrie militari che gli impianti industriali creati per la produzione di armamenti. Questi, in effetti, non furono distrutti tutti dai bombardamenti, né - nel caso tedesco - dallo smantellamento realizzato dagli alleati. (...) La distruzione su larga scala di infrastrutture, di fabbriche, di cantieri,, di mezzi di trasporto ecc., e l'allestimento di mezzi di produzione ad alta composizione tecnologica provenienti dall'industria di guerra ... tutto ciò ha creato il miracolo." (PC n°92, p.38).
Quanto agli Stati Uniti, in assenza di distruzioni in casa propria, la composizione organica del loro capitale, nel 1945, era ben superiore a quella di sei anni prima. Tuttavia il periodo di "prosperità" che accompagna la ricostruzione si prolunga ben al di là (fino a metà degli anni '60) del momento in cui il potenziale produttivo dell'anteguerra è stato ricostituito facendo ritornare la composizione organica al suo valore precedente (7).
Avendo già dedicato numerosi testi alla critica delle concezioni di Grossmann-Mattick alle quali PC, sulla scia di Bordiga, si richiama, non la riprenderemo qui. Per contro è importante segnalare le aberrazioni teoriche (e aberrazioni tout-court) alle quali le concezioni di Bordiga, riprese dal PCInt., conducono.
Le aberrazioni della visione del PCInternazionale
La preoccupazione centrale del PCInt è completamente corretta: dimostrare il carattere ineluttabile della guerra. In particolare si vuole rifiutare fermamente la visione del "superimperialismo" sviluppata soprattutto da Kautsky all'epoca della I guerra mondiale e destinata a "dimostrare" che le grandi potenze avrebbero potuto mettersi d'accordo tra loro al fine di stabilire un dominio in comune e pacifico del mondo. Una simile concezione, evidentemente, era uno dei ferri di lancia delle menzogne pacifiste che volevano far credere agli operai che si sarebbe potuto mettere fine alle guerre senza avere bisogno di distruggere il capitalismo. Per rispondere a una simile visione, PC fornisce il seguente argomento:
"Un superimperialismo è impossibile; se per ipotesi l'imperialismo riuscisse a sopprimere i conflitti fra gli stati, le sue contraddizioni interne lo costringerebbero a dividersi nuovamente in poli nazionali concorrenti e dunque in blocchi statali in conflitto. La necessità di distruggere enormi masse di lavoro morto non può essere soddisfatta dalle sole catastrofi naturali" (PC n°90, pag. 26).
Insomma, la funzione fondamentale dei blocchi imperialisti, o della tendenza verso la loro costituzione, è quella di creare le condizioni in grado di permettere distruzioni su larga scala. Con una simile visione, non si vede perché gli stati capitalisti non potrebbero intendersi fra loro al fine di provocare, quando necessario, simili distruzioni permettendo un rilancio del tasso di profitto e della produzione. Essi dispongono di mezzi sufficienti per operare simili distruzioni mantenendo un controllo su di esse al fine di preservare al meglio i rispettivi interessi. Ciò che PC rifiuta di prendere in considerazione è che la divisione in blocchi imperialisti è il logico risultato della concorrenza a morte in cui i differenti settori del capitale si lanciano, una concorrenza che fa parte dell'essenza stessa di questo sistema e che si inasprisce quando la crisi lo colpisce con tutta la sua violenza. In questo senso, la costituzione di blocchi imperialistici non risulta per niente da una sorta di tendenza, ancora incompleta, verso l'unificazione degli stati capitalistici ma, al contrario, dalla necessità in cui si trovano di formare alleanze militari nella misura in cui nessuno di essi potrebbe fare la guerra a tutti gli altri. Il fatto più importante nell'esistenza dei blocchi non è la convergenza di interessi che può esistere fra gli stati alleati (convergenza che può essere rimessa in causa come dimostrano tutte le giravolte di alleanze che abbiamo visto nel corso del 20° secolo), ma l'antagonismo fondamentale fra i blocchi, espressione al massimo livello delle rivalità insormontabili che esistono fra tutti i settori nazionali del capitale. E' per questo che l'idea di un "superimperialismo" è un controsenso nei termini.
Con l'utilizzo di argomenti deboli o contestabili, il rifiuto del PCInt. dell'idea del "superimperialismo" perde considerevolmente la sua forza, cosa che non è il migliore mezzo per combattere le menzogne della borghesia. E' particolarmente evidente quando, dopo il passaggio citato prima, prosegue:
"Sono delle volontà umane, delle masse umane che devono fare le cose, delle masse umane alzate le une contro le altre, delle energie e delle intelligenze tese a distruggere ciò che altre energie e altre intelligenze difendono".
Qui si constata tutta la debolezza della tesi del PCInt.: francamente con i mezzi di cui dispongono oggi gli stati capitalisti e in particolare l'arma nucleare, in che le "volontà umane" e soprattutto le "masse umane" sono indispensabili per provocare un grado sufficiente distruzioni, se tale è la funzione della guerra secondo il PCInt?
In fin dei conti, la corrente "bordighista" non poteva che pagare che con gravi oscillazioni teoriche e politiche la debolezza delle analisi sulle quali fonda la sua posizione sulla guerra e i blocchi imperialisti. E' così che dopo avere espulso dalla porta la nozione di un superimperialismo, la lascia entrare dalla finestra con la nozione di un "condominio russo-americano" sul mondo:
"La II guerra mondiale ha dato origine ad un equilibrio correttamente descritto dalla formula di un "condominio russo-americano" (...) se la pace ha regnato finora nelle metropoli imperialiste, è proprio a causa di questo dominio degli USA e dell'URSS..." (PC n°91, p.47).
"in realtà la "guerra fredda" degli anni '50 esprime l'insolente sicurezza dei vincitori del conflitto e la stabilità degli equilibri mondiali sanzionata a Yalta; essa rispondeva in questo caso a esigenze di mobilitazione ideologica e a imbrigliare le tensioni sociali esistenti all'interno dei blocchi. La nuova "guerra fredda" che prende il posto della distensione nella seconda metà degli anni '70 risponde all'esigenza di imbrigliare antagonismi non più (o non ancora) fra le classi, ma fra stati che sopportano sempre meno il vecchio sistema di alleanze. La risposta russa e americana alle pressioni sempre più grandi consiste nel cercare di orientare l'aggressività dei loro alleati in direzione del campo opposto" (PC n° 92, p.47)
Insomma, la prima guerra fredda non aveva altra motivazione ideologica che quella di "imbrigliare gli antagonismi fra le classi". E' veramente il modo alla rovescia: se all'indomani della prima guerra mondiale, abbiamo assistito a un reale rinculo degli antagonismi imperialisti e a un parallelo rinculo dell'economia di guerra, è perché la borghesia aveva come principale preoccupazione quella di opporsi all'ondata rivoluzionaria iniziata nel '17 in Russia, di stabilire un fronte comune contro la minaccia del comune nemico mortale di tutti i settori della borghesia: il proletariato mondiale. Se la II guerra mondiale è immediatamente sfociata sullo sviluppo degli antagonismi imperialisti fra i principali vincitori, con il mantenimento di un grado molto elevato di economia di guerra, è proprio perché la minaccia che poteva rappresentare un proletariato già profondamente colpito dalla controrivoluzione, era stata completamente sradicata nel corso stesso della guerra e immediatamente dopo da una borghesia istruita dalla propria esperienza storica (vedi in particolare "Le lotte operaie in Italia nel '43", su Rivista Internazionale n° 17). Nei fatti, la guerra di Corea, la guerra di Indocina e più tardi quella del Vietnam, senza contare tutte quelle del Medio Oriente che vedevano lo Stato di Israele, sostenuto fermamente dagli USA, opporsi ai paesi arabi sostenuti dall'URSS (per non parlare delle diecine di altre guerre fino a quella dell'Afghanistan che si è prolungata fino alla fine degli anni '80) non avevano niente a che vedere con un antagonismo fondamentale fra i due grandi mostri imperialisti ma ad una sorta di bluff corrispondente sia a semplici campagne ideologiche contro il proletariato, sia alla necessità, per ciascuna delle superpotenze, di mantenere l'ordine nel proprio giardino.
D'altronde quest'ultima idea è contraddetta da PC stesso che attribuisce alla distensione fra i due blocchi, fra la fine degli anni '50 e la metà degli anni '70, la stessa funzione della guerra fredda: "In realtà la distensione non fu che la risposta delle due superpotenze alle linee di frattura che apparivano sempre più nettamente nelle loro rispettive sfere di influenza. Ciò che essa significava, era una accresciuta pressione di Mosca e di Washington sui loro alleati per contenerne le spinte centrifughe". (PC n° 92, pag. 43)
E' vero che i comunisti non devono mai prendere per oro colato ciò che dicono la borghesia, i suoi giornalisti e i suoi storici; ma pretendere che dietro la maggior parte delle guerre (più di un centinaio) che hanno devastato il mondo dal 1945 fino alla fine degli anni '80, non c'era la mano delle grandi potenze, significa voltare le spalle a una realtà osservabile da chiunque; è anche rimettere in causa quello PC afferma giustamente lui stesso: "Il conflitto latente fra gli stati scoppia all'inizio sotto forma di conflitti militari limitati a certe zone geografiche, di guerre localizzate in cui le grandi potenze non si affrontano direttamente, ma per interposte persone" (vedi sopra).
Nei fatti, il PCInt. può sempre spiegare con la "dialettica" la contraddizione fra ciò che dice e la realtà, o fra le sue diverse argomentazioni: ci dà soprattutto la prova che il rigore non è il suo forte e che gli succede di raccontare qualsiasi cosa, fatto che non serve per combattere efficacemente le menzogne borghesi e rafforzare la coscienza del proletariato.
E' proprio questo che è in questione, fino alla caricatura, quando, per combattere le menzogne del pacifismo, si appoggia su un articolo di Bordiga del 1950 che fa dell'evoluzione della produzione dell'acciaio l'indice più importante, se non il più importante, dell'evoluzione del capitalismo stesso: "La guerra nell'epoca capitalista, cioè il più feroce tipo di guerra, è la crisi prodotta inevitabilmente dalla necessità di consumare l'acciaio prodotto e di lottare per il diritto di monopolio della produzione supplementare di acciaio" (Sua maestà l'acciaio, in Battaglia Comunista n° 18/1950).
Sempre preoccupato dalla volontà di attribuire una "razionalità" alla guerra, PC è portato a lasciare intendere che la guerra imperialista non solo è cosa buona per il capitalismo, ma anche per l'insieme dell'umanità e dunque per il proletariato, quando afferma che: "...il prolungamento della pace borghese al di là dei limiti definiti da un ciclo economico che reclama la guerra, anche se essa fosse possibile, non potrebbe sboccare che in una situazione ancora peggiore di quella della guerra". Segue allora una citazione dell'articolo di Bordiga:
"Fermiamoci a supporre...che invece delle due guerre <mondiali>... avessimo avuto la pace borghese, la pace industriale. In circa 35 anni la produzione sarebbe aumentata di 20 volte; sarebbe diventata ancora 20 volte più grande dei 70 milioni del 1915, arrivando oggi <1950, ndr> a 1400 milioni. Ma tutto questo acciaio non si mangia, non si consuma, non si distrugge se non massacrando i popoli. I due miliardi di uomini pesano circa 140 milioni di tonnellate; essi produrrebbero in un solo anno 10 volte il proprio peso d'acciaio. Gli dei punirono Mida trasformandolo in una massa d'oro; il capitale avrebbe trasformato gli uomini in una massa di acciaio, la terra, l'acqua, l'aria nella quale vivono in una prigione di metallo. La pace borghese ha dunque delle prospettive più bestiali della guerra."
Si tratta proprio di un delirio di Bordiga come ne era troppo spesso colpito questo rivoluzionario. Ma anziché prendere le distanze da queste divagazioni, il PCInt., al contrario, carica la dose:
"Soprattutto se si considera che la terra, trasformata in un globo d'acciaio, non sarebbe che un luogo di putrefazione in cui merci e uomini in eccesso si decomporrebbero pacificamente. Ecco signori pacifisti quale potrebbe essere il frutto del 'ritorno alla ragione' dei governi, la loro conversione a una 'cultura di pace'! Ma è proprio perciò che non è la Follia, ma la Ragione - certo, la Ragione della società borghese - a spingere tutti i governi verso la guerra, verso la salutare ed igienica guerra." (PC n° 92, pag. 54)
Bordiga, scrivendo le righe alle quali si richiama il PCInt. girava le spalle a una delle stesse basi dell'analisi marxista: il capitalismo produce merci e chi dice merci dice possibilità di soddisfare un bisogno per quanto pervertito possa essere, come il "bisogno" di strumenti di morte e di distruzione da parte degli stati capitalisti. Se produce acciaio in grande quantità, è effettivamente per soddisfare la domanda degli stati in armamenti pesanti destinati alla guerra. Però questa produzione non può andare al di là della domanda: se le in-dustrie siderurgiche non riescono a vendere il loro acciaio ai militari, perché questi ne hanno già preso una quantità sufficiente, non proseguono la produzione col rischio del fallimento delle loro imprese, non sono pazzi. Per contro Bordiga lo è un po' quando pensa che la produzione dell'acciaio potrebbe proseguire indefinitamente senza altro limite che quello imposto dalle distruzioni della guerra imperialista.
Fortunatamente per il PCInt. il ridicolo non uccide, ma è con una grande risata che gli operai rischiano di accogliere le sue elucubrazioni e quelle del suo ispiratore. E' estremamente triste per la causa che il PCInt. si sforza di difendere: utilizzando argomenti stupidi e ridicoli contro il pacifismo è, involontariamente, portato a fare il gioco di questo nemico del proletariato.
In questa disgrazia, tuttavia, c'è qualcosa di buono: con i suoi argomenti deliranti per giustificare la "razionalità" della guerra, il PCInt. demolisce una simile idea. E non è una cosa malvagia quando questa idea lo porta a mettere in avanti una prospettiva che rischia di smobilitare il proletariato facendogli sottovalutare il pericolo che il capitalismo fa pesare sull'umanità. Una tale idea si trova riassunta nella seguente affermazione:
"Viene fuori così <dalla guerra come manifestazione di una razionalità economica> che la lotta interimperialista e lo scontro fra potenze rivali non potrà mai portare alla distruzione del pianeta perché si tratta proprio non di avidità eccessive, ma della necessità di sfuggire alla sovrapproduzione. Quando l'eccedente è distrutto, la macchina di guerra si ferma, quale che sia il potenziale distruttivo delle armi messe in gioco, perché spariscono le cause della guerra" (PC n° 92, pag. 55).
FM
1. E' necessario fare questa precisazione perché attualmente esistono 3 organizzazioni che si chiamano Partito Comunista Internazionale: due provengono dall'antica organizzazione dallo stesso nome spezzatasi nel 1982 e che pubblicava in italiano "Il Programma Comunista"; oggi questi due tronconi pubblicano "Il Programma Comunista" e "Il Comunista". Il terzo PCInt. che si è formato in seguito ad una scissioni del 1974 pubblica "Il Partito Comunista".
2. Vedi in particolare: "Guerra e militarismo", in Rivista Internazionale n. 12
3. Su questa questione vedi più particolarmente il nostro studio "Comprendere la decadenza del capitalismo" nelle Révue Internationale nn. 48, 49, 50, 52, 54, 55, 56, 58. La questione del legame fra l'analisi della decadenza e le posizioni politiche è trattata nel n° 49.
4. Vedi "Comprendere la decadenza del capitalismo". Le critiche delle posizioni di Bordiga si trovano in particolare nei n. 48, 54, 55 della Révue Internationale.
5) Vedi soprattutto "La guerra nel capitalismo" in Révue Internationale n° 41) e "Guerra e militarismo nella decadenza" in Rivista Internazionale n. 12
6. Vedi il testo "La decadenza del capitalismo" e numerosi articoli nella Révue Internationale, in particolare "Marxismo e teoria delle crisi", in italiano nella Rivista Internazionale n° 13, e, sul n° 76 in francese, inglese e spagnolo, "Il comunismo non è un bel ideale ma una necessità materiale"
7. Sullo studio dei meccanismi economici della ricostruzione, vedi "Comprendere la decadenza del capitalismo", Révue Internationale nn. 55 e 56.
L'attualità del metodo di Bilan
Ogni volta che i partiti dell'estrema destra conseguono un buon risultato elettorale o che le bande dei naziskin danno la caccia ad immigrati e rifugiati politici nell'ex Repubblica Democratica Tedesca, la propaganda della borghesia "democratica", con in prima fila sinistra ed estrema sinistra, ricomincia ad agitare lo spettro del "pericolo fascista".
Ogni volta che la teppaglia xenofoba e razzista colpisce, si levano al cielo le grida di condanna delle "forze democratiche", senza distinzioni di corrente politica. Si stigmatizza vivamente il successo "popolare" dell'estrema destra alle elezioni e si deplora ancora più vivamente la passività della popolazione, che viene presentata come compiacente verso le azioni odiose di queste canaglie. Lo Stato "democratico" può allora fare apparire la sua repressione come una garanzia di libertà, come la sola forza capace di fare barriera al flagello del razzismo ed al ritorno del fascismo di sinistra memoria. Tutto questo fa parte della propaganda della classe dominante, che moltiplica gli appelli alla "difesa della democrazia", in continuità con le precedenti campagne ideologiche su "il trionfo del capitalismo e la fine del comunismo".
Queste campagne antifasciste si basano su due grandi menzogne: la prima, che pretende di presentare lo Stato borghese ed i suoi partiti politici come una diga contro le "dittature totalitarie"; la seconda, che fa credere che regimi di tipo fascista potrebbero vedere la luce nell'Europa occidentale dei nostri giorni.
Di fronte a queste menzogne la lucidità mostrata dai rivoluzionari degli anni '30 ci permette di meglio comprendere qual è il corso storico attuale, come viene mostrato dall'articolo di Bilan di cui riportiamo degli estratti.
Questo articolo fu scritto circa 60 anni fa, in pieno periodo di vittoria del fascismo in Germania ed un anno prima dell'instaurazione del Fronte Popolare in Francia. Le analisi che esso sviluppa sull'atteggiamento delle "forze democratiche" di fronte al montare del nazismo in Germania, così come sulle condizioni storiche necessarie al trionfo di simili regimi, rimangono pienamente attuali a smentita dei contemporanei corifei dell'antifascismo.
La Frazione di Sinistra del Partito Comunista d'Italia, costretta all'esilio (soprattutto in Francia) dal fascismo mussoliniano, difendeva, contro corrente rispetto a tutto il "movimento operaio" dell'epoca, la lotta indipendente del proletariato in difesa dei suoi interessi e delle sue prospettive rivoluzionarie: la lotta cioè contro tutte le forme del capitalismo.
Contro chi pretendeva che i proletari dovessero sostenere le forze democratico‑borghesi per impedire la vittoria del fascismo, Bilan dimostrava con la forza dei fatti come in Germania le istituzioni e le forze politiche "democratiche", lungi dall'essersi schierate come un argine contro il nazismo, gli avevano amorosamente preparato la culla:
"...dalla Costituzione di Weimar ad Hitler si sviluppa un processo di perfetta continuità organica". Bilan chiariva che il regime nazista non era affatto una mostruosità, ma una delle forme del capitalismo, una forma resa possibile e necessaria dalle condizioni storiche: "... il fascismo si é dunque edificato su una duplice base: da una parte le sconfitte del proletariato, dall'altra le necessità imperiose di una economia messa alle strette da una crisi economica profonda"
Il fascismo in Germania, così come la "democrazia coi pieni poteri" in Francia, non sono che aspetti dell'accelerazione del processo di statalizzazione ( regolamentazione, dice Bilan) della vita economica e sociale del capitalismo degli anni '30, un capitalismo confrontato ad una crisi economica senza precedenti che esasperava gli antagonismi interimperialisti. Ma ciò che decideva se questa tendenza doveva concretizzarsi sotto forma di "fascismo" o di "democrazia coi pieni poteri" era il rapporto fra le due principali classi della società: la borghesia e la classe operaia. Per Bilan, la vittoria del fascismo era possibile solo se il proletariato era già stato sconfitto sia fisicamente che ideologicamente. Il fascismo in Italia e Germania aveva come suo compito concludere un annientamento della classe operaia già iniziato dalla "socialdemocrazia".
Quelli che oggi parlano di minaccia fascista incombente, oltre a riportare in auge la politica antiproletaria degli "antifascisti" dell'epoca, "dimenticano" proprio questa condizione storica messa in evidenza da Bilan. Le attuali generazioni di proletari, in particolare in Europa occidentale, non sono state né fisicamente disfatte, né sottomesse ideologicamente. In queste condizioni, la borghesia non può fare a meno delle armi "dell'ordine democratico". La propaganda ufficiale agita lo spauracchio del fascismo solo per meglio incatenare gli sfruttati alla dittatura capitalista della democrazia.
Nelle sue formulazioni, Bilan parla ancora dell'URSS come di uno "Stato operaio" e dei partiti comunisti fedeli a Mosca come di "partiti centristi". Bisognerà in effetti attendere la seconda guerra mondiale perché la Sinistra Italiana completi l'analisi della natura capitalista dell'URSS e dei partiti stalinisti. In ogni caso, i rivoluzionari già negli anni '30 non mancavano di denunciare vigorosamente e senza esitazioni gli stalinisti come una delle forze "che lavorano alla stabilizzazione dell'insieme del mondo capitalistico" ed "un fattore della vittoria del fascismo". Il lavoro di Bilan si svolge in un periodo di totale disfatta della lotta rivoluzionaria del proletariato, all'inizio stesso del gigantesco compito rappresentato dall'analisi critica della più grande esperienza della storia: la Rivoluzione Russa. E' del tutto logico che le sue formulazioni risentissero ancora dell'enorme attaccamento dei rivoluzionari a questa esperienza unica. Ma, al di là di queste confusioni, il suo lavoro costituisce un momento prezioso ed insostituibile di chiarificazione politica, di cui resta ancora oggi interamente attuale il metodo, consistente nell'analizzare senza concessioni la realtà, ponendosi sempre dal punto di vista storico ed internazionale della lotta operaia.
L'ANNIENTAMENTO DEL PROLETARIATO TEDESCO E L'AVVENTO DEL FASCISMO, MARZO 1935
E' attraverso l'analisi critica degli avvenimenti del dopoguerra, delle vittorie e delle sconfitte rivoluzionarie, che ci sarà possibile acquisire una visione storica del periodo attuale, che sia tanto vasta da abbracciare i fenomeni essenziali che si sono manifestati. Se é giusto affermare che la rivoluzione russa si trova al centro della nostra critica, della critica che essa stessa ci permette, bisogna immediatamente aggiungere che la Germania é l'anello più importante della catena che attualmente strangola il proletariato mondiale.
In Russia la debolezza strutturale del capitalismo, la coscienza del proletariato russo, rappresentata dai bolscevichi, non permisero un'immediata concentrazione delle forze mondiali della borghesia intorno al settore pericolante, mentre in Germania tutti gli avvenimenti del dopoguerra sono espressione di questo intervento, facilitato da un capitalismo forte delle sue tradizioni democratiche e da un proletariato che arrivava in ritardo a prendere coscienza dei suoi compiti storici.
Gli avvenimenti di Germania (dall'annientamento degli Spartachisti alla vittoria del fascismo) contengono già in se stessi una critica dell'ottobre 1917. Si tratta già di una risposta del capitalismo a posizioni politiche spesso inferiori a quelle che permisero la vittoria dei bolscevichi. Ecco perché un'analisi seria della Germania dovrebbe partire da un esame delle Tesi del 3° e 4° Congresso dell'Internazionale Comunista, che contengono degli elementi che non vanno oltre la Rivoluzione Russa, ma la oppongono all'assalto feroce delle forze borghesi contro la rivoluzione mondiale. Questi Congressi hanno elaborato delle posizioni di difesa del proletariato, schierato intorno allo Stato sovietico, in un momento in cui lo sconvolgimento del mondo capitalista rendeva necessaria un'offensiva sempre crescente degli operai di tutti i paesi in contemporanea con un'avanzata ideologica della loro organizzazione internazionale. Gli avvenimenti del 1923 in Germania, soffocati proprio grazie a queste posizioni che si scontravano frontalmente con lo sforzo rivoluzionario degli operai, furono in essi stessi la più sferzante smentita di questi Congressi.
La Germania prova in modo clamoroso l'insufficienza del patrimonio ideologico lasciatoci dai bolscevichi; e questo non per l'insufficienza dei loro sforzi, ma per l'insufficienza degli sforzi dei comunisti nel mondo intero, ed in particolare in Germania. Ed infatti, quando e dove si é fatta una critica della lotta ideologica e politica degli spartachisti? Che noi si sappia, a parte le piatte ripetizioni di qualche giudizio di carattere generale di Lenin, non si é fatto il minimo sforzo. Certo, si parte in guerra contro il "luxemburghismo", si versa ovviamente qualche lacrima sull'annientamento degli spartachisti, si condannano i crimini di Noske e Scheidemann, ma di fare un'analisi seria non se parla neppure. Eppure, se l'ottobre 1917 esprime una negazione categorica della democrazia borghese, il 1919 l'esprime su un piano più avanzato. Se i bolscevichi dimostrarono che il partito del proletariato rappresenta una guida vittoriosa solamente se rigetta, nel corso della sua formazione, ogni alleanza con correnti opportuniste, gli avvenimenti del 1923 provano che la fusione degli spartachisti e degli indipendenti al Congresso di Halle, era stata un'aggiunta alla confusione del PC di fronte alla battaglia decisiva.
In conclusione, invece di elevare il livello della lotta proletaria ancora più in alto dell'ottobre, invece di negare più risolutamente le forme della dominazione del capitalismo, i compromessi con le forze nemiche, in previsione di un imminente assalto rivoluzionario, non potevano che facilitare il raggruppamento delle forze capitaliste riportando le posizioni politiche proletarie ad un livello più basso di quello che aveva permesso la vittoria degli operai russi. In questo senso la posizione contro il parlamentarismo del compagno Bordiga al 2° Congresso costituiva un tentativo di spingere in avanti le posizioni d'attacco del proletariato mondiale, mentre la posizione di Lenin era un tentativo di impiegare questo strumento storicamente superato in una situazione che non presentava ancora tutti gli elementi per questo attacco. Gli avvenimenti hanno dato ragione a Bordiga, non tanto su questo fatto, quanto su una valutazione complessiva che conteneva in sé la critica dei fatti del 1919 in Germania e che consisteva nell'allargare lo sforzo distruttivo del proletariato prima delle nuove battaglie che dovevano decidere la sorte dello Stato proletario e della rivoluzione mondiale.
Noi cercheremo in quest'articolo di esaminare l'evoluzione delle posizioni di classe del proletariato tedesco, in modo da mettere in evidenza quegli elementi di principio che possano completare il contributo bolscevico, criticare la loro pura e semplice riproposizione in situazioni nuove, contribuire al lavoro di critica degli avvenimenti del dopoguerra.
* * *
Nella Costituzione di Weimar, articolo 165, si trova il seguente passaggio: "operai ed impiegati vi (nei Consigli operai) collaboreranno su un piano di parità, insieme agli imprenditori, alla regolamentazione delle questioni di salario e di lavoro, oltre che allo sviluppo generale economico delle forze produttive." Questo caratterizza, come meglio non si potrebbe, un periodo in cui la borghesia tedesca aveva capito che non solo doveva espandere il suo apparato politico fino alla democrazia più allargata, arrivando fino al riconoscimento dei Consigli operai ("Rate"), ma che doveva anche dare agli operai l'illusione del potere economico. Dal 1919 al 1923 il proletariato ebbe l'impressione di essere la forza politicamente predominante nel Reich. A partire dalla guerra mondiale i sindacati, incorporati nell'apparato statale, erano diventati dei pilastri indispensabili al sostegno di tutto l'edificio capitalista ed i soli organismi in grado di mobilitare gli sforzi proletari in vista della ricostruzione dell'economia tedesca e di un apparato stabile di dominazione borghese. La democrazia borghese rivendicata dalla social‑democrazia mostra così di essere il solo mezzo in grado di impedire l'evoluzione rivoluzionaria della lotta operaia, che fu incanalata attraverso un potere politico diretto nei fatti dalla borghesia, la quale poteva contare sull'appoggio sindacale per riportare a galla l'industria. E' in questo periodo che vedono la luce "la prima legislazione sociale del mondo", i contratti collettivi di lavoro, i comitati di fabbrica che tendono talvolta ad opporsi ai sindacati riformisti o arrivano a raccogliere la spinta rivoluzionaria dei proletari, come ad esempio nella Ruhr nel 1921‑22. La ricostruzione tedesca, effettuatasi in questo tripudio di libertà e diritti operai, portò, come tutti sanno, all'inflazione del 1923, espressione delle difficoltà che un capitalismo vinto e terribilmente impoverito provava nel rimettere in moto il suo apparato produttivo. Contemporaneamente si verificò la reazione di un proletariato che vedeva ridursi a niente il suo salario nominale, la sua "gigantesca" legislazione sociale, la sua facciata di potere politico. Se nel 1923 il proletariato tedesco fu battuto, malgrado i "governi operai" in Sassonia ed in Turingia, malgrado un PC con una larga influenza, non ancora corroso dal centrismo e per di più diretto da vecchi spartachisti, se la vittoria mancò nonostante tutte le condizioni favorevoli assicurate dalle difficoltà dell'imperialismo tedesco, é a Mosca che bisogna cercarne le cause, nelle Tesi del 3° e 4° Congresso che, accettate dagli spartachisti, invece di completare il "Programma di Spartaco" del 1919, si situavano molto al di sotto di quest'ultimo. Malgrado i suoi rari equivoci, i discorsi di Rosa Luxemburg contengono una negazione feroce delle forze democratiche del capitalismo, una prospettiva sia economica che politica, e non di vaghi "governi operai" e di fronti uniti con dei partiti controrivoluzionari.
A nostro avviso, la sconfitta del 1923 é la risposta degli avvenimenti alla stagnazione del pensiero critico comunista, che ripeteva invece di innovare, rifiutandosi di trarre dalla realtà stessa delle linee programmatiche nuove, e questo nel momento in cui il capitalismo mondiale occupava la regione tedesca della Ruhr, determinando così un'ondata di risentimento nazionalista capace di canalizzare o quanto meno confondere la coscienza degli operai e perfino dei dirigenti del PC.
Una volta scampato a questo momento critico, il capitalismo tedesco poté beneficiare dell'aiuto finanziario di paesi come gli USA, convinti della sparizione momentanea di ogni pericolo rivoluzionario. E' il momento per un'ondata di concentrazioni e fusioni industriali e finanziarie senza precedenti, sulla base di una razionalizzazione sfrenata, mentre il governo Stresemann succede ad una serie di governi socialisti o socialisteggianti. La socialdemocrazia appoggia questo consolidamento strutturale di un capitalismo che cerca nella sua organizzazione disciplinata la forza per tenere testa ai suoi avversari di Versailles ed agita di fronte agli operai il mito della democrazia economica, della difesa dell'industria nazionale, del vantaggio di trattare solamente con alcuni padroni, il cui cartello diventava una specie di premessa del socialismo.
Dal 1925‑26, e fino ai primi sintomi della crisi mondiale, il movimento di organizzazione dell'economia tedesca cresce continuamente. Si potrebbe quasi dire che il capitalismo tedesco, che aveva potuto tenere testa al mondo intero grazie alle sue forze industriali ed alla militarizzazione di un apparato economico incredibilmente possente, ha proseguito, dopo le agitazioni sociali del dopoguerra, il suo sforzo di organizzazione economica ultracentralizzata indispensabile nella fase delle guerre interimperialiste, e lo ha fatto riprendendo, sotto la spinta delle difficoltà mondiali, il cammino dell'organizzazione economica di guerra. Nel 1926 nascono i grandi Konzerns (cartelli industriali) dello Stihlwerein, delle industrie IG‑Farben, dell'Allgemeine Electrizitat Gesellchaft, la cui costituzione é d'altronde facilitata dall'inflazione e dal conseguente incremento dei valori industriali.
Già prima della guerra, l'organizzazione economica della Germania ‑i Cartelli, i Konzerns, la fusione del capitale finanziario ed industriale‑ aveva raggiunto un livello superiore. Ma é dal 1926 che il movimento si accelera e dei Konzerns come la Thyssen, la Rheinelbe‑Union, la Phoenix e la Rheinische Stahlwerke si fondono fra di loro per formare la Stahlwerein, che controlla tutta l'industria del carbone e dei suoi derivati: la metallurgia e tutte le attività connesse. Ai forni Thomas, che funzionano con minerale di ferro (persi dalla Germania con la Lorena e l'Alta Slesia ) si sostituiscono i forni Siemens‑Martin, che possono impiegare rottami di ferro.
Questi Konzerns rapidamente controllano in modo rigoroso ed indiscusso tutta l'economia tedesca e si ergono come un muro contro cui il proletariato si rompe la testa; il loro sviluppo é accentuato dagli investimenti di capitali americani ed in parte dagli ordinativi russi. Ma é a partire da questo momento che il proletariato, che nel 1923 ha perso ogni illusione sulla sua potenza politica reale, si trova confrontato allo scontro decisivo. La socialdemocrazia sostiene il capitalismo tedesco, dimostra che i Konzerns sono degli embrioni di socialismo, invoca i contratti collettivi basati sulla conciliazione delle parti, come via che porta alla democrazia economica. Il PC subisce la sua "bolscevizzazione" che, concludendosi con la politica del "social‑fascismo", coinciderà con i piani quinquennali in Russia, ma lo porterà a giocare un ruolo analogo ‑ma non identico‑ a quello della socialdemocrazia.
Peraltro, é in quest'epoca di razionalizzazioni, di costruzione di giganteschi konzerns, che appaiono in Germania le basi economiche e le necessità sociali dell'apparizione del nazismo nel 1933. La concentrazione accentuata delle masse proletarie in seguito alle ristrutturazioni capitaliste, una legislazione sociale gettata come zuccherino per evitare dei movimenti rivoluzionari, ma troppo costosa per il capitalismo, una disoccupazione permanente fonte di instabilità sociale, dei pesanti carichi finanziari esterni (riparazioni di guerra) rendono necessari attacchi continui ai salari già erosi dall'inflazione. Ciò che rendeva necessaria la dominazione fascista era la minaccia che il proletariato aveva rappresentato nel dopoguerra, e che ancora rappresentava, minaccia da cui il capitalismo si era potuto salvaguardare grazie alla socialdemocrazia, ma che richiedeva ora una struttura politica corrispondente alla concentrazione forzata nel frattempo realizzata sul piano economico. Come l'unificazione del Reich fu preceduta dalla concentrazione e centralizzazione industriale del 1865‑70, così la vittoria del nazismo fu preceduta da una riorganizzazione fortemente imperialista dell'economia tedesca. Riorganizzazione necessaria per salvare l'insieme della classe dominante messa con le spalle al muro dal Trattato di Versailles. Quando oggi si parla degli interventi economici del fascismo, della "sua" economia regolamentata, della "sua" autarchia, si distorce considerevolmente la realtà. Esso rappresenta semplicemente la struttura sociale che era necessaria al capitalismo alla fine di una data evoluzione economica e sociale. Il capitalismo tedesco non avrebbe mai potuto affidarsi al fascismo nel 1919, quando era in piena anarchia, tanto più che incombeva la minaccia proletaria. Fu per questo che il tentativo golpista di Kapp nel 1920 fu combattuto da frazioni della borghesia, così come dagli Alleati, che ben comprendevano l'utilità inestimabile dei socialtraditori socialdemocratici. In Italia, al contrario, i sommovimenti rivoluzionari non si verificano in un quadro di decomposizione del capitalismo, ma di debolezza; é la coscienza di questa debolezza che spinge la borghesia ad evitare lo scontro durante l'occupazione delle fabbriche, affidandosi ai socialisti, e che le permette anche di reagire immediatamente, una volta passato il pericolo, affidandosi questa volta al fascismo.
In effetti, tutte le innovazioni del fascismo, dal punto di vista economico, consistono in un'accentuazione della "disciplina" economica, del legame dei grandi konzerns allo Stato (nomina di commissari per le diverse branche dell'economia), della ufficializzazione di un'economia di guerra.
La democrazia come bandiera del dominio capitalista, non può corrispondere alle esigenze di un'economia ridotta alle strette dalla guerra, minacciata dal proletariato, e la cui estrema centralizzazione non é che un modo di resistere in attesa di un nuovo massacro bellico, un modo di trasporre sul piano mondiale le sue difficoltà interne. Tanto più che la democrazia presuppone una certa mobilità nei rapporti economici e politici, una possibilità di cambiamento di posizione per gruppi ed individui che, pur mantenendo fissa la difesa dei privilegi di una sola classe, deve tuttavia dare a tutte le classi la sensazione che l'ascesa sociale sia possibile. Nel periodo di ricostruzione dell'economia tedesca nel dopoguerra i konzerns, legati allo Stato, esigevano da quest'ultimo il rimborso delle concessioni che le battaglie operaie riuscivano a strappare loro, rendendo così impossibile la sopravvivenza della democrazia, perché la prospettiva del momento non era quella di sfruttare gli abbondanti benefici di un impero coloniale o di battersi per i mercati mondiali, ma quella di combattere contro Versailles e le sue riparazioni di guerra. La sola via era quella della lotta brutale e violenta contro la classe operaia e da questo punto di vista, come da quello economico, il capitalismo tedesco mostrava il cammino che gli altri paesi dovevano intraprendere, anche se con mezzi diversi. E' evidente che senza l'aiuto del capitalismo mondiale la borghesia tedesca non sarebbe mai riuscita a realizzare i suoi obbiettivi. Per permettere l'annientamento degli operai si dovettero eliminare tutte le ditte americane che intralciavano il monopolio dello sfruttamento operaio da parte della borghesia tedesca; poi consentire delle moratorie nei pagamenti; infine annullare del tutto il peso delle Riparazioni. C'é in più voluto l'intervento dello Stato Sovietico, che ha abbandonato gli operai tedeschi per i suoi Piani Quinquennali, indebolendo le loro coscienze e divenendo così un fattore della vittoria del fascismo.
Un esame della situazione che va dal marzo 1923 al marzo 1933 permette di comprendere che dalla Costituzione di Weimar a Hitler si sviluppa un processo di continuità perfetta ed organica. La disfatta operaia si situa dopo un momento di tripudio di democrazia borghese e "socialisteggiante" espressa da Weimar e permette la ricostituzione del fronte capitalista. A partire da adesso il cappio si restringe un poco per volta. Presto, nel 1925, tocca ad Hindenburg, che diventa il difensore di questa Costituzione. A mano a mano che il capitalismo ricostituisce la sua armatura, la democrazia si restringe, salvo riallargarsi nei momenti di tensione sociale, dove si vedono ancora perfino dei governi socialisti di coalizione (H.Muller). Ma, nella misura in cui socialisti e centristi aumentano lo sbandamento degli operai, la democrazia tende a sparire (governo Bruning ed i suoi decreti‑legge) per lasciare il campo, infine, al fascismo, che non troverà più nessuna opposizione operaia. Tra il più bel fiore della democrazia, Weimar, ed il fascismo non si manifesterà nessuna opposizione: il primo permetterà di allontanare la minaccia rivoluzionaria, isolerà i proletari, annebbierà la loro coscienza, il secondo, alla fine di questa evoluzione, sarà il tallone di ferro capitalista che concluderà il lavoro, realizzando una rigida unità della società capitalista sulla base dell'annientamento di ogni minaccia proletaria.
Noi non faremo come quei pedanti e professorucoli vari, che a cose fatte tentano di "correggere" la storia e si sforzano di trovare la spiegazione dei fatti di Germania nell'erronea applicazione di questa o quella formula. E' evidente che il proletariato tedesco non poteva vincere che alla sola condizione di liberare (grazie alle frazioni di sinistra) l'Internazionale Comunista dalla nefasta influenza dissolvitrice del centrismo e di raggrupparsi intorno a posizioni che negassero ogni forma di democrazia e di "nazionalismo proletario" ed ogni pretesa di raggrupparsi intorno ai suoi interessi ed alle sue conquiste. Da questo punto di vista la politica del "socialfascismo" non era una posizione che andasse al di là della palude democratica, poiché non spiegava il decorso degli avvenimenti, ma si limitava a imbrogliarli; in realtà serviva solo da spiegazione della scissione sindacale fatta in nome dell'organizzazione Sindacale Rossa. Non era un Fronte Democratico a poter salvare il proletariato tedesco, ma la sua negazione; ma questa prospettiva di lotta doveva disperdersi, una volta subordinata ad uno Stato proletario che ormai lavorava al consolidamento dell'insieme del mondo capitalistico.
Come oggi si potrebbe parlare di "fascistizzazione" dei paesi capitalisti caratterizzati dalle "democrazie dai pieni poteri", così se ne potrebbe parlare a proposito dell'evoluzione del capitalismo in Germania, se si volesse caratterizzare il ruolo svolto da una democrazia a "pelle di zigrino", che si restringeva continuamente fino ad arrivare al marzo 1933. In questo corso storico la democrazia é stato un elemento dal peso decisivo ed é scomparsa sotto i colpi del fascismo solo quando é diventato impossibile impedire l'effervescenza delle masse senza contrapporgli un altro movimento di massa. La Germania, ancor più che l'Italia, ci mostra già una transizione legale da Von Papen a Schleicher, e da quest'ultimo a Hitler, sotto l'egida del difensore della Costituzione di Weimar: Hinderburg. Ma, così come in Italia, il fermento delle masse necessitava di ondate di massa per demolire le organizzazioni operaie e decimare il movimento operaio. E' possibile che lo sviluppo della situazione nei nostri paesi marchi ancora un passo vanti rispetto a queste esperienze e che le democrazie dai pieni poteri, non avendo di fronte a se dei proletariati reduci da tentativi rivoluzionari degni di nota, e potendo in più contare su una situazione privilegiata rispetto ad Italia e Germania (profitti coloniali), possano, parallelamente agli interventi per disciplinare l'economia, riuscire a annientare il proletariato senza dover eliminare completamente le forze tradizionali della democrazia, che, dal canto loro, faranno un apprezzabile sforzo di adattamento (Piano CGT in Francia, Piano De Man in Belgio).
Il fascismo non si spiega né come classe distinta dal capitalismo, né come emanazione delle classi medie esasperate. Esso realizza una nuova forma di dominio di un capitalismo che, attraverso la democrazia, non arriva più a legare tutte le classi intorno alla difesa dei suoi privilegi. Esso non introduce un nuovo modo di organizzazione sociale, ma una sovrastruttura adeguata ad un'economia altamente sviluppata e che deve distruggere politicamente il proletariato per impedire ogni possibile relazione tra le contraddizioni sempre più acute del capitalismo e la presa di coscienza rivoluzionaria degli operai. Gli statistici non mancheranno di ricordare la notevole massa di piccoli borghesi in Germania (5 milioni, compresi intellettuali ed impiegati), per tentare di presentare il fascismo come il "loro" movimento. Ma la realtà é che la piccola borghesia é sprofondata in una fase storica in cui le forze produttive, che la schiacciano e le fanno comprendere la sua impotenza, determinano una polarizzazione degli antagonismi sociali intorno ai due protagonisti fondamentali: la borghesia ed il proletariato. Le viene dunque meno anche la possibilità di barcamenarsi fra l'una e l'altro e tende istintivamente verso chi gli promette il mantenimento del suo ruolo gerarchico nella struttura sociale. Invece di combattere contro il capitalismo, il piccolo borghese, impiegato col colletto inamidato o bottegaio, tende a gravitare intorno ad un guscio sociale che vorrebbe abbastanza solido da far regnare "l'ordine e la calma" ed assicurare il rispetto della sua dignità, mentre le lotte operaie senza sbocco lo esasperano e peggiorano solo la situazione. Ma se il proletariato si leva in piedi e parte all'assalto, la piccola borghesia non può che inchinarsi ed accettare la realtà. Quando si presenta il fascismo come un movimento di piccoli borghesi si falsifica dunque la realtà storica, nascondendo le sue basi reali. Il fascismo canalizza tutti i contrasti che mettono in pericolo la conservazione del capitalismo e li indirizza al suo consolidamento; mette insieme il desiderio di calma del piccolo borghese, l'esasperazione del disoccupato affamato, l'odio cieco dell'operaio disorientato e soprattutto la volontà capitalista di eliminare ogni elemento di perturbazione dell'economia militarizzata e di ridurre al minimo i costi di mantenimento di un esercito di disoccupati permanenti.
In Germania il fascismo si é dunque edificato sulla doppia base delle disfatte proletarie e delle necessità imperiose di un'economia messa alle strette da una crisi economica profonda. E' sotto Bruning, in particolare, che ha preso piede, quando gli operai erano ormai incapaci di difendere i loro salari furiosamente attaccati ed i disoccupati i loro sussidi ridotti a colpi di decreti legge. E' allora che nelle fabbriche, nei cantieri i nazisti creano le loro cellule d'azienda, non rifuggendo neanche di fronte all'uso degli scioperi rivendicativi, sicuri che, grazie ai socialisti ed ai centristi, gli scioperi non sarebbero usciti dai limiti voluti. Ed é quando il proletariato si rivela battuto in parte, nel Novembre 1932, prima delle elezioni di Von Papen che aveva appena sciolto il governo socialista di Prussia, che scoppia lo sciopero dei trasporti pubblici a Berlino, diretto da comunisti e fascisti. Questo sciopero disgrega il proletariato berlinese poiché i comunisti si mostrano già incapaci di espellere i fascisti dal movimento, di allargarlo, di farne l'annuncio di una lotta rivoluzionaria. La frammentazione del proletariato tedesco si accompagna, da una parte, allo sviluppo del movimento fascista che ritorce contro di lui le armi operaie, dall'altra a misure di ordine economico, di aiuto crescente al capitalismo (ricordiamo a questo proposito che é Von Papen che adotta le misure di sostegno alle aziende che occupano dei disoccupati pagandogli un salario ridotto).
Insomma, per la vittoria di Hitler nel 1933 non fu necessaria nessuna violenza: era un frutto maturo grazie a socialisti e centristi, lo sbocco normale di una forma democratica sorpassata dagli eventi. Da forza disaggregata, dispersa, il proletariato doveva ora diventare un elemento attivo nel consolidamento di una società completamente orientata verso la guerra. E' per questo che i fascisti non potevano limitarsi a tollerare degli organismi di classe, anche se diretti da traditori del proletariato, ma dovevano al contrario estirpare la minima traccia di lotta di classe per meglio polverizzare gli operai e farne degli strumenti ciechi delle mire imperialiste del capitalismo tedesco.
Il 1933 può essere considerato come l'anno di realizzazione sistematica dell'opera di imbavagliamento fascista. I sindacati vengono annientati e sostituiti dai consigli di azienda controllati dal governo. Nel Gennaio 1934 appare il sigillo giuridico a completamento dell'opera: la Carta del Lavoro, che regola il problema dei salari, proibisce gli scioperi, sancisce l'onnipotenza dei padroni e dei commissari fascisti, trasforma in realtà il legame completo fra economia centralizzata e Stato.
Nei fatti, se il capitalismo italiano ci ha messo degli anni a partorire il suo "Stato corporativo", il capitalismo tedesco, più sviluppato, c'é arrivato rapidamente. Lo stato ritardatario dell'economia italiana, rispetto a quella del Reich, ha reso difficile la costruzione di una struttura sociale capace di comprimere automaticamente ogni eventuale soprassalto operaio; invece la Germania, che possedeva una economia più avanzata, ha potuto passare immediatamente alla regolamentazione dei rapporti sociali legati intimamente ai settori della produzione controllati dai commissari di Stato.
In queste condizioni, il proletariato tedesco ‑come d'altra parte quello italiano‑ non ha più una sua vita autonoma. Per ritrovare una coscienza di classe, dovrà attendere che le nuove situazioni di domani facciano a pezzi la camicia di forza con cui lo ha imbrigliato il capitalismo. Nel frattempo, non é certo il caso di fare declamazioni sulla possibilità di un lavoro illegale di massa nei paesi fascisti, ciò che d'altronde ha già consegnato fin troppi eroici militanti nelle mani dei carnefici di Roma e di Berlino. Bisogna considerare le antiche organizzazioni richiamantesi al proletariato come dissolte dall'influenza fascista e passare al lavoro teorico di analisi storica, che é preliminare per la ricostruzione di nuovi organismi che possano portare il proletariato alla vittoria, attraverso la critica vivente del passato.
BILAN
Secondo l'erronea idea "popolare" il comunismo sarebbe una società in cui tutto è diretto dallo Stato. Non c'è portavoce della borghesia, dai professori universitari ai giornalisti, che non propaghi instancabilmente questa idea che è alla base dell'identificazione fra comunismo e paesi stalinisti dell'Est.
Ma una menzogna anche ripetuta mille volte rimane sempre una menzogna. Per Marx, per Engels e per tutti i rivoluzionari che hanno seguito i loro passi, il comunismo è una società senza Stato, una società dove gli essere umani dirigono la loro vita senza che ci sia una potenza coercitiva a inquadrarli, senza governo, senza esercito, senza prigioni e senza frontiere.
Ma anche a questa versione del comunismo la borghesia ha la risposta pronta: "Certo, certo, ma non è altro che un'utopia, un sogno irrealizzabile: la società moderna è troppo complessa, troppo ramificata e gli esseri umani sono troppo inaffidabili, violenti ed avidi di potere e privilegi". I professori più raffinati (come ad esempio J. Talmon, autore del libro "Le origini della democrazia totalitaria") sono lì pronti a spiegare che qualsiasi tentativo di creare una società senza Stato non può che far nascere un mostruoso Stato-Leviatano, come quello apparso in Russia sotto Stalin.
E tuttavia c'è qualcosa che non quadra.... Se la visione di un comunismo senza Stato non è altro che un'utopia, un sogno inoffensivo, perché mai i padroni dell'attuale Stato spendono tante energie a ripetere la bugia per cui comunismo = controllo statale sulla società? Vuoi vedere che la versione autentica del comunismo costituisce veramente una sfida sovversiva all'ordine esistente e che questo è possibile perché questa versione corrisponde alle necessità del movimento reale che è necessariamente costretto a scontrarsi con lo Stato e con la società da lui protetta?
Se il marxismo costituisce il punto di vista teorico ed il metodo di lavoro di questo movimento, del movimento del proletariato internazionale, allora è facile vedere perché tutte le varianti dell'ideologia borghese, comprese quelle ad etichetta "marxista", hanno sempre fatto carte false pur di seppellire la teoria marxista dello Stato sotto immense discariche di immondizie intellettuali. Quando nel 1917 ha scritto Stato e rivoluzione Lenin parlava già di "riportare alla luce" la vera posizione marxista da sotto gli strati di scorie riformiste. Oggi, dopo tutte le campagne di propaganda sull'equazione capitalismo di Stato stalinista = comunismo, bisogna scavare ancora di più. Ecco il perché di questo articolo centrato su quell'avvenimento straordinario che fu la Comune di Parigi, prima rivoluzione proletaria della storia che per la classe operaia è stata una fonte preziosa di esperienza.
LA I INTERNAZIONALE: ANCORA UNA VOLTA, LA LOTTA POLITICA
Nel 1864 Marx usciva da più di un decennio di profonda immersione nel lavoro di ricerca teorica per ritornare all'impegno politico pratico. Nel decennio seguente l'essenziale delle sue energie sarà investito in due questioni politiche essenziali: la formazione di un partito internazionale dei lavoratori e la conquista del potere politico da parte del proletariato.
Dopo il lungo riflusso della lotta di classe seguito alla disfatta delle grandi insurrezioni sociali del 1848, il proletariato europeo cominciava a mostrare segni di ripresa a livello di coscienza e combattività. Lo sviluppo del movimento di scioperi su rivendicazioni sia economiche che politiche, la formazione di sindacati e cooperative operaie, la mobilitazione operaia su questioni di politica "estera", come il sostegno all'indipendenza della Polonia o alle forze antischiaviste nella guerra civile americana, tutto questo aveva convinto Marx che il periodo di disfatta volgeva ormai al termine. Per questo diede il suo sostegno all'iniziativa dei sindacati inglesi e francesi di formare nel settembre 1864 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (1). Come dice Marx stesso nel Rapporto del Consiglio Generale dell'Internazionale al Congresso di Bruxelles del 1868: "Questa Associazione non è figlia nè di una setta, nè di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo del movimento proletario, a sua volta creato dalle tendenze naturali ed incomprimibili della società moderna" (2). Il fato che le motivazioni di molti dei fondatori dell'Internazionale avessero poco in comune con le idee di Marx (ad esempio lo scopo principale dei sindacati inglesi era quello di utilizzare l'Internazionale per arginare l'afflusso di crumiri da altri paesi durante gli scioperi), non impedì dunque a quest'ultimo di giocarvi un ruolo decisivo; membro del Consiglio Generale per quasi tutta la sua esistenza, ne ha scritto molti dei documenti più importanti. L'Internazionale era allora il prodotto di un movimento proletario ad un certo grado del suo sviluppo storico, in una fase in cui stava ancora definendosi come una forza all'interno della società borghese. In una tale situazione era possibile e necessario che la frazione marxista lavorasse nell'Internazionale a fianco di altre tendenze della classe operaia, partecipando alle sue attività immediate a livello delle lotte quotidiane degli operai. Allo stesso tempo i marxisti si battevano per liberare l'organizzazione dai pregiudizi borghesi e piccolo-borghesi ed impregnarla per quanto possibile della chiarezza teorica e politica necessaria per poter agire da avanguardia rivoluzionaria di una classe rivoluzionaria.
Non è questo il momento di fare la cronistoria di tutte le lotte dottrinarie e pratiche affrontate dalla frazione marxista all'interno dell'Internazionale. Basterà ricordare che esse erano basate su principi già codificati nel Manifesto Comunista e ulteriormente rinforzati dall'esperienza delle rivoluzioni del 1848:
Nel periodo che va dal 1864 al 1871, il dibattito sull'impegno in "politica" era in gran parte centrato sulla questione se la classe operaia dovesse o no partecipare all'attività politica in un ambito borghese (appello per il suffragio universale, partecipazione dei partiti operai al parlamento, lotta per i diritti democratici, etc.), con l'obiettivo di ottenere riforme e rinforzare la sua posizione all'interno della società capitalista. I bakuninisti ed i blanquisti (8), campioni dell'onnipotenza della volontà rivoluzionaria, rifiutavano di analizzare le condizioni materiali concrete in cui agiva il movimento operaio e rigettavano tali tattiche come una deviazione dalla rivoluzione sociale. La frazione materialista di Marx dal canto suo constatava che il capitalismo in quanto sistema mondiale non aveva ancora creato tutte le condizioni per la trasformazione rivoluzionaria della società e che, di conseguenza, la classe operaia era ancora obbligata a lottare per delle riforme parziali, sia politiche che economiche. In questa lotta, non solo migliorava la sua condizione materiale, ma si preparava ed organizzava per la prova di forza rivoluzionaria che avrebbe inevitabilmente concluso la traiettoria storica del capitalismo verso la crisi e la catastrofe.
Questo dibattito sarebbe proseguito all'interno del movimento operaio nei decenni seguenti anche se in condizioni diverse e con diversi protagonisti. Ma nel 1871 un evento straordinario doveva far fare un salto di livello al dibattito sull'azione politica della classe operaia. Quello fu l'anno della prima rivoluzione proletaria della storia, l'anno della conquista effettiva del potere politico da parte della classe operaia: quello fu l'anno della Comune di Parigi.
La Comune e la concezione materialista della storia
"Ogni passo del movimento reale vale più di una dozzina di programmi" (9).
Il dramma e la tragedia della Comune di Parigi sono stati brillantemente analizzati da Marx in La guerra civile in Francia, pubblicato nell'estate del 1871 come Indirizzo Ufficiale dell'Internazionale. In questa polemica appassionata Marx mostra come una guerra tra nazioni, la Francia e la Prussia, si è trasformata in guerra tra classi: in seguito al disastroso crollo militare della Francia, il governo Thiers, con sede a Versailles, aveva concluso una pace impopolare e cercato di imporla a Parigi: Questo poteva solo essere fatto disarmando gli operai raggruppati nella Guardia Nazionale. Il 18 marzo 1871 truppe inviate da Versailles cercarono di impadronirsi dei cannoni della Guardia Nazionale: si trattava della prima tappa di una repressione massiccia che doveva colpire la classe operaia e le sue avanguardie rivoluzionarie. Ma gli operai di Parigi risposero scendendo in massa per le strade ed inducendo alla fraternizzazione le truppe di Versailles. Pochi giorni dopo fu proclamata la Comune.
Il nome di Comune era un ricordo della Comune rivoluzionaria del 1793, organo dei sanculotti durante le fasi più radicali della rivoluzione francese. Ma la seconda Comune aveva un significato completamente differente: non era rivolta verso il passato, ma verso il futuro, quello della rivoluzione comunista della classe operaia.
Marx durante l'assedio di Parigi aveva messo in guardia contro una insurrezione che, nelle condizioni militari del momento, sarebbe stata una "disperata follia" (10). Nonostante questo , non appena l'insurrezione si verificò, Marx e l'Internazionale presero posizione ed espressero una solidarietà incrollabile ai Comunardi -fra i quali i membri parigini dell'Internazionale giocarono un ruolo d'avanguardia, anche se quasi nessuno era di osservanza "marxista". Nessun altro atteggiamento era possibile di fronte alle infami calunnie lanciate dalla borghesia mondiale contro la Comune ed all'orribile vendetta che la classe dominante si prese su chi aveva osato sfidare la sua sacrosanta "civiltà": dopo il massacro di migliaia di combattenti sulle barricate, migliaia di altri, uomini, donne, bambini, furono abbattuti come bestie per le strade, incarcerati in condizioni disumane, deportati come forzati nelle colonie. Dai giorni della crocifissione dei ribelli di Spartaco, le classi dominanti non si erano più offerte il piacere di un simile bagno di sangue.
Ma al di là della questione elementare della solidarietà proletaria, c'è un altro motivo che ha spinto Marx a dare una enorme importanza alla Comune di Parigi. Anche se era storicamente "prematura", nel senso che non erano ancora presenti tutte le condizioni necessarie per la rivoluzione mondiale, la Comune è stata tuttavia lei stessa un avvenimento di portata mondiale, una tappa indispensabile sulla via di quella rivoluzione; è ancora oggi un tesoro di lezioni per il futuro, per la chiarificazione del programma comunista. Prima della Comune la frazione più avanzata della classe, i comunisti, avevano già compreso che la classe operaia doveva prendere il potere come primo passo verso la costruzione di una società senza classi. Ma nessuno sapeva in che forma il proletariato avrebbe stabilito la sua dittatura, perché un simile passo in avanti teorico poteva essere fatto solo basandosi sull'esperienza vivente della classe. L'esperienza in questione è stata appunto la Comune di Parigi, provando nel modo più vivente possibile che il programma comunista non è un dogma fisso e statico, ma evolve in stretta relazione con la pratica storica della classe operaia: non un'utopia, ma un grande esperimento scientifico il cui laboratorio è il movimento reale della società. E' del resto noto che Engels, nelle successive edizioni del Manifesto Comunista scritto nel 1848, aggiunse all'introduzione un punto specifico per affermare che l'esperienza della Comune aveva reso obsolete e superate le formulazioni del testo che esprimevano l'idea di impadronirsi dell'apparato statale esistente. Le conclusioni che Marx ed Engels hanno tirato dalla Comune sono, in altri termini, una dimostrazione ed una giustificazione del metodo materialistico storico. Come ben sintetizza Lenin in Stato e Rivoluzione:
"In Marx non vi è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società "nuova". No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall'antica, le forme di transizione tra l'una e l'altra. Egli si basa sui fatti, sull'esperienza del movimento proletario di massa e cerca di trarne insegnamenti pratici. Egli "si mette alla scuola" della Comune, come tutti i grandi pensatori rivoluzionari non esitavano a mettersi alla scuola dei grandi movimenti della classe oppressa,..." (11).
Il nostro scopo qui non è tracciare la storia della Comune, i cui principali eventi sono descritti in La guerra civile in Francia ed in molti altri lavori, alcuni dei quali scritti da rivoluzionari che, come Lissagaray, si erano battuti sulle barricate. Quello che cercheremo di fare è di esaminare che cosa precisamente Max ha imparato dalla Comune.
Marx contro l'adorazione dello Stato
"Non fu dunque una rivoluzione contro questa o quella forma di potere di Stato, legittimista, costituzionale, repubblicano o imperiale. Fu una rivoluzione contro lo Stato stesso, questo aborto soprannaturale della società; fu la riappropriazione del popolo e per il popolo della propria vita sociale." (12)
Le conclusioni che Marx ha tratto dalla Comune di Parigi, non erano pertanto un prodotto automatico dell'esperienza diretta degli operai. Esse erano una conferma ed un arricchimento di un elemento del pensiero di Marx che questi aveva assunto costantemente da quando aveva rotto con l'hegelismo per evolvere verso la causa proletaria.
Prima ancora di divenire chiaramente comunista Marx aveva già cominciato a criticare l'idealizzazione hegeliana dello Stato. Per Hegel il cui pensiero era nei fatti una mescolanza contraddittoria di radicalismo, derivato dalla spinta della rivoluzione borghese, ed il conservatorismo, ereditato dall'atmosfera opprimente dell'assolutismo prussiano, lo Stato, ed in particolare lo Stato prussiano esistente, era definito come l'incarnazione dello Spirito Assoluto, la forma perfetta dell'esistenza sociale. Nella sua critica di Hegel, Marx mostra al contrario che lungi dall'essere il prodotto superiore e più nobile dell'essere umano, il soggetto razionale dell'essere sociale, lo Stato, e soprattutto lo Stato prussiano burocratico, era un aspetto dell'alienazione dell'uomo, della sua perdita di controllo sui propri poteri sociali. Il pensiero di Hegel partiva da una logica capovolta: "Hegel parte dallo Stato e concepisce l'uomo come Stato soggettività; la democrazia parte dall'uomo e concepisce lo Stato come l'uomo oggettività" (13)
A quell'epoca il punto di vista di Marx era quello della democrazia borghese radicale (molto radicale nei fatti dato che, come abbiamo già dimostrato, la vera democrazia portava alla scomparsa dello Stato), un punto di vista secondo il quale l'emancipazione dell'umanità riguardava innanzitutto la sfera della politica. Ma ben presto, incominciando a vedere le cose dal punto di vista della prospettiva operaia, fu capace di capire che se lo Stato diventava estraneo alla società era perché questo è il prodotto di una società fondata sulla proprietà privata ed i privilegi di classe. Nei suoi scritti su La legge contro i ladri di legno, per esempio, egli incominciò ad assumere la concezione secondo la quale lo Stato è il guardiano dell'ineguaglianza sociale, di ristretti interessi di classe; in La questione ebraica iniziò a riconoscere che la reale emancipazione umana non poteva essere ristretta alla sola dimensione politica, ma richiedeva una forma di vita differente. Così fin dall'inizio del comunismo di Marx, questo ebbe sempre la preoccupazione di demistificare lo Stato.
Come abbiamo visto negli articoli su il Manifesto comunista, e le rivoluzioni del 1848 (14), nella misura in cui il comunismo emergeva in quanto corrente con una organizzazione ed un programma politico definito, egli proseguiva nello stesso spirito. Il Manifesto Comunista, scritto alla vigilia dei grandi sollevamenti sociali del 1848, vedeva come prospettiva non solo la presa del potere da parte del proletariato, ma l'estinzione dello Stato una volta che le sue radici, cioè la società divisa in classi, fossero state estirpate e soppresse. E le esperienze reali dei movimenti del 1848 permisero alla minoranza rivoluzionaria organizzata nella Lega comunista di fare molta luce sul cammino del proletariato verso il potere, mettendo in evidenza la necessità, in ogni sollevamento proletario, che la classe operaia conservi le sue proprie armi ed i suoi propri organi di classe, e suggerendo anche (nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte) che il compito per il proletariato rivoluzionario non era quello di perfezionare l'apparato dello Stato borghese, ma di distruggerlo.
In questo modo la frazione marxista non interpreterà l'esperienza della Comune senza patrimonio teorico: le lezioni della storia non sono "spontanee" nel senso in cui l'avanguardia comunista le sviluppa sulla base di un quadro d'idee già esistenti. Ma queste idee devono essere esse stesse costantemente riesaminate e testate alla luce dell'esperienza della classe operaia ed è merito degli operai parigini l'aver offerto una prova convincente che la classe operaia non può fare la rivoluzione impadronendosi di un apparato la cui struttura ed il cui modo di funzionamento sono adattati alla perpetuazione dello sfruttamento e dell'oppressione. Se il primo passo della rivoluzione proletaria è la conquista del potere politico, questo non può aversi senza la distruzione violenta dello Stato borghese esistente.
L'armamento degli operai
E' significativo il fatto che la Comune sia sorta dal tentativo del governo di Versailles di disarmare gli operai: ciò ha dimostrato che la borghesia non può tollerare un proletariato in armi. Al contrario, il proletariato può arrivare al potere solo con le armi in mano. La classe dominante più violenta ed impietosa della storia non permetterà mai di essere privata del potere attraverso un voto, essa dovrà essere costretta a farlo e la classe operaia non può difendere la sua rivoluzione contro tutti i tentativi di rovesciarla, se non dotandosi di una propria forza armata.
Nei fatti due delle critiche più rigorose fatte da Marx alla Comune sono che questa non aveva sufficientemente utilizzato la forza avendo manifestato una "paura superstiziosa" difronte alla Banca di Francia invece di occuparla e di utilizzarla come oggetto di patteggiamento, e che non si era lanciata all'offensiva contro Versailles quando questa non aveva ancora le risorse per condurre l'attacco controrivoluzionario del capitale.
Ma, malgrado queste debolezze, la Comune fece un passo avanti storico decisivo quando, in uno dei suoi primi decreti, decretò la dissoluzione dell'esercito esistente ed introdusse l'armamento generale della popolazione nella Guardia Nazionale che fu realmente trasformata in milizia popolare. Così facendo la Comune segnò il primo passo verso lo smantellamento del vecchio apparato statale, che trova la sua più alta espressione nell'esercito, in una forza armata che sorveglia la popolazione, obbedisce solo ai livelli superiori dell'apparato statale e non è sottoposto a nessun controllo dal basso.
Lo smantellamento della democrazia ad opera della democrazia operaia
A fianco all'esercito, e nei fatti strettamente interdipendente da questo, l'istituzione che concretizza più chiaramente lo Stato come una escrescenza parassitaria divenuta estranea alla società, è la burocrazia, questo insieme bizantino di funzionari permanenti che vedono lo Stato esclusivamente come loro proprietà privata. Anche qui la Comune prese delle misure immediate per liberarsi di questo parassita. Engels riassume molto succintamente queste misure nella sua Introduzione alla guerra civile in Francia:
"Contro questa trasformazione, inevitabile finora in tutti gli Stati, dello Stato e degli organi dello Stato, da servitori della società in padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo assegnò elettivamente tutti gli impegni amministrativi, giudiziari, educativi, per suffragio generale degli interessati e con diritto costante di revoca da parte di questi. In secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagò solo lo stipendio che ricevono gli altri operai. Il più alto assegno che pagava era di 6.000 franchi. In questo modo era posto un freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo...." (15).
Anche Marx sottolineava che unendo le funzioni esecutive e legislative, la Comune era un "corpo agente", "non un organismo parlamentare" (16). In altri termini, essa era una forma superiore di democrazia rispetto al parlamento borghese: anche in giorni migliori di quelli, la divisione tra il potere legislativo e l'esecutivo faceva si che quest'ultimo tendeva a sfuggire al controllo del primo e generava una burocrazia sempre maggiore. Questa tendenza è stata pienamente confermata nell'epoca della decadenza del capitalismo nel corso della quale gli organi esecutivi dello Stato hanno fatto del legislativo una semplice apparenza, una facciata.
Ma senza dubbio la prova migliore del fatto che la democrazia proletaria incarnata dalla Comune era più avanzata di ogni altra forma che poteva esistere sotto la democrazia borghese, è il principio dei delegati revocabili:
"Invece di decidere ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni..." (17).
Le elezioni borghesi sono fondate sul principio del cittadino atomizzato nella cabina elettorale, con un voto che non gli consente alcun controllo reale sui suoi "rappresentati". La concezione proletaria dei delegati eletti e revocabili, al contrario, non può funzionare che sulla base di una mobilitazione permanente e collettiva degli operai e degli oppressi. Secondo la tradizione delle sezioni rivoluzionarie dalle quali è sorta la Comune del 1793 (senza menzionare gli "agitatori" radicali eletti nei ranghi del Nuovo modello di esercito di Cromwell nella rivoluzione inglese), i delegati al Consiglio della Comune erano eletti da assemblee pubbliche tenute in ogni rione di Parigi. Formalmente parlando queste assemblee elettorali avevano il potere di formulare i mandati dei loro delegati e di revocarli se necessario. Nella pratica succedeva che la maggior parte del lavoro di supervisione e di pressione sui delegati della Comune era realizzato dai "Comitati di Vigilanza" e dai circoli rivoluzionari che sorgevano nei quartieri operai e che erano i luoghi dove si concentrava una intensa vita di dibattito politico, sia sulle questioni generali e teoriche alle quali erano confrontati gli operai, sia sulle questioni immediate di sopravvivenza, d'organizzazione e di difesa. La dichiarazione di principio del Club comunale che si riuniva nella chiesa di Saint Nicolas des Champs, nel tredicesimo "arrondissement", ci dà un'idea del livello di coscienza proletaria raggiunto dai proletari parigini nei due mesi di esistenza della Comune:
"I fini del Club Comunale sono i seguenti:
Combattere i nemici dei nostri diritti comuni, delle nostre libertà e della Repubblica.
Difendere i diritti del popolo, educarlo politicamente in modo che sia in grado di auto-governarsi.
Ricordare i principi ai nostri delegati se dovessero allontanarsene e sostenerli in tutti i loro sforzi per salvare la Repubblica. Ma soprattutto sostenere la sovranità del popolo che non deve mai rinunciare ai suoi diritti, a controllare l'azione dei suoi delegati.
Popolo, governa te stesso direttamente, attraverso delle riunioni politiche, attraverso la tua stampa; fai sentire la pressione su quelli che ti rappresentano - essi non possono andare troppo in là nella direzione rivoluzionaria...
Lunga vita alla Comune!".
Dal mezzo-Stato alla soppressione dello Stato
Fondata sulla mobilitazione permanente del proletariato in armi, la Comune, come dice Engels, "non era più uno Stato in senso stretto" (18). Lenin in Stato e rivoluzione cita questa frase e la sviluppa:
"La Comune cessava di essere uno Stato nella misura in cui essa non doveva più opprimere la maggioranza della popolazione, ma una minoranza (gli sfruttatori); essa aveva spezzato la macchina dello Stato borghese; invece di una forza particolare di oppressione, era la popolazione stessa che entrava in campo. Tutto ciò non corrisponde più allo Stato nel senso proprio della parola. Se la Comune si fosse consolidata, le tracce dello Stato si sarebbero "estinte" da sé: la Comune non avrebbe avuto bisogno di "abolire" le sue istituzioni: queste avrebbero cessato di funzionare a mano a mano che non avrebbero avuto più nulla da fare" (19).
In questo modo l'"anti-statalismo" della classe operaia opera a due livelli, o piuttosto in due tappe: prima la distruzione violenta dello Stato borghese; poi la sua sostituzione con una nuova specie di potere politico che nella misura del possibile evita gli "aspetti peggiori" i tutti gli Stati precedenti e che, in fin dei conti, rende possibile al proletariato di sbarazzarsi completamente dello Stato.
Dalla Comune al comunismo: la questione della trasformazione sociale
Il deperimento dello Stato è basato sulla trasformazione dell'infrastruttura economica e sociale, sull'eliminazione dei rapporti capitalisti di produzione e sul'evoluzione verso una comunità umana senza classi. Come abbiamo già detto, le condizioni materiali di una tale trasformazione non esistevano a livello mondiale nel 1871. In più la Comune fu al potere per soli due mesi ed in una sola città assediata, anche se ha ispirato tentativi rivoluzionari in altre città della Francia (Marsiglia, Lione, Tolosa, Narbonne, etc.).
Quando gli storici borghesi cercano di ridicolizzare le proclamazioni di Marx sulla natura rivoluzionaria della Comune, mettono in evidenza che la maggior parte delle misure economiche e sociali che essa ha preso erano ben poco socialiste: la separazione tra Chiesa e Stato, per esempio, è perfettamente compatibile con il repubblicanesimo borghese radicale. Anche le misure che avevano un impatto più specifico sul proletariato, come l'abolizione del lavoro di notte nei panifici, il sostegno alla formazione di sindacati, etc., erano concepite come una difesa degli operai contro lo sfruttamento piuttosto che come la soppressione dello sfruttamento stesso. Tutto questo ha portato alcuni "esperti" sulla Comune a vederci più l'ultimo respiro della tradizione giacobina che il primo vento della rivoluzione proletaria. D'altra parte, come ha notato Marx, si scambia la Comune per "una riproduzione dei Comuni medioevali, che prima precedettero questo stesso potere statale e poi ne divennero il sostrato" (20)
Tutte queste interpretazioni si basano su di una totale incomprensione della natura della rivoluzione proletaria. Le lezioni della Comune di Parigi sono fondamentalmente delle lezioni politiche, delle lezioni sulle forme e le funzioni del potere proletario, per la semplice ragione che la rivoluzione proletaria non può iniziare che come atto politico. Mancando di ogni potere economico nel seno della vecchia società, il proletariato non può ingaggiarsi in un processo di trasformazione sociale finchè non ha preso le redini del potere politico, e ciò a livello mondiale. La rivoluzione russa del 1917 è avvenuta in un periodo storico in cui il comunismo a livello mondiale era possibile e fu vittoriosa a livello di un grande paese. Ma anche qui, l'eredità fondamentale della rivoluzione russa è legata al problema del potere politico della classe operaia. Aspettarsi che la Comune potesse introdurre il comunismo in una sola città significa credere ai miracoli. Come dice Marx:
"La classe operaia non attendeva i miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre "par décret du peuple". Sa che per realizzare la propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese" (21).
Contro tutte le false interpretazioni della Comune, Marx insisteva sul fatto che essa "fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro" (22).
In questo passaggio Marx riconosce che la Comune fu innanzitutto e soprattutto una forma politica e che era fuori discussione che in una notte, sotto il suo dominio, si sarebbero realizzate delle utopie. E tuttavia, allo stesso tempo, egli riconosce che una volta che il proletariato ha preso le cose in mano, esso può e deve innescare, anzi "liberare", una dinamica che porta alla "trasformazione economica del lavoro", malgrado tutti i limiti obiettivi opposti a questa dinamica. E' per questo che la Comune, così come la rivoluzione russa, contiene delle lezioni valide anche per la futura trasformazione sociale.
Come esempio di questa dinamica, di questa logica verso la trasformazione sociale, Marx ha ricordato l'espropriazione delle fabbriche abbandonate dai capitalisti che erano fuggiti dalla città e la loro presa in carico da parte delle cooperative operaie che dovevano essere organizzate in una federazione unica. Per lui questo era una espressione immediata del fine ultimo della Comune, l'espropriazione generale degli espropriatori:
"Essa voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra ed il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero ed associato. Ma questo è comunismo, "impossibile" comunismo!. Ebbene, quelli tra i membri delle classi dominanti che sono abbastanza intelligenti per comprendere la impossibilità di perpetuare il sistema esistente -e sono molti- sono diventati gli apostoli seccati e rumorosi della produzione cooperativa. Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione ed un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista; se delle associazioni cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all'anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalista: che cosa sarebbe questo, o signori, se non comunismo, "possibile" comunismo?" (23).
La classe operaia come avanguardia degli oppressi
La Comune ci ha lasciato importanti elementi per comprendere i rapporti tra la classe operaia, una volta che ha preso il potere, e gli altri strati non sfruttatori della società, in questo caso la piccola-borghesia urbana ed i contadini. Agendo come avanguardia determinata dell'insieme della popolazione sfruttata, la classe operaia ha mostrato la sua capacità a conquistare la fiducia di questi strati, che sono meno capaci di agire in quanto forza unita. E per mantenere questi strati a fianco della rivoluzione, la Comune ha introdotto una serie di misure economiche che alleggerivano i loro compiti materiali: l'abolizione di ogni tipo di debito e di imposta, la trasformazione di quella che è l'incarnazione immediata dell'oppressione per il contadino, "le sue odierne sanguisughe, il notaio, l'avvocato, l'usciere e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali salariati eletti da lui e davanti a lui responsabili" (24). Nel caso dei contadini, queste misure restavano largamente ipotetiche perché l'autorità della Comune non si estendeva ai distretti rurali. Ma gli operai di Parigi guadagnarono, in larga misura, il sostegno della piccola borghesia urbana, in particolare attraverso l'aggiornamento dell'obbligo dell'affitto e l'annullamento degli interessi.
Lo Stato come "male necessario"
Le strutture elettorali della Comune hanno anche permesso agli altri strati non sfruttatori di partecipare politicamente al processo rivoluzionario. Ciò era inevitabile e necessario e si sarebbe dovuto ripetere anche durante la rivoluzione russa. Ma allo stesso tempo, visto retrospettivamente, possiamo dire che una delle indicazioni del fatto che la Comune era una espressione "immatura" della dittatura del proletariato, che era espressione di una classe che non aveva ancora raggiunto il suo pieno sviluppo, sta nel fatto che gli operai non avevano organizzazioni specifiche indipendenti all'interno di queste nè un peso preponderante nei meccanismi elettorali. La Comune era eletta esclusivamente sulla base di unità territoriali (i quartieri) che, anche se dominate dal proletariato, non consentivano alla classe operaia di imporsi come una forza chiaramente autonoma (in particolare poi se la Comune si estendeva alla maggioranza dei contadini al di fuori di Parigi). E' per questo che i consigli operai del 1905 e del 1917-21, eletti dalle assemblee sui luoghi di lavoro e installati nei principali centri industriali, costituirono una forma più avanzata della dittatura del proletariato rispetto alla Comune. Possiamo anche arrivare ad affermare che la Comune corrispondeva più allo Stato composto da tutti i Soviet (degli operai, dei contadini, dei cittadini), che nacque dalla rivoluzione russa, che non all'organizzazione dei Consigli operai.
L'esperienza russa ha reso possibile chiarire il rapporto tra gli organi specifici della classe, i Consigli operai, e lo Stato sovietico nel suo insieme. In particolare essa ha mostrato che la classe operaia non può identificarsi direttamente con quest'ultimo, ma che al contrario essa deve esercitare una vigilanza costante e un controllo su questo Stato attraverso le proprie organizzazioni di classe che vi partecipano senza esserne inghiottite. Abbiamo già trattato questa questione in altri articoli, ma pensiamo sia importante insistere sul fatto che lo stesso Marx ha intravisto questo problema. La prima stesura de La guerra civile in Francia contiene il seguente passaggio:
"...La Comune non è il movimento sociale della classe operaia e, di conseguenza, il movimento rinnovatore di tutta l'umanità, ma soltanto lo strumento organico del suo movimento reale. La Comune non sopprime la lotta delle classi, mediante la quale la classe operaia si sforza di abolire, negandosi come tale, tutte le classi e, di conseguenza, ogni dominazione di classe... ma essa crea il clima più razionale nel quale questa lotta delle classi può svolgersi attraverso varie fasi nel modo più razionale e più consono all'essere umano." (25).
Si riscontra qui una chiara visione del fatto che la dinamica reale della trasformazione comunista non viene da uno Stato post-rivoluzionario poichè la funzione di questo, come per qualsiasi altro Stato, è di contenere gli antagonismi di classe, di impedirgli di dilaniare la società. Da cui il suo aspetto conservatore rispetto al movimento sociale reale del proletariato. Anche nella breve vita della Comune possiamo individuare delle tendenze in questa direzione. La Storia della Comune di Parigi di Lissagaray contiene molte critiche delle esitazioni, delle confusioni e, in certi casi, delle posizioni avanzate da alcuni delegati al Consiglio della Comune, molte delle quali incarnavano, nei fatti, un radicalismo piccolo-boghese obsoleto rimesso frequentemente in questione dalle assemblee dei quartieri più proletari. Uno dei club rivoluzionari locali arriva a dichiarare che bisognava dissolvere la Comune perché questa non era abbastanza rivoluzionaria!
In un passaggio famoso, Engels si immette nello stesso problema quando dice che lo Stato, il mezzo-Stato del periodo di transizione verso il comunismo, "...è un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vincitore nella lotta per il dominio di classe, i cui lati peggiori il proletariato non potrà fare a meno di amputare subito, nella misura del possibile, come fece la Comune, finchè una generazione cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale." (26). Prova ulteriore che, per il marxismo, la potenza dello Stato è la misura dell'asservimento dell'uomo.
Dalla guerra nazionale alla guerra di classe
C'è un'altra lezione vitale della Comune che non è legata al problema della dittatura del proletariato, ma ad una questione particolarmente spinosa nella storia del movimento operaio: la questione nazionale.
Come abbiamo già detto, Marx e la sua tendenza nel seno della Prima Internazionale riconoscevano che il capitalismo non aveva ancora raggiunto l'apogeo del suo sviluppo. Nei fatti il capitalismo era ancora limitato dalle vestigia della società feudale e da altri resti arcaici. Per questo motivo Marx ha sostenuto alcuni movimenti nazionali nella misura in cui essi rappresentavano la democrazia borghese contro l'assolutismo e tendevano all'unificazione nazionale contro la frammentazione feudale. Il sostegno che l'Internazionale ha dato all'indipendenza della Polonia contro lo Zarismo russo, all'unificazione italiana e tedesca, ai Nordisti in America contro il Sud schiavista durante la Guerra Civile si basava su questa logica materialista. Questa era anche la causa che mobilitava la simpatia e la solidarietà attiva della classe operaia: in Gran Bretagna per esempio si facevano delle riunioni per il sostegno all'indipendenza polacca, delle grandi manifestazioni contro l'intervento britannico a fianco dei Sudisti in America, anche se la mancanza di cotone derivante dalla guerra comportava reali privazioni per gli operai tessili inglesi.
In questo contesto in cui la borghesia non aveva completamente concluso i suoi compiti storici progressisti, il problema delle guerre di difesa nazionale era ben reale ed i rivoluzionari dovevano prendere in seria considerazione ogni guerra tra Stati; ed il problema si pone con forza quando scoppia la guerra franco-prussiana. La politica dell'Internazionale verso questa guerra è riassunta nel Primo Indirizzo del Consiglio Generale dell'AIT sulla guerra franco-prussiana. Nella sua essenza si trattava di una presa di posizione di un internazionalismo proletario fondamentale contro le guerre "dinastiche" della classe dominante. Essa citava un Manifesto prodotto dalla sezione francese dell'Internazionale allo scoppio della guerra:
"Ancora una volta col pretesto dell'equilibrio europeo e dell'onore nazionale, le ambizioni politiche minacciano la pace nel mondo. Operai francesi, tedeschi e spagnoli! Uniamo le nostre voci in un solo grido di condanna contro la guerra!... La guerra per una questione di preponderanza o di dinastia non può essere agli occhi degli operai che una assurdità criminale." (27)
Tali sentimenti non erano limitati ad una minoranza socialista: Marx rapporta, nel Primo Indirizzo, come gli operai internazionalisti francesi perseguitavano gli sciovinisti pro-guerra nelle strade di Parigi.
Nello stesso tempo l'Internazionale difendeva l'idea che "da parte della Germania, la guerra è una guerra di difesa" (28). Ma questo non voleva dire intossicare gli operai di sciovinismo: in risposta alla presa di posizione della sezione francese, i tedeschi affiliati all'Internazionale, pur accettando tristemente che una guerra difensiva era un male inevitabile, dichiarano anche: "...la guerra presente è esclusivamente dinastica... Siamo lieti di stringere la mano fraterna offertaci dagli operai di Francia... Memori del motto dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori: Proletari di tutti i paesi, unitevi! non dimentichiamo mai che gli operai di tutti i paesi sono nostri amici e i despoti di tutti i paesi sono nostri nemici" (29).
Il primo Indirizzo metteva anche in guardia gli operai tedeschi contro il pericolo della trasformazione della guerra in una guerra di aggressione da parte tedesca e riconosceva anche la complicità di Bismarck nella guerra, ancor prima delle rivelazioni sul telegramma d'Ems che ha provato fino a che punto Bismarck aveva attirato Bonaparte ed il suo "Secondo Impero" nella guerra. In ogni modo con la sconfitta dell'esercito francese a Sedan, la guerra è diventata veramente una guerra di conquista per la Prussia. Parigi fu assediata e la stessa Comune nacque sulla questione della difesa nazionale. Il regime di Bonaparte fu sostituito da una Repubblica nel 1870, perché l'Impero si era rivelato incapace di difendere Parigi; ora la stessa Repubblica provava che preferiva consegnare la capitale alla Prussia piuttosto che farla cadere nelle mani degli operai in armi.
Ma benchè all'inizio gli operai di Parigi pensavano ancora nei termini di una specie di patriottismo difensivo, di salvaguardia dell'onore nazionale da parte della stessa borghesia, il sollevamento della Comune marca un momento storico decisivo. Di fronte alla prospettiva di una rivoluzione operaia, le borghesie prussiana e francese unirono le proprie forze per schiacciarla: l'esercito prussiano rilascia i suoi prigionieri di guerra per gonfiare le truppe contro-rivoluzionarie francesi di Thiers e permette a queste ultime di attraversare le sue linee per portare l'assalto finale contro la Comune. Da questi avvenimenti Marx ha tirato una conclusione di portata storica:
"Il fatto che dopo la guerra più terribile dei tempi moderni l'esercito vincitore e l'esercito vinto fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti non indica, come pensa Bismarck, lo schiacciamento finale di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti" (30).
Da parte sua il proletariato rivoluzionario di Parigi aveva già cominciato a fare un certo numero di passi in avanti oltre la fase patriottica iniziale: di qui il decreto che permetteva agli stranieri di partecipare alla Comune "perché la bandiera della Comune è quella della repubblica universale", o ancora la distruzione pubblica della colonna Vendome, simbolo della gloria marziale della Francia...
La logica storica della Comune di Parigi era quella di andare verso una Comune mondiale, anche se ciò non era ancora possibile in quell'epoca. E' per questo che la sollevazione degli operai di Parigi durante la guerra franco-tedesca, quali che siano le frasi patriottiche che l'hanno accompagnata, era in realtà il segno precursore delle insurrezioni del 1917-18 esplicitamente contro la guerra e dell'ondata rivoluzionaria che le ha seguite.
Le conclusioni di Marx aprono così la prospettiva del futuro. Poteva essere prematuro nel 1871 dire che la società borghese era ridotta in polvere. Quest'anno ha potuto marcare la fine della questione nazionale in Europa, come viene notato da Lenin ne L'imperialismo, fase suprema del Capitalismo; ma continuava a porsi nelle colonie, mentre il capitalismo entrava nella sua ultima fase di espansione. In un senso più profondo, la denuncia da parte di Marx della mistificazione della guerra nazionale anticipava quella che sarebbe diventata una realtà generale una volta che il capitalismo fosse entrato nella sua fase di decadenza. D'ora in poi tutte le guerre sarebbero state delle guerre imperialiste e -per quanto riguarda il proletariato- non si sarebbe potuto più porre il problema in termini di difesa nazionale, a nessun titolo.
I sollevamenti del 1917-18 hanno anche confermato ciò che aveva detto Marx sulla capacità della borghesia di unificarsi di fronte alla minaccia proletaria: di fronte alla possibilità di una rivoluzione mondiale degli operai, le borghesie d'Europa, che si erano reciprocamente lacerate per quattro anni, scoprirono improvvisamente che avevano tutto l'interesse a fare la pace al fine di far naufragare la sfida proletaria contro il loro "ordine" basato sul sangue versato. Ancora una volta, i vari governi del mondo furono "una sola cosa contro il proletariato".
CDW
1. Il nome dell'Associazione Internazionale dei lavoratori, in inglese suonava International Workingmen's Association invece che Worker's Association. Il riferimento agli "uomini lavoratori" era evidentemente un riflesso dell'immaturità del movimento della classe, dato che il proletariato non ha nessun interesse ad istituire nei propri ranghi divisioni sessuali. Come in tutte le grandi insurrezioni sociali, la Comune di Parigi vide una straordinaria effervescenza fra le donne proletarie che non solo misero bruscamente in questione il loro ruolo "tradizionale", ma si mostrarono spesso tra i difensori più coraggiosi e radicali della Comune, sia nei Club rivoluzionari che sulle barricate. Questa effervescenza fu all'origine delle sezioni femminili dell'Internazionale, ciò che per l'epoca era un passo avanti, anche se tali forme di organizzazione separata oggi non ha più senso.
2. "Quarto rapporto annuale del Consiglio Generale dell'A.I.T.", in "Il Consiglio Generale della Prima Internazionale", 1866-1868, Edizioni di Mosca, ed. francese, p. 281.
3. Prime righe degli "Statuti Provvisori dell'Associazione", in "Il Consiglio Generale della Prima Internazionale", 1864-1866, Edizioni di Mosca, ed. francese, p.243.
4. Discorso a Londra per il 7° Anniversario dell'Internazionale, 1871.
5. Risoluzione della Conferenza di Londra dell'Internazionale sull'azione politica della classe operaia, settembre 1871.
6. La formulazione "costituzione del proletariato in partito" riflette un'ambiguità sul ruolo del partito che era a sua volta un riflesso dei limiti storici di quel periodo. L'Internazionale aveva in sé delle caratteristiche di organizzazione unitaria (sindacato, etc.) della classe e non solo quelle della sua organizzazione politica. Per tutto l'800 l'idea di un partito che o rappresentava la classe o era la classe stessa nella sua forma organizzata, era profondamente radicata nel movimento operaio. Queste confusioni non furono superate che nel nostro secolo, quando - dopo dolorose esperienze - divenne chiaro che bisognava fare una distinzione tra organizzazione politica ed organizzazioni unitarie. Comunque già allora esisteva una chiarezza di fondo sul fatto che il partito non è un'organizzazione che raggruppa tutta la classe, ma solo i suoi elementi più avanzati. Una definizione simile si trova già nel Manifesto Comunista e la stessa Prima Internazionale si considerava in termini analoghi quando affermava che il partito operaio era "la parte della classe operaia arrivata alla coscienza dei suoi interessi comuni di classe" ("La questione militare prussiana ed il Partito operaio tedesco", scritto da Engels nel 1865).
7. "Il Consiglio Generale della Prima Internazionale", 1864-1866, Edizioni di Mosca, ed. francese, p.241.
8. I blanquisti (seguaci di Auguste Blanqui) condividevano con i bakuninisti il volontarismo e l'impazienza, ma erano chiarissimi sul fatto che il proletariato doveva stabilire la sua dittatura per creare una società comunista. E' per questo che Marx, in certe occasioni importanti, ha potuto allearsi con i blanquisti contro i bakuninisti sulla questione dell'azione politica della classe operaia.
9. Lettera di Marx a Bracke, 1875.
10. Secondo Indirizzo del Consiglio Generale dell'AIT sulla guerra franco-tedesca, Londra, 9 settembre 1870.
11. Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, p.887.
12. Marx, "La guerra civile in Francia" Primo abbozzo di redazione, Edizione "La vecchia Talpa", Napoli, p. 216
13. Critica della dottrina dello Stato di Hegel, 1843.
14. Vedi la nostra Révue Internationale nn. 72 e 73.
15. Edizione Newton Compton, pag.67.
16. La guerra civile in Francia, Newton Compton, p. 110
17. Ibidem, p.114
18. Lettera a Bebel, 1875.
19. Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, p. 901
20. La guerra civile in Francia, Newton Compton, p. 115.
21. Ibidem, p.118.
22. Ibidem, p. 115.
23. Ibidem, p. 117.
24. Ibidem, p. 120.
25. La guerra civile in Francia, Primo abbozzo di redazione, Edizione "La vecchia talpa", Napoli, p.220
26. Introduzione a La guerra civile in Francia, Engels 1891, Newton Compton, p.68.
27. Manifesto "Ai lavoratori di tutti i paesi" del 12 luglio 1870 citato nel Primo indirizzo del Consiglio Generale sulla guerra franco-prussiana, in La guerra civile in Francia, Newton Compton, p.70.
28. Primo Indirizzo del Consiglio Generale sulla guerra franco-prussiana, ibidem, p.72.
29. Risoluzione adottata all'unanimità da una assemblea di delegati, rappresentanti 50.000 operai sassoni a Chemnitz, citato nel Primo Indirizzo..., ibidem, p.73.
30. La guerra civile in Francia, Newton Compton, p.140.
Migliaia di lavoratori in sciopero. Trasporti pubblici completamente paralizzati. Uno sciopero che si estende nel settore pubblico: prima le ferrovie, la metropolitana e gli autobus, poi Poste, settori di produzione e distribuzione dell’energia elettrica, della distribuzione del gas, i telefoni, la scuola, la sanità. Anche qualche impresa del settore privato entra in lotta, come i minatori che si scontrano violentemente con la polizia. Manifestazioni che hanno riunito una quantità importante di lavoratori di diversi settori: il 7 dicembre, su appello di vari sindacati (1), si raggiunge la cifra di un milione di manifestanti contro il piano Juppé (2) nelle principali città della Francia. Due milioni il 12 dicembre.
Il movimento di scioperi e manifestazioni operaie si sviluppa sullo sfondo di agitazioni studentesche e in alcune manifestazioni e assemblee generali di lavoratori partecipano degli studenti. Il riferimento al maggio ‘68 si fa sempre più strada sui mezzi di informazione che si dilungano a fare parallelismi: esasperazione generale, studenti per strada, scioperi che si estendono.
Siamo davvero di fronte a un nuovo movimento sociale comparabile a quello del maggio ‘68, movimento che iniziò la prima ondata internazionale di lotta di classe dopo cinquanta anni di controrivoluzione? Per niente. In realtà il proletariato in Francia è stato vittima di una manovra ben costruita destinata a indebolirlo nella sua coscienza e nella sua combattività, una manovra indirizzata anche verso la classe operaia di altri paesi perché tirino false lezioni dagli avvenimenti francesi. E’ per questo che, contrariamente a quanto avviene quando la classe operaia entra in lotta per iniziativa propria e sul suo proprio terreno, la borghesia in Francia e negli altri paesi ha dato tanta risonanza a questi avvenimenti.
La borghesia utilizza e rafforza le difficoltà della classe operaia.
Gli avvenimenti del maggio ‘68 in Francia iniziarono con tutta una serie di scioperi la cui caratteristica principale era lo scavalcamento dei sindacati fino allo scontro con essi. Non è in nessuna maniera la situazione di oggi, né in Francia, né negli altri paesi.
Certamente l’ampiezza e la generalizzazione degli attacchi che la classe operaia ha subito dall’inizio degli anni ‘90 hanno alimentato la sua combattività come descriviamo nella Risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal nostro 11° Congresso internazionale (pubblicata in questo stesso numero):
Senza dubbio la maniera in cui questa combattività si è espressa è tuttavia profondamente marcata dal riflusso che la classe operaia ha subito al seguito del crollo del blocco dell’Est e lo scatenamento delle campagne sulla “morte del comunismo”. Si è trattato del riflusso più profondo che la classe operaia ha conosciuto dalla ripresa storica delle sue lotte nel 1968.
Dappertutto la classe operaia si scontra con una classe borghese che porta avanti un’offensiva politica per indebolire la sua capacità di rispondere agli attacchi e superare il profondo riflusso della sua coscienza. All’avanguardia di questa offensiva troviamo i sindacati, che dappertutto si danno da fare per prevenire le lotte operaie, per fare in maniera che esse non scappino al loro controllo.
Da mesi, a livello internazionale, la classe operaia dei paesi industrializzati è sottoposta ad un autentico bombardamento di attacchi. In Svezia, Belgio, Italia, Spagna, per non citare che gli ultimi esempi. In Francia era dal piano Delors del 1983 che non si vedeva la borghesia assestare una tale mazzata agli operai. In una sola volta: aumento dell’IVA, cioè dei prezzi al consumo, aumento delle imposte e dei ticket sanitari, congelamento dei salari degli impiegati pubblici, abbassamento delle pensioni, aumento degli anni lavorativi necessari per andare in pensione per alcune categorie di lavoratori, e tutto questo quando le cifre della borghesia annunciano un aumento della disoccupazione. Nei fatti, alla pari dei suoi compari di tutti gli altri paesi, la borghesia francese è confrontata a un crescente aggravamento della crisi mondiale del capitalismo che la obbliga ad attaccare ogni giorno di più le condizioni di esistenza dei proletari. E questo è tanto più urgente a causa dell’importante ritardo accumulato durante gli anni in cui la sinistra, con Mitterand e il PS, stava alla testa dello Stato, una situazione che aveva sguarnito il fianco sociale, obbligando lo Stato ad una certa “esitazione” nelle sue politiche antioperaie.
L’attuale ondata di attacchi doveva per forza alimentare una combattività operaia che già si è espressa in differenti momenti e paesi come Svezia, Belgio, Spagna e anche in Francia...
In effetti di fronte a questa situazione i proletari non possono restare passivi. Non resta loro che difendersi lottando. E per impedire che la classe operaia entri in lotta con le sue proprie armi, la borghesia ha giocato d’anticipo spingendo la classe ad entrare in lotta prematuramente e sotto il controllo totale dei sindacati. Non ha lasciato tempo ai proletari per mobilitarsi secondo i loro ritmi e con i loro mezzi, le assemblee generali, le discussioni, la partecipazione alle assemblee di altri luoghi di lavoro diversi, l’entrata in sciopero se i rapporti di forza lo consentono, l’elezione di comitati di sciopero, le delegazioni in altre assemblee di operai in lotta.
Il movimento di scioperi che si è sviluppato in Francia, anche se ha evidenziato il profondo malcontento che regna presso la classe operaia, è stato, innanzitutto, il risultato di una manovra in grande stile della borghesia con l’obiettivo di portare gli operai a una sconfitta di massa e, soprattutto, di provocare tra loro il massimo del disorientamento.
Una trappola tesa agli operai
Per preparare la sua trappola la borghesia ha manovrato magistralmente, facendo cooperare molto efficacemente le sue differenti frazioni nella ripartizione del lavoro: la destra, la sinistra, i mezzi di informazione, i sindacati, la base radicale di questi, formata principalmente da militanti delle frazioni di estrema sinistra.
Come prima tappa della manovra la borghesia fa di tutto per far entrare in sciopero un settore della classe operaia. L’aumento del malcontento in Francia, aggravato dagli attacchi alla Previdenza per quanto sia una realtà, tuttavia non era ancora a livello di maturazione tale da provocare l’entrata massiccia in lotta dei settori della classe operaia più decisivi, in particolare quelli dell’industria. Questo ha favorito il gioco della borghesia che, spingendo un settore a lottare, non correva il rischio che gli altri settori lo seguissero spontaneamente e scavalcando l’inquadramento sindacale. Il settore “individuato” è quello dei macchinisti delle ferrovie. Con il “contratto di piano” annunciato dalle Ferrovie (SNCF), la borghesia minaccia i macchinisti di dover lavorare otto anni di più per andare in pensione, con il pretesto che essi sono dei “privilegiati” rispetto agli altri impiegati statali. Si trattava di una provocazione così grossa che i lavoratori non ci pensano su due volte prima di gettarsi nella lotta. Era proprio quello che la borghesia cercava, che essi si inquadrassero nella strada che il sindacato aveva preparato. In ventiquattro ore i conduttori della metropolitana e degli autobus di Parigi, minacciati di perdere alcuni vantaggi dello stesso tipo, sono trascinati in una trappola simile. I sindacati si danno da fare per forzare i lavoratori ad entrare in sciopero, mentre ce ne sono diversi che sono perplessi, non capendo il perché di una tale precipitazione. La direzione della RATP (Compagnia della metropolitana parigina) dà una mano ai sindacati prendendo l’iniziativa di chiudere alcune linee e facendo di tutto per impedire di lavorare a coloro che lo volevano.
Perché la borghesia fece perno su queste due categorie di lavoratori per iniziare la sua manovra?
Alcune delle caratteristiche di questi settori erano favorevoli per la realizzazione del piano della borghesia. Queste due categorie hanno effettivamente dei trattamenti particolari la cui modifica era un buon pretesto per giustificare un attacco specifico. Ma soprattutto c’era la garanzia che una volta che fossero entrati in sciopero ferrovieri e conduttori di metrò e autobus si sarebbero paralizzati tutti i trasporti pubblici. Far sì che un tale movimento non passasse inosservato per nessuno era un mezzo supplementare e di grande efficacia nelle mani della borghesia per evitare ogni scavalcamento, visto che il suo obiettivo era proseguire nell’estensione degli scioperi ad altri settori del pubblico impiego. Così, senza trasporti, il principale e quasi unico mezzo per partecipare alle manifestazioni era quello di servirsi dei pullman del sindacato. Non rimaneva la minima possibilità di realizzare incontri di massa tra operai in sciopero, nelle loro assemblee generali. Infine, lo sciopero dei trasporti è, in più di quanto già detto, un mezzo per dividere gli operai, mettendoli gli uni contro gli altri, giacché in mancanza di trasporti gli altri lavoratori incontravano le peggiori difficoltà per andare ogni giorno al lavoro.
Ma i ferrovieri non hanno costituito solo un mezzo per portare avanti la manovra, ma anche il suo bersaglio specifico. La borghesia era ben cosciente dei vantaggi che poteva ricavare da questo settore della classe operaia che si era distinto nel dicembre del 1986 per la sua capacità di scontrarsi con l’inquadramento sindacale al momento della sua entrata in lotta.
Una volta che questi due settori erano in sciopero sotto il controllo totale dei sindacati, poteva partire la fase seguente della manovra: lo sciopero in un settore tradizionalmente combattivo e avanzato della classe operaia, quello delle Poste, e all’interno di questo, quello dei centri di distribuzione. Durante gli anni ottanta questi resistettero a lungo alle trappole sindacali, non esitando a scontrarsi con essi. Con l’incorporazione di questo settore nel “movimento”, la borghesia cerca di attirarlo nella rete della manovra, per neutralizzarlo e assestargli la stessa sconfitta degli altri settori. In più la manovra sarebbe stata così più efficace nei confronti di quei settori che non erano in sciopero, per dare al movimento una certa legittimità capace di far diminuire la sfiducia o lo scetticismo verso di esso. La borghesia si è comportata con più accortezza ancora che verso ferrovieri e lavoratori del metrò. Perciò favorì e organizzò “delegazioni di operai” senza nessun segno apparente di appartenenza sindacale (e possibilmente composte di operai sinceri ingannati dai sindacalisti di base) che si recarono nei centri di distribuzione durante le assemblee generali. Ingannati sul vero significato di queste delegazioni, gli operai dei principali centri di distribuzione postale decidono di unirsi alla lotta. Per dare il maggior impatto al fatto, il potere invia i suoi giornalisti sul posto: l’edizione pomeridiana di Le Monde di quel giorno metterà l’avvenimento in primo piano.
In questa fase di pieno dispiegamento della manovra, l’ampiezza già raggiunta dal movimento dà peso agli argomenti usati dai sindacati per guadagnare nuovi settori: gli operai dell’elettricità e del gas (EDF-GDF), dei telefoni, gli insegnanti. Di fronte ai dubbi di parecchi lavoratori sull’opportunità di “lottare ora”, di fronte alla loro insistenza per discutere le modalità e le rivendicazioni, i sindacati oppongono la consegna perentoria del “ora è il momento”, colpevolizzando chi non era ancora in lotta con argomenti tipo “siamo gli ultimi a non stare ancora in sciopero”.
Per incrementare ancora di più la quantità di scioperanti, bisogna far credere che si sta sviluppando un ampio e profondo movimento sociale. A stare a sentire sindacati, sinistra ed estrema sinistra, ci sarebbe da credere che il movimento starebbe suscitando una immensa speranza nella classe operaia. Per appoggiare questa idea, viene pubblicato sui giornali quotidianamente “l’indice di popolarità” dello sciopero, sempre favorevole presso tutta la “popolazione”. E’ certo che lo sciopero è “popolare” e che è considerato da molti operai come un mezzo per impedire che il governo porti fino in fondo i suoi attacchi. Ma l’attenzione con cui lo sciopero è trattato sui mezzi di informazione, specialmente la televisione, è la miglior prova dell’interesse della borghesia perché sia così, facendo salire al massimo l’indice della popolarità.
Anche la partecipazione degli studenti, finché dura, fa parte della messa in scena. Sono stati fatti scendere in strada per dare l’impressione di un aumento generale del malcontento, per far credere che esistono speranze simili a quelle del maggio ‘68 e, allo stesso tempo, annegare le rivendicazioni operaie in quelle interclassiste tipiche del movimento studentesco. Alcuni arrivano anche a partecipare ad assemblee sui luoghi di lavoro “per incontrarsi con le lotte operaie”, e questo con il beneplacito dei sindacati (3).
Ogni iniziativa è sottratta alla classe operaia che non ha altra scelta che quella di seguire i sindacati. Nelle assemblee convocate da questi l’insistenza perché gli operai si esprimessero non aveva altro significato che quello di dare un’apparenza di vita all’assemblea, laddove tutto era già stato deciso altrove. All’interno delle assemblee la pressione dei sindacati per l’entrata in sciopero è talmente forte che delle frazioni significative di operai, alquanto dubbiosi sulla natura di questo sciopero, non osano esprimersi. Per certi altri invece, completamente presi dalla mistificazione sindacale, c’è l’euforia di una unità fittizia. In effetti una delle chiavi per la riuscita della manovra della borghesia è il fatto che i sindacati hanno sistematicamente fatto propri, per snaturarli e rivolgerli contro di essa, aspirazioni e metodi della lotta della classe operaia:
- la necessità di reagire in maniera massiccia e non dispersa di fronte agli attacchi borghesi;
- l’allargamento della lotta a più settori, superando le barriere corporative;
- la tenuta quotidiana di assemblee generali su ogni luogo di lavoro, incaricate in particolare di pronunciarsi sull’entrata in lotta o sul prosieguo del movimento;
- l’organizzazione di manifestazioni di piazza in cui grandi masse di operai di diversi settori e differenti luoghi trovano un sentimento di solidarietà e di forza (4).
In più i sindacati si sono presi la cura, nella maggior parte del movimento, di far mostra della loro unità. I mezzi di informazione hanno abbondantemente mostrato le strette di mano tra i capi dei due sindacati tradizionalmente “nemici”: la CGT e Force Ouvrière (che si costituì su una scissione della CGT con il sostegno dei sindacati americani, al tempo della Guerra Fredda). Questa “unità” dei sindacati, che si ritrovava spesso nelle manifestazioni sotto forma di bandiere comuni CGT-FO-CFDT-FSU, era finalizzata a trascinare il massimo di operai possibile nello sciopero dietro sindacati, visto che per anni una delle cause del discredito dei sindacati e del rifiuto degli operai di seguire le loro indicazioni di sciopero era proprio il loro perpetuo litigare. In questo i trotskysti hanno portato il loro piccolo contributo dal momento che essi non hanno cessato di reclamare l’unità tra i sindacati, facendo di questa una precondizione allo sviluppo delle lotte.
Per quanto riguarda la destra al potere, dopo la determinazione ostentata all’inizio del movimento, fa finta di mostrare dei segni di debolezza (ampiamente amplificati dai mezzi di informazione) per far credere che gli scioperanti avrebbero potuto vincere, ottenere il ritiro del piano Juppé e, perché no, la caduta del governo. Nei fatti il governo fa durare le cose sapendo bene che operai che hanno condotto uno sciopero lungo non sono poi così facilmente disponibili a riprendere la lotta.. E’ solo alla fine di tre settimane che il governo annuncia il ritiro di alcune delle misure che avevano dato fuoco alle polveri: ritiro del “contratto di piano” nelle ferrovie, e più in generale le disposizioni riguardanti il regime di pensionamento dei dipendenti statali.. L’essenziale della sua manovra è tuttavia mantenuto: aumento delle tasse, blocco dei salari degli impiegati statali, e, soprattutto, gli attacchi sulla Previdenza sociale.
I sindacati, all’unisono con i partiti di sinistra, cantano vittoria e si danno da fare per spingere alla ripresa del lavoro. E lo fanno in maniera così abile da riuscire a non smascherarsi: la loro tattica consiste nel far esprimere, questa volta senza nessuna pressione da parte loro, le assemblee generali maggioritariamente in favore della ripresa del lavoro. Sono i ferrovieri, di cui i sindacati sottolineano la “vittoria”, che, il venerdì 15 dicembre, danno il segnale di questa ripresa, come avevano dato il segnale dell’entrata in sciopero. La televisione mostra a ripetizione l’immagine di qualche treno che ricomincia a circolare. L’indomani, un Sabato, i sindacati organizzano immense manifestazioni a cui sono portati gli operai del settore privato (cioè dell’industria). E’ il sotterramento in gran pompa del movimento, una chiusura alla grande che permette di far inghiottire più facilmente agli operai la pillola amara della loro sconfitta sulle rivendicazioni essenziali. Deposito dopo deposito, le assemblee di ferrovieri votano la fine dello sciopero.Negli altri settori la stanchezza e l’effetto di trascinamento fanno il resto.Il lunedì 18 la tendenza alla ripresa al lavoro è quasi generale. Il martedì 19 la CGT, da sola, organizza una giornata d’azione e delle manifestazioni: paragonata a quella delle settimane precedenti, la mobilitazione è ridicola, cosa che non può che convincere gli ultimi “recalcitranti” che bisogna riprendere il lavoro. Il giovedì 21 governo, sindacati e padronato privato si ritrovano per un “vertice”: è l’occasione per i sindacati, che denunciano le proposte governative, per continuare a presentarsi come “i difensori degli operai”.
Un attacco politico contro la classe operaia
La borghesia è riuscita a far passare un attacco considerevole, il piano Juppé, e a stancare gli operai al fine di diminuire la loro capacità di risposta agli attacchi futuri.
Ma gli obiettivi della borghesia vanno ben al di là di questo. La maniera in cui essa ha organizzato la sua manovra era destinata a fare in modo che non solo gli operai non possano, in preparazione delle loro lotte future, tirare insegnamenti da questa sconfitta, ma soprattutto per renderli vulnerabili ai messaggi avvelenati che essa vuole far passare.
L’ampiezza che la borghesia ha dato alla mobilitazione, la più importante dopo anni per numero di scioperanti e di manifestanti, e di cui i sindacati sono stati gli artefici riconosciuti, è destinata a dare forza all’idea che è solo con i sindacati che si può fare qualche cosa. Tanto più che durante lo svolgimento del movimento essi non si sono mai trovati nella condizione di essere smascherati, anche solo in parte, come invece accade quando si danno da fare per rompere un movimento spontaneo della classe. I sindacati hanno anche tenuto conto del fatto che gli operai, anche se in maggioranza potevano seguirli, nondimeno non avevano molta fiducia in loro.E’ perciò che hanno avuto cura di far “partecipare”, in maniera ostentata, visibile a tutti, dei “non sindacalizzati” (operai sinceri ingenui, o fiancheggiatori dei sindacati) nelle differenti “istanze della lotta”, come gli autoproclamati “comitati di sciopero”. Così la presa dei sindacati sulla classe operaia potrà rafforzarsi allo stesso tempo in cui la fiducia nella propria forza, cioè nella capacità di entrare in lotta da sola, diminuirà per un lungo momento. Questa ricredibilizzazione dei sindacati costituiva per la borghesia un obiettivo fondamentale, una condizione indispensabile prima di portare avanti i prossimi attacchi che saranno ancora più brutali di quelli di oggi. E’ solo a questa condizione che essa può sperare di sabotare le lotte che non mancheranno di scoppiare al momento di questi attacchi. E’ questo sicuramente uno degli aspetti essenziali della sconfitta politica che la borghesia ha inflitto alla classe operaia.
Un altro beneficiario della manovra della borghesia è la sinistra del capitale. Le elezioni presidenziali del maggio 1995 in Francia hanno piazzato tutte le forze di sinistra all’opposizione. Non essendo di conseguenza direttamente responsabili della decisione sugli attacchi attuali esse hanno avuto le mani libere per denunciarli e tentare di far dimenticare che esse stesse, PS e PC dal 1984, e PS da solo in seguito, hanno portato avanti la stessa politica antioperaia. Si è trattato dunque di una divisione del lavoro, destra al potere, sinistra all’opposizione, che ha permesso questa manovra: la destra era incaricata di assumere la responsabilità degli attacchi antioperai, la sinistra all’opposizione di mistificare il proletariato, di inquadrare e di sabotare le sue lotte, fondamentalmente attraverso le sue cinghia di trasmissione sindacale.
Un altro obiettivo importante che la borghesia si era prefisso era quello di far credere agli operai, sulla base della sconfitta di una lotta che si era estesa a diversi settori, che la estensione non serve a niente. In effetti frazioni importanti della classe operaia credono di aver realizzato l’allargamento della lotta agli altri settori (5), cioè quello verso cui avevano teso le lotte operaie dal 1968 fino al crollo del blocco dell’est. E’ su queste acquisizione delle lotte dal 1968 che la borghesia si è appoggiata per trascinare i lavoratori dei centri di smistamento postale nella manovra, come mostrano gli argomenti utilizzati per farli mobilitare:
“Gli operai delle Poste sono stati vinti nel 1974 perché essi sono rimasti isolati. Lo stesso i ferrovieri nel 1986, perché non sono riusciti ad estendere il loro movimento. Oggi, bisogna cogliere l’occasione che si presenta.” Sono queste acquisizioni che erano nella linea di tiro della manovra, per snaturarle.
E’ ancora troppo presto per valutare l’importanza dell’impatto di questo aspetto della manovra (mentre la ricredibilizzazione dei sindacati è, fin da ora, incontestabile).
Ma è chiaro che la confusione nella classe operaia rischia di essere rafforzata dal fatto che il settore dei ferrovieri, solo quello, ha ottenuto soddisfazione sulla rivendicazione che lo aveva fatto scendere in lotta, il ritiro del “piano di impresa” e degli attacchi sull’accesso alla pensione. Così l’illusione che si può ottenere qualcosa lottando solo nel proprio settore si sviluppa e costituisce un potente stimolo alla diffusione del corporativismo. Senza parlare della divisione che si crea così nelle fila degli operai quando coloro che sono scesi in lotta dietro i ferrovieri, e che non hanno ottenuto nulla, cominciano a provare il sentimento di essere stati mollati.
Da questo punto di vista, sono notevoli le analogie con un’altra manovra, quella che ha diretto la lotta negli ospedali nell’autunno 1988. Allora lo scopo era smorzare il crescere della combattività nell’insieme della classe operaia facendo scoppiare prematuramente la lotta in un settore particolare, quello delle infermiere. Queste, organizzate all’interno del coordinamento omonimo, ultracorporativo, organismo prefabbricato dalla borghesia per rimpiazzare i troppo screditati sindacati, si sono viste al termine della lotta accordare un certo numero di vantaggi sotto forma di aumenti salariali (il miliardo di franchi che il governo aveva previsto a tal fine già prima dell’inizio dello sciopero). Gli altri lavoratori degli ospedali, che erano massicciamente scesi in lotta contemporaneamente alle infermiere, loro non hanno ottenuto niente. Quanto alla combattività negli altri settori, essa è ricaduta, risultato dello sconcerto degli operai di fronte all’atteggiamento elitario e corporativo delle infermiere.
Infine, con il sottolineare così spesso e con tanta insistenza una pretesa somiglianza tra questo movimento e quello del maggio 1968, la borghesia cercava, come già abbiamo detto, di far cadere nella trappola il maggior numero possibile di operai. Ma era anche un modo di attaccare la coscienza degli operai: In effetti, per milioni di operai il maggio 1968 resta un punto di riferimento, anche per coloro che non vi hanno partecipato perché troppo giovani o non ancora nati, o perché di altri paesi ma che sono stati all’epoca entusiasmati da questa prima manifestazione del risorgere del proletariato sul suo terreno di classe, dopo quaranta anni di controrivoluzione. Queste generazioni di operai o frazioni della classe operaia che non hanno direttamente vissuto questi eventi, più vulnerabili all’intossicazione ideologica su questa questione, erano il particolare bersaglio della borghesia, che cercava di far pensare loro che alla fine il maggio 1968 non poteva essere stato troppo diverso dallo sciopero sindacale di oggi. Così, ancora una volta si tratta di un attacco all’identità stessa della classe operaia, non tanto a fondo come quello sulla “morte del comunismo”, ma che costituisce un ulteriore ostacolo sulla via del recupero del riflusso che ha seguito il crollo del blocco dell’Est.
LE VERE LEZIONI DA TIRARE DA QUESTI EVENTI
La prima lezione che la CCI ha tirato dalla manovra della lotta delle infermiere nel 1968 (6), resta ancora tragicamente attuale: “E’ importante sottolineare la capacità della borghesia di agire in modo preventivo ed in particolare di provocare prematuramente lo scoppio di movimenti sociali, quando ancora non esiste nell’insieme del proletariato una maturità sufficiente che permetta di arrivare ad una reale mobilitazione. Questa tattica è già stata spesso impiegata nel passato dalla classe dominante, in particolare nelle situazioni in cui le poste in gioco erano ben più cruciali di quelle del periodo attuale. L’esempio più significativo ci è fornito da ciò che successe a Berlino nel gennaio 1919 quando, a seguito di una provocazione decisa dal governo socialdemocratico, gli operai di questa città si erano sollevati mentre quelli della provincia non erano ancora pronti a lanciarsi nell’insurrezione. Il massacro dei proletari (così come la morte dei due principali dirigenti del Partito comunista tedesco: Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) derivatone sferrò un colpo fatale alla rivoluzione in questo paese in cui, poi, la classe operaia è stata sconfitta pezzo dopo pezzo.”
Di fronte ad un tale pericolo è importante che la classe operaia possa quanto più ampiamente possibile tirare gli insegnamenti dalle sue esperienze a livello storico, come a livello delle sue lotte dell’ultimo decennio.
Un altro insegnamento importante è che la lotta di classe è una delle maggiori preoccupazioni della borghesia internazionale, e che, su questo piano, come ha già mostrato la sua reazione di fronte alle lotte del 1980 in Polonia, essa sa dimenticare le proprie divisioni. Silenzio totale sui movimenti che si svolgono su di un terreno di classe e rischiano di avere un effetto di trascinamento da un paese all’altro, o almeno di influenzare positivamente gli operai. Al contrario, la massima pubblicità è data, da un paese all’altro, ai risultati delle manovre contro la classe operaia. Non bisogna farsi illusioni, il diffondersi del ciascuno per sé, nella guerra commerciale e le rivalità imperialiste, non va minimamente ad attaccare l’unità internazionale di cui sa dare prova la borghesia contro la lotta di classe.
Ciò che mostrano ancora i recenti scioperi in Francia è che l’estensione delle lotte nelle mani dei sindacati è un’arma della borghesia. E più una tale estensione si fa ampia, più è estesa e profonda la sconfitta inflitta agli operai che essa permette. Ogni volta che i sindacati chiamano all’estensione, o è perché sono costretti a rincorrere un movimento che si sviluppa, per non essere scavalcati, o per spingere nella sconfitta un maggior numero di operai, allorché la dinamica della lotta comincia a invertire la rotta. E’ ciò che essi avevano fatto all’epoca dello sciopero dei ferrovieri in Francia all’inizio del 1987 quando essi hanno chiamato alla “estensione” e all’ “indurimento” del movimento, non al momento dell’inizio della lotta (alla quale si erano apertamente opposti), ma a quello del suo declino, allo scopo di coinvolgere quanti più settori possibili della classe operaia dietro la sconfitta dei ferrovieri. Queste due situazioni mettono in evidenza la necessità imperativa per gli operai di controllare le loro lotte, dall’inizio alla fine. Sono le loro assemblee generali sovrane che devono farsi carico dell’estensione, affinché questa non cada nelle mani dei sindacati. Evidentemente costoro non lasceranno fare, ma bisogna imporre che il confronto con loro si svolga in piena luce, nelle assemblee generali sovrane, che eleggono dei delegati revocabili invece di essere dei semplici assembramenti manipolati a modo loro dai sindacati come è stato nell’attuale ondata di scioperi.
Ma il controllo della loro lotta da parte degli operai passa necessariamente attraverso la centralizzazione di tutte le loro assemblee che inviano i loro delegati ad una assemblea centrale. A sua volta essa elegge un comitato centrale di lotta, E’ questa assemblea che garantisce in permanenza l’unità della classe e che permette un’attuazione coordinata delle modalità della lotta: se in tal giorno è opportuno o no fare sciopero, quali settori devono fare sciopero, ecc. E’ essa egualmente che deve decidere della ripresa generale del lavoro, del ripiego in buon ordine quando il rapporto di forze immediato lo necessita. Ciò non è un’illusione, né un’astrazione, né un sogno. Un tale organismo di lotta, Il Soviet, gli operai russi lo hanno fatto sorgere negli scioperi di massa del 1905, poi nel 1917, durante la rivoluzione. La centralizzazione della lotta da parte del Soviet, è una delle lezioni essenziali di questo primo movimento rivoluzionario del secolo e di cui gli operai nelle loro lotte future si devono riappropriare. Ecco cosa diceva Trotsky nel suo libro 1905: “Cos’era, dunque, il Soviet? Il Consiglio degli deputati operai sorse come risposta ad un bisogno oggettivo, generato dalle contingenze del momento. Occorreva un’organizzazione che godesse di un’indiscussa autorità, fosse immune da qualsiasi tradizione, raccogliesse immediatamente le folle sparse e slegate; questa organizzazione (...) doveva avere iniziativa e insieme autocontrollo automatico. L’essenziale era di poterla far sorgere nelle ventiquattro ore (...) per godere di autorità sulle masse fin dal suo nascere, essa doveva essere costituita sulla piattaforma di una vasta rappresentanza. Con quale criterio? La risposta veniva da sé. Siccome l’unico legame tra le masse proletarie, prive di organizzazione, era il processo di produzione, non rimaneva che dare il diritto di rappresentanza alla fabbriche e alle officine.” (7).
Se il primo esempio di una tale centralizzazione vivente di un movimento della classe ci viene da un periodo rivoluzionario, ciò non significa che sia unicamente in tale periodo che la classe operaie possa centralizzare la sua lotta. Lo sciopero di massa degli operai in Polonia nel 1980, se non ha dato vita a dei soviet, che sono degli organi della presa di potere, ciò nondimeno fornisce un’esemplare illustrazione. Rapidamente, fin dall’inizio dello sciopero, le assemblee generali hanno inviato dei delegati (in generale due per fabbrica) ad un’assemblea centrale, il MKS, per tutta una regione. Questa assemblea si riuniva ogni giorno nei locali della fabbrica faro della lotta, i cantieri navali Lenin di Danzica ed i delegati rendevano poi conto delle sue deliberazioni alle assemblee di base che li avevano eletti e che prendevano posizione su queste decisioni. In un paese in cui le lotte precedenti della classe operaie erano state impietosamente schiacciate nel sangue, la forza del movimento aveva paralizzato il braccio assassino del governo obbligandolo a venire a negoziare con il MKS nei suoi stessi locali. Evidentemente, se di punto in bianco gli operai polacchi nel 1980 erano riuscita a darsi una tale forma di organizzazione, era perché i sindacati ufficiali erano totalmente screditati poiché erano apertamente i poliziotti dello Stato staliniano (ed è la costituzione del sindacato “indipendente” Solidarnosc che ha di per sé permesso lo schiacciamento nel sangue degli operai nel dicembre 1981). E’ la migliore prova che non solo i sindacati non sono un’organizzazione, anche imperfetta, della lotta operaia, ma che essi costituiscono al contrario, finché possono seminare delle illusioni, il maggior ostacolo ad una vera organizzazione di questa lotta. Sono loro che con la loro presenza e la loro azione intralciano il movimento spontaneo della classe verso una auto-organizzazione, che nasce dai bisogni stessa della lotta.
Evidentemente, proprio a causa di tutto il peso del sindacalismo nei paesi centrali del capitalismo, non sarà subito la forma degli MKS, e tanto meno quella dei soviet, che le prossime lotte della classe prenderanno in questi paesi. Nondimeno questa deve loro servire di riferimento e di guida, e gli operai dovranno battersi perché le loro assemblee generali siano realmente sovrane e si pronuncino nel senso dell’estensione, del controllo e della centralizzazione del movimento in maniera autonoma. Le prossime lotte della classe operaia, e per un certo tempo ancora, sentiranno il peso del riflusso, che la borghesia sfrutterà con ogni sorta di manovre. Di fronte a questa situazione difficile della classe operaia, che però non mette in discussione la prospettiva di scontri decisivi tra borghesia e proletariato, l’intervento dei rivoluzionari è insostituibile. E perché esso sia il più efficace possibile, perché non favorisca, senza volerlo, i piani della borghesia, i rivoluzionari non devono farsi prendere, nelle loro analisi e nelle loro parole d’ordine, dalla pressione ideologica ambientale, e devono essere i primi a individuare e denunciare le manovre del nemico di classe.
L’ampiezza della manovra elaborata dalla borghesia in Francia, il fatto, in particolare, che essa si sia permessa di provocare degli scioperi massicci che non potranno che aggravare un po’ di più le sue difficoltà economiche, sono il segno che la classe operaia e la sua lotta non sono scomparse come amavano ripetere, per anni, gli “esperti” universitari al soldo del capitale. Essa dimostra che la classe dominante sa bene che gli attacchi sempre più brutali che dovrà portare provocheranno necessariamente delle lotte di grande ampiezza. Anche se oggi essa ha segnato un punto a suo favore, se ha riportato una vittoria politica, l’esito della battaglia non è ancora stato giocato. La borghesia non potrà, in particolare, impedire che il suo sistema economico affondi sempre più, né che i sindacati tornino a screditarsi, come fu lungo gli anni ottanta, man mano che essi saboteranno le lotte operaie. Ma la classe operaia non potrà vincere la sua battaglia se non sarà capace di comprendere la capacità del suo nemico, anche se appoggiata su un sistema moribondo, di seminare ostacoli, tra i più sottili e sofisticati, sul cammino della sua lotta.
BN, 23 dicembre 1995
NOTE
1. La C.G.T., cinghia di trasmissione del Partito Comunista;
F.O., “socialdemocratica”; la F.E.N., vicina al Partito Socialista, sindacato maggioritario nella scuola; la F.S.U., scissione della FEN, e più vicina al PC e all’estrema sinistra.
2. Dal nome del primo ministro incaricato di applicarlo. Questo piano comprende, tra l’altro, un insieme di attacchi riguardanti la Previdenza Sociale e la Sanità.
3. Bisogna notare che nel 1968 i sindacati facevano una sistematica barriera davanti alle fabbriche per impedire ogni contatto tra operai e studenti. All’epoca era tra questi ultimi che si parlava di più di “rivoluzione”, e soprattutto che si denunciavano di più i partiti di sinistra, PC e PS. Anche se non c’era nessun rischio che l’insieme della classe operaia potesse prendere in conto l’idea della rivoluzione (peraltro abbastanza fumosa nella testa degli studenti, movimento di natura piccolo-borghese), essendo ai primi passi di una ripresa della lotta dopo 4 decenni di controrivoluzione, i sindacati temevano potesse diventare ancora più difficile riprendere il controllo di una lotta operaia scoppiata al di fuori di loro e che aveva sorpreso l’insieme della borghesia.
4. Juppé aveva, a modo suo, contribuito a una partecipazione massiccia alle manifestazioni affermando, al momento della presentazione della sua manovra, che il governo non sarebbe sopravvissuto se fossero scese in campo due milioni di persone: la sera di ogni giornata di manifestazione i sindacati e gli organi di informazione facevano i conti per far vedere che ci si era vicini e che si poteva raggiungere questo risultato.
5. E’ quello che esprimono chiaramente queste idee di un macchinista: “Io mi sono lanciato nella lotta come macchinista. Il giorno dopo mi sentivo innanzitutto un ferroviere. Poi ho indossato l’abito dell’impiegato statale. E ora mi sento semplicemente un salariato, come i dipendenti privati che vorrei si unissero al movimento... Se io mi fermassi domani, non potrei più guardare in faccia un impiegato delle poste” (Le Monde del 12 e 13 dicembre).
6. Vedere il nostro opuscolo sulla lotta delle infermiere.
7. Vedere il nostro articolo “Rivoluzione del 1905: insegnamenti fondamentali per il proletariato” nella Révue Internationale n° 43.
1) Il riconoscimento da parte dei comunisti del carattere storicamente limitato del modo di produzione capitalista, della crisi irreversibile nella quale si trova oggi questo sistema, costituisce la solida base sulla quale si fonda la prospettiva rivoluzionaria della lotta proletaria. In questo senso tutti i tentativi, come quelli attuali, fatti dalla borghesia e dai suoi lacché per far credere che l’economia mondiale “sta uscendo dalla crisi” o che alcune economie nazionali “emergenti” potranno sostituire vecchi settori economici superati, costituiscono un attacco in piena regola contro la coscienza proletaria.
2) I discorsi ufficiali sulla “ripresa” enfatizzano l’evoluzione degli indici della produzione industriale o il raddrizzamento dei profitti delle imprese. Se effettivamente, ed in particolare nei paesi anglosassoni, si è assistito recentemente a tali fenomeni, è importante focalizzare su quali basi essi si fondano:
- la ripresa dei profitti deriva molto spesso, specie per molte grandi imprese, da operazioni speculative; essa ha come rovescio della medaglia un nuovo aumento dei deficit pubblici; deriva infine dall’eliminazione dei “rami secchi”, cioè dei settori meno produttivi;
- il progresso della produzione industriale risulta per buona parte da un aumento notevole della produttività del lavoro basata su di una utilizzazione massiccia della automatizzazione e dell’informatica.
E’ per queste ragioni che una delle caratteristiche maggiori della “ripresa” attuale, è che essa non è stata capace di creare posti di lavoro, di far diminuire in modo significativo la disoccupazione o anche il lavoro precario che, al contrario, non fa che estendersi, perché il capitale sta sempre attento a mantenere le mani libere per poter gettare in strada, in ogni momento, la forza lavoro in eccesso.
3) Se è prima di tutto un attacco contro la classe operaia, un brutale fattore di sviluppo della miseria e dell’emarginazione, la disoccupazione costituisce anche un indice di primaria importanza della debolezza del capitalismo. Il capitale vive dello sfruttamento del lavoro vivo: mettere in disuso interi settori dell’apparato industriale, e ancor più, buttare in strada una notevole proporzione della forza lavoro rappresenta una vera e propria automutilazione per il capitale. E’ il segno del fallimento totale del modo di produzione capitalista la cui funzione storica era proprio di estendere il salariato a livello mondiale. Questo crollo definitivo del capitalismo si manifesta egualmente nell’indebitamento drammatico degli Stati, fenomeno che ha conosciuto nel corso degli ultimi anni una nuova fiammata: tra il 1989 ed il 1994, il debito pubblico è passato dal 53% al 65% del Prodotto Interno Lordo negli Stati Uniti, dal 57% al 73% in Europa fino a raggiungere il 142% nel caso del Belgio. Nei fatti, gli Stati capitalisti sono impossibilitati a pagare. Se fossero sottoposti alle stesse leggi delle imprese private, avrebbero già dovuto dichiarare ufficialmente fallimento. Questa situazione non fa che esprimere il fatto che il capitalismo di Stato costituisce la risposta che il sistema oppone alla sua situazione di stallo, ma una risposta che non è in alcun modo una soluzione e che non può servire in eterno.
4) I tassi di crescita, talvolta a due cifre, delle famose “economie emergenti” non riescono affatto a contraddire la constatazione del crollo generale dell’economia mondiale. Essi sono il risultato dell’arrivo massiccio di capitali attirati dal costo incredibilmente basso della forza lavoro in questi paesi, da uno sfruttamento brutale dei proletari, da ciò che la borghesia pudicamente chiama le “dislocazioni”. Tutto ciò significa che questo sviluppo economico non può che danneggiare la produzione dei paesi più avanzati, i cui Stati sempre più si ergono contro le “pratiche commerciali sleali” di questi paesi “emergenti”. Inoltre, le prestazioni spettacolari che ci si compiace di evidenziare ricoprono molto spesso uno scollamento di interi settori di questi paesi: il “miracolo economico” della Cina significa più di 250 milioni di disoccupati nell’anno 2000. Infine, il recente crollo finanziario di un altro paese “esemplare”, il Messico, la cui moneta ha perso la metà del suo valore dall’oggi al domani, che ha avuto bisogno di una iniezione urgente di quasi 50 miliardi di dollari di credito (di gran lunga la più grande operazione di “salvataggio” della storia del capitalismo) riassume la realtà del miraggio che costituisce “l’emergere” di alcuni paesi del terzo mondo. Le economie “emergenti” non sono la nuova speranza dell’economia mondiale. Esse non sono che delle manifestazioni, tanto fragili quanto aberranti, di un sistema alla pazzia. E questa realtà è confermata dalla situazione dei paesi dell’Europa dell’Est, la cui economia si supponeva si sarebbe espansa al sole del liberalismo. Se alcuni paesi (come la Polonia) riescono per il momento a cavarsela, il caos che regna nell’economia della Russia (caduta di quasi il 30% della produzione in due anni, più del 2000% di aumento dei prezzi nello stesso periodo) mostrano in modo brutale fino a che punto fossero falsi i discorsi che si erano ascoltati nel 1989. Lo stato della economia russa è talmente catastrofico, che la Mafia che ne controlla una buona parte degli ingranaggi, appare non come un parassita, come in alcuni paesi occidentali, ma come un pilastro che le assicura un minimo di stabilità.
5) Infine, lo stato di potenziale fallimento nel quale si trova il capitalismo, il fatto che non può vivere eternamente mettendo a rischio l’avvenire, tentando di aggirare la saturazione generale e definitiva dei mercati con una fuga in avanti nell’indebitamento, fa pesare delle minacce sempre più forti sull’insieme del sistema finanziario mondiale. L’angoscia provocata dal fallimento della banca britannica Barings in seguito alle acrobazie di un “golden boy”, la follia che ha seguito l’annuncio della crisi del peso messicano, non commisurabile al peso dell’economia del Messico nell’economia mondiale, sono degli indici indiscutibili della reale angoscia che stringe la classe dominante di fronte alla prospettiva di una “vera catastrofe mondiale” delle sue finanze, secondo le parole del direttore del FMI. Ma questa catastrofe finanziaria non è altro se non il rivelatore della catastrofe nella quale è sprofondato il modo di produzione capitalista stesso e che precipita il mondo intero nelle più gravi convulsioni della sua storia.
6) Il terreno sul quale si manifestano più crudelmente queste convulsioni è quello degli scontri imperialisti. Sono passati appena cinque anni dal crollo del blocco dell’Est, dalle promesse di un “nuovo ordine mondiale” fatte dai capi dei principali paesi dell’occidente, e mai il disordine delle relazioni tra Stati è stato così eclatante. Anche se era basato sulla minaccia di uno scontro terrificante tra superpotenze nucleari, anche se queste due superpotenze non avevano mai smesso di affrontarsi per paesi interposti, “l’ordine di Yalta” conteneva un certo elemento “di ordine” per l’appunto. Non potendo fare una nuova guerra mondiale per il fatto che il proletariato dei paesi centrali non era imbrigliato, i due gendarmi del mondo facevano attenzione a mantenere in un quadro “accettabile” gli scontri imperialisti. A loro bastava precisamente evitare di seminare il caos e le distruzioni nei paesi avanzati ed in particolare in Europa, il terreno principale delle due guerre mondiali. Questo edificio è volato in pezzi. Con gli scontri sanguinosi nella ex-Yugoslavia, l’Europa ha cessato di essere un “santuario”. Contemporaneamente, questi scontri hanno posto in evidenza quanto era ormai difficile mettere in piedi un nuovo “equilibrio”, una nuova “divisione del mondo” successiva a quella di Yalta.
7) Se il crollo del blocco dell’Est era per buona parte imprevedibile, la scomparsa del suo rivale dell’Ovest non lo era affatto. Bisognava non capire nulla del marxismo (e ammettere la tesi di Kautsky, respinta dai rivoluzionari fin dalla prima guerra mondiale, di un “super-imperialismo”) per pensare che si poteva mantenere un solo blocco. Fondamentalmente tutte le borghesie sono rivali le une delle altre. Ciò si vede chiaramente nel campo commerciale in cui domina “la guerra di tutti contro tutti”. Le alleanze diplomatiche e militari non sono che la concretizzazione del fatto che nessuna borghesia può far prevalere i suoi interessi strategici sola nel suo angolo contro tutte le altre. Il solo cemento di tali alleanze è l’esistenza di un nemico comune, e non una sedicente “amicizia tra i popoli”; d’altronde di esse oggi si può constatare tutta l’elasticità e l’ipocrisia: mentre i nemici di ieri (come la Russia e gli Stati Uniti) si sono scoperti improvvisamente “amici”, le amicizie di vecchia data (come quella tra la Germania e gli Stati Uniti) fanno posto alla litigiosità. In questo senso, se gli eventi del 1989 significavano la fine della divisione del mondo uscita dalla seconda guerra mondiale, visto che la Russia perdeva ogni possibilità di dirigere un blocco imperialista, essi portavano in sé la tendenza alla ricostituzione di nuove costellazioni imperialiste. Tuttavia, se la sua potenza economica e la sua collocazione geografica designavano la Germania come solo paese in grado di succedere alla Russia nel ruolo di leader di un eventuale futuro blocco opposto agli Stati Uniti, la sua situazione militare è troppo debole per permetterle di realizzare fin da oggi una tale ambizione. E in mancanza di una formula di ricambio degli schieramenti imperialisti che succedano a quelli che sono stati spazzati via dai rovesciamenti del 1989, l’arena mondiale è sottomessa come mai prima ad una crisi economica di una gravità senza precedenti che inasprisce le tensioni militari, allo scatenamento del “ciascuno per sé”, di un caos che viene ad aggravare ancora la decomposizione generale del modo di produzione capitalista.
8) Così la situazione che succede alla fine dei due blocchi della “guerra fredda” è dominata da due tendenze contraddittorie - da un lato, il disordine, l’instabilità nelle alleanze tra Stati e, dall’altro, il processo di ricostituzione di due nuovi blocchi -, ma che non sono affatto complementari poiché la seconda non fa che aggravare la prima. La storia di questi ultimi anni lo dimostra in modo chiaro:
- la crisi e la guerra del Golfo del 1990-91, volute dagli Stati Uniti, rientrano nel tentativo del gendarme americano di mantenere la sua tutela sui vecchi alleati della guerra fredda, tutela che questi ultimi sono portati a rimettere in discussione con la fine della minaccia sovietica;
- la guerra in Yugoslavia è il risultato diretto dell’affermazione delle nuove ambizioni della Germania, principale istigatore della secessione slovena e croata che mette fuoco alle polveri nella regione;
- il seguito di questa guerra semina la discordia sia nella coppia franco-tedesca, associata nella leadership della Unione europea (che costituisce una prima pietra dell’edificio di un potenziale nuovo blocco imperialista), che nella coppia anglo-americana, la più antica e la più fedele che il 20° secolo abbia conosciuto.
9) Ancor più delle beccate tra il gallo francese e l’aquila tedesca, l’ampiezza delle infedeltà attuali nel matrimonio vecchio di 80 anni tra l’Algida Albione e lo zio Sam costituisce un indice innegabile dello stato di caos nel quale si trova oggi il sistema delle relazioni internazionali. Se, dopo il 1989, la borghesia britannica si era mostrata in un primo tempo la più fedele alleata della sua consorella americana, in particolare in occasione della guerra del Golfo, i pochi vantaggi che essa aveva tratto da questa fedeltà così come la difesa dei suoi interessi specifici nel Mediterraneo e nei Balcani, che la spingevano ad una politica pro-Serba, l’hanno portata a prendere delle distanze considerevoli dal suo alleato e a sabotare sistematicamente la politica americana di sostegno alla Bosnia. Con questa politica la borghesia britannica è riuscita a mettere in piedi una solida alleanza tattica con la borghesia francese con l’obiettivo di far aumentare la discordia nel tandem franco-tedesco, cosa alla quale questa ultima si è completamente prestata nella misura in cui la crescita in potenza del suo alleato tedesco le crea delle preoccupazioni. Questa nuova situazione si è in particolare concretizzata in una intensificazione della collaborazione militare tra la borghesia britannica e quella francese, per esempio col progetto di creazione di un’unità aerea comune e soprattutto con l’accordo che creava una forza inter-africana “di mantenimento della pace e di prevenzione delle crisi in Africa” che costituisce un mutamento spettacolare dell’atteggiamento britannico dopo il suo sostegno alla politica americana nel Ruanda volta a annullare l’influenza francese in questo paese.
10) Questa evoluzione dell’atteggiamento della Gran Bretagna, il cui disappunto si è espresso in particolare il 17 marzo in occasione dell’accoglienza da parte di Clinton di Jerry Addams, il capo del Sinn Fein irlandese, è uno degli eventi maggiori dell’ultimo periodo sulla scena mondiale. E’ rivelatore dello smacco che rappresenta per gli Stati Uniti l’evolversi della situazione nella ex-Yugoslavia, in cui l’occupazione del terreno direttamente da parte degli eserciti britannico e francese sotto l’uniforme della FORPRONU ha contribuito enormemente a sventare i tentativi americani di prendere posizione solidamente nella regione attraverso il suo alleato bosniaco. E’ significativo del fatto che la prima potenza mondiale trova sempre più difficoltà a giocare il suo ruolo di gendarme del mondo, ruolo sopportato sempre meno dalle altre borghesie che tentano di esorcizzare il passato, quando la minaccia sovietica li obbligava a sottostare ai diktat di Washington. Oggi c’è un indebolimento maggiore, cioè una crisi della leadership americana, che si conferma un po’ dappertutto nel mondo, emblematizzata nella pietosa partenza dei Marines dalla Somalia, 2 anni dopo il loro arrivo spettacolare e propagandistico. Questo indebolimento della leadership degli Stati Uniti permette di spiegare perché alcune potenze si permettono di venire a sfidarli nel loro orticello dell’America latina:
- tentativo delle borghesie francese e spagnola di promuovere una “transizione democratica” a Cuba CON Castro, e non SENZA di lui, come avrebbe voluto zio Sam;
- riavvicinamento della borghesia peruviana al Giappone, confermata con la recente rielezione di Fujimori;
- sostegno della borghesia europea, in particolare per il tramite della Chiesa, alla guerriglia zapatista del Chiapas, nel Messico.
11) In realtà, questo maggiore indebolimento della leadership americana esprime il fatto che la tendenza dominante, al momento attuale, non è tanto quella alla costituzione di un nuovo blocco, quanto piuttosto del “ciascuno per sé”. Per la prima potenza mondiale, dotata di una supremazia militare schiacciante, è molto più difficile dominare una situazione caratterizzata dalla instabilità generalizzata, dalla precarietà delle alleanze in tutti gli angoli del pianeta, piuttosto che dalla rigida disciplina degli Stati sotto la minaccia dei mastodonti imperialisti e dell’apocalisse nucleare. In una tale situazione di instabilità, è più facile per ogni potenza creare delle noie ai suoi avversari, sabotare le alleanze che le mettono in ombra, piuttosto che sviluppare per conto proprio delle alleanze solide e assicurarsi una stabilità sui propri territori. Una tale situazione favorisce evidentemente il gioco delle potenze di secondo piano nella misura in cui è sempre più facile seminare il caos che mantenere l’ordine. E una tale realtà è ulteriormente accentuata dallo sprofondare della società capitalista nella decomposizione generalizzata. E’ perciò che gli stessi Stati Uniti sono chiamati ad usare a iosa questo tipo di politica. E ciò può spiegare, per esempio, il sostegno americano alla recente offensiva turca contro i nazionalisti curdi nel Nord dell’Irak, offensiva che la tradizionale alleata della Turchia, la Germania, ha considerato come una provocazione e condannato. Non si tratta di una specie di “rovesciamento di alleanze” tra la Turchia e la Germania, ma di una pietra (di grosse dimansioni) gettata dagli Stati Uniti nel giardino di questa “alleanza” e che rivela l’importanza della posta che rappresenta per i due boss imperialisti un paese come la Turchia. Ugualmente è significativo della situazione attuale il fatto che gli Stati Uniti siano spinti ad impiegare in un paese come l’Algeria per esempio le stesse armi di un Gheddafi o un Komeini: il sostegno del terrorismo e dell’integralismo islamico. Ciò detto, in questa pratica di reciproca destabilizzazione delle rispettive posizioni tra gli Stati Uniti e gli altri paesi, non vi è uguaglianza: se la diplomazia americana può permettersi di intervenire in un gioco politico interno al paese come l’Italia (sostegno a Berlusconi), la Spagna (scandalo del GAL attizzato da Washington), il Belgio (affare Augusta) o la Gran Bretagna (opposizione degli “euroscettici”) a Major), il contrario non potrebbe accadere. In questo senso, la confusione che può manifestarsi in seno alla borghesia americana di fronte agli smacchi diplomatici o ai dibattiti interni su delle scelte strategiche delicate (per esempio, rispetto all’alleanza con la Russia) non ha niente a che vedere con le convulsioni politiche che possono scuotere gli altri paesi. E’ così per esempio che i dissensi manifestati all’epoca dell’invio dei 30.000 Marines ad Haiti sono segno non di reali divisioni ma essenzialmente di una divisione di compiti tra le cricche borghesi che porta ad accentuare le illusioni democratiche e che ha favorito l’arrivo di una maggioranza repubblicana al Congresso americano sostenuta dai settori dominanti della borghesia.
12) Malgrado la loro enorme superiorità militare ed il fatto che questa non può servire loro allo stesso grado del passato, benché siano obbligati a ridurre un po’ le loro spese di difesa di fronte ai loro bilanci in deficit, gli Stati Uniti nondimeno non rinunciano alla modernizzazione dei loro armamenti, ricorrendo ad armi sempre più sofisticate, in particolare portando avanti il progetto di “guerra stellare”. L’impiego della forza bruta, o la sua minaccia, costituisce il mezzo essenziale per la potenza americana di far rispettare la sua autorità (anche se non si priva di ricorrere ai mezzi della guerra economica: pressione sulle istituzioni internazionali come l’OMC, sanzioni commerciali, etc.). Il fatto che questa carta si riveli impotente, anzi fattore di un caos ancora maggiore, come si è visto all’indomani della guerra del Golfo e come è stato ultimamente illustrato dalla Somalia, non fa che confermare il carattere insuperabile delle contraddizioni che attanagliano il mondo capitalista. L’attuale, considerevole rafforzamento del potenziale militare di potenze come la Cina ed il Giappone, che cercano di concorrere con gli Stati Uniti nell’Asia del sud-est e nel Pacifico, non può evidentemente che spingere questo ultimo paese verso lo sviluppo e l’impiego dei suoi armamenti.
13) Il sanguinoso caos nei rapporti imperialisti che caratterizza la situazione del mondo oggi, trova il suo terreno prediletto nei paesi della periferia, ma l’esempio della ex-Yugoslavia a poche centinaia di chilometri dalle grandi concentrazioni industriali europee prova che questo caos si avvicina ai paesi centrali. Alle decine di migliaia di morti provocati dagli scontri in Algeria in questi ultimi anni, ai milioni di cadaveri dei massacri del Rwanda fanno eco le centinaia di migliaia di uccisi in Croazia ed in Bosnia. Nei fatti sono a decine che si contano le zone di scontri sanguinosi nel mondo in Africa, in Asia, in America latina, in Europa, testimonianza dell’indicibile caos che il capitalismo in decomposizione produce nella società. In questo senso la complicità pressappoco generale che avvolge i massacri perpetuati in Cecenia da parte dell’esercito russo, che tenta di frenare lo scoppio della Russia che seguirebbe alla dislocazione della vecchia URSS, sono rivelatori dell’inquietudine che prende la classe dominante di fronte alla prospettiva dell’intensificarsi di questo caos. Bisogna affermarlo chiaramente: solo il rovesciamento del capitalismo da parte del proletariato può impedire che questo caos crescente porti alla distruzione della umanità.
14) Più che mai la lotta del proletariato rappresenta la sola speranza di futuro per la società umana. Questa lotta che era risorta con energia alla fine degli anni 60, ponendo fine alla più terribile controrivoluzione che abbia conosciuto la classe operaia, ha subito un rinculo considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l’hanno accompagnato e l’insieme degli eventi (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, etc.) che l’hanno seguito. E’ sui due piani della sua combattività e della sua coscienza che la classe operaia ha subito, in modo massiccio, questo rinculo, senza che ciò rimetta in causa tuttavia, come la CCI aveva già affermato a quella data, il corso storico verso gli scontri di classe. Le lotte condotte nel corso degli ultimi anni da parte del proletariato sono venute a confermare quanto precede. Esse hanno testimoniato, particolarmente dopo il 1992, la capacità del proletariato di riprendere il cammino della lotta di classe, confermando così che il corso storico non era stato rovesciato. Sono altrettanto testimonianza delle enorme difficoltà che incontra su questo cammino, della profondità e dell’estensione del suo rinculo. E’ in modo sinuoso, con dei passi avanti e dei passi indietro, in un movimento a denti di sega che si sviluppano le lotte operaie.
15) I massicci movimenti in Italia nell’autunno 1992, quelli in Germania del 1993 e molti altri esempi hanno dato conto del potenziale di combattività che cresceva nelle fila operaie. Poi questa combattività si è espressa lentamente, con dei lunghi momenti di assopimento, ma non si è smentita. Le mobilitazioni di massa nell’autunno 1994 in Italia, la serie di scioperi nel settore pubblico in Francia nella primavera 1995, sono delle manifestazioni, tra l’altro, di questa combattività. Tuttavia, è importante mettere in evidenza che la tendenza verso il superamento dei sindacati che si era espresso nel 1992 in Italia non si è confermato nel 1994 quando la manifestazione “fenomeno” fu un capolavoro di controllo sindacale. Inoltre, la tendenza all’unificazione spontanea, in piazza, che era comparsa (sebbene in maniera embrionale) nell’autunno 1993 nella Ruhr in Germania ha poi lasciato il posto a delle manovre sindacali di grande ampiezza, quali lo “sciopero” dei metallurgici all’inizio del 1995, perfettamente controllato dalla borghesia, Ugualmente, i recenti scioperi in Francia, nei fatti giornate d’azioni dei sindacati, hanno costituito un successo per questi ultimi.
16) Oltre alla profondità del rinculo subito nel 1989, le difficoltà che prova oggi la classe operaia per avanzare sul suo terreno sono il risultato di tutta una serie di ostacoli supplementari promossi o utilizzati dalla classe nemica. E’ nel quadro del peso negativo che esercita la decomposizione generale del capitalismo sulle coscienze operaie, demolendo la fiducia del proletariato in sé stesso e nella prospettiva della sua lotta, che è importante collocare queste difficoltà. Più concretamente, la disoccupazione di massa e permanente che si sviluppa oggi, se è un segno indiscutibile del fallimento del capitalismo, ha per effetto maggiore quello di provocare una forte demoralizzazione, una enorme disperazione in settori importanti della classe operaia di cui alcuni sono caduti nell’emarginazione e nella lumpenizzazione. Questa disoccupazione ha egualmente per effetto quello di servire da strumento di ricatto e di repressione della borghesia verso i settori operai che ancora hanno lavoro. Inoltre, i discorsi sulla “ripresa” ed i pochi risultati positivi (in termini di profitto e di tassi di crescita) che conosce l’economia dei principali paesi, sono ampiamente messi a frutto per consentire i discorsi dei sindacati sul tema : “i padroni possono pagare”: Questi discorsi sono particolarmente pericolosi nel senso che amplificano le illusioni riformiste degli operai, rendendoli molto più vulnerabili all’inquadramento sindacale, nel senso che sottendono l’idea che se i padroni “non possono pagare”, non serve a niente lottare, il che è un fattore supplementare di divisione (oltre alla divisione tra disoccupati e operai al lavoro) tra i vari settori della classe operaia che lavorano in settori toccati in maniera diversa dagli effetti della crisi.
17) Questi ostacoli hanno favorito la ripresa del controllo da parte dei sindacati sulla combattività operaia, canalizzandola in “azioni” che essi controllano completamente. Tuttavia le attuali manovre dei sindacati hanno anche, e soprattutto, uno scopo preventivo: si tratta per loro di rafforzare la loro presa sugli operai prima che si sviluppi molto di più la loro combattività, combattività che deriverà necessariamente dalla loro crescente collera di fronte agli attacchi sempre più brutali della crisi.
Bisogna anche sottolineare il cambiamento recente in un certo numero di discorsi della classe dominante. Mentre i primi anni dopo il crollo del blocco dell’Est sono stati dominati dalle campagne sul tema della “morte del comunismo”, “l’impossibilità della rivoluzione”, si assiste oggi ad un certo ritorno alla moda dei discorsi favorevoli al “marxismo”, alla “rivoluzione”, al “comunismo” da parte dei gauchistes, evidentemente, ma anche da altri settori. Si tratta anche qui di una misura preventiva da parte della borghesia destinata a deviare la riflessione della classe operaia che tenderà a svilupparsi di fronte al fallimento sempre più evidente del modo di produzione capitalista. Tocca ai rivoluzionari, nel loro intervento, denunciare con il massimo vigore possibile sia le manovre ignobili dei sindacati sia questi discorsi presunti “rivoluzionari”: Spetta a loro porre in avanti la vera prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo come la sola uscita che può salvare l’umanità e come risultato ultimo delle lotte operaie.
CCI
Si è tenuto l'11° Congresso internazionale della CCI. Nella misura in cui le organizzazioni comuniste sono una parte del proletariato, un prodotto storico di questo e allo stesso tempo parte pregnante e fattore attivo della lotta per la sua emancipazione, i congressi di queste, che ne rappresentano le istanze supreme, sono un momento di primaria importanza per la classe operaia. Per questo i comunisti hanno il dovere di render conto di questo momento essenziale della vita della propria organizzazione.
Le delegazioni venute da 12 paesi (1), che rappresentano più di un miliardo e mezzo di abitanti e soprattutto le maggiori concentrazioni proletarie del mondo (Europa occidentale e America del nord), hanno discusso, tirato delle lezioni e tratto degli orientamenti sulle questioni essenziali alle quali è confrontata la nostra organizzazione. L'ordine del giorno di questo congresso comprendeva essenzialmente due punti: le attività ed il funzionamento della nostra organizzazione, la situazione internazionale (2). Ma il primo punto è quello che senza dubbio ha occupato maggiore spazio e suscitato i dibattiti più appassionati. Ciò è dovuto anche al fatto che la CCI è stata confrontata a delle difficoltà di tipo organizzativo molto importanti che necessitavano una mobilitazione di tutte le sezioni e di tutti i militanti.
I problemi organizzativi nella storia del movimento operaio...
L'esperienza storica delle organizzazioni rivoluzionarie del proletariato dimostra che le questioni relative al funzionamento sono questioni politiche a tutti gli effetti e pertanto meritano la più grande attenzione e riflessione.
Sono numerosi nel movimento operaio gli esempi che dimostrano l'importanza della questione organizzativa ma possiamo evocare in particolare quello dell'AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori, chiamata anche più tardi I Internazionale) e quello del 2° Congresso del Partito Operaio Social Democratico Russo (POSDR) tenuto nel 1903.
L'AIT era stata fondata nel settembre del 1864 a Londra per iniziativa di un certo numero di operai inglesi e francesi. Essa si era data fin dall'inizio una struttura di centralizzazione, il Consiglio centrale che, dopo il congresso di Ginevra del 1866, si chiamerà Consiglio generale. All'interno di questo organo Marx giocherà un ruolo di primo piano poiché sarà incaricato di scrivere un gran numero di testi fondamentali, come l'Indirizzo Inaugurale dell'AIT, i suoi statuti e l'Indirizzo sulla Comune di Parigi (La guerra civile in Francia) del maggio 1871. Rapidamente l'AIT ("Internazionale" come la chiamavano allora gli oprerai) è divenuta una "potenza" nei paesi avanzati (soprattutto quelli dell'Europa occidentale). Fino alla Comune di Parigi del 1871, essa ha raggruppato un numero crescente di operai ed ha costituito un fattore di primo piano nello sviluppo delle due armi essenziali del proletariato: la sua organizzazione e la sua coscienza. Per questo motivo essa sarà l'oggetto di attacchi feroci da parte della borghesia: calunnie sulla stampa, infiltrazioni di spie, persecuzioni contro i suoi membri, ecc. Ma ciò che ha fatto correre il maggior pericolo all'AIT sono stati gli attacchi di alcuni dei suoi propri membri contro il modo di organizzazione dell'Internazionale stessa.
Già al momento della fondazione dell'AIT gli statuti provvisori, di cui si era dotata, vengono tradotti dalle sezioni parigine, fortemente influenzate dalle concezioni federaliste di Proudhon, in modo tale da attenuare considerevolmente il carattere centralizzato dell'Internazionale. Ma gli attacchi più pericolosi verranno più tardi con l'entrata nei ranghi dell'AIT dell'"Alleanza della democrazia socialista", fondata da Bakunin e che troverà terreno fertile in alcuni settori importanti dell'Internazionale per le debolezze che pesavano ancora su di essa dovute all'immaturità del proletariato dell'epoca, un proletariato che non si era ancora liberato delle vestigia della tappa precedente del suo sviluppo.
"La prima fase della lotta del proletariato contro la borghesia è marcata dal movimento settario. Esso ha la sua ragione d'essere in una epoca in cui il proletariato non si è ancora sviluppato abbastanza da agire come classe. Dei pensatori individuali fanno la critica degli antagonismi sociali e ne danno soluzioni fantastiche che la massa degli operai non ha che da accettare, propagandare e mettere in pratica. Per la loro stessa natura le sette formate da questi iniziatori sono astensioniste, estranee ad ogni azione reale, alla politica, agli scioperi, alle coalizioni, in una parola, ad ogni movimento di insieme. La massa del proletariato resta sempre indifferente o anche ostile alla loro propaganda... Queste sette sorte dal movimento alle sue origini, gli fanno da ostacolo quando questo le sorpassa; allora esse diventano reazionarie... Infine, esse rappresentano l'infanzia del movimento proletario come l'astrologia e l'alchimia rappresentano l'infanzia della scienza. Perché fosse possibile la fondazione dell'Internazionale era necessario che il proletariato superasse questa fase.
Di fronte alle organizzazioni cervellotiche ed antagoniste delle sette l'Internazionale è l'organizzazione reale e militante della classe dei proletari in tutti i paesi, legati gli uni agli altri, nella loro lotta comune contro i capitalisti, i proprietari fondiari e il loro potere di classe organizzato nello Stato. Per questo gli statuti dell'Internazionale non riconoscono che semplici società "operaie" che perseguono tutte lo stesso scopo e accettano tutte lo stesso programma che si limita a tracciare le grandi linee del movimento proletario e ne lascia l'elaborazione teorica all'impulso dato dalle necessità della lotta pratica ed allo scambio di idee che si fa, nelle sezioni, ammettendo indistintamente tutte le convinzioni socialiste nei loro organi ed i loro congressi.
Così come in ogni nuova fase storica i vecchi errori riappaiono un istante per scomparire subito dopo; allo stesso modo l'Internazionale ha visto rinascere al suo interno delle sezioni settarie..." (Le pretese scissioni nell'Internazionale, capitolo IV, circolare del Consiglio generale del 5 marzo 1872).
Questa debolezza era particolarmente accentuata nei settori più arretrati del proletariato europeo, là dove esso era appena uscito dall'artigianato e dal lavoro nei campi, in particolare nei paesi latini. Sono queste debolezze che Bakunin, entrato nell'Internazionale solo nel 1868, dopo il fallimento della "Lega della Pace e della Libertà" (di cui era uno dei principali animatori e che raggruppava dei repubblicani borghesi), ha utilizzato per tentare di sottometterla alle sue concezioni "anarchiche" e per prenderne il controllo. Lo strumento di questa operazione era l'"Alleanza della democrazia socialista", che lui aveva fondato come minoranza della "Lega della Pace e della Libertà". Questa era una società contemporaneamente pubblica e segreta e che si proponeva in realtà di formare una internazionale nell'Internazionale. La sua struttura segreta e la concertazione che permetteva tra i suoi membri doveva assicurargli la "enucleazione" di un massimo di sezioni dell'AIT, quelle dove le concezioni anarchiche avevano più eco. In sé l'esistenza di più correnti di pensiero all'interno dell'AIT non era un problema (3). Al contrario l'azione dell'Alleanza che tendeva a sostituirsi alla struttura ufficiale dell'Internazionale, ha costituito un grave fattore di disorganizzazione di questa ed un pericolo per la sua sopravvivenza. L'Alleanza aveva tentato di prendere il controllo dell'Internazionale al Congresso di Basilea nel settembre del 1869. E' in vista di questo obiettivo che i suoi membri, in particolare Bakunin e James Guillaume, avevano appoggiato calorosamente una mozione amministrativa che rafforzava il potere del Consiglio generale. Ma l'Alleanza, che per parte sua si era dotata di statuti segreti basati su di una centralizzazione estrema, avendo fallito cominciò a fare campagne contro la "dittatura" del Consiglio generale che essa voleva ridurre al ruolo di "un ufficio di corrispondenza e di statistiche" secondo i termini dell'Alleanza), di una "buca per lettere" (come rispondeva Marx). Contro il principio della centralizzazione come espressione dell'unità internazionale del proletariato, l'Alleanza preconizzava il "federalismo", la completa "autonomia delle sezioni" ed il carattere non obbligatorio delle decisioni dei congressi. Nei fatti essa voleva poter fare il proprio comodo nelle sezioni dove era riuscita a prendere il controllo. Ciò era la porta aperta alla disorganizzazione totale dell'AIT.
Il Congresso dell'Aia del 1872 dovette correre ai ripari contro questo pericolo. Esso dibattè della questione dell'Alleanza sulla base del rapporto di una commissione d'inchiesta e alla fine decise l'esclusione di Bakunin e di James Guillaume, principale responsabile della federazione del Giura dell'AIT che si trovava completamente sotto il controllo dell'Alleanza. Questo congresso fu contemporaneamente motivo d'orgoglio per l'AIT (tanto per capirne l'importanza, è il solo congresso al quale Marx abbia partecipato) e il suo canto del cigno, dato lo schiacciamento della Comune di Parigi e la demoralizzazione che questo provocò nel proletariato. Di questa realtà Marx ed Engels erano coscienti. E' per questo che, oltre alle misure che miravano a sottrarre l'AIT dalla presa dell'Alleanza, proposero lo spostamento del Consiglio generale a New York, lontano dai conflitti che dividevano sempre di più l'Internazionale. Era anche un modo per permettere all'AIT di morire di propria morte (sancita dalla conferenza di Philadelphia del luglio 1876) senza che il suo prestigio fosse recuperato dagli intriganti bakuninisti.
Questi ultimi, insieme agli anarchici, hanno in seguito perpetuato questa leggenda sostenendo che Marx ed il Consiglio generale avevano buttato fuori Bakunin e Guillaume per la loro diversa posizione sulla questione dello Stato (5) (quando non sono arrivati a piegare lo scontro tra Marx e Bakunin sulla base di problemi di personalità). Insomma, Marx avrebbe voluto regolare un disaccordo su di una questione teorica generale attraverso delle misure amministrative. Niente di più falso.
Al congresso dell'Aia non fu richiesta alcuna misura contro i membri della delegazione spagnola che pure condividevano la visione di Bakunin, avevano fatto parte dell'Alleanza ma avevano assicurato di non farvi più parte. Allo stesso modo l'AIT "anti-autoritaria" che si è formata dopo il congresso dell'Aia con le federazioni che avevano rigettato le sue decisioni, non erano costituite da soli anarchici dato che vi si trovavano, affianco a questi, dei lassalliani tedeschi strenui difensori del "socialismo di Stato", secondo i termini usati da Marx. In realtà la vera lotta all'interno dell'AIT era tra quelli che preconizzavano l'unità del movimento operaio (e di conseguenza il carattere obbligatorio delle decisioni dei congressi) e quelli che rivendicavano il diritto di fare quello che meglio gli pareva, ciascuno per proprio conto, considerando i congressi come delle semplici assemblee dove ci si doveva contentare di "scambiare delle opinioni" ma senza prendere decisioni. Con questo tipo di organizzazione informale l'Alleanza poteva assicurarsi, segretamente, la vera centralizzazione tra tutte le federazioni, come del resto era detto esplicitamente in alcune lettere di Bakunin. Spingere per delle concezioni "anti-autoritarie" nell'AIT era il modo migliore per dare spazio all'intrigo, al potere occulto ed incontrollato dell'Alleanza, cioè degli avventurieri che la dirigevano.
Il 2° Congresso del POSDR doveva essere l'occasione di uno scontro simile tra i partigiani di una concezione proletaria dell'organizzazione rivoluzionaria ed i partigiani di una concezione piccolo-borghese.
Ci sono delle similitudini tra la situazione del movimento operaio in Europa occidentale ai tempi dell'AIT e quella del movimento in Russia all'inizio del secolo. Nei due casi ci troviamo ad una tappa "infantile" di questo, il divario di tempo tra i due si spiega con il ritardo dello sviluppo industriale della Russia. L'AIT aveva voluto raggruppare in un'unica organizzazione le differenti associazioni operaie che lo sviluppo del proletariato aveva fatto sorgere. Il 2° congresso del POSDR aveva come obiettivo quello di una unificazione dei differenti comitati, gruppi e circoli, sviluppatisi in Russia ed in esilio, che si richiamavano alla Socialdemocrazia. Tra queste differenti formazioni non esisteva praticamente alcun legame formale dopo la scomparsa del comitato centrale uscito dal 1° congresso del POSDR nel 1897. Nel 2° congresso, come per l'AIT, si scontrarono una concezione dell'organizzazione che rappresentava il passato del movimento operaio, quella dei "menscevichi" (minoritaria), e una concezione che esprimeva le sue nuove esigenze, quella dei "bolscevichi" (maggioritari):
"Sotto il nome di minoranza si sono raggruppati nel Partito degli elementi eterogenei che hanno in comune il desiderio, cosciente o meno, di mantenere i rapporti di circolo, le forme di organizzazione anteriori al Partito. Alcuni compagni eminenti dei vecchi circoli, non essendo abituati a restrizioni in materia di organizzazione, che si impongono in ragione della disciplina di Partito, sono inclini a confondere macchinalmente gli interessi generali del Partito ed i loro interessi di circolo i quali, nel periodo dei circoli, potevano effettivamente coincidere" (Lenin, Un passo avanti e due indietro).
Come è stato confermato anche da esperienze successive (al momento della rivoluzione del 1905 e ancor più durante la rivoluzione del 1917, ad esempio, quando i menscevichi si sono posti al fianco della borghesia), la dinamica dei menscevichi era determinata dalla penetrazione, nella Social-democrazia russa, dell'influenza delle ideologie borghesi e piccolo-borghesi. In particolare, come nota Lenin: "Il grosso dell'opposizione (i menscevichi) è stata formata dagli elementi intellettuali del nostro Partito" che hanno costituito dunque un veicolo per le concezioni piccolo-borghesi in materia di organizzazione. Per questo motivo tali elementi "... alzano lo stendardo della rivolta contro le restrizioni indispensabili che esige l'organizzazione ed ergono il loro anarchismo spontaneo in principio di lotta, chiamando a torto questo anarchismo... rivendicazioni in favore della tolleranza, ecc." (Lenin, Un passi avanti e due indietro). In effetti, esistono molte similitudini tra il comportamento dei menscevichi e quello degli anarchici nell'AIT (a più riprese Lenin parla dell'"anarchismo da gran signori" dei menscevichi).
I menscevichi, come avevano fatto gli anarchici dopo il congresso dell'Aia, si rifiutarono di riconoscere e di applicare le decisioni del 2° congresso affermando che "il congresso non è una divinità" e che "le sue decisioni non sono sacrosante". In particolare, nello stesso modo in cui i seguaci di Bakunin entrarono in guerra contro i principi della centralizzazione e la "dittatura del Consiglio generale" quando i loro tentativi di prenderne il controllo fallirono, così una delle ragioni per cui i menscevichi, dopo il congresso, cominciarono a rigettare la centralizzazione sta nel fatto che alcuni di loro furono estromessi dagli organi centrali nominati a questo congresso. Ci sono delle somiglianze anche nel modo in cui i menscevichi condussero campagne contro la "dittatura personale" di Lenin, il suo "pugno di ferro" che fa eco alle accuse di Bakunin contro la "dittatura" di Marx sul Consiglio generale.
"Quando prendo in considerazione la condotta degli amici di Martov dopo il congresso (...) io posso solo dire che si tratta di un tentativo insensato, indegno dei membri del Partito, di dilaniare il Partito... E perché? Unicamente perché non si è contenti della composizione degli organi centrali, perché obiettivamente è unicamente questa questione che ci ha separati, gli apprezzamenti soggettivi (come offesa, insulto, espulsione, messa da parte, disonore, ecc) non erano altro che il frutto di un amor proprio ferito e di una immaginazione malata. Questa immaginazione malata e questo amor proprio ferito portano di filato al pettegolezzo più vergognoso: senza aver preso conoscenza dell'attività dei nuovi centri, nè averli ancora visti all'opera, si spargono voci sulle loro "carenze", sul "pugno di ferro" di Ivan Ivanovitch, sul "polso" di Ivan Nikiforovitch, ecc. (...). Alla socialdemocrazia russa resta un'ultima e difficile tappa da superare: dallo spirito di circolo allo spirito di partito; dalla mentalità piccolo-borghese alla coscienza del suo divenire rivoluzionario: dal pettegolezzo e dalla pressione dei circoli, considerati strumenti di azione, alla disciplina." ("Relazione del 2° congresso del POSDR").
Con l'esempio dell'AIT e quello del 2° congresso del POSDR, si può vedere tutta l'importanza delle questioni legate al modo di organizzazione delle formazioni rivoluzionarie. In effetti, è proprio intorno a queste questioni che si produceva una decantazione decisiva tra, da una parte la corrente proletaria e, dall'altra, le correnti piccolo-borghesi o borghesi. Questo non è casuale, ma deriva dal fatto che uno dei canali privilegiati per l'infiltrazione all'interno di queste formazioni delle ideologie delle classi estranee al proletariato, borghesia e piccola-borghesia, è proprio quello del loro modo di funzionamento.
La storia del movimento operaio è ricca di esempi di questo tipo. Se abbiamo evocato solo questi è evidentemente per una questione di spazio ma anche perché esistono delle somiglianza importanti, come vedremo, tra le circostanze storiche della costituzione dell'AIT, del POSDR e della CCI stessa.
...e nella storia della CCI
La CCI si è già soffermata più volte con attenzione su questo tipo di questione. Alla conferenza di fondazione, per esempio, nel gennaio 1975, dove fu esaminata la questione della centralizzazione internazionale (vedi il "Rapporto sulla questione dell'organizzazione della nostra corrente", Revue Internationale n.1). Un anno dopo, in occasione del suo primo congresso, la nostra organizzazione ci è ritornata su con l'adozione degli statuti (vedi l'articolo "Gli statuti delle organizzazioni rivoluzionarie del proletariato" Revue Internationale n.5). Infine, la CCI nel gennaio 1982 ha dedicato una conferenza internazionale straordinaria a questa questione in seguito alla crisi che essa aveva attraversato nel 1981 (6). Di fronte alla classe operaia ed all'ambiente politico proletario la CCI non ha nascosto le difficoltà incontrate agli inizi degli anni 80. Così ne parlava la risoluzione adottata al 5° congresso e citata nella Revue Internationale n.35:
"Dopo il 4° congresso (1981) la CCI ha conosciuto la crisi più grave da quando esiste. Una crisi che, al di là delle peripezie particolari dell'"affare Chénier" (7) ha scosso profondamente l'organizzazione, le ha fatto sfiorare l'esplosione, ha provocato direttamente o indirettamente l'uscita di una quarantina di membri, ha ridotto alla metà i militanti della sua seconda sezione territoriale. Una crisi che si è tradotta in un accecamento, un disorientamento che la CCI non aveva mai conosciuto dalla sua creazione. Una crisi che, per essere superata, ha richiesto la mobilitazione di mezzi eccezionali: la tenuta di una Conferenza internazionale straordinaria, la discussione e l'adozione di testi di orientamento di base sulla funzione e sul funzionamento dell'organizzazione rivoluzionaria, l'adozione di nuovi statuti."
Una tale trasparenza rispetto alle difficoltà che incontrava la nostra organizzazione non corrispondeva affatto ad un qualche "esibizionismo" da parte nostra. L'esperienza delle organizzazioni comuniste è parte integrante dell'esperienza della classe operaia. E' per questo che un grande rivoluzionario come Lenin ha potuto consacrare tutto un libro, Un passo avanti e due indietro, alle lezioni politiche tratte dal 2° Congresso del POSDR. E' per questo che noi portiamo a conoscenza dei nostri lettori larghi estratti della risoluzione adottata alla fine del nostro 11° Congresso. Rendendo conto della propria vita organizzativa, la CCI non fa altro che assumersi le sue responsabilità di fronte alla classe operaia.
Evidentemente la messa in piazza da parte delle organizzazioni rivoluzionarie dei propri problemi e discussioni interne può costituire un ottimo terreno per tutti i tentativi di denigrazione da parte degli avversari. Questo è vero anche, ed in particolar modo, per la CCI. Certo non è nella stampa borghese che si trovano le esclamazioni di giubilo quando diamo conto delle difficoltà che la nostra organizzazione può incontrare oggi, siamo ancora troppo modesti come taglia e come influenza tra le masse operaie perché i mezzi di propaganda borghese abbiano interesse a parlare di noi per screditarci. Per la borghesia è meglio innalzare un muro di silenzio intorno alle posizioni e all'esistenza delle organizzazioni rivoluzionarie. E' per questo che il lavoro di denigrazione e di sabotaggio dell'intervento di queste organizzazioni è preso in carica da tutta una serie di gruppi ed elementi parassitari la cui funzione è di allontanare dalle posizioni di classe quegli elementi che si avvicinano a queste, di farli disgustare di ogni partecipazione al difficile lavoro di sviluppo di un campo politico proletario.
L'insieme dei gruppi comunisti è stato confrontato all'azione del parassitismo, ma tocca alla CCI, dato che è oggi l'organizzazione più importante dell'ambiente proletario, essere l'oggetto di una attenzione tutta particolare da parte della marea parassitaria. In questa si trovano dei gruppi ben definiti quali il "Groupe Communiste Internationaliste" (GCI) e le sue scissioni (come "Contre le Courant"), il defunto "Communist Bulletin Group" (CBG) o l'ex-"Frazione Esterna della CCI" (FECCI) che si sono tutti costituiti da scissioni della CCI. Ma il parassitismo non si limita solo a questo tipo di gruppi. Esso è veicolato da elementi non organizzati o che si trovano in certi momenti in circoli di discussione effimeri, la cui preoccupazione principale consiste nel far circolare ogni sorta di pettegolezzo a proposito della nostra organizzazione. Questi elementi sono spesso vecchi militanti che, cedendo alla pressione della piccola-borghesia, non hanno avuto la forza di mantenere un impegno militante nell'organizzazione, che sono stati frustrati dal fatto che questa non ha "riconosciuto i loro meriti" allo stesso livello dell'idea che si erano fatti di loro stessi o che non hanno sopportato le critiche a loro mosse. Si tratta anche di vecchi simpatizzanti che l'organizzazione non ha voluto integrare perché riteneva che non avevano la chiarezza necessaria o non si sono voluti impegnare per paura di perdere la loro "individualità" in un quadro collettivo (è questo il caso, ad esempio, del defunto "collettivo Alptraum" del Messico o del "Kamunist Kranti" in India). In tutti i casi si tratta di elementi la cui frustrazione derivante dalla loro propria mancanza di coraggio, dalla loro ignavia e della loro impotenza si è trasformata in una ostilità sistematica verso l'organizzazione. Evidentemente questi elementi sono assolutamente incapaci di costruire un qualcosa. Al contrario, sono spesso molto efficaci, con le loro piccole agitazioni ed i pettegolezzi da servetta, nello screditare e distruggere quello che l'organizzazione cerca di costruire.
Tuttavia non è il gracidare del parassitismo che impedisce alla CCI di far conoscere all'insieme del campo proletario gli insegnamenti della propria esperienza. Nel 1904 Lenin scriveva, nella prefazione di Un passo avanti due passi indietro:
"Costoro (gli avversari della social-democrazia) si agitano e manifestano una gioia maligna dinanzi alle nostre polemiche; costoro tenderanno naturalmente ad utilizzare ai loro fini singoli passi del mio opuscolo, consacrato ai difetti ed alle lacune del nostro partito. I socialdemocratici russi sono già sufficientemente temprati alle battaglie per non lasciarsi commuovere da queste punture di spillo, per continuare, nonostante ciò, la loro opera di autocritica e di denuncia spietata dei propri difetti, che saranno sicuramente e inevitabilmente superati con lo sviluppo del movimento operaio. Si provino invece i signori avversari a presentarci il quadro della reale situazione esistente nei loro "partiti", un quadro che si avvicini anche solo da lontano a quello offerto dagli atti del nostro secondo congresso!" (Opere scelte)
E' esattamente con lo stesso spirito che noi portiamo qui a conoscenza dei nostri lettori larghi estratti della risoluzione adottata alla fine del nostro 11° Congresso. Questo non è una manifestazione di debolezza della CCI ma, al contrario, una testimonianza della sua forza.
I problemi affrontati dalla CCI nell'ultimo periodo
"L'11° congresso della CCI afferma dunque chiaramente: la CCI si trovava in una situazione di crisi latente, una crisi ben più profonda di quella che ha colpito l'organizzazione agli inizi degli anni 80, una crisi che, se non fosse stata identificata la radice delle debolezze, rischiava di travolgere l'organizzazione" (Risoluzione d'attività. punto 1)
"Le cause della gravità del male che rischiava di inghiottire l'organizzazione sono molteplici, ma se ne possono mettere in evidenza le principali:
In questo senso il solo modo in cui la CCI poteva affrontare efficacemente il pericolo mortale che la minacciava, consisteva:
La lotta per il raddrizzamento della CCI è iniziata nell'autunno del 1993 con la messa in discussione in tutta l'organizzazione di un testo di orientamento che ricordava ed attualizzava gli insegnamenti del 1982, soffermandosi sull'origine storica delle nostre debolezze. Al centro del nostro procedere si trovavano dunque le seguenti preoccupazioni: la riappropriazione delle acquisizioni della nostra propria organizzazione e dell'insieme del movimento operaio, la continuità con le lotte di questo ed in particolare con la sua lotta contro la penetrazione al suo interno delle ideologie estranee, borghesi e piccolo-borghesi.
"Il quadro di comprensione che si è data la CCI per mettere a nudo l'origine delle sue debolezze si inscriveva nella lotta storica condotta dal marxismo contro le influenze delle ideologie piccolo-borghesi che pesano sulle organizzazioni del proletariato. Più precisamente esso si rifaceva alla lotta del Consiglio generale dell'AIT contro l'azione di Bakunin e dei suoi fedeli, come di quella di Lenin e dei bolscevichi contro le concezioni opportuniste e di tipo anarchico dei menscevichi durante e dopo il 2° Congresso del POSDR. In particolare era necessario per l'organizzazione mettere al centro delle sue preoccupazioni, come lo fecero i bolscevichi a partire dal 1903, la lotta contro lo spirito di circolo e per lo spirito di partito. Questa priorità derivava dalla natura stessa delle debolezze che pesavano sulla CCI data la sua origine a partire da circoli apparsi nel solco della ripresa storica del proletariato alla fine degli anni 1960; dei circoli fortemente marcati dal peso delle concezioni affinitarie, contestatarie, individualiste, in una parola dalle concezioni di tipo anarchico, particolarmente marcate dalle rivolte studentesche che hanno accompagnato e inquinato la ripresa proletaria. E' in questo senso che la constatazione del peso particolarmente forte dello spirito di circolo nelle nostre origini era parte integrante dell'analisi generale elaborata da lungo tempo e che vedeva la base delle nostre debolezze nella rottura organica delle organizzazioni comuniste per la contro rivoluzione che si era abbattuta sulla classe operaia a partire dalla fine degli anni 1920. Tuttavia questa constatazione ci permetteva di andare più lontano e di andare più a fondo nell'analisi delle radici delle nostre difficoltà. Ci permetteva in particolare di comprendere il fenomeno, già constatato nel passato ma insufficientemente chiarito, della formazione dei clan all'interno dell'organizzazione. : questi clan erano in realtà il risultato dell'incancrenimento dello spirito di circolo che si era mantenuto anche al di là del periodo in cui i circoli avevano costituito una tappa della riformazione dell'avanguardia comunista. In questo modo i clan divenivano, a loro volta, un fattore attivo e il miglior garante della conservazione dello spirito di circolo nell'organizzazione." (ibidem, punto 4).
Qui la risoluzione fa riferimento ad un punto del testo di orientamento dell'autunno '93 che mette in evidenza la seguente questione:
"In effetti uno dei gravi pericoli che minacciano in permanenza l'organizzazione, che rimette in causa la sua unità e rischia di distruggerla, è la costituzione, anche se non deliberata o cosciente, di "clan". In una dinamica di clan le pratiche comuni non partono da un reale accordo politico ma da legami di amicizia, di fedeltà, dalla convergenza di interessi "personali" specifici o da frustrazioni condivise. Spesso una tale dinamica, nella misura in cui essa non si basa su di una reale convergenza politica, si accompagna all'esistenza di "guru", di "capo banda" garanti dell'unità del clan, il cui potere può derivare o da un carisma particolare, che può anche schiacciare le capacità politiche e di giudizio di altri militanti, o dal fatto che questi sono presentati, o si presentano, come "vittime" di questa o quella politica dell'organizzazione. Quando appare una tale dinamica i membri o i simpatizzanti del clan non agiscono più, nei loro comportamenti o nelle decisioni che prendono, in funzione di una scelta cosciente e ragionata basata sugli interessi generali dell'organizzazione, ma in funzione del punto di vista e degli interessi del clan, i quali tendono a porsi in contraddizione a quelli del resto dell'organizzazione."
Questa analisi era basata su dei precedenti storici nel movimento operaio (per esempio, l'atteggiamento dei vecchi redattori dell'Iskra, raggruppati intorno a Martov e che, scontenti delle decisioni del 2° congresso del POSDR, avevano formato la frazione dei menscevichi), ma anche su dei precedenti nella storia della CCI. Non possiamo qui entrare in dettaglio ma possiamo affermare che le "tendenze" che ha conosciuto la CCI (quella che si scinde nel 1978 per formare il "Groupe Communiste Internationaliste", la "tendenza Chénier" nel 1981, la "tendenza" che ha lasciato l'organizzazione al suo 6° congresso per formare la "Frazione esterna della CCI") corrispondevano molto di più ad una dinamica di clan che a delle reali tendenze basate su un orientamento positivo alternativo. In effetti il motore principale di queste "tendenze" non era costituito dalle divergenze che i loro membri potevano avere con gli orientamenti dell'organizzazione (queste divergenze erano le più eteroclite, come dimostrato dalla traiettoria successiva delle "tendenze") ma da un assemblaggio di malcontenti e di frustrazioni contro gli organi centrali e dalla fedeltà personale verso gli elementi che si considerano "perseguitati" o insufficientemente riconosciuti.
Il raddrizzamento della CCI
Anche se non più tanto spettacolare come nel passato, l'esistenza di clan continuava a minare in sordina ma drammaticamente il tessuto organizzativo. In particolare, l'insieme della CCI (compresi i militanti direttamente implicati) ha messo in evidenza che essa era confrontata ad un clan che occupava un posto di primo piano nell'organizzazione e che, anche se non era un "semplice prodotto organico delle debolezze della CCI" aveva "concentrato e cristallizzato un gran numero di caratteristiche deleterie che infettavano l'organizzazione ed il cui denominatore comune era l'anarchismo (visione dell'organizzazione come somma di individui, approccio di tipo psicologico e affinitario nei rapporti politici tra militanti e nelle questioni di funzionamento, disprezzo o ostilità verso le concezioni politiche marxiste in materia di organizzazione)" (Risoluzione d'attività, punto 5).
E' per questo che:
"... il Congresso constata il successo globale della lotta ingaggiata dalla CCI dall'autunno 1993 (...) il raddrizzamento, talvolta spettacolare, delle sezioni più toccate dalle difficoltà di tipo organizzativo nel '93 (...), gli approfondimenti che sono venuti da numerose parti della CCI (...), tutti questi fatti confermano la piena validità della lotta intrapresa, del suo metodo, delle sue basi teoriche così come dei suoi aspetti concreti (...). Il congresso sottolinea in particolare gli approfondimenti realizzati dall'organizzazione nella comprensione di tutta una serie di questioni alle quali si sono confrontate e si confrontano le organizzazioni della classe: avanzamenti nella conoscenza della lotta di Marx e del Consiglio generale contro l'Alleanza, della lotta di Lenin e dei bolscevichi contro i menscevichi, del fenomeno dell'avventurismo politico nel movimento operaio (rappresentato in particolare dalle figure di Bakunin e di Lassalle), proprio di elementi declassati, che non lavorano a priori al servizio dello Stato capitalista ma finiscono per essere più pericolosi degli agenti infiltrati da questo." (ibidem, punto 10).
"Sulla base di questi elementi l'11° Congresso constata dunque che la CCI è oggi ben più forte di quanto non lo fosse al precedente congresso, che è incomparabilmente meglio armata per affrontare le sue responsabilità di fronte al futuro ritorno della classe sulla scena, anche se, evidentemente, essa è ancora in convalescenza" (ibidem, punto 11).
La constatazione dell'esito positivo della lotta condotta dall'organizzazione non ha tuttavia creato nessun sentimento di euforia nel congresso. La CCI ha imparato a diffidare degli impeti momentanei che sono più che altro il tributo della penetrazione nei ranghi comunisti dell'impazienza piccolo-borghese piuttosto che espressione di una dinamica proletaria. La lotta delle organizzazioni e dei militanti comunisti è una lotta a lungo termine, paziente, spesso oscura ed il vero entusiasmo che sta nei militanti non si misura dalle impennate euforiche ma dalla capacità di tenere, contro venti e maree, di resistere di fronte alla pressione deleteria che l'ideologia della classe nemica fa pesare sulle loro teste. E' per questo che la constatazione del successo che ha coronato la lotta della nostra organizzazione nel corso di questo ultimo periodo non ci ha portato a nessun trionfalismo:
"Questo non significa che la lotta che abbiamo condotto sia finita. (...) La CCI dovrà continuarla attraverso una vigilanza in ogni istante, la determinazione ad identificare ogni debolezza e ad affrontarla senza attendere. (...) In realtà la storia del movimento operaio, ivi compresa quella della CCI, esige, ed il dibattito l'ha ampiamente confermato, che la lotta per la difesa dell'organizzazione sia permanente, senza sosta. In particolare la CCI deve avere in mente che la lotta fatta dai bolscevichi per lo spirito di partito contro lo spirito di circolo è proseguita per lunghi anni. Sarà lo stesso per la nostra organizzazione che dovrà essere vigile per affrontare ed eliminare ogni demoralizzazione, ogni sentimento di impotenza derivante dalla lunghezza della lotta." (ibidem, punto 13)
Prima di concludere questa parte sulle questioni di organizzazione che sono state discusse al congresso è importante precisare che le discussioni fatte dalla CCI per un anno e mezzo non hanno dato luogo ad alcuna scissione (contrariamente a quello che era accaduto, per esempio, al 6° Congresso o nel 1981). Ciò è dovuto anche al fatto che l'organizzazione da subito si è ritrovata d'accordo con il quadro teorico che era stato dato per la comprensione delle difficoltà che aveva. L'assenza di divergenze su questo quadro ha permesso il fatto che non si cristallizzasse una qualche "tendenza" o anche una qualche "minoranza" che teorizzasse le proprie particolarità. In gran parte le discussioni vertevano su come concretizzare questo quadro nel funzionamento quotidiano della CCI, avendo costantemente la preoccupazione di legare queste concretizzazioni all'esperienza storica del movimento operaio. Il fatto che non ci sono state scissioni è una testimonianza della forza della CCI, della sua maggiore maturità, della volontà dimostrata dalla grande maggioranza dei suoi militanti di condurre in modo risoluto la lotta per la sua difesa, per risanare il suo tessuto organizzativo, per superare lo spirito di circolo e tutte le concezioni anarchiche che considerano l'organizzazione come una somma di individui o di piccoli gruppi affini.
Le prospettive della situazione internazionale
Evidentemente l'organizzazione comunista non esiste per sé stessa. Essa non è spettatrice ma protagonista delle lotte della classe operaia e la sua difesa intransigente significa giustamente permetterle di conservare il suo ruolo. E' con questo obiettivo che il Congresso ha consacrato una parte del suo dibattito all'esame della situazione internazionale. Esso ha discusso ed approvato differenti rapporti su questa questione così come una risoluzione che ne fa la sintesi e che è pubblicata in questo stesso numero della Rivista Internazionale. Non ci estenderemo quindi su questo aspetto dei lavori del congresso. Ci contentiamo qui di evocare, brevemente, l'ultimo dei tre aspetti della situazione internazionale (evoluzione della crisi economica, conflitti imperialisti e rapporti di forza tra le classi) che sono stati affrontati al congresso.
Questa risoluzione l'afferma chiaramente:
"Più che mai la lotta del proletariato rappresenta la sola speranza per l’avvenire della società umana." (punto 14)
Tuttavia il Congresso ha confermato ciò che la CCI aveva annunciato nell'autunno del 1989:
"Questa lotta, che era risorta con vigore alla fine degli anni '60 ponendo fine alla peggiore contro-rivoluzione che ha conosciuto la classe operaia, ha subito un riflusso considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l'hanno accompagnato e l'insieme degli avvenimenti che sono seguiti (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.)" (ibidem)
Ed è principalmente per questa ragione che oggi:
"E' in modo sinuoso, con degli avanzamenti e dei passi indietro, in un movimento a zig-zag che si sviluppano le lotte operaie." (ibidem)
Tuttavia la borghesia sa molto bene che l'aggravamento degli attacchi contro la classe operaia non potrà che dare impulso a nuove lotte sempre più coscienti. E si prepara sviluppando tutta una serie di manovre sindacali e al tempo stesso dando incarico ai suoi agenti di rinnovarsi con discorsi che incensano la "rivoluzione", il "comunismo" o il "marxismo". E' perciò che:
"Tocca ai rivoluzionari, nel loro intervento, denunciare col maggior vigore possibile sia le manovre vergognose dei sindacati che questi presunti discorsi "rivoluzionari". Tocca a loro mettere in avanti la vera prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo come unica uscita che può salvare l'umanità e come risultato ultimo delle lotte operaie." (punto 17).
Dopo aver ricostituito e riunito le sue forze la CCI è di nuovo pronta, dopo il suo 11° Congresso, ad assumere questa responsabilità.
CCI.
1. Germania, Belgio, Stati Uniti, Spagna, Francia, Gran Bretagna, India, Italia, Messico, Paesi Bassi, Svezia, Venezuela.
2. Era anche previsto un punto sull'esame del campo politico proletario che costituisce una preoccupazione permanente della nostra organizzazione. Per mancanza di tempo abbiamo dovuto sopprimerlo, ma questo non significa affatto un allentamento della nostra attenzione su questa questione. Al contrario, superate le nostre difficoltà organizzative possiamo apportare il nostro migliore contributo allo sviluppo dell'insieme del campo proletario.
3. "Dato che le sezioni della classe operaia nei differenti paesi si trovano in condizioni differenti di sviluppo, necessariamente anche le loro opinioni teoriche, che riflettono il movimento reale, sono divergenti. Tuttavia la comunità d'azione stabilita dall'Associazione Internazionale dei lavoratori, lo scambio di idee facilitate dalla propaganda fatta dagli organi delle differenti sezioni nazionali, infine le discussioni dirette ai congressi generali, non mancheranno di far uscire gradualmente un programma teorico comune." (Risposta del Consiglio generale alla domanda di adesione dell'Alleanza, 9 marzo 1869). Bisogna notare che l'Alleanza aveva fatto una prima domanda di adesione con degli statuti dove era previsto che essa di dotava di una struttura internazionale parallela a quella dell'AIT (con un comitato centrale e la tenuta di congressi separati da quelli dell'AIT). Il Consiglio generale aveva rifiutato questa domanda facendo valere il fatto che gli statuti dell'Alleanza erano in contraddizione con quelli dell'AIT. Essa aveva precisato che era pronta ad ammettere le differenti sezioni dell'Alleanza se questa avesse rinunciato alla sua struttura internazionale. L'Alleanza aveva accettato questa condizione ma aveva mantenuto la sua struttura in conformità ai propri statuti segreti.
4. In un "Appello agli ufficiali dell'esercito russo", Bakunin vanta i meriti dell'organizzazione segreta "che trova la sua forza nella disciplina, nella devozione e l'abnegazione appassionata dei suoi membri e nell'obbedienza cieca ad un Comitato unico che conosce tutto e non è conosciuto da nessuno."
5 Gli anarchici sono per l'abolizione immediata dello Stato sin dall'indomani della rivoluzione. E' una differenza di principio: il marxismo ha messo in evidenza che lo Stato si manterrà, sotto delle forme evidentemente diverse da quelle dello Stato capitalista, fino alla scomparsa completa delle classi sociali.
6. Vedi gli articoli "La crisi del campo proletario", "Rapporto sulla struttura ed il funzionamento dell'organizzazione dei rivoluzionari e "Presentazione del 5° Congresso della CCI" nei numeri 28, 33 e 35 della Révue Internationale.
7. Chénier, sfruttando la mancanza di vigilanza della nostra organizzazione, era divenuto membro della nostra sezione in Francia nel 1978. A partire dal 1980 aveva iniziato tutto un lavoro sotterraneo tendente alla distruzione della nostra organizzazione. Per fare questo aveva sfruttato molto abilmente sia la mancanza di rigore organizzativo della CCI che le tensioni esistenti nella sezione in Gran Bretagna. Questa situazione aveva portato alla formazione di due clan antagonisti in questa sezione, bloccando il suo lavoro e conducendo alla perdita della metà di questa ed anche alla perdita di molti militanti in altre sezioni. Chénier fu escluso dalla CCI nel settembre 1981 e noi abbiamo pubblicato nella stampa un comunicato che metteva in guardia il campo politico proletario contro questo elemento "torbido e losco". Poco dopo Chénier ha iniziato una carriera nel sindacalismo, il Partito Socialista e l'apparato dello Stato per il quale lavorava, molto probabilmente, già da lungo tempo.
Secondo la storia ufficiale nel 1949, in Cina avrebbe trionfato una "rivoluzione popolare". Questa idea, diffusa tanto dalla democrazia occidentale, che dal maoismo, fa parte della mostruosa mistificazione mesa in atto con la controrivoluzione staliniana sulla sedicente creazione degli "stati socialisti". E' vero che la Cina, dal 1919 al 1927 ha conosciuto un imponente movimento della classe operaia, parte integrante dell'ondata rivoluzionaria internazionale che ha scosso il mondo capitalista in quegli anni; questo movimento però si concluse con un massacro della classe operaia. Per contro, ciò che gli ideologi della borghesia presentano come il "trionfo della rivoluzione cinese" non è altro che l'instaurazione di un capitalismo di Stato nella sua variante maoista, il culmine del periodo di conflitti imperialisti in territorio cinese, periodo aperto dal 1928, dopo la disfatta della rivoluzione proletaria.
In questo articolo esporremo le condizioni nelle quali è sorta la rivoluzione proletaria in Cina, traendo alcune delle principali lezioni. Tralasceremo, per il momento, l’analisi del periodo dei conflitti imperialisti, durante i quali è apparso il maoismo, e la denuncia degli aspetti fondamentali di questa forma di ideologia borghese.
La III Internazionale e la rivoluzione in Cina
L'evoluzione dell'Internazionale Comunista e la sua azione in Cina hanno avuto un ruolo cruciale nel corso della rivoluzione in questo paese. L'IC rappresenta il più grande sforzo realizzato fino a quel momento dalla classe operaia per dotarsi di un partito mondiale capace di guidare la sua lotta rivoluzionaria. Però la sua tardiva formazione nel corso stesso dell'ondata rivoluzionaria mondiale, senza avere avuto in anticipo il tempo sufficiente per consolidarsi organicamente e politicamente, l'ha condotta , malgrado la resistenza delle sue frazioni di sinistra (1), verso una deriva opportunista. In effetti di fronte al riflusso della rivoluzione e all'isolamento della Russia sovietica, il Partito bolscevico - il più influente in seno all'Internazionale - ha cominciato ad esitare fra la necessità di sistemare le basi per una nuova crescita rivoluzionaria in futuro, anche a prezzo di sacrificare il trionfo in Russia, e quella di difendere lo Stato russo sorto dalla rivoluzione , a prezzo di accordi e di alleanze concluse con le borghesie nazionali. Questi accordi e queste alleanze hanno rappresentato un'enorme fonte di confusione per il proletariato internazionale e hanno contribuito ad accelerare la sua disfatta in numerosi paesi. La deriva opportunista dell'IC, l'abbandono degli interessi storici della classe operaia a favore di una politica di collaborazione fra le classi l'hanno condotta ad una progressiva degenerazione che nel 1928 è culminata con l'abbandono dell'internazionalismo proletario in nome della pretesa "difesa del socialismo in un solo paese".(2)
La perdita di fiducia nella classe operaia ha condotto progressivamente l'IC, diventata sempre di più uno strumento del governo russo, a voler creare una barriera di protezione contro la penetrazione delle grandi potenze imperialiste con l'appoggio alle borghesie dei "paesi oppressi" dell'Europa Orientale, del Medio ed Estremo Oriente. Questa politica si è dimostrata disastrosa per la classe operaia internazionale: In effetti , per tutto il periodo in cui l'IC ed il governo russo sostenevano politicamente e materialmente le borghesie nazionaliste presunte "rivoluzionarie" della Turchia, della Persia, della Palestina, dell'Afghanistan .. e infine della Cina, queste stesse borghesie, che ipocritamente accettavano l'aiuto sovietico senza rompere i loro legami con le potenze imperialiste né con la nobiltà fondiaria che pretendevano di combattere, schiacciavano le lotte operaie e annientavano le organizzazioni comuniste con le stesse armi che forniva loro la Russia. Ideologicamente, questo abbandono delle posizioni proletarie trovava la sua giustificazione nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del 2° Congresso dell'IC (alla cui redazione Lenin e Roy ebbero un ruolo importante). Queste tesi contengono sicuramente un'ambiguità teorica di principio operando una falsa distinzione fra borghesie "imperialiste" e "antimperialiste", cosa che avrebbe aperto la strada a più grandi errori politici. Di fatto, a quell'epoca, la borghesia cessava di essere rivoluzionaria e aveva assunto in ogni parte un carattere imperialista, compresi i "paesi oppressi": non solo attraverso i numerosi legami con l'una o l'altra delle grandi potenze imperialistiche, ma anche perché a partire dalla presa del potere della classe operaia in Russia, la borghesia internazionale aveva formato un fronte comune contro ogni movimento di massa. Il capitalismo era entrato nella sua fase di decadenza e l'apertura dell'epoca della rivoluzione proletaria aveva definitivamente chiuso l'era delle rivoluzioni borghesi.
Le Tesi, malgrado questo errore, erano state però capaci di impedire certi scivolamenti opportunisti che, sfortunatamente, si sarebbero generalizzati poco tempo dopo. Il rapporto presentato da Lenin riconosceva che, nel nuovo periodo, "un certo avvicinamento si verifica fra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali, in maniera tale che molto frequentemente la borghesia dei paesi oppressi, pur appoggiando i movimenti nazionali, è al tempo stesso in accordo con la borghesia imperialista, cioè essa lotta con questa contro i movimenti rivoluzionari" (3). E' per questo che le Tesi chiamano ad appoggiarsi essenzialmente sui contadini e insistevano sulla necessità per le organizzazioni comuniste di mantenere la loro indipendenza organica e di principio di fronte alla borghesia: "L'Internazionale Comunista deve sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati solo a condizione che gli elementi dei più puri partiti comunisti - e comunisti nei fatti - siano raggruppati e istruiti sui loro compiti particolari, cioè del compito di combattere il movimento borghese e democratico (...) conservando sempre il carattere indipendente del movimento proletario anche nella sua forma embrionale" (4). Ma il sostegno incondizionato, ignominioso dell'IC al Kuomintang in Cina avrebbe dimostrato che tutto questo sarebbe stato dimenticato: tanto per il fatto che la borghesia nazionale non era più rivoluzionaria e si trovava strettamente legata alle potenze imperialiste, quanto in rapporto alla necessità di forgiare un partito comunista in grado di lottare contro la democrazia borghese e di mantenere l'indispensabile indipendenza del movimento della classe operaia.
La "Rivoluzione" del 1911 e il Kuomintang
Lo sviluppo della borghesia cinese e il suo movimento politico durante i primi decenni del 20° secolo, lungi dal mostrare presunti aspetti "rivoluzionari", ci dà piuttosto l'illustrazione dell'estinzione del carattere rivoluzionario della borghesia e della trasformazione dell'ideale nazionale e democratico in pura mistificazione, nel momento in cui il capitale entra nella fase di decadenza. L'insieme dei fatti ci mostra non una classe rivoluzionaria ma una classe conservatrice, conciliante, il cui movimento politico non tendeva né a espellere completamente la nobiltà né a rigettare gli "imperialisti", ma piuttosto a crearsi uno spazio al loro fianco.
Gli storici sono soliti sottolineare le differenze di interessi che sarebbero esistite fra le differenti frazioni della borghesia cinese. Così, in genere, è d’uso identificare la frazione speculatrice e commerciale come alleata della nobiltà e degli "imperialisti", mentre la borghesia industriale e l'intelligentsia costituirebbero la frazione "nazionalista", "moderna", "rivoluzionaria". In realtà queste differenze non erano così marcate; non solo perché queste frazioni erano intimamente legate, per questioni d’affari o per legami familiari, ma soprattutto perché gli atteggiamenti, tanto della frazione commerciale che di quella industriale e dell'intelligentsia, non erano molto differenti: tutte cercavano in permanenza l'appoggio dei "signori della guerra", legati alla nobiltà fondiaria, e quello dei governi delle grandi potenze.
Verso il 1911, la dinastia manciù era già completamete in putrefazione e sul punto di cadere. E questo non era il prodotto di una qualunque azione rivoluzionaria della borghesia nazionale, ma la conseguenza della divisione della Cina fra le grandi potenze imperialiste che aveva condotto alla divisione del vecchio impero. La Cina tendeva a restare sempre più divisa in regioni controllate da militaristi in possesso di eserciti mercenari più o meno potenti, sempre pronti a vendersi al migliore offerente e dietro i quali si trovava l'una o l'altra grande potenza. La borghesia, da parte sua, si sentiva chiamata a prendere il posto della dinastia in quanto elemento unificatore del paese, ma non allo scopo di spezzare il modo di produzione nel quale si mescolavano gli interessi dei proprietari fondiari con i suoi propri, ma piuttosto con lo scopo di mantenerli. E' in questo quadro che si sono svolti gli avvenimenti che partono da quella che viene chiamata la "Rivoluzione del 1911" fino al "Movimento del 4 maggio 1919".
La "Rivoluzione del 1911" iniziò con una cospirazione di militari conservatori sostenuti dall'organizzazione borghese nazionalista di Sun Yat-sen, la Tung Meng-hui. I militaristi conservatori rinnegarono l'imperatore e proclamarono un nuovo regime a Wu-Ciang. Sun Yat-sen, che si trovava negli Stati Uniti alla ricerca di un sostegno finanziario per la sua organizzazione, fu chiamato ad occupare la presidenza di un nuovo governo. Iniziarono negoziati fra i due governi e, in capo ad alcune settimane, si decise la rinuncia contemporanea dell'imperatore e di Sun Yat-sen in cambio di un governo unificato con a capo Yuan Che-kai che era il capo delle truppe imperiali, il vero uomo forte della dinastia. Tutto questo significava che la borghesia lasciava da parte le sue pretese "rivoluzionarie" e "antimperialiste" in cambio del mantenimento dell'unità del paese.
Alla fine del 1912 si forma il Kuomintang, nuova organizzazione di Sun Yat-sen, rappresentante di questa borghesia. Nel 1913, il Kuomintang partecipa alle elezioni presidenziali ristrette alle classi sociali possidenti, dalle quali esce vincitore. Il nuovo presidente Sun Ciao-yen viene assassinato e Sun Yan-sen tenta di formare un nuovo governo alleandosi con alcuni militaristi secessionisti del centro sud del paese, ma è sconfitto dalle forze di Pechino.
Come si può vedere, le velleità nazionaliste della borghesia cinese erano sottomesse ai voleri dei signori della guerra e, conseguentemente, a quelli delle grandi potenze. Lo scoppio della prima guerra mondiale assoggettò maggiormente il movimento politico della borghesia cinese al gioco degli interessi imperialisti. Nel 1915 parecchie province divennero "indipendenti", i signori della guerra si suddivisero il paese, sostenuti dall'una o dall'altra grande potenza. Nel nord, il governo di Anfu - sostenuto dal Giappone - disputava il posto a quello di Chili - sostenuto dalla Gran Bretagna e dagli USA -. Da parte sua la Russia zarista tentava di fare della Mongolia un protettorato. Ci si disputava anche il sud. Sun Yat-sen realizzò nuove alleanze con alcuni signori della guerra. La morte dell'uomo forte di Pechino acuì ancora di più le lotte fra i militaristi.
E' in questo contesto, alla fine della guerra in Europa , che nacque in Cina il "Movimento del 4 maggio 1919", tanto vantato dagli ideologi come un “movimento autenticamente antimperialista”. In realtà, questo movimento della piccola borghesia non era diretto contro l'imperialismo in generale, ma piuttosto contro il Giappone in particolare: in effetti, questo, durante la Conferenza di Versailles (quella in cui i paesi democratici vincitori si spartirono il mondo), era riuscito ad ottenere la provincia cinese di Ciang-Tong, cosa a cui gli studenti cinesi si opponevano. Tuttavia occorre notare che l'obiettivo di non cedere dei territori cinesi al Giappone corrispondeva proprio agli interessi di un'altra potenza rivale, gli Stati Uniti che, nel 1922, arrivarono a "liberare" le province di Cian-Tong dalla dominazione esclusivamente giapponese. Indipendentemente dall'ideologia radicale del movimento del 4 maggio, questo resta ugualmente nel quadro dei conflitti imperialisti. Né poteva essere diversamente.
Per contro, occorre sottolineare che durante il movimento del 4 maggio, in un senso differente, la classe operaia fece la sua prima apparizione nelle manifestazioni, scandendo non solo le parole d'ordine nazionaliste del movimento, ma anche proprie rivendicazioni di classe.
La fine della guerra in Europa non aveva messo fine né alle guerre fra i militaristi, né alle contese fra le grandi potenze per la spartizione della Cina. Tuttavia, a poco a poco, prendono forma due governi più o meno instabili: uno nel nord con sede a Pechino, agli ordini del militarista Wu Pei-fu; l'altro nel sud con sede a Canton con Sun Yat-sen e il Kuomintang alla testa. La storia ufficiale presenta il governo del nord come espressione delle forze "reazionarie", della nobiltà e degli imperialisti e il governo del sud come espressione delle forze nazionaliste e "rivoluzionarie", cioè la borghesia, la piccola borghesia e i lavoratori. Si tratta di una scandalosa mistificazione.
In realtà Sun Yat-sen e il Kuomintang sono sempre stati sostenuti dai signori della guerra del sud : nel 1922 Cien Ciung-ming, che aveva occupato Canton, aveva invitato Sun Yat-sen a formare un altro governo. Nel 1922 Sun Yat-sen seguendo la tendenza dei militaristi del sud, tentò, per la prima volta, di avanzare verso il nord; sconfitto fu espulso dal governo ma, nel 1923, ritornò a Canton con l'appoggio dei militaristi. D'altra parte si parla molto dell'alleanza del Kuomintang con l'URSS. In realtà questa intratteneva relazioni e alleanze con tutti i governi proclamati della Cina, compresi quelli del nord. Fu la svolta definitiva del nord verso il Giappone ad obbligare l'URSS a privilegiare le relazioni con il governo di Sun Yat-sen, il quale, d'altra parte, non abbandonò mai il gioco consistente nel chiedere aiuto a diverse potenze imperialiste. Così nel 1925, poco prima della sua morte e mentre andava al nord per negoziare, Sun Yat-sen, passò per il Giappone alla ricerca di un appoggio per il suo governo.
E' questo partito, il Kuomintang, rappresentante della borghesia nazionale (commerciale, industriale e intellettuale), integrato nel gioco delle grandi potenze imperialistiche e dei signori della guerra, che l'Internazionale Comunista arrivò a dichiarare "partito simpatizzante". E' a questo partito che dovranno sottomettersi giorno dopo giorno i comunisti in Cina a nome della "rivoluzione nazionale" e fare, per lui, i "coolies" (5).
Il Partito Comunista di Cina al crocevia
La storia ufficiale presenta la nascita del Partito Comunista in Cina come un sottoprodotto del movimento dell'intellettualità borghese degli inizi del secolo. Il marxismo sarebbe stato importato dall'Europa fra altre "filosofie" occcidentali e la formazione del partito comunista avrebbe fatto parte della nascita di molte altre organizzazioni letterarie, filosofiche e politiche di quell'epoca. Con questo genere di idee gli storici borghesi creano un ponte fra il movimento politico della borghesia e quello della classe operaia per dare, infine, alla formazione del partito comunista un significato specificamente nazionale. In realtà la nascita del Partito Comunista in Cina - come in molti altri paesi all'epoca - non è fondalmentalmente legato allo sviluppo dell'intelligentsia cinese ma all'avanzata del movimento rivoluzionario internazionale della classe operaia.
Il Partito Comunista di Cina (PCC) fu creato nel 1920-21 a partire da piccoli gruppi marxisti, anarchici e socialisti che simpatizzavano per la Russia sovietica. Come tanti altri partiti il PCC nacque direttamente in quanto componente dell'IC e la sua crescita era legata allo sviluppo delle lotte operaie che non mancarono di sorgere secondo l'esempio dei movimenti insurrezionali in Russia e in Europa Occidentale. E' così che da poche decine di militanti nel 1921, il partito si svilupperà in pochi anni per contarne un migliaio; durante l'ondata degli scioperi del 1925, raggiunse 4.000 membri e al culmine del periodo insurrezionale del 1927, ne contava circa 60.000. Questo rapido accrescimento numerico esprime, in una certa maniera, la volontà rivoluzionaria che animava la classe operaia cinese durante il periodo dal 1919 al 1927 (in quel periodo la maggior parte dei militanti erano operai di grandi citta industriali). Occorre, però, dire che l'accrescimento numerico non corrispondeva ad un equivalente rafforzamento del partito. L'ammissione affrettata di militanti contraddiceva la tradizione del partito bolscevico di formare una organizzazione solida, ben temprata dell'avanguardia della classe operaia piuttosto che un'organizzazione di massa. Ma la cosa peggiore fu l'adozione, al 2° congresso, di una politica opportunista della quale non sarebbe più riuscito a disfarsi.
Verso la metà del 1922, su richiesta dell'Esecutivo dell'IC, il PCC lancia la sventurata parola d'ordine del "fronte unico antimperialista con il Kuomintang" e dell'adesione individuale dei comunisti a quest'ultimo. Questa politica di collaborazione di classe (che cominciò ad estendersi in Asia a partire dalla Conferenza dei popoli d'Oriente del gennaio 1922) era il risultato di negoziati, iniziati segretamente, fra l'URSS e il Kuomintang. Nel giugno 1923 (3° Congresso del PCC) viene votata la politica di adesione dei membri del partito al KMT. Il KMT stesso viene ammesso nell'IC nel 1926 come organizzazione simpatizzante e partecipa al 7° Plenum mentre l'Opposizione Unificata (Trotsky, Zinovev, ...) non viene autorizzata a parteciparvi. Nel 1926, mentre il Kuomintang prepara il colpo finale contro la classe operaia, a Mosca si elaborava l'infame teoria secondo la quale il Kuomintang era un "blocco antimperialista comprendente quattro classi" (il proletariato, i contadini, la piccola borghesia e la borghesia).
Questa politica ebbe le più funeste conseguenze sul movimento della classe operaia cinese. Mentre si sviluppava spontaneamente e impetuosamente il movimento di scioperi e di manifestazioni, il PCC, annegato nel KMT, si dimostrava incapace di orientare la classe operaia e di dare prova di una politica di classe indipendente. La classe operaia, a sua volta sprovvista di organizzazioni unitarie finalizzate alla lotta politica come i consigli operai, si mise nelle mani del KMT - su richiesta del PCC stesso - accordando cioè la fiducia alla borghesia.
E' però certo che la politica opportunista di subordinazione al KMT ha incontrato, fin dall'inizio, una costante resistenza in seno al PCC (come fu il caso della corrente rappresentata da Chen Tu-hsiu). Già al 2° Congresso si era alzata una opposizione contro le tesi difese dal delegato dell'IC Sneevliet, secondo le quali il KMT non sarebbe stato un partito borghese ma un fronte di classe al quale il PCC avrebbe dovuto sottomettersi. Durante tutto il periodo di unità col KMT, in seno al PCC non sono mancate voci che denunciavano i preparativi antiproletari di Ciang Kai-scek, domandando ad esempio che le armi fornite dalla Russia fossero destinate all'armamento degli operi e dei contadini piuttosto che andare a rafforzare l'esercito di Ciang Kai-scek come stava accadendo, affermando infine le necessità di uscire dalla trappola che il KMT costituiva per la classe operaia: "La rivoluzione cinese ha due vie possibili: una è quella che può tracciare il proletariato e attraverso la quale noi potremo raggiungere i nostri obiettivi rivoluzionari; l'altra è quella della borghesia e quest'ultima tradirà la rivoluzione nel corso del suo sviluppo". (6)
Tuttavia fu impossibile per un partito giovane e senza esperienza superare le direttive erronee dell'Esecutivo dell'IC ed esso vi ricadde dentro. Il risultato fu che, mentre il proletariato si impegnava in una lotta contro le frazioni delle classi possidenti avversarie al KMT, questo gli stava preparando la pugnalata alla schiena: cosa che la classe operaia non poté impedire in quanto il suo partito non l'aveva prevenuta. E se è vero che in Cina la rivoluzione aveva poche possibilità di trionfare - in effetti a livello internazionale la spina dorsale della rivoluzione mondiale, il proletariato tedesco, era spezzata dopo il 1919 - l'opportunismo della III Internazionale precipitò la disfatta.
La classe operaia si solleva
Il maoismo ha preso a pretesto la debolezza della classe operaia in Cina per giustificare lo spostamento del PCC verso le campagne a partire dal 1927. Certo, la classe operaia in Cina, a partire dall'inizio del secolo era numericamente molto piccola rispetto ai contadini (in proporzione di 2 a 100), ma il suo peso politico non seguiva le stesse proporzioni.
Da una parte c'erano già circa 2 milioni di operai urbani altamente concentrati nel bacino del fiume Yang-Tse - con la città costiera di Shangai e la zona industriale di Wu-Han (con la triplice città di Han-Keu, Wu-Ciang, Han-Yang) -, nel complesso Canton-Hong-Kong e nelle miniere della provincia di Yunnan (senza contare i 10 milioni di artigiani più o meno proletarizzati che popolavano le città). Questa concentrazione dava alla classe operaia una forza straordinaria, in grado di paralizzare e prendere in mano i centri vitali della produzione capitalista. Di più, nelle province del sud (soprattutto a Kuang-Tong) esisteva un contadiname strettamente legato agli operai: in effetti esso era il serbatoio di forza lavoro per le città industriali e poteva costituire una forza d'appoggio per il proletariato urbano.
D'altra parte sarebbe erroneo considerare la forza della classe operaia in Cina basandosi esclusivamente sul suo peso numerico in rapporto alle altre classi del paese. Il proletariato è una classe storica che trae la sua forza nella sua esistenza mondiale e l'esempio della rivoluzione cinese ne è una prova concreta. Il movimento degli scioperi non aveva il suo epicentro in Cina, ma in Europa, era una manifestazione dell'onda di espansione della rivoluzione mondiale. Gli operai cinesi, come quelli di altre parti del mondo, si lanciavano nella lotta di fronte all'eco della rivoluzione trionfante in Russia e ai tentativi insurrezionali in Germania e in altri paesi dell'Europa.
All'inizio, dato che la maggior parte delle fabbriche cinesi erano di origine straniera, gli scioperi avevano una vernice xenofoba e la borghesia nazionale pensava di servirsene come una strumento di pressione. Però il movimento degli scioperi prenderà sempre di più un deciso carattere di classe, contro la borghesia in generale, sia essa nazionale o straniera. Gli scioperi rivendicativi si succedono in maniera crescente a partire dal 1919 malgrado la repressione (non era raro che degli operai fossero decapitati o bruciati nelle caldaie delle locomotive). Verso la metà del 1921, scoppia uno sciopero fra i tessili di Hu-Nan. All'inizio del 1922, uno sciopero di marinai di Hong-Kong prosegue per tre mesi fino al soddisfacimneto delle rivendicazioni. Nei primi mesi del 1923 scoppia un'ondata di centinaia di scioperi ai quali prendono parte più di 300.000 operai; in febbraio il militarista Wu Pei-fu ordina la repressione dello sciopero delle ferrovie nel corso del quale 35 operai vengono assassinati e numerosi altri feriti. Nel giugno 1924 scoppia uno sciopero generale a Canton - Hong-Kong che durerà tre mesi. Nel gennaio 1925 scendono in sciopero gli operai del cotone di Shanghai: è il preludio del gigantesco movimento di scioperi che avrebbero percorso tutta la Cina durante l'estate del 1925.
Il movimento del 30 maggio
Nel 1925, la Russia sosteneva fermamente il governo di Canton del KMT. L'alleanza fra l'URSS e il KMT era già stata dichiarata apertamente dal 1923; una delegazione militare del KMT comandata da Ciang-Kai scek si era recata a Mosca e, nello stesso tempo, una delegazione dell'IC dava al KMT degli statuti e una struttura organizzativa e militare. Nel 1924, il 1° congresso ufficiale del KMT approvò l'alleanza e, in maggio, viene creata l'Accademia Militare di Whampoa con armi e consiglieri militari sovietici diretta da Ciang-Kai scek. Nei fatti, ciò che faceva il governo russo era formare un esercito moderno al servizio della frazione della borghesia raggruppata attorno al KMT, cosa che le era fino ad allora mancato. Nel marzo 1925, Sun Yat-sen va a Pechino (l'URSS contnuava a mantenere relazioni anche col governo di Pechino) per cercare di costruire un'alleanza mirante ad unificare il paese ma muore di malattia prima di avere raggiunto il suo scopo.
E' in questo contesto di alleanza idilliaca che sorge, con tutte le sue forze, il movimento della classe operaia ricordando alla borghesia del KMT e agli opportunisti dell'IC l'esistenza della lotta di classe.
All'inizio del 1925 inizia a lievitare un'ondata di agitazioni e di scioperi. Il 30 maggio la polizia inglese di Shanghai apre il fuoco su una manifestazione di studenti e di operai: 12 morti. Fu il detonatore di uno sciopero generale a Shanghai che iniziò a estendersi rapidamente ai principali porti commerciali del paese. Il 19 giugno scoppia uno sciopero generale a Canton; quattro giorni più tardi le truppe britanniche della concessione britannica di Shameen (nei pressi di Canton) aprirono il fuoco contro un'altra manifestazione. In risposta gli operai di Hong-Kong si misero in sciopero e il movimento si estese arrivando fino alla lontana Pechino dove, il 30 luglio, ebbe luogo una manifestazione di circa 200.000 lavoratori, e rafforzando l'agitazione contadina nella provincia di Kuang-Tong.
A Shanghai gli scioperi durarono tre mesi, a Canton scoppiò uno sciopero con boicottaggio che finì ad ottobre dell'anno seguente. In quel momento cominciarono a crearsi milizie operaie: migliaia di operai raggiusero i ranghi del Partito comunista. La classe operaia cinese si mostrava per la prima volta come forza realmente in grado di minacciare il regime capitalistico nel suo insieme.
Malgrado il fatto che il movimento del 30 maggio ebbe come conseguenza diretta il consolidamento e l'estensione nel Sud del potere del governo di Canton, questo stesso movimento svegliò l'istinto di classe della borghesia nazionalista raggruppata nel KMT e che fino ad allora aveva "lasciato fare" gli scioperanti fintanto essi indirizzavano le loro lotte contro le fabbriche e le concessioni straniere. Gli scioperi dell'estate del 1925 avevano preso un carattere antiborghese senza "rispettare" i capitalisti nazionali. Così la borghesia nazionalista e "rivoluzionaria" con alla testa il KMT (sostenuto dalle grandi potenze e con l'appoggio cieco di Mosca) si lanciò rabbiosamente prima di tutto nella lotta con quello che aveva identificato come il suo nemico mortale: il proletariato.
Il colpo di forza e la spedizione al nord di Ciang Kai-scek
Fra gli ultimi mesi del 1925 e i primi del 1926 si svolge quella che gli storici sono soliti chiamare la "polarizzazione tra la sinistra e la destra del KMT", quella che secondo loro avrebbe comportato il frazionamento della borghesia in due parti: una fedele al nazionalismo, l'altra che si sarebbe voltata verso un'alleanza con l'imperialismo. Abbiamo, però, già visto che anche le frazioni della borghesia più "antimperialiste" non cessarono mai le loro relazioni con gli imperialisti. Ciò che stava accadendo, in realtà, non era il fatto che la borghesia si frazionasse, ma che si preparava ad affrontare la classe operaia sbarazzandosi degli elementi che davano fastidio in seno al KMT (i militanti comunisti, una parte della piccola borghesia e qualche generale fedele all'URSS). Così, dunque, il KMT, sentendosi sufficientemente forte politicamente e militarmente, si toglieva la maschera del "blocco delle classi" e appariva per ciò che era sempre stato: il partito della borghesia.
Alla fine del 1925, il capo della "sinistra", Liao Cing-hai fu assassinato e cominciarono le persecuzioni contro i comunisti. Questo fatto costituì il preludio del colpo di forza di Ciang Kai-scek, divenuto l'uomo forte del KMT, che segnò l'inizio della reazione della borghesia contro il proletariato. Il 20 marzo, Ciang Kai-scek alla testa dei cadetti dell'Accademia di Whampoa, proclama la legge marziale a Canton, chiude i locali delle organizzazioni operaie, disarma i picchetti di sciopero e fa arrestare numerosi militanti comunisti. Nei mesi seguenti, i comunisti saranno espulsi da tutti i posti di responsabilità del Kuomintang..
L'Esecutivo dell'Internazionale, sotto il tallone di Bucharin e di Stalin, rimane "cieco" di fronte alla reazione del KMT e, malgrado l'opposizione insistente di una parte del PCC, dà l'ordine di mantenere l'alleanza, nascondendo gli avvenimenti ai membri dell'Internazionale e dei PC (7). Rassicurato, Ciang Kai-scek esige dall'URSS un sostegno militare nella spedizione verso il nord che comincia nel luglio 1926.
Come tante altre azioni della borghesia, la spedizione nel nord è falsamente presentata dalla storia ufficiale come un "avvenimento rivoluzionario", come un tentativo per estendere il regime “rivoluzionario” e unificare la Cina. Ma le intenzioni del KMT di Ciang Kai-scek erano lungi dall’essere così altruiste. Il suo grande sogno (alla stessa stregua di altri militaristi) consisteva nell’appropriarsi del porto di Shangai e ottenere dalle grandi potenze l’amministrazione della sua ricca dogana. Per fare questo, esso poteva contare su uno strumento di pressione molto potente: la sua capacità di contenere e sottomettere il movimento operaio.
Fin dall’inizio della spedizione militare il Kuomintang decreta la legge marziale nelle zone già sotto il suo controllo. Così, nel momento stesso in cui i lavoratori del nord preparano con entusiasmo l’appoggio alle forze del Kuomintang, questo vietava formalmente gli scioperi operai nel sud.
In settembre una forza della sinistra del KMT prende Han-Keu, ma Ciang Kai-scek rifiuta di sostenerla e si stabilisce a Nanciang. In ottobre, viene dato l’ordine ai comunisti di frenare il movimento contadino nel sud e l’esercito mette fine allo sciopero-boicottaggio a Canton-Hong-Kong. Questo ultimo atto diede alle grandi potenze (in primo luogo alla Gran Bretagna) la prova più tangibile che l’avanzata verso il nord del Kuomintang non aveva nessuna pretesa antimperialista e, poco tempo dopo, cominciarono dei negoziati segreti con Ciang Kai-scek.
Alla fine del 1926, il bacino industriale del fiume Yang-Tzé ribolliva di agitazioni. In ottobre, il militarista Sia-ciao (che si era unito al Kuomintang) avanza verso Shangai, ma si ferma a qualche chilometro dalla città lasciando le truppe “nemiche” del nord (agli ordini di Sun Ciuan-fang) entrare per prime nella città e soffocare così un imminente sollevamento. Nel gennaio 1927, le masse lavoratrici occuparono con azioni spontanee le concessioni britanniche di Han-Keu (nella tripla città di Wu-Han) e di Jiujiang. Allora l’esercito del Kuomintang rallentò la sua avanzata per permettere, nella più pura tradizione degli eserciti reazionari, che i signori della guerra locali potessero reprimere il movimento operaio e contadino. Allo stesso tempo Ciang Kai-scek attacca pubblicamente i comunisti e il movimento contadino del Kuang-Tong (nel sud) è soffocato. Ecco lo scenario all’interno del quale si sviluppò il movimento insurrezionale di Shangai.
L’insurrezione di Shangai
Il movimento insurrezionale di Shangai è il punto culminante di un decennio di lotte costanti e crescenti della classe operaia. Esso costituisce il punto più elevato raggiunto dalla rivoluzione in Cina. Tuttavia le condizioni in cui esso maturava non potevano essere più sfavorevoli per la classe operaia. Il partito comunista si trovava legato mani e piedi, disarticolato, colpito e sottomesso dal Kuominang. La classe operaia, ingannata dalla mistificazione del blocco delle “quattro classi” non si era più dotata di organismi unitari, incaricati di centralizzare effettivamente la sua lotta, come i consigli operai (8). Durante questo periodo, le cannoniere delle potenze imperialiste erano puntate sulla città, e il Kuomintang stesso si avvicinava a Shangai, apparentemente brandendo la bandiera della “rivoluzione antimperialista”, ma con lo scopo vero di schiacciare gli operai. Solo la volontà rivoluzionaria e l’eroismo della classe operaia possono spiegare la sua capacità di impadronirsi in tali condizioni, anche se solo per qualche giorno, della città che rappresenta il cuore del capitalismo in Cina.
Nel febbraio 1927 il Kuomintang riprende la sua avanzata. Il 18 l’esercito nazionalista si trova a Chiaching, a 60 chilometri da Shangai. In questo momento, davanti alla sconfitta imminente di Sun Ciuan-fang, scoppia lo sciopero generale a Shangai:
“...il movimento del proletariato di Shangai, dal 19 al 24 febbraio, costituì oggettivamente un tentativo del proletariato di Shangai di assicurare la sua egemonia. Alle prime notizie della sconfitta di Sun Ciuan-fang, a Zejiang, l’atmosfera di Shangai divenne bollente e per due giorni scoppiò con la potenza di una forza naturale uno sciopero di 300.000 lavoratori che si trasformò irresistibilmente in insurrezione armata per ricadere rapidamente nel niente, per mancanza di direzione...” (9)
Il Partito comunista, preso di sorpresa, esistava a lanciare la parole d’ordine dell’insurrezione mentre questa si sviluppava già per le strade. Il 20 Ciang Kai-scek ordinò di colpo di sospendere l’attacco contro Shangai. Fu il segnale per le forze di Sun Ciuan-fang per scatenare la repressione nella quale decine di operai furono assassinati e che arrivò a contenere momentaneamente il movimento.
Durante le settimane seguenti Ciang Kai-scek manovrò abilmente per evitare di essere sostituito al comando dell’esercito e per far tacere le indiscrezioni su un’alleanza con la destra e le altre potenze, e sui preparativi antioperai.
Infine, il 21 marzo 1927 scoppia il tentativo insurrezionale finale. Quel giorno, viene proclamato uno sciopero generale a cui partecipano praticamente tutti gli operai di Shangai: 800.000 operai. “Tutto il proletariato era in sciopero, come pure la maggior parte della piccola borghesia (piccoli commercianti, artigiani, ecc.) (...) in una decina di minuti tutta la polizia fu disarmata. Alle due gli insorti possedevano già quasi 1.500 fucili. Immediatamente dopo le forze insorte si diressero verso i principali edifici governativi e si misero a disarmare le truppe. Seri combattimenti si svilupparono nel quartier generale di Tchapei... Finalmente, il secondo giorno dell’insurrezione, alle quattro del pomeriggio, il nemico (circa 3.000 soldati) era definitivamente sconfitto. A questo punto tutta Shangai (eccetto le concessioni e il quartiere internazionale) si trovava nelle mani degli insorti.” (10)
Questa azione, dopo la rivoluzione in Russia e i tentativi insurrezionali in Germania e in altri paesi europei, costituì una nuova scossa contro l'ordine capitalista mondiale. Essa mostrò tutto il potenziale rivoluzionario della classe operaia. La macchina repressiva della borghesia, però, era già in marcia ed il proletariato non era in grado di affrontarla.
La borghesia "rivuluzionaria" massacra il proletariato
Gli operai presero la città di Shanghai ... solo per aprirne le porte all'esercito nazionale "rivoluzionario" del KMT che finì per entrare nella città. Si era appena installato a Shanghai quando Ciang Kai-scek cominciò a preparare la repressione in accordo con la borghesia speculatrice e le bande mafiose della città. Iniziò così un ravvicinamento aperto con i rappresentanti delle grandi potenze e con i signori della guerra del nord. Il 6 aprile Cian Tso-lin (in accordo con Ciang Kai-scek) attaccò l'ambasciata russa a Pechino arrestando dei militanti del PCC che furono, in seguito, assassinati.
Il 12 aprile si scatenava a Shanghai la repressione massiccia preparata da Ciang Kai-scek: le bande del sottoproletariato delle società segrete, che avevano sempre avuto un grande ruolo nello spezzare gli scioperi, furono mandate contro gli operai. Le truppe del KMT - i pretesi "alleati" del proletariato - furono direttamente utilizzate per disarmare ed arrestare le milizie proletarie. Il giorno seguente il proletariato tentò di reagire mettendosi in sciopero, ma i contingenti dei manifestanti furono intercettati dalla truppa provocando numerose vittime. Immediatamente fu applicata la legge marziale e tutte le organizzazioni operaie proibite. In pochi giorni furono assassinati 5.000 operai, fra i quali numerosi militanti del PCC. Le retate e gli assassinii continuarono per mesi.
Simultaneamente, con una manovra congiunta, i militari del KMT che erano restati a Canton scatenarono un altro massacro, sterminando ulteriormente migliaia di operai.
La rivoluzione proletaria, annegata nel sangue degli operai di Shanghai e di Canton, resisteva ancora in maniera precaria a Wou-Han; però, ancora una volta, il KMT e in particolare la sua ala sinistra, si toglieva la maschera "rivoluzionaria" e, in luglio, raggiungeva i ranghi di Ciang Kai-scek scatenando anche là la repressione. Le orde militari si lanciarono al massacro e alla distruzione nelle campagne delle province del centro e del sud. I lavoratori furono assassinati a decine di migliaia in tutta la Cina.
L'Esecutivo dell'IC, tentando di mascherare la sua politica nefasta e criminale di collaborazione di classe, scaricò tutte le responsabilità sul PCC ed i suoi organi centrali e, in particolare, sulla corrente che, giustamente si era opposta a questa politica (la corrente di Chen Tu-hsiu). Per completare il lavoro, l' Esecutivo ordina al PCC di impegnarsi in una politica avventurista che termina con la cosiddetta "insurrezione di Canton". Questo assurdo tentativo di un colpo di forza “pianificato” non è seguito dal proletariato di Canton e finì solo col sottomettere definitivamente quest'ultimo alla repressione. Questo fatto segna definitivamente la fine del movimento operaio in Cina, di cui non si vedrà più nessuna espressione significativa durante i successivi quaranta anni.
La politica dell'IC verso la Cina, fu uno degli assi di denuncia dello stalinismo in crescita, che si trova all'origine dell'Opposizione di Sinistra, la corrente incarnata da Trotsky (nella quale lo stesso Chen Tu-hsiu finì per impegnarsi). Questa corrente confusa e tardiva di opposizione alla degenerazione dell'IC, benché si fosse mantenuta su un terreno di classe proletario a proposito della Cina - denunciando la sottomissione del PCC al KMT come causa della disfatta della rivoluzione - non arrivò mai a superare il quadro erroneo delle Tesi del 2° Congresso dell'IC sulla questione nazionale. Sarà questo uno dei fattori che la condurranno - a sua volta - ad una deriva opportunista (per ironia della storia Trotsky sosterrà il nuovo fronte di classe uscito fuori, in Cina, dalle lotte imperialiste a partire dagli anni '30), fino al suo passaggio nel campo della controrivoluzione nel corso della 2a guerra mondiale (11). In una maniera o nell'altra tutto ciò che aveva qualcosa di rivoluzionario e internazionalista in Cina fu chiamato "trotskysmo" (anni successivi, Mao Tse-tung perseguiterà come "agenti trotskysti dell'imperialismo giapponese" i pochi internazionalisti che si opponevano alla sua politica controrivoluzionaria).
Quanto al PCC, esso fu letteralmente annientato, dopo che 25.000 militanti furono assassinati dal KMT e altri imprigionati o perseguitati. Senza dubbio dei rifugiati del partito comunista, così come alcuni distaccamenti del KMT, poterono rifugiarsi in campagna. Ma a questo dislocamento geografico corrispondeva un dislocamento politico sempre più profondo: negli anni successivi il partito adottò un'ideologia borghese, la sua base - diretta dalla piccola borghesia e dalla borghesia - diventò a predominanza contadina e partecipò a campagne e guerre imperialiste. A prezzo del mantenimento delle sue dimensioni, il PCC cessò di essere un partito della classe operaia e si convertì in partito della borghesia; questa, però, è un'altra storia, oggetto di una eventuale seconda parte di questo articolo.
Segnaliamo, in guisa di conclusione, alcuni insegnamenti dal movimento rivoluzionario in Cina:
* La borghesia cinese non cessò di essere rivoluzionaria nel momento in cui essa si lanciò contro il proletariato nel 1927. Già dalla "rivoluzione del 1911", la borghesia nazionalista aveva mostrato il suo atteggiamento a dividersi il potere con la nobiltà, ad allearsi con i militaristi e a sottomettersi alle potenze imperialiste. Le sue aspirazioni democratiche, "antimperialiste" e perfino "rivoluzionarie", erano solo la maschera che nascondeva i suoi interessi reazionari; questi vennero alla luce quando il proletariato cominciò a rappresentare una minaccia. Nel periodo di decadenza, le borghesie dei paesi deboli sono altrettanto reazionarie e imperialiste di quelle delle grandi potenze.
* La lotta di classe del proletariato in Cina dal 1919 al 1927 non può essere analizzata in un contesto puramente nezionale. Essa costituisce un momento dell'ondata rivoluzionaria mondiale che scosse il capitalismo all'inizio del secolo. La forze elementare con la quale si sollevò il movimento operaio in Cina, settore del proletariato modiale considerato allora debole, al punto di essere in grado di prendere spontaneamente in mano le grandi città, mostra il potenziale che la classe operaia possiede per abbattere la borghesia, anche se per fare questo ha bisogno della coscienza e dell'organizzazione rivoluzionarie.
* Il proletariato non può più allearsi con nessuna frazione della borghesia. Per contro, può trascinare nel suo movimento settori della piccola borghesia urbana e contadina (come mostrano l' insurrezione di Shanghai e il movimento contadino di Kuang-Tong). In ogni caso il proletariato non deve fondersi con questi settori in nessun fronte di sorta ma deve mantenere in ogni momento la sua autonomia di classe.
* Il proletariato, per vincere, ha bisogno di un partito politico che lo orienti nei momenti determinanti, così come di un'organizzazione unitaria in consigli operai. Deve, particolarmente, dotarsi in tempo del suo Partito Comunista mondiale, fermo nei principi e temprato nella lotta prima che scoppi la successiva ondata rivoluzionaria internazionale. Questo partito deve essere in grado di combattere in permanenza l'opportunismo che sacrifica l'avvenire della rivoluzione in nome dei "risultati immediati".
Leonardo
NOTE
1. Nel quadro di questo articolo non possiamo dilungarci sulla lotta condotta dalle Frazioni di sinistra dell’Internazionale contro l’opportunismo e la degenerazione di questa, lotta che si sviluppava nello stesso periodo degli avvenimenti cinesi. A nostra conoscenza esse furono le sole a esprimere un manifesto firmato in comune da tutta l’Opposizione, compresa la Sinistra italiana. Si tratta del Manifesto “Ai comunisti cinesi e del mondo intero!” (La Verité, 12 settembre 1930). Su questa questione vedere il nostro libro La Sinistra Comunista d’Italia e, nella edizione francese della Révue Internationale, la serie di articoli sulla Sinistra Olandese.
2. Questa degenerazione procedeva di pari passo con quella dello Stato sorto dalla rivoluzione, che portò alla costituzione dello Stato capitalista nella sua forma stalinista. Vedi il Manifesto del 9° Congresso della CCI.
3. Lenin, Rapporto della Commissione nazionale e coloniale per il II Congresso dell’Internazionale Comunista, 26 luglio 1920. Riportato in “La question chinoise dans l’Internationale communiste”, presentazione e compilazione di Pierre Broué.
4. “Tesi e tesi integrative sulla questione nazionale e coloniale”, in A. Agosti: La Terza Internazionale, Editori Riuniti.
5. Detti anche i portatori d’acqua. Espressione utilizzata da Borodin, delegato dell’I.C. in Cina nel 1926. Vedi E. H. Carr: Il socialismo in un solo paese, Einaudi
6. Chen Tou-hsiou: citato da lui stesso nella sua “Lettera a tutti i membri del PCC”, riportato in La question chinoise, opera citata.
7. Ciang Kai-scek era stato nominato membro onorario qualche settimana prima, e il Kuomintang “partito simpatizzante” dell’Internazionale. Anche dopo il colpo di forza, i consiglieri russi rifiutarono di fornire 5.000 fucili agli operai e contadini del sud, riservandoli all’esercito di Ciang Kai-scek.
8. Si parla molto del ruolo di organizzazione giocato dai sindacati nel movimento in Cina. E’ vero che durante questo periodo i sindacati sorgono e si sviluppano di pari passo con lo sviluppo del movimento di scioperi. Tuttavia, quando essi non cercano di contenere il movimento nel quadro delle rivendicazioni economiche, la loro politica resta sottomessa al Kuomintang (compresa quella dei sindacati influenzati dal PCC). Il movimento di Shangai si darà così come obiettivo di aprire la via all’esercito nazionalista. Nel dicembre del 1927 i sindacati del Kuomintang arriveranno a partecipare alla repressione contro gli operai. Che le sole organizzazioni di massa di cui dispongono gli operai siano i sindacati non costituisce evidentemente un vantaggio, ma traduce la loro debolezza.
9. Lettera da Shangai dei tre membri della missione dell’I.C. in Cina, datata 17 marzo 1927. Riportata in “La question chinoise”, op. cit.
Il BIPR ha risposto, nella International Communist Review n.l3, al nostro articolo di polemica "La concezione del BIPR sulla decadenza del capitalismo", apparso sul n.79 della nostra Revue Internationale.
Nella misura in cui questa risposta espone chiaramente le tesi del BIPR, essa costituisce un contributo al necessario dibattito che deve esistere fra le organizzazioni della Sinistra Comunista, che hanno una responsabilità decisiva nella costruzione del partito comunista del proletariato.
Il dibattito fra il BIPR e la CCI si situa all’interno del quadro della Sinistra Comunista:
· non é un dibattito accademico e astratto, ma una polemica militante, il cui scopo é di arrivare a stabilire posizioni chiare, libere da ogni ambiguità o concessione all'ideologia dominante, in particolare sulle questioni della natura della guerra imperialista e delle condizioni fondamentali per la rivoluzione comunista;
· é un dibattito fra sostenitori dell'analisi della decadenza del capitalismo: dall'inizio del secolo il sistema é entrato in una crisi permanente che minaccia sempre di più la sopravvivenza stessa dell'umanità e del pianeta.
All'interno di questo quadro comune di posizioni, la risposta del BIPR insiste sulla sua visione della guerra imperialista come mezzo di svalorizzazione del capitale e per la ripresa del ciclo di accumulazione, giustificando la sua posizione su una spiegazione della crisi storica del capitalismo basata sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. La nostra risposta verterà pertanto su questi due punti fondamentali[1].
Cosa accomuna noi ed il BIPR
In una polemica fra rivoluzionari, proprio per il suo carattere militante, é giusto cominciare da quello che ci unisce, per affrontare quello che ci divide all’interno di un quadro complessivo. E' il metodo che la CCI ha sempre utilizzato, sull'esempio di Marx, Lenin, Bilan, ecc., e che abbiamo utilizzato nella polemica sullo stesso argomento con il P. C. Internazionale (quello che pubblica Il Comunista in Italia e Le Proletaire in Francia, oltre alla rivista teorica Programme Communiste in lingua francese )[2]. Noi ci teniamo a sottolinearlo in primo luogo perché la polemica fra rivoluzionari ha sempre per scopo la chiarificazione ed il raggruppamento nella prospettiva della costituzione del partito mondiale del proletariato. In secondo luogo perché, fra il BIPR e la CCI, senza negare né relativizzare l’importanza e le conseguenze delle divergenze che abbiamo sulla natura della guerra imperialista, quello che condividiamo é molto più importante:
1. Per il BIPR, le guerre imperialiste non hanno obbiettivi limitati, ma sono guerre totali, di gran lunga più distruttive di qualsiasi guerra del periodo ascendente.
2. Nelle guerre imperialiste i fattori economici e politici sono indissolubilmente intrecciati fra di loro.
3. Il BIPR rigetta l’idea secondo cui il militarismo e la produzione di armi sarebbero una via per “l’accumulazione del capitale”[3].
4. In quanto espressione della decadenza del capitalismo, le guerre imperialiste contengono la minaccia di distruzione dell’umanità.
5. Esistono oggi nel capitalismo importanti tendenze al caos ed alla decomposizione (sebbene, come vedremo, il BIPR non vi dia la stessa importanza che vi diamo noi).
Questi elementi di convergenza spiegano la nostra comune capacità di denunciare e combattere le guerre imperialiste come momenti supremi della crisi storica del capitalismo, chiamando il proletariato a non scegliere fra i differenti lupi imperialisti, ma a schierarsi per la rivoluzione proletaria, unica soluzione all’impasse sanguinosa in cui il capitalismo ha intrappolato l’umanità e combattendo sia l’oppio pacifista sia le menzogne capitaliste sulla sempre prossima “uscita dalla crisi”.
Questi elementi, espressione di una comune tradizione della Sinistra Comunista, rendono necessario e possibile che, di fronte ad eventi dell’importanza della Guerra del Golfo o della ex-Jugoslavia, i gruppi della Sinistra Comunista facciano dei manifesti comuni che esprimano la voce unita dei rivoluzionari di fronte alla loro classe. Per questo, nel quadro delle Conferenze Internazionali del 1977-80, noi proponemmo una dichiarazione comune di fronte all’invasione russa dell’Afghanistan e ci dispiace che né Battaglia Comunista né la Communist Workers Organisation (che hanno successivamente formato il BIPR) abbiano allora dato il loro assenso all’iniziativa. Lungi dall’essere proposte di “unioni opportuniste e di circostanza” simili iniziative costituiscono degli strumenti di lotta per la chiarificazione e la delimitazione delle posizioni all’interno della Sinistra Comunista, perché creano un quadro concreto e militante (si tratta di non venire meno ad un dovere verso la classe che si trova di fronte a passaggi importanti dell’evoluzione storica) in cui dibattere seriamente le divergenze. Questo era il metodo di Marx e di Lenin: a Zimmerwald, malgrado l’esistenza di divergenze di ben altra importanza rispetto a quelle che possono oggi esistere fra la CCI ed il BIPR, Lenin fu d’accordo a firmare il Manifesto di Zimmerwald. Analogamente, quando la III Internazionale fu costituita, fra i suoi fondatori c'erano divergenze importanti, non solo sull'analisi della guerra imperialista, ma anche su questioni tipo l'utilizzazione del parlamento o i sindacati. Ma ciò non impedì loro di unirsi per lottare insieme per la rivoluzione mondiale che era all'ordine del giorno. Questa lotta comune non era una cappa per mettere a tacere le divergenze ma costituiva, al contrario, la piattaforma militante al cui interno le divergenze potevano essere seriamente discusse, evitando sia i dibattiti accademici, sia le fughe settarie in avanti.
La funzione della guerra imperialista
Le divergenze tra il BIPR e la CCI non riguardano le cause generali della guerra imperialista. Aderendo alla comune tradizione della Sinistra Comunista, noi tutti la consideriamo come espressione della crisi storica del capitalismo. Le divergenze si manifestano quando si va a definire il ruolo della guerra nel capitalismo decadente. Il BIPR ritiene che la guerra svolga una funzione economica: permettere la svalutazione del capitale e, di conseguenza, aprire la possibilità di un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica.
Questa ipotesi non sembrerebbe priva di fondamento logico: non c’è stata, prima di una guerra mondiale, una crisi generalizzata come quella del 1929? Quando c'é una crisi di sovrapproduzione di uomini e merci, la guerra non é forse una “soluzione”, visto che permette di distruggere su larga scale operai, macchine e costruzioni? E dopo la guerra non viene forse la ricostruzione e con questa la fine della crisi? Questa visione, per quanto apparenterete coerente, ha però il limite della superficialità. Si fissa su una parte del problema (il fatto che il capitalismo si avvita in un ciclo infernale di crisi - guerra - ricostruzione - nuova crisi...) ma non va alla radice del problema: da una parte, la guerra é molto di più che un semplice mezzo per far ripartire l'accumulazione capitalista, dall'altra questo ciclo é profondamente degenerato e corrotto e di gran lunga diverso dai classici cicli di accumulazione del periodo ascendente.
Questa visione superficiale della guerra imperialista ha delle importanti implicazioni per l'azione militante di cui il BIPR non sembra rendersi conto. Nei fatti, se la guerra permette il ristabilirsi dei meccanismi dell'accumulazione capitalistica, questo significa che il capitalismo sarà sempre capace di uscire dalle sue crisi con il brutale ma fattivo espediente della guerra. Questo é esattamente ciò che ci viene detto dalla propaganda borghese: la guerra é una cosa terribile che tutti vorrebbero evitare, ma é il passaggio inevitabile per una nuova era di pace e di prosperità.
Il BIPR ovviamente denuncia queste menzogne, ma non si rende conto che la sua denuncia é indebolita dalla sua teoria della guerra come “mezzo per la svalutazione del capitale”. Per capire le conseguenze pericolose di questa posizione, conviene esaminare questa dichiarazione di Programme Communiste:
“Le origini della crisi si trovano nell'impossibilità di continuare l'accumulazione, un impossibilità che si manifesta quando la crescita della massa dei prodotti non può più compensare la caduta del saggio di profitto. La massa del pluslavoro totale nel capitalismo avanzato non é più sufficiente ad assicurare un profitto, a ricreare le condizioni di redditività per gli investimenti. Distruggendo del capitale costante (lavoro morto) su scala massiccia, la guerra svolge dunque un ruolo economico fondamentale: grazie alle spaventose distruzioni dell’apparato produttivo essa permette una futura gigantesca espansione della produzione per rimpiazzare quello che è stato distrutto, e quindi una parallela espansione del profitto, del plusvalore totale, in una parola del pluslavoro che è all’origine del capitale. Le condizioni per il rilancio dell’accumulazione capitalista sono ristabilite. Il ciclo economico riparte. (...). Il sistema capitalista mondiale entra in guerra decrepito, ma acquista nuova vita dall’immane bagno di sangue e ne esce con la vitalità di un robusto neonato”[4].
Dire che il capitalismo “acquista nuova vita” ogni volta che passa per una guerra mondiale ha delle chiare implicazioni revisioniste: la guerra mondiale non metterebbe all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria, ma il ringiovanimento del capitalismo che torna alle sue origini. Questo distrugge dalle fondamenta l'analisi della III Internazionale che affermava chiaramente: “Una nuova epoca é nata. L'epoca della disintegrazione del capitalismo, del suo collasso interno. L'epoca della rivoluzione comunista del proletariato”. Si tratta, né più né meno, di rompere con una posizione di base del marxismo secondo cui il capitalismo non é un sistema eterno, ma un modo di produzione i cui limiti storici gli impongono di attraversare una fase di decadenza in cui é all'ordine del giorno la rivoluzione comunista.
Nei numeri 77 e 78 della Revue Internationale, nella nostra polemica con la visione della guerra e della decadenza di Programme Communiste, noi riportavamo e criticavamo la citazione sopra riportata. Questo viene ignorato dal BIPR che nel suo articolo sembra voler difendere Programme quando afferma che “Il dibattito della CCI con i bordighisti è centrato su un punto di vista apparente secondo cui esiste una relazione meccanica tra guerra e ciclo di accumulazione. Diciamo “apparente” perché, come al solito, la CCI non riporta nessuna citazione per provare che i bordighisti abbiano una visione storica così schematica. Quando poi pensiamo al modo in cui la CCI interpreta le nostre posizioni, allora siamo ancor meno inclini ad accettare le loro asserzioni su Programme Communiste”[5].
La citazione che avevamo riportato sulla Revue Internationale n.77 parla da sola e chiarisce che, nella posizione di Programme c’é qualcosa di più che un po’ di “schematismo”. Se il BIPR evita di prendere posizione, nascondendosi dietro nostre presunte “false interpretazioni”, é perché, per quanto non arrivi a ripetere le aberrazioni di Programme, le sue ambiguità lo spingono per la stessa china: “Noi affermiamo che la funzione (sottolineato nell’originale) economica della guerra mondiale (e cioè le sue conseguenze per il capitalismo) é quella di svalutare il capitale come necessario preludio ad un nuovo ciclo di accumulazione”[6].
Questa idea di una “funzione economica della guerra imperialista” proviene da Bukarin, che la avanzò in un libro scritto nel 1915 (“L'imperialismo e l'economia mondiale”). Il libro in questione rappresenta un contributo su argomenti come le lotte di liberazione nazionale o il capitalismo di stato, ma cade in un errore non secondario quando individua la guerra imperialista come uno strumento dello sviluppo capitalista: “la guerra non può bloccare il corso generale dello sviluppo del capitalismo mondiale ma è, al contrario, l’espressione della massima espansione del processo di centralizzazione ... La guerra ricorda, per la sua influenza economica, su molti aspetti, le crisi industriali, differendone solo per la maggior intensità delle convulsioni sociali e delle devastazioni”.
Tuttavia la guerra imperialista non é un mezzo per "svalutare il capitale", ma un'espressione del processo storico di distruzione e sterilizzazione dei mezzi di produzione e della vita stessa, che caratterizza globalmente il capitalismo decadente.
Distruzione e sterilizzazione di capitale non é la stessa cosa che svalutazione di capitale. Era nel periodo ascendente del capitalismo che si scatenavano crisi periodiche che portavano alla periodica svalutazione del capitale. E’ il movimento segnalato da Marx: “Simultaneamente alla caduta del saggio di profitto, la massa del capitale si accresce, e questo si associa alla svalutazione del capitale esistente, che frena questa caduta e dà un’accelerazione all'accumulazione di capitale valore... La svalutazione periodica del capitale esistente, che é un mezzo insito nel modo di produzione capitalistico per rallentare la caduta del saggio di profitto e per accelerare l’accumulazione di capitale valore attraverso la formazione di nuovo capitale, perturba le condizioni date in cui si svolge il processo di circolazione e di riproduzione del capitale, ed é pertanto accompagnata da brusche interruzioni dei processi produttivi”[7].
Il capitalismo, per sua natura, fin dalle sue origini porta inevitabilmente alla sovrapproduzione, sia nella fase ascendente che in quella di decadenza. In questo senso, il capitale è costretto a svenarsi periodicamente per far ripartire con più forza il normale processo di produzione e circolazione di merci. Nel periodo ascendente, ogni fase di svalutazione del capitale portava ad una espansione ad un livello superiore dei rapporti di produzione capitalisti. E questo era possibile perché il capitalismo trovava nuovi territori precapitalisti da integrare e da sottomettere ai suoi rapporti salariali e mercantili. Per questa ragione: “le crisi del 19° secolo descritte da Marx sono ancora crisi di crescita, crisi da cui il capitalismo esce ogni volta rafforzato... Dopo ogni crisi, vi sono ancora nuovi mercati aperti alla conquista dei paesi capitalisti”[8].
Nella decadenza del capitalismo queste crisi di svalutazione del capitale continuano fino al punto di diventare più o meno croniche[9]. Il fatto é che questa caratteristica, insita nel capitalismo stesso, va oggi a sovrapporsi ad un'altra caratteristica sviluppatasi nella fase di decadenza e che è il frutto dell’aggravarsi delle contraddizioni di questa epoca, ovvero la tendenza alla distruzione e alla sterilizzazione di capitale.
Questa tendenza nasce dalla situazione di blocco storico creata dalla decadenza del capitalismo: “Che cosa é una guerra imperialista mondiale? E’ la lotta combattuta con mezzi violenti che i differenti gruppi capitalisti sono obbligati a scatenare non per conquistare nuovi mercati e fonti di materie prime, ma per la ridistribuzione di quelli esistenti, una ripartizione in cui si guadagna qualcosa solo a spese di qualcun'altro. Il corso alla guerra si apre ed ha le sue radici nella crisi economica generale e permanente che é arrivata al punto di esplosione, indicando che il regime capitalista ha raggiunto i limiti delle sue possibilità di espansione”. Ed ancora: “Il capitalismo decadente é la fase in cui la produzione può continuare solo a condizione (sottolineato nell'originale) che i prodotti ed i mezzi di produzione prendano una forma materiale che non servano allo sviluppo ed all'estensione della produzione ma alla sua limitazione e distruzione”[10].
Nella decadenza, la natura del capitalismo non é affatto cambiata. Continua ad essere un sistema di sfruttamento, ad essere caratterizzato (ed in modo più grave) dalla tendenza alla svalutazione del capitale (tendenza divenuta permanente). Tuttavia quello che caratterizza la decadenza é la situazione di blocco storico del sistema da cui nasce una potente tendenza all'autodistruzione ed al caos: “In assenza di una classe rivoluzionaria che abbia la possibilità storica di dare luogo e dirigere la costruzione di un sistema economico corrispondente alle necessità storiche, la società e la civiltà si trovano in un vicolo cieco, in cui il collasso e la disintegrazione interna sono inevitabili. Marx dava come esempi di una simile impasse storica le antiche civiltà greca e romana. Engels applicò questa tesi alla società borghese, arrivando alla conclusione che l'assenza o l'incapacità del proletariato di risolvere le contraddizioni irriducibili della società capitalista, attraverso la sua distruzione, non può avere altro risultato che il ritorno alla barbarie”[11].
La posizione dell'Internazionale Comunista sulla guerra imperialista
Il BIPR ridicolizza la nostra insistenza su questa caratteristica del capitalismo decadente: “Per la CCI tutto si riduce a “caos” e “decomposizione”, dopodiché non c'é bisogno di sforzarsi troppo con analisi dettagliate. E’ questa la chiave della loro posizione”[12]. Ritorneremo in seguito su questo argomento, per il momento ci limitiamo a far notare che questa accusa di eccessiva semplificazione, che per loro rappresenta la negazione del marxismo come metodo di analisi della realtà, potrebbe essere rivolta allo stesso modo al Io Congresso dell’I.C., a Lenin ed a Rosa Luxemburg.
Lo scopo di questo articolo non é quello di analizzare i limiti delle prese di posizione dell'Internazionale Comunista[13], ma di appoggiarci sui quanto c’era di chiaro in esse. Esaminando i documenti di fondazione dell'IC vediamo che contengono un chiaro rifiuto dell’idea che la guerra possa essere una “soluzione” per la crisi capitalista e che il capitalismo possa tornare ad un funzionamento "normale", analogo ai cicli di accumulazione del periodo ascendente.
“La politica di pace dell’Intesa rivela definitivamente agli occhi del proletariato internazionale la vera natura dell'imperialismo dell'Intesa e dell'imperialismo in generale. E rivela anche che i governi imperialisti sono incapaci di concludere una pace “giusta e stabile” e che il capitale finanziario non é capace di risollevare l'economia in pezzi. La continuazione del dominio del capitale finanziario porterà o alla completa distruzione della civiltà o ad un incremento senza precedenti nei livelli di sfruttamento ed asservimento, alla reazione politica, ad una politica di armamenti ed infine a nuove distruttive guerre”[14].
L’IC mette bene in chiaro che il capitalismo non può ristabilire l'economia distrutta, cioè che non può ristabilire, attraverso la guerra, un “normale” ciclo di accumulazione, in poche parole, non può ritrovare una "nuova giovinezza" come dice Programme. In più, piuttosto che provocare un "ristabilimento", questa situazione profondamente viziata ed alterata favorisce lo sviluppo di “armamenti, della reazione politica, dell’accrescimento dello sfruttamento”.
Nel Manifesto del I° Congresso, l’IC dichiarava che: “La distribuzione delle materie prime, I'utilizzazione del petrolio di Baku o della Romania, del carbone del bacino del Don, del grano ucraino, l’utilizzazione delle locomotive, dei camion e delle autovetture tedesche, il razionamento dei soccorsi per l'Europa affamata - tutte queste questioni fondamentali per l'economia mondiale non sono più regolate né dal libero mercato, né da associazioni di trust nazionali o internazionali, ma dall'applicazione diretta della forza militare, per il bene della sua autoconservazione. Se la completa dominazione del potere politico da parte del capitale finanziario ha portato l'umanità al massacro imperialista, questo massacro ha permesso al capitale finanziario non solo di militarizzare fino in fondo lo Stato, ma anche se stesso, tanto che esso non é più capace di svolgere le sue funzioni essenziali se non con ferro ed il sangue”[15].
La prospettiva tracciata dalla Internazionale Comunista é quella di una "militarizzazione dell'economia", che é considerata da tutti i marxisti come un'espressione dell'aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo e non come un loro alleviarsi, fosse anche temporaneo (il BIPR nella sua replica rigetta il militarismo come mezzo di accumulazione del capitale). L’IC insisteva anche sul fatto che l'economia mondiale non poteva tornare né al periodo della libera concorrenza né a quello dei monopoli ed infine esprimeva un’idea molto importante: “il capitalismo non é più capace di svolgere le sue funzioni economiche essenziali se non con il ferro e il sangue”. Questo può essere interpretato in un solo modo: con la guerra mondiale il meccanismo dell'accumulazione non può più funzionare in modo normale, ma per funzionare ha bisogno del “ferro e del sangue”.
Quello che l’Internazionale Comunista prevedeva per il dopoguerra era un periodo in cui si sarebbe aggravata la minaccia di nuove guerre: “Gli opportunisti che prima della guerra invitavano i lavoratori a moderare le loro rivendicazioni in nome della graduale transizione al socialismo e che, durante la guerra, li hanno obbligati a rinunciare alla lotta di classe in nome della Union Sacrée e della difesa nazionale, esigono dal proletariato un nuovo sacrificio, questa volta in nome della necessità di riparare ai guasti della guerra. Se queste prediche fossero accettate dalle masse lavoratrici, Io sviluppo capitalista proseguirebbe, sacrificando nuove generazioni con forme nuove di assoggettamento, ancora più concentrate e mostruose, con la prospettiva di una nuova inevitabile guerra mondiale”[16].
Fu una tragedia storica il fatto che l’IC non fu capace di sviluppare questo chiaro corpo di analisi e che, al contrario, giunse a contraddirlo nel corso della sua degenerazione, con posizioni che insinuavano l'idea che il capitalismo potesse “tornare alla normalità", riducendo l'analisi del suo declino e della prospettiva di barbarie a semplici declamazioni retoriche. Tuttavia, il compito della Sinistra Comunista é quello di approfondire ed articolare le grandi linee sviluppate dall'IC ed é chiaro, dalle citazioni riportate, che queste non vanno nella direzione di un'analisi basata su un ciclo costante e regolare di accumulazione - crisi - guerra con svalutazione - nuova accumulazione..., ma piuttosto verso un'economia mondiale profondamente alterata, incapace di ritrovare le condizioni normali di accumulazione e prossima a nuove convulsioni e distruzioni.
L’irrazionalità della guerra imperialista
Questa sottostima delle analisi di fondo dell'IC (e di Rosa Luxemburg e di Lenin) diventa chiara nel rigetto, da parte del BIPR, della nostra nozione di irrazionalità della guerra: “Ma l'articolo della CCI altera il significato di questa affermazione (della funzione della guerra, ndr) perché il loro successivo commento è che il BIPR sarebbe d’accordo con il fatto che “vi è una razionalità economica al fenomeno della guerra”. Ciò implicherebbe che noi consideriamo la distruzione dei valori come l’obiettivo del capitalismo, cioè che questa sarebbe la causa (sottolineato nell’originale) diretta della guerra. Ma le cause non sono la stessa cosa delle conseguenze. Le classi dominanti degli stati imperialisti non decidono coscientemente di scatenare le guerre per svalutare il capitale”[17].
Anche nel periodo ascendente del capitalismo le crisi cicliche non venivano deliberatamente causate dalle classi dominanti. Ciononostante, le crisi cicliche avevano una loro “razionalità economica”; permettendo al capitale di svalorizzarsi e, di conseguenza, rilanciando ad un nuovo livello l'accumulazione capitalistica. Il BIPR pensa che le guerre mondiali del periodo di decadenza abbiano il ruolo di svalutare il capitale e di rilanciare l'accumulazione. In una parola, gli attribuiscono una razionalità economica simile a quella delle crisi cicliche del periodo ascendente.
Questo é precisamente l'errore di fondo che noi criticammo alla CWO, predecessore del BIPR, sedici anni fa nell'articolo “Teorie economiche e lotta per il socialismo”:
“Possiamo vedere come l'errore di Bukarin si ripeta nelle analisi della CWO: ‘ogni crisi conduce (attraverso la guerra) alla svalutazione del capitale costante, innalzando così il tasso di profitto e permettendo che il ciclo di ricostruzione-boom economico-crisi-guerra sia ripetuto di nuovo’ (Revolutionary Perspectives n.6 ). Dunque, per la CWO, le crisi del capitalismo decadente sono viste in termini economici come le crisi cicliche del capitalismo ascendente, ripetute al più alto livello”[18].
Per il BIPR la differenza fra ascendenza e decadenza del capitalismo sta solo nel livello di grandezza delle periodiche interruzioni del processo di accumulazione: “Le cause della guerra si trovano nella determinazione della borghesia di difendere il valore del suo capitale contro la concorrenza. Nel periodo ascendente tale rivalità si svolgeva essenzialmente sul piano economico e fra imprese concorrenti. Quelle che erano capaci di raggiungere un maggior grado di concentrazione dei capitali (tendenza del capitale alla concentrazione ed al monopolio) si trovavano nella posizione di poter mettere i concorrenti con le spalle al muro. Questa rivalità portava anche ad una sovraccumulazione di capitale che portava a sua volta alle crisi decennali del secolo scorso. In queste crisi le imprese più deboli soccombevano o venivano assorbite dai concorrenti più forti. Ad ogni crisi corrispondeva una svalutazione di capitale, in modo da poter partire con un nuovo giro di accumulazione, ma ogni volta il capitale ne usciva più concentrato e centralizzato.... Nell'era del capitalismo monopolistico, in cui la concentrazione ha raggiunto il livello di Stati nazionali, la politica e l’economia sono diventati inseparabili nella fase imperialista o decadente del capitalismo.... In questa epoca le politiche richieste dalla difesa del valore del capitale coinvolgono gli Stati stessi ed esasperano le rivalità fra le potenze imperialiste”[19]. Di conseguenza “le guerre imperialiste non hanno obiettivi limitati (come nel periodo ascendente, ndr); una volta scatenate c'é solo una lotta a morte, fino a che una nazione o un blocco di nazioni non sia distrutto militarmente ed economicamente. Le conseguenze della guerra non si limitano alla distruzione fisica di capitale, ma anche ad una svalorizzazione massiccia del capitale esistente”[20].
Alla base di questa analisi c'é una forte tendenza economicista che percepisce la guerra solo come un prodotto immediato e meccanico dell'evoluzione economica. Nel nostro articolo sulla Revue Internationale n.79 noi abbiamo dimostrato che la guerra ha una radice economica globale (la crisi storica del capitalismo), ma che questo non implica che ogni guerra abbia una motivazione economica immediata e diretta. Il BIPR, cercando le cause economiche della guerra del Golfo, é finito nell’economicismo più volgare dicendo che era una guerra per i pozzi di petrolio. Allo stesso modo il BIPR spiega la guerra nella ex-Jugoslavia con gli appetiti delle grandi potenze per non si sa quali mercati[21]. E' vero che, sotto la pressione delle nostre critiche e dell'evidenza dei fatti, ha corretto in seguito la sua analisi, ma é anche vero che non è stato capace di rimettere in discussione l’economicismo di fondo che non può concepire una guerra senza una causa “economica” diretta ed immediata[22].
Il BIPR confonde fra di loro rivalità commerciale e rivalità imperialista, che non sono necessariamente la stessa cosa. La rivalità imperialista ha come causa di fondo una situazione economica di saturazione del mercato mondiale, ma questo non significa che abbia come origine diretta la semplice concorrenza commerciale. La sua origine è economica, militare e strategica, coagulando al loro interno fattori politici e storici.
Allo stesso modo, nel periodo ascendente del capitalismo, se le guerre (coloniali o di liberazione nazionale) avevano una ragione economica di fondo (la formazione di nuove nazioni o I'espansione del capitalismo attraverso la formazione di colonie) esse non erano tuttavia motivate in prima istanza dalle rivalità commerciali. Per esempio, la guerra franco-prussiana aveva delle origini dinastiche e strategiche ma non era causata né da una crisi commerciale insolubile per nessuno dei due contendenti né da particolari rivalità commerciali. Il BIPR riesce a comprendere fino ad un certo punto questa realtà quando afferma: “Anche se le guerre post-napoleoniche del 19° secolo non mancavano di atrocità (come la CCI correttamente sottolinea) la differenza essenziale sta nel fatto che queste guerre venivano combattute per scopi specifici che permettevano di raggiungere conclusioni rapide e negoziate. La borghesia del XIX secolo aveva ancora la missione programmatica di sbarazzarsi dei residui del vecchio modo di produzione e di creare delle vere nazioni”[23]. In più, il BIPR individua molto bene la differenza con il periodo decadente: “I costi di un ulteriore sviluppo delle forze produttive non sono inevitabili. In più questi costi hanno raggiunto un livello tale da minacciare l'esistenza stessa della civiltà, sia a breve termine (inquinamento ambientale, carestie, genocidio) che a lungo termine (guerre imperialiste generalizzate)”[24].
Noi non possiamo che sottoscrivere pienamente queste affermazioni del BIPR. Dobbiamo però fargli una domanda molto semplice: che significa il fatto che le guerre della decadenza abbiano degli “obiettivi totali” e che il prezzo del mantenimento del capitalismo può arrivare fino a rischiare la distruzione dell'umanità? Come é possibile che queste situazioni di convulsioni e distruzione, che il BIPR riconosce come qualitativamente differenti rispetto a quelle del periodo di ascendenza, corrispondano ad una situazione economica di rinnovo dei cicli di accumulazione del capitale, che sarebbero identici a quelli della fase ascendente?
La malattia mortale del capitalismo decadente il BIPR la vede solo nei periodi di guerra generalizzata, ma non la vede nei momenti di apparente normalità, nei periodi in cui, secondo loro, si sviluppa il ciclo di accumulazione del capitale. Questo lo conduce ad una pericolosa dicotomia: da una parte vede cicli di normale accumulazione in cui é pos-sibile constatare una crescita reale, dove si producono "rivoluzioni tecnologiche", dove il proletariato cresce. In questi periodi di pieno vigore del ciclo di accumulazione, il capitalismo sembra tornare alle origini, la sua crescita sembra quella della sua gioventù (il BIPR non arriva a fare una simile affermazione, mentre Programme Communiste lo dice apertamente). Dall'altra parte vi sono periodi di guerra generalizzata, in cui la barbarie del capitalismo decadente si manifesta in tutta la sua brutalità e violenza.
Questa dicotomia ricorda fortemente quella che esprimeva Kautsky nella sua Tesi sul “super-imperialismo”: da una parte egli riconosceva che, con la 1a guerra mondiale, il capitalismo era entrato in un'epoca di catastrofi e convulsioni ma dall’altra sosteneva che, contemporaneamente, vi era una tendenza “obiettiva” verso una concentrazione suprema del capitalismo in un grande trust imperialista che gli avrebbe permesso di evitare concorrenze e guerre. Nell'introduzione al libro di Bukharin già citato (L'economia mondiale e l'imperialismo), Lenin denunciò questa contraddizione centrista di Kautsky: “Kautsky ha promesso di comportarsi da marxista nell'epoca dei gravi scontri e delle catastrofi che è stato costretto a prevedere e di definire quando, nel 1909, ha scritto la sua opera su questo tema. Ora che è assolutamente fuori dubbio che quest'epoca é arrivata, Kautsky si contenta di continuare a promettere che farà il marxista nella futura fase del superimperialismo, una fase che lui stesso non sa bene se arriverà mai o no. In altre parole, da Kautsky possiamo avere tutte le promesse che vogliamo sul fatto che farà il marxista in qualche altra epoca, ma mai che lo farà nelle condizioni presenti, mai che lo farà adesso”.
Noi ci guardiamo bene dal dire che succederà la stessa cosa al BIPR. Tuttavia l’analisi marxista della decadenza del capitalismo viene tenuta gelosamente nascosta dal BIPR per il periodo in cui la guerra scoppierà, mentre per il periodo di accumulazione si fa un’analisi che fa delle concessioni alle menzogne borghesi sulla “prosperità” e la “crescita” del sistema.
La sottovalutazione della gravità del processo di decomposizione capitalista
Questa tendenza a difendere l'analisi marxista della decadenza solo per i periodi di guerra aperta spiega le difficoltà che ha il BIPR a comprendere lo stadio attuale della crisi storica del capitalismo: “La CCI é stata coerente a partire dalla sua fondazione venti anni fa nel lasciare da parte ogni tentativo di analizzare come i capitalisti affrontino la crisi attuale. In effetti sembra che per loro ogni tentativo di analizzare le caratteristiche specifiche della crisi attuale equivalga a dire che il capitalismo ha risolto la crisi. Ma le cose non stanno così. Quello che spetta ai marxisti attualmente é proprio di cercare di comprendere perché la crisi attuale superi in lunghezza la “Grande Depressione” del 1873‑96. Ma mentre quest'ultima era una crisi causata dall'ingresso del capitalismo nella sua fase monopolistica ed era pertanto risolvibile con una semplice svalutazione economica, la crisi attuale minaccia l'umanità con una catastrofe di gran lunga più terribile”[25].
I compagni del BIPR sembrano dare per scontato che la CCI abbia rinunciato ad ogni analisi concreta dell'andamento della crisi attuale. Per convincersi del contrario basterebbe loro studiare gli articoli che pubblichiamo regolarmente, in ogni numero della Revue Internationale, analizzando la crisi in tutti i suoi vari aspetti. Per noi la crisi aperta nel 1967 costituisce la riapparizione aperta della crisi cronica e permanente del capitalismo decadente, é la manifestazione di un blocco profondo e sempre più incontrollabile del meccanismo di accumulazione del capitale. Le "carat-teristiche specifiche" della crisi attuale costituiscono i diversi tentativi del capitale, attraverso il rafforzamento dell'intervento statale e la fuga nel debito e nelle acrobazie monetarie e commerciali, per evitare un'esplosione distruttiva della sua crisi di fondo e, allo stesso tempo, la evidenziazione del fallimento di tali rimedi e i loro effetti perversi che aggravano ancora di più il male incurabile del capitalismo.
Il BIPR ritiene che il “compito principale” dei marxisti sia di spiegare l'eccezionale lunghezza della crisi attuale. Non ci sorprende che questi compagni siano tanto colpiti dalla lunghezza della crisi, dato che non capiscono il problema di fondo: noi non siamo alla fine di un normale ciclo di accumulazione, ma ad una situazione storica di blocco prolungato, di alterazione profonda del meccanismo di accumulazione. Una situazione in cui il capitalismo, per dirla con l'Internazionale Comunista, non può più assicurare le sue funzioni economiche essenziali se non con il ferro e il sangue.
Il fatto di non riuscire ad afferrare questo problema fondamentale spinge il BIPR a ridicolizzare ancora una volta la nostra posizione sull’attuale fase storica di caos e di decomposizione del capitalismo: “Anche se si può essere d’accordo sul fatto che esistono tendenze alla decomposizione ed al caos (venti anni dopo la fine del ciclo di accumulazione, sarebbe difficile aspettarsi qualcosa di diverso), questi non possono essere usati come slogan per evitare un’analisi concreta di quello che succede”[26].
Come si può vedere, quello che preoccupa i compagni é il nostro supposto “semplicismo”, una sorta di “pigrizia intellettuale” che si rifugerebbe in drammatiche grida sulla gravità e il caos della situazione del capitalismo, come un tic per evitare il peso di un'analisi concreta della situazione stessa.
La preoccupazione dei compagni é giusta. I marxisti debbono e dovranno sempre preoccuparsi di analizzare il dettaglio degli eventi (é uno dei loro compiti nella lotta proletaria), evitando di cadere in generalizzazioni retoriche nello stile del “marxismo ortodosso” di Longuet in Francia o delle vaghezze anarchiche che possono anche sembrare confortanti ma che, nei momenti decisivi, portano a gravi sbandate opportuniste, se non al tradimento vero e proprio.
Tuttavia per poter fare un’analisi concreta di “quello che accade” bisogna avere una quadro globale chiaro ed é qui che i compagni del BIPR hanno dei problemi. Nella misura in cui non si rendono conto della gravità del livello di degenerazione e delle contraddizioni interne del capitalismo nei "tempi normali" della fase di accumulazione, è l'intero processo di decomposizione e caos del mondo capitalistico mondiale, processo aggravatosi con il collasso del blocco orientale nel 1989, a sfuggire alla loro comprensione.
Il BIPR dovrebbe ricordarsi le incredibili stupidaggini che tirò fuori al momento del crollo dei paesi stalinisti, quando fantasticava sui “favolosi mercati” che questi paesi ridotti in rovine avrebbero offerto ai paesi occidentali, alleviando perciò stesso la crisi economica. Da allora, di fronte all'evidenza dei fatti ed anche grazie alle nostre critiche, i compagni hanno corretto i loro errori ed hanno così dimostrato la loro serietà di fronte al proletariato. Ma il BIPR deve fare di più. Deve chiedersi: come sono possibili simili sbandate? Come é possibile che le posizioni debbano cambiare sotto la pressione degli eventi? Che razza di avanguardia é quella che é a rimorchio degli avvenimenti, invece di essere capace di prevederli? Il BIPR dovrebbe studiare con attenzione i nostri testi sulle caratteristiche generali del processo di decomposizione del capitalismo[27]: scoprirebbe che il problema non é il nostro “semplicismo”, ma il suo ritardo nel comprendere a fondo questo problema.
Il fatto che il problema sia proprio questo é ulteriormente dimostrato da questa citazione del BIPR: “Una prova ulteriore dell’idealismo della CCI è data dall’accusa finale che questa porta contro il BIPR che non avrebbe “una visione unitaria e globale della guerra”, il che lo porterebbe alla “cecità ed irresponsabilità” (sic) di non vedere che una prossima guerra non potrebbe avere “altra conseguenza che la completa distruzione del pianeta”. La CCI potrebbe anche avere ragione, anche se ci farebbe piacere conoscere le basi scientifiche della loro previsione. Noi stessi abbiamo sempre detto che la prossima guerra mette in discussione la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma non c’è la certezza che vada a finire così. La prossima guerra imperialista potrebbe alla fine non portare alla distruzione dell'umanità. Ci sono dei sistemi di distruzione di massa (ad esempio quelli biologici o chimici) che nelle guerre precedenti non sono stati usati, e non é detto che la prossima volta l'olocausto nucleare debba estendersi all'intero pianeta. Nei fatti, gli attuali preparativi di guerra delle grandi potenze prevedono lo smantellamento di ordigni di distruzione di massa, mentre vengono sviluppate armi del tipo cosiddetto convenzionale. Perfino la borghesia comprende che un pianeta distrutto non serve a nessuno (anche se le forze che portano alla guerra e la natura della guerra stessa sono in ultima analisi fuori del suo controllo)”[28].
Il BIPR dovrebbe rileggere i libri di storia: nella II Guerra Mondiale tutti gli eserciti hanno utilizzato qualsiasi mezzo di distruzione, cercando disperatamente di inventarne degli altri. Durante la seconda guerra mondiale, quando la Germania era già stata sconfitta, la città di Dresda fu distrutta con una serie di bombardamenti con bombe incendiarie ed a frammentazione, mentre gli USA lanciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki quando il Giappone era stato esso stesso già sconfitto. Dopo di allora, il potenziale distruttivo delle bombe sganciate su Hanoi in una sola notte del 1971 risultò superiore a quello sganciato su tutta la Germania nel corso di tutti i bombardamenti del 1945. A sua volta il "bombardamento a tappeto" di Baghdad da parte degli "alleati" ha polverizzato il terribile primato di Hanoi. Nella stessa guerra del Golfo il governo USA ha sperimentato nuove armi di tipo chimico e nucleare-convenzionale sui suoi stessi soldati. D'altronde, é stato di recente rivelato che negli anni '50 gli Stati Uniti hanno condotto esperimenti di armi batteriologiche sulla loro stessa popolazione... Di fronte a questa massa di evidenze e notizie che possono essere lette su qualsiasi pubblicazione borghese, il BIPR ha la disonestà e l'ignoranza di fantasticare sul grado di controllo della borghesia, sul suo “interesse” ad evitare una distruzione totale! E' un suicidio politico stare a sognare una borghesia disposta ad usare armi “meno distruttive”, quando gli ultimi 80 anni di storia provano l'esatto contrario.
In queste fantasticherie stupide il BIPR non solo non capisce la teoria, ma disinvoltamente ignora la ripetuta e schiacciante evidenza dei fatti. Questi compagni dovrebbero capire il carattere sbagliato e revisionista di queste illusioni da piccolo-borghesi impotenti, che si afferrano alla pagliuzza dell'idea che “perfino la borghesia comprende che un pianeta distrutto non serve a nessuno”.
Il BIPR deve superare la sua posizione centrista, le oscillazioni tra una coerente posizione sulla guerra e la decadenza del capitalismo e le dubbie teorizzazioni sulla guerra come strumento di svalutazione del capitale e di rilancio dell'accumulazione. Questi errori lo portano a non prendere in considerazione o a non utilizzare seriamente come strumento coerente d’analisi ciò che esso stesso afferma, quando ad esempio dice che: “le forze che portano alla guerra e la natura della guerra sono in ultima analisi al di fuori del suo (della borghesia) controllo”.
Per il BIPR questa frase è una semplice parentesi retorica mentre, se volesse essere pienamente fedele alla Sinistra Comunista e comprendere la realtà storica, dovrebbe prenderla per guida nell'analisi, come asse della sua riflessione per comprendere concretamente sia i singoli fatti che le tendenze storiche del capitalismo oggi.
Adalen
[1] In questa replica il BIPR sviluppa anche altri argomenti, tra cui una particolare concezione del capitalismo di stato, che tuttavia non prenderemo in considerazione qui.
[2] Vedi nei numeri 77 e 78 della Revue Internazionale l’articolo: “Il rigetto della nozione di decadenza conduce alla smobilitazione del proletariato di fronte alla guerra”.
[3] I compagni si dichiarano d’accordo con la nostra posizione ma, invece di riconoscere I'importanza e le conseguenze di questa convergenza di analisi, reagiscono in maniera settaria accusandoci di essere disonesti nel modo in cui prendiamo posizione contro l’errore commesso da Rosa Luxemburg sul “militarismo come campo di accumulazione del capitale”. In realtà, come vedremo poi, la comprensione del fatto che il militarismo non costituisce un mezzo di accumulazione del capitale é un argomento a favore della nostra tesi fondamentale sul freno crescente dell’accumulazione nella fase decadente e non un argomento contro. D’altra parte il BIPR si sbaglia quando afferma che é in seguito alle loro critiche che abbiamo cambiato posizione su questo argomento. Per convincersene non debbono fare altro che leggere i testi dei nostri predecessori (La Sinistra Comunista di Francia) che hanno dato un contributo fondamentale all'analisi dell'economia di guerra a partire da una critica sistematica dell'idea di Vercesi della "guerra come soluzione alla crisi capitalista". Vedi in particolare “Il rinnegato Vercesi” (1944).
[4] Programme Communiste n.90, p.24, citato nella nostra polemica nella Revue Internationale n.77; p.20.
[5] “Le basi materiali della guerra imperialista”, International Communist Review, n°l3, p. 29.
[6] “Le basi materiali della guerra imperialista”, International Communist Review, n°l3, p. 29.
[7] Marx, Il Capitale, 3° libro, sezione 3, Capitolo XV, parte 2.
[8] “Teorie della crisi, da Marx all’Internazionale Comunista”, Revue Internationale n.22.
[9] Vedi in proposito, nell’articolo di polemica con il BIPR della Revue Internationale n.79, il paragrafo “La natura dei cicli di accumulazione nella decadenza del capitalismo”.
[10] “Il rinnegato Vercesi”, maggio 1944, Bollettino Internazionale della Frazione Italiana della Sinistra Comunista n°5, maggio 1944.
[11] “Le basi materiali della guerra imperialista”, p.30.
[12] idem
[13] L’Internazionale Comunista, al suo primo Congresso, considerava come compito urgente e prioritario quello di promuovere gli sforzi rivoluzionari del proletariato mondiale e di raggruppare le forze di avanguardia. In questo senso la sua analisi sulla guerra e il dopoguerra, sull’evoluzione del capitalismo, ecc. non potevano andare al di là della definizione di alcune linee generali. Il corso successivo degli eventi, la sconfitta del proletariato ed il rapido estendersi della gangrena opportunista all'interno stesso dell’I.C., portarono a contraddire queste linee generali mediante elaborazioni teoriche (in particolare la polemica di Bucharin contro R. Luxemburg nel suo libro “L'imperialismo e l'accumulazione del capitale” del 1924) che costituivano brutali passi indietro rispetto alla chiarezza dei primi due Congressi.
[14] “La situazione internazionale e la politica dell’Intesa”, in Tesi, Risoluzioni e Manifesti dei primi quattro Congressi della III Internazionale.
[15] Idem.
[16] Idem.
[17] “Le basi materiali della Guerra Imperialista”, p. 29.
[18] Revue Internationale n°16, p.14-15.
[19] “Le basi materiali della guerra imperialista”, p. 29-30.
[20] Idem.
[21] Vedi l’articolo “Il campo politico proletario di fronte alla Guerra del Golfo” nella Révue Internationale n°64.
[22] Nel Gennaio 1991 Battaglia Comunista annunciò, a proposito della Guerra del Golfo, che “la III Guerra Mondiale é cominciata il 17 Gennaio” (giorno dei primi bombardamenti degli "alleati" su Bagdad). Nel giornale successivo i compagni si resero conto di averla sparata grossa ma, invece di tirarne le giuste lezioni, ribadirono che “in questo senso, affermare che la guerra cominciata il 17 Gennaio segna l'inizio della III Guerra Mondiale non é un volo pindarico ma un riconoscimento del fatto che siamo entrati in una fase in cui i conflitti commerciali, che si sono accentuati a partire dall'inizio degli anni '7O, non possono trovare soluzione diversa dalla prospettiva di una guerra generalizzata”. Vedi il nostro articolo “Come non capire lo sviluppo del caos e dei conflitti imperialisti”, nella Revue Internationale n°72, in cui analizziamo questa ed altre sviste del BIPR.
[23] “Le basi materiali della guerra imperialista”.
[24] Idem.
[25] Idem.
[26] Idem.
[28] “Le basi materiali della Guerra imperialista”, p.36.
Dopo i bombardamenti israeliani nel sud Libano della scorsa primavera le tensioni interimperialiste in Medio Oriente sono andate crescendo Ancora una volta tutti i discorsi dei difensori della borghesia sull’avvento di una pretesa “era di pace” in questa regione che è una delle principali polveriere imperialiste del pianeta vengono smentite. Questa zona, che per quaranta anni è stata un obiettivo di primo piano per i due vecchi blocchi, è oggi al centro della lotta accanita tra le grandi potenze imperialiste che compongono l’ex blocco occidentale. Dietro questo rinnovarsi delle tensioni imperialiste c’è fondamentalmente la crescente contestazione verso la prima potenza mondiale in una delle sue principali riserve di caccia, contestazione che guadagna anche i suoi alleati e luogotenenti più vicini.
La prima potenza mondiale contestata nel suo feudo
La politica dei muscoli messa in piedi dagli Stati Uniti negli ultimi anni per rafforzare la loro dominazione su tutto il Medio Oriente e tenerne fuori tutti i loro rivali, ha conosciuto una vera mazzata con l’arrivo al potere di Netanyhau in Israele, e questo mentre Washington non aveva nascosto un forte appoggio al candidato laburista, Simon Peres. Le conseguenze di questo fallimento elettorale non hanno tardato a farsi sentire. Contrariamente a Peres che controllava solidamente il partito laburista, Netanyhau non riesce a fare altrettanto con il suo, il Likud. Netanyhau è sottomesso alla pressione delle frazioni più dure e arcaiche del Likud il cui capofila è Ariel Sharon, colui che aveva violentemente denunciato le ingerenze americane nelle elezioni israeliane, ingerenze che, secondo lui, riducevano Israele “al rango di una semplice repubblica delle banane”. Egli affermava così apertamente la volontà di certi settori della borghesia israeliana di avere una maggiore autonomia rispetto alla pesante tutela americana. Queste frazioni spingono oggi alla politica del “tanto peggio tanto meglio” rimettendo in causa l’insieme del “processo di pace” imposto dal grande padrino americano attraverso l’accordo del tandem Rabin-Peres sia rispetto ai palestinesi (nuovi insediamenti di coloni che erano stati sospesi dal governo laburista vengono ora ripresi) che rispetto alla Siria sulla questione del Golan. Sono state ancora queste frazioni che hanno fatto di tutto per ritardare l’incontro, previsto da lunga data, tra Arafat e Netanyhau e che, quando infine questo ha avuto luogo, si sono attivate per svuotarlo di ogni contenuto.
Questa politica non può non mettere in difficoltà l’uomo degli Stati Uniti, Arafat, al punto che quest’ultimo non potrà mantenere a lungo il controllo delle sue truppe se non alzando nettamente il tono (come ha cominciato già a fare) e avviarsi così verso un nuovo stato di belligeranza con Israele.
Allo stesso modo, tutti gli sforzi impiegati dagli Stati Uniti, alternando il bastone e la carota, per far sì che la Siria accettasse di partecipare al loro “piano di pace”, sforzi che cominciavano a dare i loro frutti, si trovano oggi rimessi in causa per la nuova intransigenza israeliana.
L’arrivo al potere del Likud ha avuto conseguenze anche sull’altro grande alleato degli Stati uniti nella regione, sul paese che, dopo Israele, è il principale beneficiario dell’aiuto americano in Medio Oriente, cioè l’Egitto; e ciò mentre già questo stato chiave del “mondo arabo” è, da un po’ di tempo, oggetto di tentativi di aggancio da parte dei rivali europei della prima potenza mondiale. Dall’invasione israeliana del Sud Libano, l’Egitto tende a demarcarsi sempre più dalla politica americana rafforzando i suoi legami con la Francia e la Germania e denunciando sempre più violentemente la nuova politica di Israele a cui è tuttavia legato da un accordo di pace.
Ma quello che è senza dubbio uno dei sintomi più spettacolari del nuovo dato imperialista che è sul punto di crearsi nella regione, è l’evoluzione della politica dello Stato Saudita (quello che servì da quartier generale all’esercito americano durante la guerra del Golfo) rispetto al suo tutore americano. Quali che siano i veri mandanti, l’attentato compiuto a Dahran contro le truppe USA mirava direttamente alla presenza militare americana ed esprimeva già un netto indebolimento della presa della prima potenza mondiale in una delle sue principali roccaforti in Medio Oriente. Ma se si aggiunge a questo l’accoglienza particolarmente calorosa riservata alla visita di Chirac, capo di uno stato che è in prima fila nella contestazione della leadership americana, si misura tutta l’importanza dell’indebolimento delle posizioni americane in quello che era, ancora poco tempo fa, uno Stato sottomesso mani e piedi ai diktat di Washington. Manifestamente, la pesante dominazione dello “zio Sam” è sempre più mal sopportata da certe frazioni della classe dominante saudita che cercano, avvicinandosi a certi paesi europei, di staccarsene un po’. Che il principe Abdallah, successore designato al trono, sia alla testa di queste frazioni mostra la forza della tendenza antiamericana che è sul punto di svilupparsi.
Che alleati così sottomessi e dipendenti dagli Stati Uniti, come Israele e Arabia Saudita, possano manifestare delle reticenze a seguire in tutti i punti i diktat dello “zio Sam”, che essi non esitino a tessere relazioni più strette con i principali contestatari dell’”ordine americano”, significa chiaramente che i rapporti di forza interimperialisti in quello che era ancora poco tempo fa un terreno di caccia esclusivo della principale potenza mondiale conoscono una modificazione importante.
Nel 1995 gli Stati Uniti erano confrontati a una situazione difficile nella ex-Jugoslavia, in compenso però regnavano da padroni assoluti sul Medio oriente. Essi erano riusciti in effetti, grazie alla guerra del Golfo, a cacciare totalmente dalla regione le potenze europee. La Francia vedeva la sua presenza in Libano ridotta a niente e perdeva allo stesso tempo la sua influenza in Iraq. Quanto alla Gran Bretagna, essa non veniva per niente ricompensata della sua fedeltà e della sua partecipazione attiva durante la guerra del Golfo nel momento in cui Washington non le concedeva che qualche irrisoria briciola della ricostruzione del Kuwait. Al momento dei negoziati israelo-palestinesi l’Europa si è vista offrire un misero strapuntino, mentre gli Stati Uniti giocavano il ruolo di direttore d’orchestra avendo in mano loro tutte le carte del gioco. Questa situazione si è globalmente protratta fino allo show di Clinton al summit di Sharm El Sceik sul terrorismo. Ma, in seguito, l’Europa è riuscita a fare una nuova sortita nella regione, prima con discrezione, poi sempre più apertamente e fortemente, profittando del fiasco della operazione israeliana nel Sud-Libano della primavera scorsa e sfruttando con abilità le difficoltà della prima potenza mondiale.
Quest’ultima, in effetti, incontrava sempre più ostacoli nel fare pressione non solo sui più tradizionali avversari dell’”ordine americano”, come la Siria, ma anche su alcuni dei suoi più solidi alleati, come per esempio l’Arabia Saudita, e questo in una riserva di caccia come il Medio Oriente così essenziale per il mantenimento della leadership della superpotenza americana, un sintomo chiaro delle serie difficoltà incontrata da quest’ultima per mantenere il proprio primato sull’arena imperialista mondiale.
La leadership degli USA malmenata sulla scena mondiale
Il rovescio subito in Medio Oriente dal gendarme americano deve tanto più essere sottolineato in quanto avviene solo qualche mese dopo la vittoriosa controffensiva che essi erano riusciti a condurre nella ex-Jugoslavia. Offensiva che era finalizzata innanzitutto a rimettere al passo i suoi ex-alleati europei che erano passati alla ribellione aperta. Nel numero 85 della Révue Internationale pur sottolineando il notevole passo indietro imposto al tandem franco-britannico in questa occasione, mettevamo allo stesso tempo in evidenza i limiti di questo successo americano, giacchè le borghesie europee, costrette ad indietreggiare nella ex-Jugoslavia, avrebbero cercato un altro terreno per dare una risposta all’imperialismo americano. Questa previsione si è ampiamente verificata. con gli avvenimenti degli ultimi mesi in Medio Oriente. Se gli Stati Uniti conservano globalmente il controllo della situazione nella ex-Jugoslavia - ma anche laggiù essi devono sempre confrontarsi alle manovre sottobanco degli europei - attualmente si vede che il dominio che essi esercitano in Medio Oriente, finora senza ostacoli, è sempre più rimesso in causa.
Ma non è solo in Medio Oriente che la prima potenza mondiale è confrontata con la contestazione alla sua leadership, e le sue difficoltà non si limitano a questa zona del mondo. Nel terribile scontro che coinvolge in particolare le grandi potenze imperialiste, scontro che è la principale manifestazione di un sistema moribondo, è praticamente sull’insieme del pianeta che gli USA sono confrontati a tentativi più o meno aperti di rimessa in discussione della loro leadership.
Nel Maghreb, i tentativi americani per sloggiare l’imperialismo francese, o almeno per diminuirne fortemente l’influenza, si scontrano con serie difficoltà e volgono per il momento verso il fallimento. In Algeria, il movimento islamico, largamente utilizzato dagli Stati uniti per destabilizzare e portare colpi duri al regime al potere e all’imperialismo francese, è in crisi aperta. I recenti attentati del GIA vanno considerati più come atti di disperazione di un movimento sul punto di scoppiare che la manifestazione di una forza reale. Il fatto che il principale finanziatore delle frazioni islamiche, l’Arabia Saudita, sia sempre più reticente a continuare a finanziarle, indebolisce allo stesso tempo i mezzi di pressione americani. Se in Algeria la situazione è lungi dall’essere stabilizzata, la frazione che è al potere grazie all’appoggio dell’esercito e del padrino francese ha nettamente rafforzato le sue posizioni dopo la rielezione del sinistro Zerual. Allo stesso tempo la Francia è riuscita a serrare i suoi legami con la Tunisia e il Marocco, laddove quest’ultimo era stato negli ultimi anni particolarmente sensibile al canto delle sirene americane.
Nell’Africa nera, dopo il successo che sono arrivati a raggiungere in Ruanda, attraverso la cacciata della cricca legata alla Francia, gli Stati Uniti sono oggi confrontati a una situazione molto più difficile. Se l’imperialismo francese ha rafforzato la sua credibilità intervenendo in maniera muscolosa in Centroafrica, gli Stati Uniti, al contrario, hanno subito un rovescio in Liberia, dove sono stati costretti ad abbandonare i loro protetti. Così hanno tentato di riprendere l’iniziativa in Burundi, cercando di ripetere quello che era riuscito loro in Ruanda; ma anche qui si sono scontrati con una vigorosa risposta della Francia che ha fomentato, con l’appoggio del Belgio, il colpo di stato del maggiore Bouyaya, rendendo impotente la “forza di interposizione africana” che gli Stati Uniti cercavano di mettere sotto il loro controllo.
Bisogna sottolineare che questi successi dell’imperialismo francese - che poco tempo fa era messo alle corde dalla pressione americana - sono dovuti per una buona parte alla sua stretta collaborazione con l’altra vecchia grande potenza coloniale africana che è la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti non solo hanno perso l’appoggio di quest’ultima, ma se la ritrovano oggi contro.
Per quanto riguarda un altro punto importante della battaglia che si svolge tra le grandi potenze europee e la prima potenza mondiale, cioè la Turchia, anche qui gli USA sono in difficoltà. Questo stato ha una importanza strategica al crocevia tra l’Europa, il Caucaso e il Medio Oriente. La Turchia è un alleato storico della Germania ma ha dei solidi legami anche con gli Stati Uniti, in particolare attraverso il suo esercito che è stato largamente formato da questi ultimi quando esisteva il blocco americano. Per Washington far scivolare la Turchia nel suo campo ed allontanarla da Bonn rappresenterebbe una vittoria particolarmente importante. Se la recente alleanza militare tra la Turchia e Israele può sembrare corrispondere agli interessi americani, gli orientamenti del nuovo governo turco - cioè una coalizione tra gli islamici e l’ex primo ministro Ciller - marcano al contrario una netta presa di distanze con la politica americana. Non solo la Turchia continua a sostenere la ribellione cecena contro la Russia, alleata degli Stati Uniti, cosa che fa il gioco della Germania (1), ma essa ha anche appena assestato un pugno in faccia a Washington firmando importanti accordi con due stati particolarmente esposti alla ostilità americana: l’Iran e l’Irak!
In Asia, la leadership americana è altrettanto ostacolata. La Cina non si lascia sfuggire una occasione per affermare le sue proprie prerogative imperialiste anche se queste sono antagoniste a quelle degli Stati Uniti; allo stesso tempo anche il Giappone manifesta velleità crescenti di una più grande autonomia rispetto a Washington. A intervalli regolari si rinnovano manifestazioni contro la presenza di basi americane e il governo giapponese dichiara di voler stringere relazioni politiche più forti con l’Europa. Un paese come la Tailandia, che era un vero bastione dell’imperialismo americano, tende anche esso a prendere le sue distanze cessando di sostenere i Kkhmer rossi che erano i mercenari degli Stati Uniti, facilitando così allo stesso tempo i tentativi della Francia di ritrovare una influenza in Cambogia.
Molto significative ancora di una leadership contestata sono le incursioni che fanno oggi europei e giapponesi in quella che è la riserva di caccia per eccellenza degli Stati Uniti: il retrocasa sudamericano. Anche se queste incursioni non mettono fondamentalmente in pericolo gli interessi americani in questa zona e non possono essere messe sullo stesso piano delle manovre di destabilizzazione, spesso riuscite, che sono condotte in altre regioni del mondo contro di essi, tuttavia è significativo che questo santuario degli Stati Uniti, finora inviolato, sia a sua volta l’oggetto di mire dei suoi concorrenti imperialisti. Ciò marca una rottura storica nel dominio assoluto che la prima potenza mondiale esercitava sull’America Latina dopo la messa in atto della “Dottrina Monroe”. Mentre l’accordo Nafta, al di là degli aspetti economici, mirava prima di tutto a tenere fermamente raccolto sotto la tutela di Washington l’insieme del continente americano, paesi come il Messico, il Perù o la Colombia, a cui bisogna aggiungere il Canada, non esitano più a contestare certe decisioni degli Stati Uniti contrarie ai loro interessi. Recentemente il Messico è riuscito a trascinare praticamente tutti gli stati sudamericani in una crociata contro la legge Helms-Burton promulgata dagli Stati Uniti per rafforzare l’embargo economico contro Cuba e sanzionare ogni impresa che rompesse questo embargo. L’Europa e il Giappone hanno subito sfruttato queste tensioni dovute alla pesante penalizzazione causata da questa legge e che gravava su numerosi stati dell’America Latina. L’eccellente accoglienza riservata al presidente colombiano Samper durante il suo viaggio in Europa, laddove gli Stati Uniti fanno di tutto per buttarlo giù, illustrano bene questa situazione. Così il quotidiano francese Le Monde scrive nel suo numero del 4 settembre ‘96: “Mentre finora gli stati Uniti ignoravano assolutamente il Gruppo di Rio (associazione che raggruppa quasi tutti i paesi del sud del continente) la presenza a Cochabamba (luogo di riunione del gruppo) di miss Albright, ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, è particolarmente significativa. Secondo certi osservatori, è il dialogo politico istaurato tra i paesi del Gruppo di Rio con l’Unione europea, e in seguito anche con il Giappone, che spiega il cambiamento di atteggiamento degli Stati Uniti....”
Sparizione dei blocchi imperialisti, trionfo del “ciascuno per sè”
Come spiegare questo indebolimento della superpotenza americana e la rimessa in questione della sua leadership quando essa resta ancora la prima potenza economica del pianeta e, ancor più importante, dispone di una superiorità militare assoluta su tutti i suoi rivali imperialisti?
A differenza dell’URSS, gli Stati Uniti non sono crollati al momento della sparizione dei blocchi che avevano infestato il pianeta dopo gli accordi di Yalta. Ma questa nuova situazione ha nondimeno toccato la sola superpotenza mondiale restante. Nella “Risoluzione sulla situazione internazionale” del 12° congresso di Révolution Internationale, pubblicata in Rivoluzione Internazionale n. 96, nel sottolineare che il ritorno in forze degli Stati Uniti seguito al loro successo in Jugoslavia non significava per niente che essi avessero definitivamente superato le minacce gravanti sulla loro leadership, scrivevamo: “Queste minacce provengono fondamentalmente dalla tendenza al ‘ciascuno per sè’, dal fatto che manca oggi ciò che costituisce la condizione principale per una reale solidità e perennità delle alleanze tra stati borghesi nell’arena imperialista:l’esistenza di un nemico comune che minacci la loro sicurezza. Le diverse potenze dell’ex blocco occidentale possono anche sottomettersi, di volta in volta, ai diktat di Washington, ma per loro è fuori questione il mantenimento di una qualunque fedeltà duratura. Al contrario, ogni occasione è buona per sabotare, quando è possibile, gli orientamenti e le disposizioni imposte dagli Stati Uniti.”
L’insieme dei colpi portati questi ultimi mesi alla leadership di Washington si iscrive pienamente in questo quadro, l’assenza di un nemico comune fa sì che le manifestazioni di forza americane vedono la loro efficacia ridursi sempre più. Così la “Tempesta nel deserto”, malgrado i considerevoli mezzi politici, diplomatici e militari messi in campo dagli Stati Uniti per imporre il loro “nuovo ordine”, non è riuscita a frenare le velleità di indipendenza degli “alleati” degli Stati Uniti se non per un anno. Lo scoppio della guerra in Jugoslavia nel 1992 segnava, in effetti, il fallimento dell’”ordine americano”. Ed anche il successo riportato dagli Stati Uniti alla fine del 1995 in Jugoslavia non ha potuto impedire che la ribellione si estendesse a partire dalla primavera 1996! In una certa maniera, più gli USA fanno mostra della loro forza, più essi tendono a rinforzare la determinazione dei contestatori dell’”ordine americano”, che trascinano nella loro scia altri Stati fino ad allora docili ai diktat provenienti da Washington.
Così, quando Clinton vuole trascinare l’Europa in una crociata contro l’Iran in nome dell’antiterrorismo, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania gli rispondono come se non avessero sentito. Ancora, le pretese di Clinton di punire gli Stati che commerciano con Cuba, l’Iran o la Libia non hanno avuto come risultato che, come abbiamo visto fino in America Latina, una levata di scudi contro gli Stati Uniti. Questo atteggiamento aggressivo ha una incidenza anche su un paese dell’importanza dell’Italia, il cui cuore oscilla tra gli Stati Uniti e l’Europa. Le sanzioni inflitte a grandi imprese italiane per le loro strette relazioni con la Libia non possono che rafforzare le tendenze pro-europee della borghesia italiana.
Questa situazione traduce il vicolo cieco in cui si trova la prima potenza mondiale:
- o essa non fa niente, rinuncia ad utilizzare la forza (che è il suo solo mezzo di pressione oggi), il che significherebbe lasciare il campo libero ai suoi concorrenti,
- o essa cerca di affermare la sua superiorità per imporsi come gendarme del mondo con una politica aggressiva (cosa che tende a fare sempre più) e ciò le si rivolge immediatamente contro isolandola ancora di più e rafforzando l’ostilità antiamericana un po’ dappertutto nel mondo.
Tuttavia, conformemente alla irrazionalità di fondo dei rapporti interimperialisti nella fase di decadenza del sistema capitalistico, caratteristica accentuata nella fase attuale di decomposizione accelerata, gli Stati uniti non possono che usare la forza per tentare di preservare il loro statuto sull’arena imperialista. Per questo li si vede sempre più ricorrere alla guerra commerciale, che non è più solamente l’espressione della feroce concorrenza economica che lacera un mondo capitalista infognato nell’inferno senza fine della sua crisi, ma anche un’arma per difendere le sue prerogative imperialiste di fronte a tutti quelli che contestano la loro leadership. Ma di fronte a una contestazione di una tale ampiezza la guerra commerciale non può bastare, e la prima potenza del mondo è costretta a fare di nuovo parlare le armi come nel suo intervento di questa estate in Irak.
Lanciando diverse dozzine di missili di crociera su Baghdad, in risposta all’incursione delle truppe di Saddam Hus sein in Kurdistan, gli Stati Uniti mostrano la loro determinazione a difendere le loro posizioni in Medio Oriente e più in generale a ricordare che essi intendono preservare la loro leadership nel mondo. Ma i limiti di questa nuova dimostrazione di forza si mostrano subito:
- a livello dei mezzi messi in opera, che non sono che una pallida replica di quelli della “Tempesta nel deserto”;
- ma anche attraverso il fatto che questa nuova “punizione” che gli Stati Uniti cercano di infliggere all’Irak non beneficia che di pochi appoggi nella regione e nel mondo.
Il governo turco ha rifiutato l’utilizzo delle forze degli Stati Uniti basati nel suo paese, mentre l’Arabia Saudita non ha permesso che gli aerei americani decollassero dal suo territorio per andare a bombardare l’Irak ed ha anche fatto appello a Washington perchè sospendesse la sua azione. I paesi arabi nella loro maggioranza hanno criticato apertamente questo intervento militare. Mosca e Pechino hanno apertamente condannato l’iniziativa americana mentre la Francia, seguita dalla Spagna e dall’Italia, ha nettamente marcato la sua disapprovazione. Si vede a qual punto si è lontani dall’unanimità che gli Stati uniti erano riusciti ad imporre al momento della guerra del Golfo. Una tale situazione è rivelatrice dell’indebolimento subito dalla leadership americana dopo questa epoca. La borghesia americana avrebbe, senza dubbio, auspicato di fare una dimostrazione di forza molto più clamorosa; e non solo in Irak, ma anche, per esempio, contro il regime al potere in Iran. Ma in mancanza di un sostegno e di punti di appoggio sufficienti, anche nella regione, essa è stata costretta a far parlare le armi a un tono minore e con un impatto forzatamente ridotto.
Se questa operazione in Irak è di portata limitata, non si deve tuttavia sottostimare i benefici che gli Stati Uniti ne tirano. A parte la riaffermazione a poco prezzo della loro superiorità assoluta sul piano militare, in particolare in questa loro riserva di caccia che è il Medio Oriente, essi sono riusciti innanzitutto a seminare la divisione tra i loro principali rivali d’Europa. Questi erano riusciti ancora recentemente ad opporre un fronte comune contro Clinton e i suoi diktat riguardo la politica da condurre rispetto a Iran, Libia o Cuba. Che la Gran Bretagna si allinei all’intervento condotto in Irak, al punto che Major “saluta il coraggio degli Stati Uniti”, che la Germania sembri condividere questa posizione, mentre Parigi, sostenuta da Roma e Madrid, contesta la fondatezza di questi bombardamenti, è in tutta evidenza un bel sasso lanciato nel mare dell’Unione europea! Che Bonn e Parigi non siano, ancora una volta, sulla stessa lunghezza d’onda non è una novità. Dalla guerra in Jugoslavia la Francia e la Gran Bretagna non hanno smesso di rafforzare la loro cooperazione (essi hanno firmato ultimamente un accordo militare di grande importante, a cui si è associata la Germania, per la costruzione comune di missili di crociera). Attraverso questo progetto Londra esprimeva, in maniera non si può più chiara, la sua volontà di rompere con una lunga tradizione di cooperazione e di dipendenza militare di fronte a Washington. Allora il sostegno di Londra all’intervento americano in Irak significa che la “perfida Albione” ha infine ceduto alle molteplici pressioni esercitate dagli Stati Uniti per ricondurla nel loro campo e che si prepara a ridiventare il fedele luogotenente dello “zio Sam”? No, perchè questo appoggio non rappresenta un atto di allineamento al padrino d’oltre Atlantico, ma la difesa di interessi particolari dell’imperialismo inglese in Medio Oriente e in particolare in Irak. Dopo essere stato un protettorato britannico, questo paese è progressivamente sfuggito all’influenza di Londra , in particolare dopo l’arrivo al potere di Saddam Hussein. Viceversa la Francia vi ha acquistato solide posizioni; posizioni che si sono ridotte notevolmente dopo la guerra del Golfo ma che la Francia sta riconquistando grazie all’indebolimento della leadership USA in Medio Oriente. In queste condizioni la sola speranza per la gran Bretagna di ritrovare una influenza in questa zona risiede nel rovesciamento del macellaio di Bagdad. E’ questa anche la ragione per cui Londra si è trovata sulla stessa linea dura di Washington riguardo le risoluzioni dell’ONU concernenti l’Irak, mente Parigi, al contrario, non ha smesso di chiedere un addolcimento dell’embargo all’IraK imposto dal gendarme americano.
Se il “ciascuno per sè” è la tendenza generale che insidia la leadership americana, essa insidia anche i suoi contestatori e rende fragili tutte le alleanze imperialiste che, quale che sia la loro relativa solidità, all’immagine di quella tra Londra e Parigi, sono molto più a geometria variabile di quelle che prevalevano all’epoca in cui la presenza di un nemico comune permetteva l’esistenza dei blocchi. Gli Stati uniti, anche se sono le principali vittime di questa nuova situazione storica generata dalla decomposizione del sistema, non possono che cercare di sfruttare a loro vantaggio il “ciascuno per sè” che regge l’insieme dei rapporti interimperialisti. Essi lo hanno già fatto nella ex-Jugoslavia non esitando a istaurare un’alleanza tattica con il loro rivale più pericoloso, la Germania, e tentano oggi la stessa manovra rispetto al tandem franco-britannico. Nonostante i suoi limiti, il colpo così portato alla “unità” franco-britannica rappresenta un successo innegabile per Clinton e la classe politica americana non si è sbagliata nell’apportare un sostegno unanime all’operazione in Irak.
Tuttavia questo successo americano ha una portata molto limitata e non può veramente impedire lo sviluppo del “ciascuno per sè” che mina in profondità la leadership della prima potenza mondiale, nè risolvere il vicolo cieco in cui si ritrovano gli Stati Uniti. In un certo senso, anche se gli Stati Uniti conservano, grazie alla loro potenza economica e finanziaria, una forza che il leader dell’ex-blocco dell’Est non ha mai avuto, si può tuttavia fare un parallelo tra l’attuale situazione degli Stati Uniti e quella della defunta URSS ai tempi del blocco dell’est.
Come essa, fondamentalmente gli USA non dispongono, per preservare la loro dominazione, che dell’uso ripetuto della forza bruta e questo esprime sempre una debolezza storica.
Questa esacerbazione del “ciascuno per sè” e il vicolo cieco in cui si trova il “gendarme del mondo” non fanno che tradurre il vicolo cieco del modo di produzione capitalistico. In questo quadro le tensioni imperialiste tra le grandi potenze non possono che andare crescendo, portare la distruzione e la morte su zone sempre più estese del pianeta e aggravare ancora l’incredibile caos che è già la norma di continenti interi.
Una sola forza è capace di opporsi a questa sinistra estensione della barbarie, sviluppando le sue lotte e rimettendo in causa il sistema capitalistico mondiale fino alle sue fondamenta: il proletariato.
RN, 9 settembre 1996
1) La Germania è costretta alla prudenza a causa del pericolo costituito dalla propagazione dell’incredibile caos russo, ma il fatto che la Polonia e la ex Cecoslovacchia siano più “stabili” rappresenta per essa una zona tampone, una sorta di diga di fronte a questo pericolo, e così essa ha le mani più libere per tentare di realizzare il suo obiettivo storico: l’accesso in Medio oriente, appoggiandosi all’Iran e alla Turchia, e per fare pressione sulla Russia al fine di allentare i legami di questa con gli Stati Uniti. La molto “democratica” Germania si nutre dunque del caos russo per difendere i suoi appetiti imperialisti.
Con il crollo dei regimi stalinisti dell’Europa dell’est alla fine degli anni ‘80 e tutte le campagne propagandistiche che si sono scatenate sulla “morte del comunismo”, la “fine della lotta di classe”, o ancora la “scomparsa della classe operaia”, il proletariato mondiale ha subito una sconfitta ideologica massiccia, una sconfitta aggravata dagli eventi successivi, in particolare la guerra del Golfo del 1991, e che hanno ulteriormente amplificato il suo senso di impotenza. In seguito, soprattutto a partire dai grandi movimenti dell’autunno 1992 in Italia, il proletariato ha ritrovato il cammino delle lotte di classe, attraverso molte difficoltà ma in maniera indiscutibile. Ad alimentare questa ripresa delle lotte proletarie sono stati essenzialmente gli attacchi continui e sempre più brutali che la borghesia di tutti i paesi è costretta a sferrare a mano a mano che il suo sistema economico affonda in una crisi senza uscita. La classe dominante sa perfettamente che non potrà far passare questi attacchi ed impedire che essi portino ad una radicalizzazione delle lotte operaie a meno che non metta in piedi tutto un arsenale politico destinato a deviarle, a condurle in vicoli ciechi, a svuotarle e annullarle. E per fare ciò essa deve contare sulla efficacia di questi organi dello Stato borghese in ambiente operaio che sono i sindacati. In altri termini la capacità della borghesia di imporre la sua legge alla classe sfruttata dipende e dipenderà dal credito che i sindacati ed il sindacalismo saranno capaci di guadagnarsi presso quest’ultima. E’ proprio ciò che gli scioperi della fine del 1995 in Francia ed in Belgio hanno dimostrato in modo chiaro., così come la successiva agitazione sindacale nel principale paese europeo: la Germania.
In due numeri precedenti della Révue Internationale, abbiamo esaminato i mezzi impiegati dalla borghesia all’epoca degli scioperi in Francia della fine del 1995, per prendere l’iniziativa di fronte alla prospettiva del risorgere delle lotte operaie. L’analisi che abbiamo sviluppato su questi eventi può riassumersi nei seguenti estratti dell’articolo che abbiamo pubblicato sulla Revue n. 84 quando il movimento non era ancora concluso:
“In realtà, il proletariato in Francia è il bersaglio di un’ampia manovra destinata ad indebolirlo nella sua coscienza e nella sua combattività, una manovra che si rivolge anche alla classe operaia degli altri paesi allo scopo di fargli trarre false lezioni dagli eventi francesi.” (“Lottare dietro i sindacati porta alla sconfitta”, in italiano in Rivista Internazionale n. 19)
E la principale falsa lezione che la borghesia si proponeva di far tirare alla classe operaia è che i sindacati sono dei veri organi della lotta proletaria:
“Questa opera di ricredibilizzazione dei sindacati costituiva per la borghesia un obiettivo fondamentale, un preambolo indispensabile per sferrare gli attacchi futuri che saranno ancora più brutali di quelli attuali. E’ solo a questa condizione che essa può sperare di sabotare le lotte che non mancheranno di scoppiare al momento di questi attacchi.” (Ibidem.)
Nel n. 85 della Revue abbiamo fatto vedere come, contemporaneamente alla manovra della borghesia francese, la borghesia belga, traendo profitto da quest’ultima, ne aveva sviluppato una copia conforme, incorporando tutti i suoi principali ingredienti:
- una serie di attacchi che toccano tutti i settori della classe operaia (nello specifico contro la previdenza sociale) ma particolarmente provocatori per un settore specifico (in Francia, i lavoratori delle ferrovie e dei trasporti parigini; in Belgio i lavoratori delle ferrovie e della compagnia aerea nazionale); il “metodo Juppé” che concentrava in un breve lasso di tempo una valanga di attacchi, attuati con arroganza e cinismo, fa parte della manovra: bisogna far esplodere il malcontento;
- appelli estremamente radicali dei sindacati all’estensione della risposta operaia che sottolineavano l’esempio del settore “di avanguardia” scelto dalla borghesia;
- dietrofront della borghesia sulle misure specifiche più provocatorie: i sindacati gridano alla vittoria della “mobilitazio-ne” che essi hanno organizzato, i settori “di punta” riprendono il lavoro il che porta alla smobilitazione degli altri settori.
Il risultato di queste manovre è stato che la borghesia è riuscita a far passare le misure di portata più generale, quelle che toccano l’insieme della classe operaia, pur dando l’impressione di fare marcia indietro di fronte alle lotte per accreditare l’idea che queste, sotto la guida dei sindacati, erano state vittoriose. Questo, tutto a beneficio sia dei padroni e del governo che dei sindacati. Così ciò che appariva per molti operai come una “vittoria” o una semi-vittoria (non era difficile per la grande massa dei lavoratori constatare come su delle questioni essenziali, come la assistenza sociale, il governo non aveva fatto marcia indietro) era, in realtà, una sconfitta; una sconfitta sul piano materiale, evidentemente, ma soprattutto una sconfitta politica poiché il principale nemico della classe operaia, il più pericoloso perchè si presenta come suo alleato, l’apparato sindacale, ha accresciuto la sua presa tra gli operai.
Le analisi dei gruppi comunisti
Le analisi delle convulsioni sociali della fine del 1995 fatte dalla CCI, sia sulla stampa che nelle sue riunioni pubbliche, hanno suscitato interesse e approvazione nella maggioranza dei lettori e di coloro che assistevano alle riunioni. Non sono state condivise invece dalla maggior parte delle altre organizzazioni dell’ambiente politico proletario. Nella Révue n. 85, abbiamo messo in evidenza come le due organizzazioni che compongono il BIPR, la Communist Workers Organisation e Battaglia Comunista, si erano lasciate ingannare dalla manovra della borghesia essendo del tutto incapaci di individuare questa manovra. Questi compagni, per esempio, hanno rimproverato alla nostra analisi di veicolare l’idea che gli operai sono degli imbecilli perchè si sarebbero lasciati imbrogliare dalle manovre borghesi. Più in generale essi considerano che, con la nostra visione, la rivoluzione proletaria sarebbe impossibile poichè gli operai sarebbero sempre vittime delle mistificazioni attuate dalla borghesia. Niente di più falso.
Innanzitutto il fatto che gli operai possano oggi lasciarsi ingannare dalle manovre borghesi non significa che sarà sempre così. La storia del movimento operaio è piena di esempi in cui gli stessi operai che si lasciavano intrappolare dietro le bandiere borghesi sono stati capaci, poi, di condurre delle lotte esemplari, anche rivoluzionarie. Sono gli stessi operai russi e tedeschi che, dietro le loro bandiere nazionali si erano sgozzati gli uni con gli altri a partire dal 1914, che in seguito si sono lanciati nella rivoluzione proletaria del 1917, e con successo, i primi, e nel 1918 i secondi, imponendo alla borghesia la fine della carneficina imperialista. La storia ci ha insegnato, più in generale, che la classe operaia è capace di trarre degli insegnamenti dalle sue sconfitte, di sventare le trappole in essa era caduta precedentemente.
E tocca proprio alle minoranze rivoluzionarie, alle organizzazioni comuniste, contribuire attivamente a questa presa di coscienza della classe, ed in particolare denunciare in modo chiaro e deciso le trappole tese dalla borghesia.
E’ così che, nel luglio 1917, la borghesia russa ha tentato di provocare una insurrezione prematura del proletariato della capitale. La frazione più avanzata della classe operaia, il partito bolscevico, ha individuato la trappola ed è chiaro che senza il suo comportamento chiaroveggente, volto ad impedire agli operai di Pietrogrado di lanciarsi nell’avventura, questi ultimi avrebbero subito una sconfitta sanguinosa che avrebbe smorzato lo slancio che li ha condotti poi alla insurrezione vittoriosa di Ottobre. Nel gennaio 1919 (vedi i nostri articoli sulla rivoluzione tedesca nella Révue), la borghesia tedesca ha ripetuto la stessa manovra. Questa volta il suo colpo è andato a segno: il proletariato di Berlino, isolato, è stato schiacciato dai corpi franchi, il che ha inflitto un colpo decisivo alla rivoluzione in Germania e a livello mondiale. La grande rivoluzionaria Rosa Luxemburg è stata capace, con la maggioranza della direzione del partito comunista appena fondato, di comprendere la natura della trappola tesa dalla borghesia., mentre il suo compagno Karl Liebknecht, per quanto aguerrito dagli anni di militantismo rivoluzionario, in particolare durante la guerra imperialista, vi ci cascò. Ciò facendo, egli ha partecipato, per il suo prestigio e suo malgrado, ad una disfatta tragica della classe operaia, che d’altra parte gli costò la vita come a molti altri suoi compagni, tra cui Rosa Luxemburg stessa. Ma anche se quest’ultima ha fatto di tutto per mettere in guardia il proletariato ed i suoi propri compagni contro la trappola borghese, essa non ha mai pensato che questi vi erano cascati perchè erano degli “idioti”. Al contrario, il suo ultimo articolo, scritto alla vigilia della morte, “L’ordine regna a Berlino” insiste su di un concetto essenziale: il proletariato deve imparare dalle sue sconfitte. Ugualmente, affermando che gli operai francesi o belgi sono stati vittime di un inganno teso dalla borghesia, alla fine del 1995, la CCI non ha mai lasciato intendere, o pensato, che gli operai sarebbero degli “idioti”. In realtà, è vero il contrario.
In effetti, se la borghesia si è data la pena di elaborare un piano particolarmente sofisticato contro la classe operaia, con il lcontributo di tutte le forze del capitale, il governo, i padroni, i sindacati ed anche i gruppi estremisti, è proprio perchè essa non sottovaluta la classe operaia. Sa perfettamente che il proletariato di oggi non è quello degli anni 30, che contrariamente ad allora non si farà spingere ancora nella demoralizzazione dalla crisi economica, ma si darà a lotte sempre più possenti e coscienti. Nei fatti, per comprendere la natura e la portata della manovra della fine del 1995 contro la classe operaia, è necessario, preliminarmente, avere riconosciuto che non siamo attualmente in un corso storico dominato dalla controrivoluzione, nel quale la crisi mortale del capitalismo non può portare che alla guerra imperialista mondiale, ma in un corso favorevole agli scontri di classe. Una delle migliori prove di questa realtà si trova nella natura dei temi e dei metodi sostenuti dai sindacati in questa recente manovra. Nel corso degli anni 30, le campagne ideologiche della sinistra e dei sindacati, dominate dall’antifascismo, la “difesa della democrazia” ed il nazionalismo, cioè da temi squisitamente borghesi, sono riuscite a deviare la combattività del proletariato in strade tragiche senza via di uscita e ad intrupparlo, aprendo la porta alla carneficina imperialista. Se, alla fine del 1995, i sindacati sono stati molto discreti su questo tipo di temi, se al contrario hanno adottato un linguaggio “operaio”, proponendo proprio loro delle rivendicazioni e dei “metodi di lotta” classici della classe operaia, è perchè sapevano perfettamente che non potevano riuscire a ridorare il loro blasone agli occhi dei lavoratori, accontentandosi di fare i loro discorsi abituali su “l’interesse nazionale” e altre mistificazioni borghesi. Là dove la bandiera nazionale o la difesa della democrazia potevano essere efficaci nel periodo tra le due guerre per mistificare gli operai, c’è bisogno oggi degli appelli alla “estensione”, a “l’unità di tutti i settori della classe operaia”, alla tenuta di assemblee generali sovrane. Ma bisogna anche notare che se i recenti discorsi sindacali sono riusciti ad ingannare la maggior parte della classe operaia, essi hanno ingannato anche delle organizzazioni che si richiamano alla Sinistra comunista. Il miglior esempio ci è probabilmente fornito dagli articoli pubblicati nel n° 435 del giornale Le Prolétaire, organo del Partito comunista internazionale (PCInt.), che pubblica in italiano Il Comunista, uno dei numerosi PCInt. dell’area bordighista.
Le divagazioni del Prolétaire
Questo numero del Prolétaire dedica più di 4 pagine su 10 agli scioperi della fine del 1995 in Francia. Vengono forniti parecchi dettagli sugli avvenimenti, anche dettagli falsi che provano o che l’autore era ancora male informato o, cosa più probabile, che ha scambiato i suoi desideri per realtà (1). Ma la cosa più sconvolgente in questo numero del Prolétaire è l’articolo di due pagine intitolato “La CCI contro gli scioperi”. Questo titolo già la dice lunga sul tono dell’intero articolo. Nei fatti, noi vi apprendiamo, per esempio, che:
- la CCI sarebbe l’emulo di Thorez, il dirigente stalinista francese, che all’indomani della seconda guerra mondiale dichiarava che “lo sciopero è l’arma dei trust”;
- che si esprime come “un qualunque crumiro”;
- che noi siamo dei “proudhoniani moderni” e dei “disertori (sottolineato da Le Prolétaire) della lotta proletaria”.
E’ certo che l’ambiente parassitario per il quale tutto va bene per denigrare la CCI si è immediatamente rallegrato per questo articolo. In questo senso, Le Prolétaire apporta oggi il suo piccolo contributo (volontario? involontario?) agli attacchi attuali di questo ambiente contro la nostra organizzazione. Noi ’abbiamo sempre dimostrato nella nostra stampa, di non esere contro le polemiche tra le organizzazioni dell’am-biente rivoluzionario. Ma la polemica, per quanto veemente, vuol dire che noi ci situiamo nello stesso fronte della lotta di classe. Per esempio noi non facciamo polemiche con le organizzazioni dell’ estrema sinistra borghese; le denunciamo come organismi della classe capitalista, ciò che Le Prolétaire è incapace di fare perchè definisce un gruppo come Lutte Ouvrière, caposaldo del trotskismo in Francia, come “centrista”. Le sue frecciate più aguzze, Le Prolétaire le riserva alle organizzazioni della Sinistra Comunista come la CCI: se noi siamo dei “disertori”, è perchè avremmo tradito la nostra classe; grazie per farcelo sapere.
Grazie ugualmente da parte dei gruppi parassiti il cui motivetto è che la CCI sarebbe passata allo stalinismo e altre turpitudini. Bisognerà malgrado tutto che un giorno il PCInt. capisca in quale campo si pone: in quello delle organizzazioni serie della Sinistra comunista, o piuttosto in quello dei parassiti che non hanno ragione di essere se non quella di screditarle a solo vantaggio della classe borghese.
Detto ciò, se Le Prolétaire si propone di farci la lezione sulle nostre analisi degli scioperi della fine del 1995, quello che dimostra innanzitutto il suo articolo è:
- la sua mancanza di chiarezza, per non dire il suo opportunismo, sulla questione, essenziale per la classe operaia, della natura del sindacalismo;
- la sua crassa ignoranza della storia del movimento operaio che la porta ad una incredibile sottovalutazione della classe nemica.
La questione sindacale, tallone d’Achille del PCInt. e del bordighismo
Per aumentare la dose, Le Prolétaire parla dell’ “anti-sindacalismo di principio” della CCI. Ciò facendo dimostra che, per il PCInt., la questione sindacale non è una questione “di principio”. Le Prolétaire vuole mostrarsi molto radicale quando afferma:
“Le strutture sindacali sono diventate, alla fine di un processo degenerativo, accelerato dalla vittoria internazionale della controrivoluzione, degli strumenti della collaborazione di classe”; e ancora “se le grandi organizzazioni sindacali si rifiutano testardamente di utilizzare queste armi (i modi di lotta autenticamente proletari), questo non è semplicemente per una cattiva direzione che basterebbe rimpiazzare: decenni di degenerazione e di addomesticamento da parte della borghesia hanno vuotato questi grandi apparati sindacali degli ultimi residui classisti e li hanno trasformati in organi della collaborazione delle classi, che mercanteggiano le rivendicazioni proletarie con il mantenimento della pace sociale... Ciò è sufficiente a dimostrare la falsità della prospettiva trotskista tradizionale di conquistare o riconquistare alla lotta proletaria questi apparati di agenti professionisti della conciliazione degli interessi operai con le esigenze del capitalismo. Per contro molti esempi stanno là a dimostrare che è del tutto possibile trasformare un trotskista in bonzo...”
In realtà ciò che il PCInt. mostra è la sua mancanza di chiarezza e di fermezza sulla natura del sindacalismo. Non è questo che esso denuncia come arma della classe borghese, ma solo gli “apparati sindacali”. In questo modo, non riesce, malgrado le sue affermazioni, a distinguersi dai trotskisti: nella stampa di un gruppo come Lutte Ouvrière si possono oggi trovare lo stesso tipo di affermazioni. Ciò che Le Prolétaire, credendosi fedele alla tradizione della Sinistra Comunista italiana, rifiuta di ammettere è che ogni forma sindacale, piccola o grande, legale e ben introdotta nelle alte sfere dello Stato capitalista o del tutto illegale (come Solidarnosc, per molti anni in Polonia, e le Commissioni Operaie in Spagna sotto il regime franchista) non può essere altro che un organo di difesa del capitalismo. Le Prolétaire accusa la CCI di essere ostile “ad ogni organizzazione di difesa immediata del proletariato”. In questo modo dimostra o la sua ignoranza della nostra posizione o, più probabilmente, la sua cattiva fede. Noi non abbiamo mai detto che la classe operaia non doveva organizzarsi per condurre le sue lotte. Ciò che affermiamo, nella tradizione della Sinistra tedesca, corrente della Sinistra comunista disprezzata dal bordighismo, è che, nel periodo attuale, questa organizzazione è costituita dalle assemblee generali degli operai in lotta, dai comitati di sciopero eletti da queste assemblee e da esse revocabili, dai comitati centrali di sciopero composti da delegati dei vari comitati di sciopero. Per la loro stessa natura, queste organizzazioni esistono durante e per la lotta e sono destinate a scomparire una volta finita la lotta. La loro principale differenza con i sindacati è proprio che esse non sono permanenti, e che non possono, per questo fatto, essere assorbite dallo Stato capitalista. E’ proprio questa la lezione che il bordighismo non ha mai voluto tirare dopo decenni di “tradimento” di tutti i sindacati, quale che sia la loro forma, i loro obiettivi iniziali, le posizioni politiche dei loro fondatori, che essi si definiscano “riformisti” o anche “di lotta di classe”, o ancora “rivoluzionari”. Nel capitalismo decadente, in cui il sistema è incapace di accordare il minimo miglioramento duraturo delle condizioni di vita della classe operaia, ogni organizzazione permanente che si pone come obiettivo la difesa di queste è destinata ad integrarsi nello Stato, a divenire uno dei suoi ingranaggi. Citare, come fa Le Prolétaire sperando di chiuderci la bocca, ciò che diceva Marx dei sindacati nel secolo scorso è lungi dall’essere sufficiente per autoaccordarsi un brevetto di “marxismo”. Dopo tutto, i trotskisti non mancano di riportare altre citazioni di Marx ed Engels contro gli anarchici della loro epoca per attaccare la posizione che i bordighisti condividono oggi con l’insieme della Sinistra comunista: il rifiuto di partecipare alla fiera elettorale. Questo modo di fare del Prolétaire non dimostra che una cosa, e cioè che non ha compreso un aspetto essenziale del marxismo a cui si richiama: questo è un pensiero vivo e dialettico. Ciò che era vero ieri, nella fase ascendente del capitalismo: la necessità per la classe operaia di formare dei sindacati, come di partecipare alle elezioni o anche di sostenere alcune lotte di liberazione nazionale, non vale più oggi nel capitalismo decadente. Prendendo alla lettera certe citazioni di Marx, senza valutare le condizioni alle quali si riferiscono, rifiutando di applicare il metodo di questo grande rivoluzionario, Le Prolétaire non dimostra che la povertà del suo pensiero.
Ma il peggio non è questa miseria in sé, il peggio è che essa conduce a diffondere nella classe delle illusioni sulla possibilità di un “vero sindacalismo”, cosa che porta dritto dritto all’opportunismo. E di questo opportunismo troviamo tracce negli articoli di Le Prolétaire, quando mostra la massima timidezza nel denunciare il gioco dei sindacati:
“Ciò che si può e che si deve rimproverare ai sindacati attuali...” I rivoluzionari non rimproverano niente ai sindacati, come non rimproverano ai borghesi di sfruttare gli operai, ai poliziotti di reprimere le loro lotte: essi li denunciano.
“... le organizzazioni alla testa del movimento, la CGT e FO, che verosimilmente avevano negoziato sotto banco col governo per porvi fine... “ I dirigenti sindacali non “negoziano” con il governo, camminano mano nella mano con lui contro la classe operaia. E non è “verosimilmente”: è sicuro!. Ecco ciò che è indispensabile che gli operai sappiano e che Le Prolétaire è incapace di dir loro.
Il pericolo della posizione opportunista del Prolétaire sulla questione sindacale si manifesta del tutto quando esso scrive. “Ma se noi scartiamo la riconquista degli apparati sindacali, da ciò non concludiamo che bisogna rifiutare di lavorare in questi stessi sindacati, purché questo lavoro si faccia alla base, in contatto con semplici lavoratori e non nelle istanze gerarchiche, e su delle basi di classe”. In altri termini, quando in modo assolutamente sano e necessario degli operai scoraggiati dalle magagne sindacali avranno voglia di strappare la loro tessera, si troverà un militante del PCInt. per accompagnare i discorsi del trotskista di turno: “Non fate ciò, compagni, bisogna restare nei sindacati per farci un lavoro”. Quale lavoro, se non quello di ridorare un po’, alla base, il blasone di queste organizzazioni nemiche della classe operaia?
Perchè non vi è altra scelta:
- o si vuole veramente condurre una attività militante “su delle basi di classe”, e allora uno dei punti essenziali da difendere è la natura antioperaia dei sindacati, non solo della loro gerarchia, ma nel loro insieme; quale chiarezza il militante del PCInt. va a portare ai suoi compagni di lavoro dicendo loro “i sindacati sono nostri nemici, bisogna lottare al di fuori e contro di essi m a io resto dentro”? (2)
- o si vuole restare “in contatto” con la “base” sindacale, “farsi comprendere” dai lavoratori che la compongono, e allora si oppone “base” e “gerarchia imputridita”, cioè la posizione classica del trotskismo; certo si fa allora “un lavoro”, ma non “su delle basi di classe” poichè si mantiene ancora l’illusione che alcune strutture sindacali, la sezione di fabbrica per esempio, possono essere degli organi della lotta operaia.
Vogliamo ben credere che il militante del PCInt., contrariamente al suo collega trotskista, non aspira a diventare un bonzo. Tuttavia avrà fatto lo stesso “lavoro” anti-operaio di mistificazione sulla natura dei sindacati.
Così l’applicazione della posizione del PCInt. sulla questione sindacale ha apportato, ancora una volta, il suo piccolo contributo alla smobilitazione degli operai di fronte al pericolo che rappresentano i sindacati. Ma questa azione di smobilitazione di fronte al nemico non si ferma qua. Essa si scatena di nuovo quando il PCInt. si abbandona ad una sottovalutazione in piena regola della capacità della borghesia di elaborare delle manovre contro la classe operaia.
La sottovalutazione del nemico di classe
In un altro articolo del Prolétaire “Dopo gli scioperi di questo inverno, Prepariamo le lotte future” si può leggere:
“Il movimento di questo inverno mostra proprio che se, in queste circostanze, i sindacati hanno dato prova di una flessibilità inconsueta e hanno lasciato esprimere la spontaneità degli scioperanti più combattivi piuttosto che opporvisi come di consueto, questa tolleranza ha loro permesso di conservare senza grandi difficoltà la direzione della lotta e dunque di decidere in notevole misura del suo orientamento, del suo sviluppo e del suo esito. Quando hanno giudicato che il momento era venuto, hanno potuto dare il segnale della ripresa, abbandonando in un batter d’occhio la rivendicazione centrale del movimento, senza che gli scioperanti potessero opporre alcuna alternativa. L’apparenza democratica e di base della condotta della lotta è stata anche utilizzata contro i bisogni obiettivi del movimento: non sono le migliaia di AG quotidiane degli scioperanti che da sole potevano dare alla lotta la centralizzazione e la direzione di cui essa aveva bisogno, anche se hanno permesso il coinvolgimento e la partecipazione di massa dei lavoratori. Solo le organizzazioni sindacali potevano sopperire a questa carenza e la lotta veniva dunque sospesa con le parole d’ordine e le iniziative lanciate centralmente dalle organizzazioni sindacali e ripercosse dal loro apparato in tutte le AG. L’atmosfera di unità che regnava nel movimento era tale che la massa dei lavoratori non solo non ha sentito né ha espresso del disaccordo con l’orientamento dei sindacati (a parte naturalmente gli orientamenti della CFDT) e la loro direzione della lotta, ma ha anche considerato la loro azione come uno dei fattori più importanti per la vittoria.”
Qui Le Prolétaire ci svela il segreto dell’atteggiamento dei sindacati negli scioperi della fine del 1995.. Il problema è che quando bisogna tirare le lezioni da questa evidente realtà Le Prolétaire, nello stesso articolo ci dice che questo movimento è “il più importante del proletariato francese dopo lo sciopero generale del maggio-giugno 68”, che egli saluta la sua “forza” che ha imposto “un parziale dietrofront del governo”. Decisamente la coerenza di pensiero non è il punto forte del Prolétaire. Bisogna ricordare che anche l’opportunismo sfugge la coerenza come la peste, dal momento che cerca in permanenza di conciliare l’inconciliabile?
Per parte nostra, noi abbiamo concluso che questo movimento che non ha potuto impedire al governo di far passare le sue principali misure antioperaie e che è inoltre riuscito bene nel ridare splendore ai sindacati, come mostra chiaramente Le Prolétaire, non si è fatto contro la volontà dei sindacati o del governo, ma che è stato voluto da loro per raggiungere questi obiettivi. Le Prolétaire ci dice che la caratteristica di questo movimento che “deve diventare un’acquisizione per le lotte future, è stata la tendenza generale a superare le barriere corporative e i limiti delle fabbriche o di amministrazione e ad estendersi a tutti i settori”. E’ del tutto vero. Ma il solo fatto che sia stato con la benedizione, o piuttosto molto spesso sotto la spinta diretta dei sindacati, che gli operai abbiano riconquistato dei metodi veramente proletari di lotta, non costituisce affatto un passo avanti della classe operaia visto che questa conquista è associata per la maggioranza degli operai all’azione dei sindacati. Questi metodi di lotta, la classe operaia, era presto o tardi destinata a scoprirli a seguito di tutta una serie di esperienze. Ma se questa scoperta veniva fatta attraverso il confronto diretto contro i sindacati, ciò avrebbe inferto un colpo mortale a questi ultimi mentre erano già fortemente screditati e ciò avrebbe privato la borghesia di una delle sue armi essenziali per sabotare le lotte operaie. Così, era preferibile per la borghesia che questa scoperta, anche a rischio che fosse fatta troppo presto, fosse infettata e sterilizzata dalle illusioni sindacali.
Il fatto che la borghesia abbia potuto manovrare in tal modo sfugge alla comprensione del Prolétaire:
“A credere alla CCI ‘essa’ (senza dubbio TUTTA LA BORGHESIA) è straordinariamente astuta: spingere “gli operai” (è così che la CCI battezza tutti i salariati che hanno fatto sciopero) ad entrare in lotta contro le decisioni del governo al fine di controllare la loro lotta, di infliggere loro una sconfitta e di far passare poi delle misure ancora più dure, ecco una manovra che avrebbe senza dubbio stupefatto Machiavelli stesso.
I proudhoniani moderni della CCI si spingono più in là del loro antenato poichè accusano i borghesi di provocare la lotta operaia e di fargli ottenere la vittoria per distrarre gli operai dalle vere soluzioni: essi si colpirebbero da soli per evitare di essere colpiti. Aspettiamo ancora un po’ e vedremo nella lanterna magica della CCI i borghesi stessi organizzare la rivoluzione proletaria e la scomparsa del capitalismo al solo scopo di impedire ai proletari di farlo.” (3)
Le Prolétaire si illude certamente di essere molto spiritoso. Buon pro gli faccia! Il problema è che le sue tirate denotano innanzitutto la totale vacuità della sua comprensione politica. Allora per sua regola e perché non resti completamente idiota, ci permettiamo di richiamare qualche banalità:
1° Non è necessario che tutta la borghesia sia “straordinariamente astuta” perchè i suoi interessi siano ben difesi. Per esercitare questa difesa, la classe borghese dispone di un governo e di uno Stato (ma forse Le Prolétaire non lo sa) che definisce la sua politica contando su di un esercito di specialisti (storici, sociologi, politologi, ... e dirigenti sindacali). Che ancora oggi vi siano dei padroni che pensano che i sindacati sono i nemici della borghesia, ciò non cambia affatto la cosa: non solo loro che sono incaricati di elaborare la strategia della lora classe come non sono i sottoufficiali che conducono le guerre.
2° Giustamente tra la borghesia e la classe operaia vi è una guerra, una guerra di classe. Senza che sia necessario essere uno specialista di questioni militari, qualunque essere dotato di una intelligenza media e di un po’ di istruzione (ma è il caso dei redattori del Prolétaire?) sa che l’astuzia è un’arma essenziale degli eserciti. Per battere il nemico, in generale è necessario ingannarlo (a meno che non si disponga di una superiorità materiale schiacciante).
3° L’arma principale della borghesia contro il proletariato, non è la potenza materiale delle sue forze di repressione, è proprio la furbizia, le mistificazioni che essa è capace di veicolare nelle fila operaie.
4° Anche se Machiavelli ha, ai suoi tempi, gettato le basi della strategia borghese per la conquista e l’esercizio del potere così come dell’arte della guerra, i dirigenti della classe dominante, dopo secoli di esperienze, ne sanno molto più di lui. Forse i redattori del Prolétaire pensano che è il contrario. In ogni caso farebbero bene a tuffarsi un po’ nei libri di storia, in particolare quelli delle guerre recenti e soprattutto quella del movimento operaio. Vi scoprirebbero che il machiavellismo che gli strateghi militari sono capaci di mettere in atto nei conflitti tra frazioni nazionali della stessa classe borghese non è niente rispetto a quello che essa, nel suo insieme, è capace di impiegare contro il suo mortale nemico, il proletariato.
5° In particolare essi scoprirebbero due cose elementari: che provocare degli scontri prematuri è una delle armi classiche della borghesia contro il proletariato e che in una guerra i generali non hanno mai esitato a sacrificare una parte delle loro truppe o delle loro posizioni per meglio ingannare il nemico, fornendogli eventualmente un sentimento illusorio di vittoria. La borghesia non farà la rivoluzione proletaria al posto del proletariato per impedirgli di farla. Al contrario per evitarla essa è pronta a degli apparenti “rinculi”, a delle sedicenti “vittorie” degli operai.
6° E se i redattori del Prolétaire si dessero la pena di leggere le analisi classiche della Sinistra comunista, apprenderebbero infine che uno dei principali mezzi con cui la borghesia ha inflitto al proletariato la più terribile controrivoluzione della sua storia è stato proprio presentare come delle “vittorie” le sue più grandi sconfitte: la “costruzione del socialismo in URSS”, i “Fronti popolari”, la “vittoria contro il fascismo”.
Allora non si può che dire una cosa ai redattori di Prolétaire: ricominciate daccapo. Le frasi ben composte e le parole spiritose non bastano per difendere correttamente le posizioni e gli interessi della classe operaia. E vogliamo dar loro un ultimo consiglio: ascoltate ciò che succede realmente nel mondo e tentate di comprendere, per esempio, ciò che succede in Germania.
Le manovre sindacali in Germania, nuovo esempio della strategia della borghesia
Se è necessaria una nuova prova che la manovra concertata da tutte le forze della borghesia alla fine del 1995 in Francia aveva una portata internazionale, la recente agitazione sindacale in Germania la fornisce in maniera lampante. In questo paese, nei fatti, si è appena svolta, evidentemente con le caratteristiche locali, un “rifacimento” dello scenario “alla francese”.
All’inizio la situazione sembra molto diversa. Proprio dopo che i sindacati francesi si sono dati un’immagine di radicalismo, “di organi intransigenti della lotta di classe”, quelli tedeschi, fedeli alla tradizione di negoziatori e di agenti del “consenso sociale”, firmano con il padronato ed il governo, il 23 gennaio, un “patto per l’occupazione” che comporta, tra l’altro, una diminuzione dei salari fino al 20% nelle industrie più minacciate. Alla fine del negoziato, Kohl dichiara che bisogna “fare di tutto per evitare uno scenario alla francese”. Non è allora contraddetto dai sindacati che, poche settimane prima, avevano tuttavia salutato gli scioperi in Francia: la DGB “manifesta la sua simpatia agli scioperanti che si difendono contro un grosso attacco al diritto sociale”; IG-Metal afferma che “la lotta dei francesi è un esempio di resistenza contro i colpi portati ai diritti sociali e politici”.
Ma, in realtà, il saluto dei sindacati tedeschi agli scioperi in Francia non era platonico, esso si inseriva già nella prospettiva delle loro manovre future. Queste manovre si palesavano in tutta la loro ampiezza nel mese di aprile. E’ il momento scelto da Kohl per annunciare un piano di austerità senza precedenti: congelamento dei salari nella funzione pubblica, diminuzione delle indennità di disoccupazione e delle prestazioni di protezione sociale, aumento dei tempi di lavoro, aumento dell’età per la pensione, abbandono del principio dell’indennizzazione al 100% delle assenze per malattia. E ciò che è più eclatante è il modo in cui è annunciato questo piano. Come scrive il giornale francese Le Monde del 20 giugno 1996: “Imponendo in maniera autoritaria il suo piano di risparmio di 50 miliardi di marchi alla fine del mese di aprile, il cancelliere Kohl ha dismesso gli abiti del moderatore - a cui era tanto affezionato - per prendere quelli del decisionista... Per la prima volta, il “metodo Kohl” comincia a somigliare al “metodo Juppè”.”
Per i sindacati, è una vera provocazione alla quale bisogna rispondere con dei nuovi metodi di azione: “Noi abbiamo abbandonato il consenso per cominciare lo scontro” (Dieter Schulte, presidente del DGB). Lo scenario “alla francese”, nella sua variante tedesca, è messo in piedi. Si assiste allora ad un crescendo di radicalismo nell’atteggiamento dei sindacati: “scioperi di avvertimento” e manifestazioni nel settore pubblico (come all’inizio dell’autunno 1995 in Francia): gli asili, i trasporti pubblici, le poste, i servizi di pulizie sono coinvolti. Come in Francia i mass media fanno un gran rumore su questi movimenti, dando l’idea di un paese paralizzato e non risparmiando la loro simpatia verso di essi. Il riferimento agli scioperi della fine del 1995 sono sempre presenti ed i sindacati fanno anche sventolare delle bandiere francesi nelle manifestazioni. Schulte, invocando “l’autunno caldo” francese, promette, nel settore industriale una “estate calda”. E’ allora che comincia la preparazione della grande manifestazione del 15 giugno che è annunciata in partenza come “la più massiccia dopo il 1945”. Schulte avverte che non sarà “che l’inizio di aspri conflitti sociali che potrebbero portare a delle condizioni alla francese”. Ancora, mentre alcune settimane prima aveva affermato che “non era il caso di chiamare ad uno sciopero generale contro un governo eletto democraticamente”, il 10 giugno dichiara che “anche lo sciopero generale non è più escluso”. Pochi giorni prima della “marcia” su Bonn, i negoziati del settore pubblico arrivano ad un accordo che concede alla fine scarsi aumenti salariali e la promessa di non rimettere in discussione le indennità di malattia, il che permette ai sindacati di far apparire questo “rinculo” come risultato della efficacia delle loro azioni, come era successo in Francia quando il governo aveva fatto “marcia indietro” sul “Contratto di Piano” nelle ferrovie ed il pensionamento degli impiegati pubblici.
Alla fine, l’enorme successo del “tutti a Bonn” (350mila manifestanti) ottenuto grazie ad una campagna dei media senza precedenti e agli enormi mezzi messi in piazza dai sindacati (migliaia di pullman e quasi 100 treni speciali) appariva come una manifestazione di forza senza precedenti e nello stesso tempo permetteva di far passare in secondo piano il fatto che il governo non aveva ceduto sull’essenziale del suo piano di austerità.
Il carattere mondiale delle manovre della borghesia
Così, a pochi mesi di distanza, nei due principali paesi del continente europeo, la borghesia ha sviluppato due manovre molto simili, destinate non solo a far passare una valanga di attacchi brutali ma anche a dare una nuova immagine dei sindacati. Certo vi sono delle differenze nell’obiettivo posto da ciascuna delle due borghesie nazionali. per quel che riguarda la Francia, bisogna ridorare agli occhi degli operai lo stemma dei sindacati, uno stemma notevolmente offuscato dal loro sostegno alle politiche condotte dalla Sinistra quando era al governo, il che li aveva costretti a lasciare la prima fila ai coordinamenti nel compito di sabotaggio delle lotte durante lo sciopero dei ferrovieri nel 1986 e degli ospedalieri nel 1988. Per quanto riguarda la Germania, non vi era un problema di discredito dei sindacati. Nell’insieme questi organi dello Stato borghese godevano di una forte presenza nell’ambiente operaio. Però l’immagine che essi avevano presso la classe operaia era quella di specialisti dediti alla negoziazione, che riuscivano, attraverso tutte le “tavole rotonde” alle quali partecipavano, a preservare un po’ le acquisizioni dello “Stato sociale”, il che era facilitato evidentemente dalla maggiore resistenza del capitale tedesco alla crisi mondiale. Ma con la crescita delle difficoltà economiche di quest’ultimo (recessione nel 1995, livello di disoccupazione record, esplosione del deficit statale) questa immagine non poteva durare per molto tempo. Al tavolo dei negoziati, il governo ed il padronato non potranno proporre che attacchi sempre più duri al livello di vita della classe operaia e lo smantellamento dello “Stato sociale”. La prospettiva di esplosioni di collera operaia è ineluttabile ed è dunque importante che i sindacati, per essere all’altezza di sabotare e deviare la combattività cambino i loro abiti di “negoziatori” con quelli di organi della lotta operaia.
Ma al di là delle differenze nella situazione sociale dei due paesi, ciò che è importante è che tutti i punti comuni che vi sono tra questi due episodi aprano gli occhi di coloro che ancora pensano che gli scioperi della fine del 1995 in Francia siano stati “spontanei”, che abbiano “sorpreso la borghesia”, che sono stati voluti e provocati da questa per portare a buon fine la sua politica.
Inoltre, come la manovra della fine del 1995 in Francia aveva una portata internazionale, così non è solo ad uso interno che le varie forze della borghesia tedesca hanno svolto la loro manovra della primavera 1996. Per esempio, in Belgio, se la borghesia aveva organizzato nel corso dell’inverno una copia conforme dello scenario francese, ha dato poi prova del suo mimetismo riprendendo a suo vantaggio lo “scenario tedesco”. In effetti poco dopo la firma del “patto per il lavoro” in Germania, era stato firmato in Belgio un “contratto per l’occupazione” tra sindacati, padronato e governo che prevedeva, anche lì, diminuzioni di salario contro delle promesse di occupazione. Poi i sindacati si sono concessi una giravolta a 180° denunciando bruscamente questo accordo “dopo la consultazione della loro base”. Questa virata, molto enfatizzata dai media ha loro permesso di offrire una immagine di sè “democratica”, di “veri interpreti della volontà degli operai”, ripulendosi da ogni responsabilità nei piani di attacco alla classe operaia preparati dal governo (nel quale partecipa il Partito socialista, tradizionale alleato del sindacato più “combattivo”, la FGTB).
Ma se la dimensione internazionale delle manovre della borghesia francese della fine del 1995, non si è fermata al Belgio, come si è appena visto con le manovre della borghesia tedesca della primavera, la portata di queste ultime non si limita affatto a questo piccolo paese. In realtà l’agitazione sindacale in Germania, ampiamente diffusa dalla televisione nei vari paesi ha un ruolo simile agli scioperi in Francia. Ancora una volta si tratta di rafforzare le illusioni sui sindacati. L’immagine di impronta “combattiva” dei sindacati francesi, grazie alla copertura dei massmedia mondiali, ha potuto rimbalzare sui suoi confratelli degli altri paesi. Inoltre, la radicalizzazione dei sindacati tedeschi, le loro minacce di una “estate calda” e i commenti allarmistici dei media degli altri paesi sulla “fine del consenso alla tedesca” rilanciano a loro volta l’idea che i sindacati sono capaci, anche dove hanno una tradizione di accordi e negoziazioni, di essere degli autentici “organismi di lotta” per la classe operaia e anche efficaci, capaci di imporre, contro l’austerità del governo e dei padroni, la difesa degli interessi operai.
oOo
E’ a livello mondiale che la borghesia mette in atto la sua strategia di fronte alla classe operaia. La storia ci ha insegnato che tutti i contrasti di interesse tra le borghesie nazionali, le rivalità commerciali, gli antagonismi imperialisti, scompaiono quando si tratta di affrontare la sola forza della società che rappresenta un pericolo mortale per la classe dominante, il proletariato. E’ in modo coordinato, di concerto che le borghesie elaborano i loro piani contro di esso.
Oggi, di fronte alle lotte operaie che si preparano, la classe dominante dovrà tendere mille trappole per tentare di sabotarle, ridurle e svuotarle, per fare in modo che esse non permettano una presa di coscienza da parte del proletariato delle prospettive finali di queste lotte, la rivoluzione comunista. Nulla sarebbe più tragico per la classe operaia del sottovalutare la forza del suo nemico, la sua capacità di tendere tali trappole, di organizzarsi a livello mondiale per renderle più efficaci. Tocca ai comunisti di stanarle e denunciarle agli occhi della loro classe. Se non lo sanno fare, non meritano questo nome.
FM, 24 giugno 1996
1) Uno degli esempi eclatanti di questa riscrittura dei fatti è il modo in cui è stata riportata la ripresa del lavoro dopo gli scioperi: non sarebbe cominciata che dopo una settimana dall’annuncio del “passo indietro” del governo, il che è falso.
2) E’ vero che i bordighisti non sono nuovi alle contraddizioni: verso la fine degli anni 1970, mentre in Francia si svolgeva una agitazione tra gli operai immigrati, si potevano vedere i militanti del PCInt. spiegare agli immigrati sbigottiti che dovevano rivendicare il diritto di voto per potersi ... astenere. Più ridicolo di un bordighista, non si può! E’ anche vero che quando dei militanti della CCI hanno tentato di intervenire in un raggruppamento di immigrati per difendervi la necessità di non lasciarsi chiudere in delle rivendicazioni borghesi, quelli del PCInt. hanno dato man forte ai maoisti per cacciarli...
3) Bisogna notare che il n. 3 di L’esclave salarié (“ES”, bastardo parassitario dell’ex Ferment Ouvrier Révolutionnaire), ci fornisce una interpretazione originale dell’analisi della CCI sulla manovra della borghesia. “Ci teniamo a felicitarci con la cci (ES trova molto spiritoso scrivere in minuscolo le iniziali della nostra organizzazione) per la sua ragguardevole analisi che ci lascia pieni di ammirazione e ci chiediamo come questa élite pensante riesca ad infiltrarsi nella classe borghese per trarne tali informazioni sui suoi piani e le sue trappole. E’ da chiedersi se la cci non venga invitata agli incontri della borghesia e allo studio dei suoi comportamenti antioperai contattata in segreto e nei riti della franco-massoneria.” Marx non era francomassone e non era invitato ai meeting della borghesia ma ha dedicato una gran parte della sua attività militante a studiare, chiarire e denunciare i piani e le trappole della borghesia. Bisogna credere che i redattori di ES non hanno mai letto Le lotte di classe in Francia o La guerra civile in Francia. Sarebbe logico da parte di persone che disprezzano il pensare, che non è monopolio di una “élite”: Non era necessario essere massoni per scoprire che gli scioperi della fine del 1995 in Francia erano il risultato di una manovra borghese: bastava osservare in quale modo essi erano presentati ed incensati dai massmedia in tutti i paesi d’Europa e d’America, fino in India, in Australia ed in Giappone. E’ vero che la presenza in questi paesi di sezioni o di simpatizzanti della CCI ha facilitato il suo lavoro, ma la vera causa della povertà politica di ES non sta nella sua scarsa estensione geografica. Ciò che è provinciale di questo gruppo è innanzitutto la sua intelligenza politica, provinciale... e “minuscola”.
Uomini politici, economisti e giornalisti vari ci hanno ormai abituato alle più stravaganti teorizzazioni, pur di nascondere il fallimento del capitalismo e giustificare la serie di attacchi senza fine contro le condizioni di vita della classe operaia.
Venticinque anni fa, un presidente americano portavoce del conservatorismo più retrivo, Nixon, si sgolava a proclamare: "Siamo tutti Keynesiani". Erano tempi in cui la borghesia cercava di rispondere alla crisi con "l’intervento dello Stato" e lo sviluppo dello "Stato sociale " come elisir magico. Era in nome di queste politiche che si chiedeva ai lavoratori qualche sacrificio momentaneo per "uscire dal tunnel".
Negli anni 80, di fronte all'evidenza del marasma economico, bisognò trovare qualcosa di nuovo. Ed ecco che il responsabile di tutti i mali diventa lo Stato ed il nuovo elisir magico é “meno Stato”. Sono gli anni d'oro della “Reaganomics”, che provocano la maggior ondata mondiale di licenziamenti dopo gli anni '30, una politica organizzata dallo Stato.
Oggi, la crisi del capitalismo ha raggiunto un livello tale di gravità che tutti gli Stati industrializzati hanno dovuto mettere all'ordine del giorno la liquidazione pura e semplice di quello che restava degli ammortizzatori sociali dello "Stato previdenziale" (sussidio di disoccupazione, pensioni, sanità, educazione; ma anche indennità dì licenziamento, assicurazioni, durata della giornata di lavoro, sicurezza, etc.). Questo attacco spietato, questo salto qualitativo nella tendenza all'impoverimento assoluto preannunciata da Karl Marx, viene accompagnato e giustificato con una nuova teoria: "la mondializzazione dell'economia mondiale"
Questa volta i servitori del capitale hanno veramente scoperto l'acqua calda! Cercano di spacciare con centocinquanta anni di ritardo quella che sarebbe "la grande novità di fine secolo" e che Engels costatava già nei Princìpi del Comunismo, scritti nel 1847: "Le cose sono arrivate ad un punto tale che l'invenzione di un macchinario nuovo qui in Inghilterra, potrà, nello spazio di un anno, condannare alla fame milioni di operai in Cina. Così la grande industria ha collegato tutti i popoli della terra, ha unito in un solo mercato tutti ì mercati locali, ha preparato dappertutto il terreno per la civiltà ed il progresso ed ha fatto tutto questo in un modo tale che tutto quello che si realizza nei paesi civilizzati si ripercuote necessariamente in tutti gli altri."
Il capitalismo ha bisogno di estendersi a scala mondiale, imponendo il suo sistema di sfruttamento salariato in tutti gli angoli del pianeta. L'integrazione nel mercato mondiale, agli inizi del secolo, di tutti i territori significativi del pianeta e la difficoltà di trovarne di nuovi, capaci di soddisfare le esigenze continue di espansione del capitalismo, hanno segnato l'entrata dell’ordine borghese nella sua fase di decadenza, come i rivoluzionari sostengono da ottanta anni.
Nel quadro di questa saturazione cronica dei mercati, il nostro secolo ha visto un inasprirsi senza precedenti della concorrenza intercapitalista. Tutti i capitali nazionali sono obbligati ad una doppia tattica: da una parte proteggere i propri prodotti con tutta una serie di misure (monetarie, legislative, etc.) dagli assalti dei concorrenti, dall'altra cercare di convincere questi ultimi ad aprire le porte dei loro mercati alle proprie merci (trattati commerciali, accordi bilaterali, etc.). Quando gli economisti parlano di mondializzazione, cercano di far credere che il capitalismo possa amministrarsi in modo cosciente ed unificato grazie alle regole dettate dal mercato mondiale. E' vero esattamente il contrario: il mercato mondiale impone le sue leggi, ma questo avviene in un quadro caratterizzato dai tentativi disperati di ogni capitale nazionale di sfuggire a queste leggi e caricarne il peso sui concorrenti. Il mercato mondiale attuale ha voglia di essere "mondializzato", non per questo riesce a creare un quadro di progresso e di unificazione! La tendenza dominante del capitalismo decadente é alla disarticolazione del mercato mondiale, dilaniato dalle potenti forze centrifughe delle economie nazionali strutturate in Stati ipertrofici che tentano in tutti i modi (compresi quelli militari) di proteggere i prodotti dello sfruttamento dei "loro" lavoratori contro le mani avide dei loro concorrenti. Mentre nel secolo scorso la concorrenza fra nazioni contribuiva a formare ed unificare il mercato mondiale, la concorrenza fra Stati del nostro secolo tende al risultato opposto: la disgregazione e la decomposizione del mercato mondiale.
E' proprio per questa ragione che la "mondializzazione" può imporsi solo con la forza. Nel mondo uscito dalla spartizione di Yalta nel '45, USA ed URSS avevano approfittato della disciplina imposta dai blocchi imperialisti per creare tutta una serie di organismi per regolamentare (a loro vantaggio, ovviamente) il commercio mondiale: GATT, FMI, Mercato Comune, il Comecon per il blocco russo, etc. Espressione della potenza economico‑militare dei capifila dei blocchi, questi organismi non potevano in ogni caso eliminare le tendenze all’anarchia e organizzare un mercato mondiale armonico ed unificato. Con la sparizione dei due blocchi dopo l’89, la tendenza al caos ed alla concorrenza si é enormemente rafforzata.
La “mondializzazione” porrà fine a questa tendenza? A sentire i suoi apostoli, la "mondializzazione" prende le mosse da un mercato mondiale "già unificato" ed avrà un "effetto salutare" su tutte le economie e permetterà al mondo intero di uscire dalla crisi liberandolo dagli "egoismi nazionali". In effetti, se si prendono in esame le varie caratteristiche della "mondializzazione", non ce n'é una che possa in qualche modo eliminare il caos in cui si trova il mercato mondiale e che la crisi continua ad aggravare. Tanto per cominciare, le "transazioni elettroniche via Internet" non faranno che aggravare il rischio dei mancati pagamenti, già elevatissimo, contribuendo così ad aumentare ancora il peso già insopportabile dell’indebitamento. Per quello che riguarda la "mondializzazione" dei mercati monetari e finanziari, ci siamo già espressi in precedenza: "Un crac finanziario é inevitabile. Sotto certi aspetti, é già in corso. Anche dal punto di vista del capitalismo, un bel colpo di spillo nella “bolla speculativa" é indispensabile (...). Oggi, la bolla speculativa e, soprattutto, l’indebitamento degli Stati si sono gonfiati in modo allarmante. In una tale situazione, nessuno può prevedere dove arriverà la violenza dell’esplosione. Quello che é certo é che si tratterà di una distruzione massiccia di capitale fittizio che getterà nella rovina settori interi del capi-tale mondiale” (“Tormenta finanziaria: siamo alla follia?”, Révue Internationale n° 81, 1995).
Lo scopo della mondializzazione é in realtà abbastanza differente dalle melodie celestiali che ci sviolinano i suoi cantori. Si tratta di rispondere ai problemi urgenti posti dallo stato attuale della crisi e cioè l’abbassamento dei costi di produzione e la distruzione delle barriere protezionistiche per permettere ai capitalismi più forti di fare man bassa su mercati sempre più ridotti.
Rispetto alla necessità di abbassare i costi di produzione, abbiamo già sottolineato che: ''L’intensificazione della concorrenza tra capitalisti, esacerbata dalla crisi di sovrapproduzione e dalla rarità dei mercati solvibili, li spinge ad una modernizzazione ad oltranza dei processi di produzione, rimpiazzando gli uomini con le macchine, in una corsa sfrenata alla "riduzione dei costi". Questa stessa corsa li spinge a distaccare segmenti di produzione verso paesi in cui la mano d’opera é a miglior mercato (Cina e Sud-Est asiatico, tanto per fare un esempio di attualità)" ("Il cinismo della borghesia decadente", Révue Internationale n.78, 1994.
Questo secondo aspetto della riduzione dei costi (trasferimento di certi passaggi della produzione verso dei paesi a basso costo salariale) si é accentuato negli anni '90. Vediamo così i capitalisti democratici far ricorso ai graditi servigi del regime stalinista cinese per produrre a costi derisori compact, scarpe sportive, dischi rigidi per PC, modem, etc. Il decollo dei cosiddetti "dragoni asiatici" é basato sul fatto che la fabbricazione di computer, componenti elettronici, tessuti, etc. si va spostando verso questi paradisi dai "costi salariali infimi''. Il capitalismo in crisi non esita a profittare fino in fondo delle differenze di costi salariali: "I costi salariali totali nell'industria dei differenti paesi in via di sviluppo che producono ed esportano manufatti ma anche servizi, varia dal 3% (Madagascar, Vietnam) ad un massimo del 40% rispetto alla media dei paesi più ricchi d'Europa. La Cina varia dal 5 al 16%, mentre l'India é sul 3%. Con il crollo del blocco sovietico, esiste oggi alle porte dell'Unione Europea una riserva di mano d'opera il cui costo oscilla dal 5% (Romania) al 20% (Polonia, Ungheria) rispetto ai costi tedeschi." (1)
Un primo risultato della "mondializzazione" è dunque il calo del salario medio mondiale, ma anche i licenziamenti massicci nei grandi centri industriali, senza che le perdite di posti di lavoro siano compensate dalla creazione di nuovi nelle nuove fabbriche ultra automatizzate. Questa perdita di potere di acquisto dei lavoratori non fa che aggravare la malattia cronica del capitalismo (l'insufficienza dei mercati), riducendo la domanda nei paesi industrializzati senza compensarla con una crescita corrispondente nelle economie sottosviluppate (2).
Per quanto riguarda la distruzione delle barriere doganali é certamente vero che paesi come India, Messico o Brasile sono stati obbligati dalla pressione dei grandi ad abbassare le loro tasse protezionistiche, con il risultato di indebitarsi massicciamente (una tattica simile fu utilizzata negli anni 70 e portò alla catastrofe della crisi di indebitamento nel 1982). Ma i vantaggi per il capitale internazionale sono del tutto illusori: "..il recente crollo finanziario di un altro paese "esemplare", il Messico, la cui moneta ha perso la metà del suo valore da un giorno all'altro, e che ha avuto bisogno dell'iniezione urgente di crediti per 50 milioni di dollari (di gran lunga la più grande operazione di salvataggio nella storia del capitalismo) mostra cosa c'é dietro il miraggio dello "sviluppo" di certi paesi del terzo mondo." ("Risoluzione sulla situazione internazionale", Rivista internazionale n. 19).
Nei fatti la "mondializzazione" non riduce, ma esaspera il protezionismo e l’intervento dello Stato rispetto agli scambi commerciali:
‑ lo stesso Clinton, che nel '95 ha obbligato il Giappone ad aprire le frontiere ai prodotti americani, che non smette mai di predicare ai suoi "associati" la "libertà di commercio", ha dato il buon esempio non appena eletto aumentando le tasse sugli aerei, l'acciaio ed i prodotti agricoli esteri e limitando inoltre alle agenzie statali l'acquisto di prodotti stranieri;
- il celebre Uruguay Round, che ha portato alla sostituzione del precedente GATT con l'attuale Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), non ha ottenuto che risultati di facciata: le tasse sono state eliminate in soli dieci settori industriali, mentre sono state ridotte del 30% in otto altri comparti, e tutto questo non da subito ma scaglionato nello spazio di dieci anni!
‑ un'espressione evidente del neoprotezionismo si trova nelle norme ecologiche, sanitarie e "per la qualità della vita". I paesi industrializzati impongono così degli standards irraggiungibili per i loro concorrenti più deboli: "...nella nuova OMC, i gruppi industriali, le organizzazioni sindacali ed i militanti ecologisti lottano affinché quei beni collettivi che sono l'ambiente, il benessere sociale, etc. e le norme che li regolano non siano dettate dal mercato, ma dalla sovranità nazionale che su questi punti non può tollerare limitazioni" (3).
La formazione di "zone regionali" (Unione europea, accordi del Sud-Est asiatico, Trattato di libero commercio nell'America del Nord, etc.) non contraddicono questa tendenza, ma esprimono il bisogno di gruppi di nazioni capitaliste di formarsi delle zone protette a partire dalle quali sfidare i rivali. Gli USA hanno replicato all'Unione Europea con il Trattato di libero commercio ed il Giappone si é fatto promotore dell'accordo fra i "dragoni" asiatici. Questi "gruppi regionali" tentano di proteggersi dalla concorrenza esterna, ma non per questo eliminano gli scontri commerciali fra partners al loro interno, anzi. Per farsene un'idea basta pensare alla "armoniosa" coabitazione nell'Unione Europea.
Il dato di fatto é che le tendenze più aberranti sviluppatesi sul terreno della decomposizione del mercato mondiale continuano a rafforzarsi: "Oggi l'insicurezza monetaria su scala mondiale é arrivata a livelli tali che riappare sempre più spesso quella forma arcaica di commercio che é lo scambio, e cioè il passaggio di mano di merci in cambio di merci, senza ricorrere all'intermediario della moneta" ("Un'economia corrosa dalla decomposizione", Révue Internationale n.75, 1993).
Un altro tipo di trucco a cui ricorrono gli Stati é la svalutazione delle proprie monete che rende meno care le proprie merci aumentando contemporaneamente quelle dei concorrenti. Tutti i tentativi di impedire questo tipo di manovre sono finiti con un nulla di fatto ed il crollo del Sistema Monetario Europeo é lì a dimostrarlo.
La “mondializzazione”, un attacco ideologico contro la classe operaia
Abbiamo fin qui dimostrato che la "mondializzazione" é uno schermo ideologico destinato a nascondere il fallimento del capitalismo. Le ambizioni di questa "teoria" vanno tuttavia più lontano, visto che (nelle teorizzazioni dei "mondializzatori" più estremisti) dovrebbe superare e "distruggere" gli Stati Nazionali, e scusate se é poco! Uno dei suoi cantori più accreditati, il giapponese Kenichi Ohmae, ci assicura che: "...per riassumere, in termini di flussi reali di attività economica, gli Stati‑nazioni hanno già perduto il loro ruolo di unità significative di partecipazione all'economia senza frontiere del mondo attuale" (4). In più, non esita a qualificare gli Stati come dei "filtri brutali" e ci promette le delizie dell’economia globale: "A mano a mano che aumenterà il numero di individui che supererà il filtro brutale che separa le geografie, residuato della vecchia economia mondiale, il controllo sull'attività economica passerà inevitabilmente dalle mani dei governi centrali degli Stati‑nazioni a quelle delle reti senza frontiere delle innumerevoli decisioni individuali, basate sul mercato." (4).
Fino ad oggi solo il proletariato combatteva lo Stato‑nazione. Ma, come si vede, l'audacia dei nuovi pensatori borghesi non ha limiti: ecco che si proclamano militanti della "lotta contro l'interesse nazionale".
Comunque, é nel quadro dell'offensiva ideologica antiproletaria che questa "fobia" antinazionale gioca il suo ruolo principale, cercando di piazzare i lavoratori di fronte ad una falsa contrapposizione:
‑ da una parte le forze politiche che difendono in modo deciso la "mondializzazione" (in Europa sono i partigiani di Maastricht), sottolineano la necessità di "superare gli egoismi nazionali retrogradi" per integrarsi in "vasti insiemi mondiali" che permetteranno di uscire dalla crisi;
‑ dall'altra i partiti di sinistra (soprattutto quando sono all'opposizione) ed i sindacati cercano di legare la difesa degli operai alla difesa dell'interesse nazionale, che sarebbe messo sotto i piedi dai governi "traditori della patria".
I sostenitori della "mondializzazione" scagliano le loro folgori contro il "minimo sociale garantito", e cioè la previdenza sociale, le indennità di licenziamento, i sussidi di disoccupazione, le pensioni, gli sgravi per l'educazione o gli alloggi, i limiti all'orario di lavoro, ai ritmi, al lavoro minorile, etc. Ecco, in breve, gli "orribili" pesi di cui lo Stato-nazione non può sbarazzarsi, prigioniero come é di quegli "spaventosi" gruppi di pressione che sono i lavoratori. E questo ci porta al nòcciolo della “mondializzazione", una volta levate di mezzo tutte le chiacchiere tipo: "superamento della crisi" o "internazionalismo di liberi individui su liberi mercati". Questo non é altro che l'ennesimo alibi per l'attacco imposto dalla crisi del capitale a tutti gli Stati nazionali: farla finita con il "minimo sociale garantito", quest'insieme di legislazioni del lavoro e di misure previdenziali che il capitale non può più permettersi.
Qui interviene l'altro aspetto dell'attacco ideologico della borghesia, quello portato avanti da sinistra e sindacati. Negli ultimi 50 anni il "minimo sociale garantito" é stato il faro del cosiddetto Welfare State, la copertura "sociale" del capitalismo di Stato. (questo "Stato Sociale" é stato contrabbandato come la prova vivente delle capacità rispettive del capitalismo di "addolcirsi" e dello Stato di fungere da luogo di incontro in cui le esigenze di padroni ed operai potessero trovare un terreno di intesa). Sindacati e partiti di sinistra (in particolare quando sono all'opposizione) si spacciano per grandi difensori dello "Stato Sociale", contrapponendo "l'interesse nazionale" di mantenere un "minimo sociale" al "cosmopolitismo senza patria“ dei governi. Questo é stato d'altronde un elemento non secondario delle manovre della borghesia francese durante le lotte dell'autunno '95, quando l'intero movimento é stato presentato come una spontanea rivolta popolare contro Maastricht e le corrispondenti misure di rigore, il tutto ben canalizzato ed imbrigliato dai sindacati.
Le contraddizioni di Battaglia Comunista rispetto alla “mondializzazione”
Il compito dei gruppi della Sinistra Comunista (base del futuro partito mondiale del proletariato) é di denunciare senza ambiguità questo veleno ideologico. Il proletariato non ha nulla da scegliere fra "mondializzazione" ed "interessi nazionali". Le sue rivendicazioni non si basano sulla difesa del Welfare State, ma sul terreno dei suoi interessi di classe, e la difesa di questi interessi non passa per il socialpatriottismo o per il mondialismo, ma per la distruzione dello Stato capitalista di tutti i paesi.
La questione della "mondializzazione" é stata trattata da Battaglia Comunista ( BC ) a più riprese sulla sua rivista teorica semestrale, Prometeo. Battaglia difende con fermezza una serie di principi della Sinistra Comunista che vogliamo qui sottolineare:
‑ denuncia senza concessioni la "mondializzazione" come un feroce attacco contro la classe operaia, evidenziando come essa si basi “sull’impoverimento progressivo del proletariato mondiale e sullo sviluppo delle più violente forme di supersfruttamento” (5);
‑ rigetta l'idea per cui la "mondializzazione" sarebbe un superamento delle contraddizioni del capitalismo: “Qui ci interessa sottolineare che anche le più recenti modificazioni intervenute nel sistema economico mondiale sono per intero riconducibili nell’ambito del processo di concentrazione-centralizzazione del capitale segnando senza dubbio una nuova fase, ma non il superamento delle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione del capitale.” (5);
‑ riconosce che le ristrutturazioni e le "innovazioni tecnologiche" introdotte negli anni '80 e '90 non hanno portato ad ampliamenti del mercato mondiale: “Contrariamente alle aspettative, la ristrutturazione basata sull’introduzione di tecnologie sostitutive di manodopera senza la nascita di nuove attività produttive compensative, anziché rilanciare il cosiddetto “circolo virtuoso” che era stato alla base del poderoso sviluppo dell’economia mondiale nella prima fase del capitalismo monopolistico, lo interrompe. Per la prima volta gli investimenti supplementari anziché dar luogo a una espansione della base produttiva e a una crescita totale dei processi produttivi, ne determinano la riduzione sia relativa che assoluta” (5);
‑ rigetta ogni illusione sulla "mondializzazione" come forma armonica e pianificata della produzione, affermando senza il minimo equivoco che “si assiste così al paradosso di un sistema che mentre persegue, mediante il monopolio, il massimo della razionalità porta all’irrazionalità al suo grado più elevato: tutti contro tutti; ogni capitale contro tutti i capitali; i capitali contro il capitale” (5);
‑ ricorda che “il suo abbattimento (del capitalismo) non è la risultante matematica delle contraddizioni del mondo dell’economia; ma è opera del proletariato che prende coscienza che questo non è il migliore dei mondi possibili” (5).
Noi sosteniamo queste prese di posizione e, partendo da questo accordo di base, vogliamo combattere qualche confusione e contraddizione che a nostro avviso sono presenti nelle posizioni di Battaglia. Non si tratta di una polemica gratuita, ma di una precisa preoccupazione militante: di fronte all'aggravarsi della crisi é fondamentale denunciare le teorie fumose del tipo "mondializzazione", il cui obiettivo é proprio quello di impedire la presa di coscienza del fatto che il capitalismo oggi é proprio "il peggiore dei mondi possibili" e deve essere spazzato via dalla faccia del pianeta.
La prima cosa che ci sorprende é che BC pensi che “grazie ai progressi della microelettronica, sia per quanto riguarda le telecomunicazioni che l’organizzazione dei cicli produttivi, il pianeta è stato di fatto unificato” (5). I compagni si fanno imbrogliare dalle idiozie propagandate dalla borghesia sul "miracolo unificatore" basato sulle telecomunicazioni ed Internet, dimenticando che: "...da un lato la formazione di un mercato mondiale internazionalizza la vita economica, influenzando profondamente la vita di tutti i popoli; ma dall'altro lato si sviluppa, sempre più accentuata, la nazionalizzazione degli interessi capitalisti, ciò che illustra nel modo più evidente l'anarchia della concorrenza capitalista nel quadro dell'economia mondiale e conduce a violente convulsioni e catastrofi, ad un'immensa perdita di energia, mettendo così imperativamente all'ordine del giorno l'organizzazione di nuove forme di vita sociale." (6).
Un’altra debolezza di BC sta nella sua strana scoperta per cui “l’allora presidente degli Stati Uniti Nixon quando assunse la storica decisione di denunciare gli accordi di Bretton Woods e di dichiarare l’inconvertibilità del dollaro non immaginava neppure lontanamente che stava dando il via a uno dei più giganteschi processi di trasformazione che avesse conosciuto il modo di produzione capitalistico in tutta la sua storia.” ( Prometeo n. 9)
Ora, non si può analizzare come causa (la famosa decisione del 1971 di dichiarare la non convertibilità del dollaro) quello che non é stato altro che un effetto dell'aggravarsi della crisi capitalista e che in ogni caso non ha assolutamente alterato "i rapporti di dominio imperialisti". L’economicismo di BC, che abbiamo già avuto l'occasione di criticare, la spinge ad attribuire un peso spropositato ad un avvenimento che di per sè non ebbe alcuna conseguenza nello scontro tra i blocchi imperialisti allora esistenti (sovietico ed occidentale).
In ogni caso, il principale pericolo di questa posizione é di lasciare uno spiraglio alla mistificazione borghese secondo cui il capitalismo attuale é capace di "cambiare e trasformarsi". Per il passato, BC ha avuto la tendenza ad essere scombussolata da qualsiasi "trasformazione importante" la borghesia ci facesse balenare sotto il naso. Si é già lasciata sedurre dalle "novità" della "rivoluzione tecnologica", poi dal miraggio dei sedicenti favolosi mercati aperti dalla "liberazione" dei paesi dell'Est. Oggi prende per oro sonante alcune delle mistificazioni contenute nella cagnara intorno alla "mondializzazione": "Il passaggio alla centralizzazione della gestione delle variabili macroeconomiche su base continentale o per aree valutarie, per esempio, comporta per forza di cose una diversa distribuzione dei capitali nei vari settori produttivi e fra questi e quello finanziario. Non solo la piccola e media impresa, ma anche gruppi di grandi dimensioni rischiano di essere marginalizzati o assorbiti da altri con relativo declino delle rispettive posizioni di potere. Per molti paesi ciò può comportare rischi di frattura della stessa unità nazionale, come insegna la vicenda della ex Jugoslavia e dell'ex blocco sovietico. I rapporti di forza tra i diversi settori della borghesia mondiale sono destinati a profondi mutamenti e pertanto a generare, per un lungo periodo di tempo, un inasprimento della tensione e dei conflitti, con evidenti riflessi sugli stessi processi di mondializzazione dell'economia che potranno rallentare, quando non addirittura bloccarsi" (Prometeo n. 10, “Lo Stato a due dimensioni: la mondializzazione dell’economia e lo Stato”).
Bisogna dire che si é un tantino sconcertati nello scoprire che le tensioni imperialiste, il crollo delle nazioni, la guerra nella ex Jugoslavia, non si spiegano con la decadenza e la decomposizione del capitalismo, con l'aggravarsi della sua crisi storica, ma che sarebbero dei fenomeni interni al processo di "mondializzazione"! BC qui scivola dal quadro di analisi proprio alla Sinistra Comunista (decadenza e crisi storica del capitalismo) al quadro ideologico borghese della "mondializzazione". E' per contro essenziale che i gruppi della Sinistra Comunista non cedano a queste mistificazioni e mantengano fermamente la posizione rivoluzionaria, che afferma che nella decadenza, e più concretamente nel periodo di crisi aperta a partire dalla fine degli anni '60, i diversi tentativi del capitalismo di frenare il suo degrado non hanno prodotto alcun cambiamento reale, ma unicamente ed esclusivamente un aggravarsi ed accelerarsi del degrado stesso (7). Nella nostra risposta al BIPR nella Révue Internationale n.82, affermiamo chiaramente che noi non vogliamo ignorare questi tentativi, vogliamo al contrario analizzarli nel quadro delle posizioni della Sinistra Comunista, ma senza abboccare all'amo che di volta in volta ci tende la borghesia.
“Mondializzazione” e Stato nazionale
Il rischio insito nelle contraddizioni di BC appare in tutta la sua gravità a proposito del ruolo degli Stati nazionali, che in seguito alla "mondializzazione" sarebbe profondamente alterato ed indebolito. BC non arriva certo a sostenere, come il samurai Kenichi Ohmae, che lo Stato nazionale sia in caduta libera, ed infatti mantiene tutta una serie di discriminanti che noi condividiamo:
‑ lo Stato nazionale conserva la stessa natura di classe;
‑ é un fattore attivo dei "cambiamenti" in atto nel capitalismo odierno;
‑ non é entrato in crisi.
Ciononostante si afferma: "Sicuramente uno degli aspetti più interessanti della mondializzazione dell'economia (..) é dato dalla tendenza all'integrazione trasversale e transnazionale di grandi concentrazioni industriali che per dimensioni e potere superano di gran lunga quello degli Stati nazionali." (Prometeo n° 10).
Ciò che si può dedurre da questi "aspetti interessanti" é che nel capitalismo esisterebbero delle entità superiori agli Stati nazionali, i famosi monopoli "transnazionali". Si tratta di una vecchia tesi revisionista che si oppone al principio marxista per cui l'unità suprema del capitalismo é rappresentata dallo Stato, dal capitale nazionale. Il capitalismo non può superare il quadro della nazione, ancor meno diventare internazionalista. Il suo "internazionalismo", come abbiamo visto, consiste nella pretesa di dominare le nazioni rivali o di conquistare la fetta più grande possibile del mercato mondiale.
Nell'editoriale di Prometeo n. 9 vediamo confermata questa revisione del marxismo: “Le multinazionali produttive e/o finanziarie superano per potenza e per interessi economici in gioco le varie formazioni statali che attraversano. Il fatto che le banche centrali dei diversi stati non siano in grado di reggere e contrastare le ondate speculative che un pugno di mostruosi gruppi finanziari scatenano giornalmente, dice molto del mutato rapporto fra gli stati stessi”.
Dobbiamo ricordare che questi poveri Stati impotenti sono appunto quelli che possiedono (o quantomeno controllano completamente) questi giganti finanziari? É' proprio necessario rivelare a BC che questo "pugno di mostri" é costituito da "rispettabili" istituzioni bancarie i cui responsabili sono nominati direttamente o indirettamente dai rispettivi Stati nazionali?
Non solo BC abbocca all'amo di questa pretesa opposizione fra Stati e multinazionali, ma va ancora più lontano e scopre che: “per questa ragione capitali sempre più grandi... hanno dato luogo alla nascita di colossi che controllano ormai l’intera economia mondiale. Basti pensare che mentre dagli anni trenta fino a tutti gli anni settanta, i cosiddetti Big Three, ovvero le tre più grandi imprese del mondo erano tre case automobilistiche: le statunitensi General Motors, Chrysler e Ford; oggi sono tre fondi pensioni anche essi statunitensi: Fidelity Investments, Vanguard group e Capital Research & Mamagement. Il potere accumulato da queste società finanziarie è immenso e travalica di gran lunga quello dei singoli stati che di fatto hanno perduto negli ultimi dieci anni qualunque capacità di controllo dell’economia mondiale” (Prometeo n° 9).
Vale la pena di ricordare che durante gli anni '70 il mito delle famose multinazionali andava fortissimo: gli extraparlamentari ci ripetevano continuamente che il capitale era "transnazionale" e che per questo la "grande rivendicazione" operaia doveva essere la difesa dell'autonomia nazionale contro un "pugno di apolidi". Battaglia, ovviamente, si contrappone con forza a simili mistificazioni, ma, in qualche modo, ne ammette una giustificazione "teorica", nella misura in cui riconosce la possibilità di un'opposizione, o quanto meno di una divergenza di fondo di interessi tra Stati e monopoli "trasversali agli Stati nazionali" (per usare la definizione della stessa BC).
In realtà le multinazionali sono strumenti dei loro Stati nazionali. IBM, General Motors, Exxon, etc. sono controllate con tutta una serie di fili dallo Stato americano: una percentuale importante della loro produzione (il 40% per l'IBM) é acquistata direttamente dallo Stato, che influisce direttamente o indirettamente sulla nomina dei direttori (8). Una copia di ogni nuovo prototipo informatico é obbligatoriamente inviata al Pentagono. E' proprio incredibile che BC abbocchi alla menzogna del superpotere planetario costituito dai primi tre Fondi di Investimento. In primo luogo le società di investimento non hanno un'autonomia reale, ma sono strumenti delle banche, delle casse di risparmio e di varie propaggini statali, come i sindacati, le casse di previdenza, etc. In secondo luogo, sono sottomesse ad una stretta regolamentazione da parte dello Stato, che fissa le percentuali che debbono investire in azioni, obbligazioni, buoni del Tesoro, titoli esteri, etc.
“Mondializzazione” e capitalismo di Stato
Tutto questo ci porta alla questione essenziale, quella del capitalismo di Stato. Uno dei tratti essenziali del capitalismo decadente risiede nella concentrazione del capitale nelle mani dello Stato, che diventa l'entità intorno alla quale ogni capitale nazionale si organizza per lo scontro, tanto contro il proprio proletariato che contro gli altri capitali nazionali. Gli Stati non sono strumenti delle imprese, per grandi che queste ultime possano essere. Nel capitalismo decadente é esattamente il contrario a verificarsi: i grandi monopoli, le banche si sottomettono ai diktat dello Stato e ne assecondano il più possibile gli orientamenti. L'esistenza nel capitalismo di poteri sovranazionali che “attraversano" gli Stati e gli ordinano la politica da seguire é impossibile. Al contrario, le multinazionali sono utilizzate dai rispettivi Stati come strumenti al servizio dei loro interessi commerciali ed imperialisti. Sia chiaro che noi non vogliamo assolutamente dire che grandi imprese come la Ford o la Exxon siano pure e semplici marionette nelle mani dei loro Stati. E' certamente vero che cercano di promuovere e difendere i loro interessi particolari, i quali, a volte, possono entrare in contraddizione con quelli del loro Stato. Ma é anche vero che nel capitalismo di Stato "alla occidentale" si é realizzata una reale fusione fra capitale privato e statale, in modo che globalmente, al di là dei conflitti e delle contraddizioni interne che non possono mancare, essi agiscono sempre in modo coerente in difesa degli interessi nazionali del capitale e sotto la bandiera del loro Stato.
BC obietta che é difficile determinare a quale Stato appartenga, per esempio, la Shell (a capitale anglo‑olandese) o altre multinazionali ad azionariato misto. A parte il fatto che si tratta di casi abbastanza eccezionali, insignificanti a livello del capitale mondiale, il fatto fondamentale é che non sono i titoli di proprietà a determinare veramente chi controlla una compagnia. Nel capitalismo di Stato, é lo Stato che dirige e determina il funzionamento delle imprese, anche se non ne detiene ufficialmente neanche un'azione. E' lui che regola i prezzi, i contratti collettivi, i tassi di esportazione, i tassi di produzione, etc. E' lui che condiziona le vendite delle imprese, di cui é spesso il principale cliente. E' lui che tiene le cose in pugno e, attraverso la politica monetaria, creditizia e fiscale, dirige l'evoluzione del "libero mercato". Battaglia trascura questo aspetto essenziale dell'analisi marxista sulla decadenza del capitalismo e preferisce restare fedele ad un aspetto parziale dello sforzo di Lenin ed altri rivoluzionari della sua epoca per comprendere tutta l'ampiezza della questione dell'imperialismo: la teoria sul capitale finanziario, che Lenin riprese dall' "austro‑marxista" Hilferding. Nel suo libro sull'argomento, Lenin individua chiaramente l'imperialismo come fase decadente del capitalismo, ciò che mette all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria. Purtroppo lo caratterizza sulla base dello sviluppo del capitale finanziario come mostro parassita emergente dal processo di concentrazione del capitale, ulteriore fase di sviluppo dei monopoli.
Ma in realtà: "... numerosi aspetti della definizione di Lenin dell'imperialismo oggi sono inadeguati, ed alcuni lo erano anche nel momento in cui furono elaborati. Nei fatti il periodo in cui il capitale sembrava essere dominato da un'oligarchia del "capitale finanziario e dai 'cartelli dei monopoli internazionali" cedeva già il passo ad una nuova fase nel corso della prima guerra mondiale, l’era del capitalismo di Stato, dell'economia di guerra permanente. In un'epoca di continue rivalità interimperialiste sul mercato mondiale, il capitale tende tutto a concentrarsi intorno all'apparato di Stato che sottomette e disciplina ai bisogni della sopravvivenza militare/economica tutte le frazioni particolari del capitale." ("Sull'imperialismo", Révue Internationale n° 19, 1979.
Quello che in Lenin era un errore legato al difficile processo di comprensione dell'imperialismo, nelle mani di BC rischia di diventare una pericolosa aberrazione. In primo luogo, la teoria della "concentrazione in super monopoli transnazionali" va nella direzione opposta alla posizione marxista sulla concentrazione nazionale del capitale in seno allo Stato, sulla tendenza al capitalismo di Stato, a cui partecipano tutte le frazioni della borghesia, quali che siano i loro legami e ramificazioni a livello internazionale. In secondo luogo, questa teoria apre uno spiraglio verso la teoria del "super‑imperalismo" di Kautsky. In effetti, é sorprendente che BC critichi la teoria kautskiana solo per l'illusione di superare l'anarchia della produzione, senza criticarla sull'essenziale: l'illusione che il capitale possa unirsi al di sopra delle barriere nazionali. Questa critica parziale si spiega col fatto che Battaglia ammette l'esistenza di unità sopranazionali, anche se rigetta, giustamente, la tesi estrema della "fusione delle nazioni". In terzo luogo, Battaglia sviluppa l'idea che lo Stato nel quadro della "mondializzazione" avrebbe due dimensioni: una in difesa degli interessi multinazionali, e l'altra subordinata, al servizio degli interessi nazionali: "Si va delineando in maniera sempre più marcata uno Stato che articola il suo intervento nel mondo dell'economia su due livelli: uno che afferisce al centro sovranazionale preposto alla gestione centralizzata della massa monetaria ed alla determinazione delle variabili macroeconomiche per l'area valutaria di riferimento, ed uno locale di controllo della compatibilità di queste ultime con quelle nazionali" (Prometeo n° 10).
Battaglia fa veramente camminare il mondo sulla testa! Basta osservare le peripezie dell'Unione Europea per convincersi del contrario: ogni Stato nazionale pensa esclusivamente agli interessi del proprio capitale nazionale e non si comporta in alcun modo come una specie di "delegato" degli interessi "europei", come farebbero credere le formulazioni ambigue di BC. Lasciandosi trascinare dalle proprie speculazioni sugli interessi "transnazionali" questi compagni arrivano a conclusioni incredibili: i conflitti interimperialisti attuali non degenererebbero in guerra imperialista generalizzata perché, “... una volta scomparso il confronto tra blocco dell’Ovest e blocco dell’Est per implosione di quest’ultimo, non sono precisati con chiarezza i fondamenti di un nuovo confronto strategico. Gli interessi strategici dei grandi e veri centri del potere economico non si sono finora espressi in confronto strategico tra Stati, perché agiscono trasversalmente a questi” (Prometeo n° 9).
Questa é una confusione veramente grave. La guerra imperialista non sarebbe più uno scontro fra capitali nazionali armati fino ai denti (secondo la definizione di Lenin), bensì fra gruppi transnazionali che si servirebbero degli Stati nazionali. Questi ultimi non sarebbero più i protagonisti e responsabili della guerra, ma semplici agenti di mostri transnazionali che "li attraverserebbero". E' una fortuna che BC non vada fino in fondo in questa aberrazione. E' una fortuna, perché questo la condurrebbe a sostenere che la lotta proletaria contro la guerra imperialista non deve essere più lotta contro gli Stati nazionali, ma lotta per "liberare" questi ultimi dall'abbraccio degli interessi transnazionali. Che é poi quello che già dicono i demagoghi dell'estrema sinistra più o meno extraparlamentare.
Su queste cose bisogna essere seri e Battaglia deve essere coerente con il quadro di posizioni della Sinistra Comunista, facendo una critica a fondo delle sue speculazioni sui monopoli ed i mostri finanziari. Deve radicalmente eliminare dalle sue parole d'ordine aberrazioni come “si inaugura una nuova era caratterizzata dalla dittatura del mercato finanziario” (Prometeo n° 9). Queste debolezze prestano il fianco alla penetrazione di mistificazioni borghesi come la "mondializzazione" o come le pretese alternative fra interessi nazionali ed interessi transnazionali, fra Maastricht e gli interessi popolari, tra il Trattato per il Libero Commercio e gli interessi dei popoli oppressi.
Tutto questo potrebbe condurre BC a difendere qualcuna fra le tesi e le mistificazioni della classe dominante, contribuendo così all'indebolimento della coscienza e della lotta operaia. E' non é sicuramente questo il ruolo di un'organizzazione rivoluzionaria del proletariato.
Adalen
1) Annuario Mondiale l996, "Impiego ed ineguaglianza".
2) "Questo sviluppo economico non può non influenzare in tempi brevi la produzione dei paesi più industrializzati, i cui Stati si indignano delle pratiche commerciali "sleali" di queste economie emergenti" ("Risoluzione sulla situazione internazionale", Rivista internazionale n° 19)
3) Annuario Mondiale l996, "Cosa cambierà con l'OMC"
4) K. Ohmae, "Lo sviluppo delle economie regionali".
5) Prometeo n.9, "I capitali contro il capitale".
6) N. Buckarin, "L'economia mondiale e l'imperialismo".
7) La desolante incoerenza di BC appare chiaramente quando dichiara; “In realtà il capitalismo è sempre uguale a se stesso e non sta facendo altro che organizzarsi in chiave di autoconservazione secondo le linee di sviluppo dettate dalla legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto”. Prometeo n.9.
8) Molti uomini politici americani, ma anche europei, dopo aver occupato posti al Senato o nell'amministrazione statale, diventano dirigenti delle grandi multinazionali.
Assieme alla lotta del bolscevismo contro il menscevismo all'inizio del secolo, il confronto fra il marxismo e l'anarchismo nella Prima Internazionale - l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIL)- costituisce probabilmente l'esempio più illustre della difesa dei principi organizzativi proletari nelle storia del movimento operaio. E’ essenziale per i rivoluzionari di oggi - che sono separati da mezzo secolo di controrivoluzione staliniana dalla storia organizzativa vivente della loro classe- riappropriarsi delle lezioni di questa esperienza. Questo articolo si concentrerà sulla “preistoria” di questa battaglia al fine di mettere in evidenza come Bakunin sia arrivato a concepire la presa del controllo del movimento operaio mediante una organizzazione segreta sotto il suo personale controllo. Mostreremo altresì come questa concezione di Bakunin lo abbia inevitabilmente condotto ad essere manipolato dalla classe dominante allo scopo di distruggere l’AIL. E mostreremo ancora le radici fondamentalmente antiproletarie delle concezioni di Bakunin proprio sul piano organizzativo.
IL SIGNIFICATO STORICO DELLA LOTTA DEL MARXISMO CONTRO L'ANARCHISMO ORGANIZZATIVO
L'AIL si è spenta soprattutto a causa della lotta tra Marx e Bakunin, lotta che, al Congresso dell'Aia del 1872, ha trovato la sua prima conclusione con l'esclusione di Bakunin e del suo braccio destro, James Guillaume. Ma ciò che gli storici borghesi presentano come uno scontro tra personalità - e gli anarchici come una lotta tra la versione “autoritaria” e quella "libertaria" del socialismo- era in realtà una lotta dell'insieme dell'AIL contro coloro che ne avevano beffato gli statuti. Bakunin et Guillaume all'Aia furono esclusi perché avevano costituito una “fratellanza” segreta in seno all'AIL, un'organizzazione nell'organizzazione avente una struttura e degli statuti propri. Questa organizzazione, la sedicente “Alleanza per la democrazia socialista”, aveva un'esistenza ed un'attività nascoste ed il suo fine era quello di togliere l'AIL dal controllo dei suoi membri e di porla sotto quello di Bakunin.
UNA LOTTA A MORTE TRA DIVERSE POSIZIONI ORGANIZZATIVE
La lotta che si è svolta nell'AIL non era dunque una lotta fra l'“autorità” e la “libertà”, ma piuttosto fra principi organizzativi completamente opposti ed inconciliabili.
1) Da un lato vi era la posizione, difesa nella maniera più determinata da Marx e da Engels ma che era anche quella dell'insieme del Consiglio Generale e della grande maggioranza dei membri dell’AIL, secondo la quale una organizzazione proletaria non può dipendere dalla volontà degli individui, dai capricci dei “compagni dirigenti”, ma deve funzionare secondo regole obbligatorie sulle quali tutti sono d'accordo e che sono valide per tutti: gli statuti. Gli statuti devono garantire il carattere unitario, centralizzato, collettivo di una tale organizzazione, permettere che i dibattiti politici prendano una forma aperta e disciplinata e che le decisioni prese riguardino tutti i suoi membri. Chiunque è in disaccordo con le decisioni dell'organizzazione o non è più d'accordo con dei punti degli statuti, ecc., ha non solo la possibilità ma anche il dovere di presentare le sue critiche apertamente di fronte all'insieme dell'organizzazione, ma nel quadro previsto a questo fine. Questa concezione organizzativa che l'Associazione Internazionale dei Lavoratori ha sviluppato per se stessa corrispondeva al carattere collettivo, unitario e rivoluzionario del proletariato.
2) Dall'altro lato Bakunin rappresentava la visione elitista piccolo-borghese dei “capi geniali” la cui chiarezza politica e la cui straordinaria determinazione avrebbero dovuto garantire la "passione" e la traiettoria rivoluzionarie. Questi capi si consideravano dunque "moralmente giustificati" a raccogliere e organizzare i loro discepoli all’insaputa dell'organizzazione al fine di prenderne il controllo e di assicurare che questa compisse la loro missione storica. Poiché l'insieme dei membri è considerato troppo stupido per capire la necessità di simili messia rivoluzionari, essi devono essere condotti a fare ciò che si considera essere "buono per loro" senza che ne siano coscienti e perfino contro la loro volontà. Gli statuti, le decisioni sovrane dei congressi o degli organi eletti valgono per gli altri, ma non per l’élite.
Questo era il punto di vista di Bakunin. Prima di raggiungere l'AIL, egli ha spiegato ai suoi discepoli perché l'AIL non era una organizzazione rivoluzionaria: i proudhoniani erano diventati riformisti, i blanquisti erano invecchiati ed il Consiglio Generale, dominato secondo loro dai tedeschi, era assieme a questi "autoritario". E' interessante vedere come Bakunin considerava l'AIL come la somma delle sue parti. Secondo Bakunin, ciò che mancava prima di tutto era la "volontà" rivoluzionaria. E' questo che l'Alleanza voleva assicurare passando sopra i programmi e gli statuti e ingannando i suoi membri.
Per Bakunin, l'organizzazione che il proletariato aveva forgiato, che aveva costruito nel corso di anni di lavoro accanito, non valeva niente. Per lui ciò che avevano significato erano le sette cospiratrici che egli stesso aveva creato e controllato. Non era l'organizzazione di classe che lo interessava, ma il suo proprio ruolo personale e la propria reputazione, la sua propria "libertà" anarchica o ciò che oggi si chiama la "realizzazione di sé". Per Bakunin ed i suoi simili il movimento operaio non era nient'altro che il tramite per la realizzazione della loro individualità e dei loro progetti.
SENZA ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA, NIENTE MOVIMENTO OPERAIO RIVOLUZIONARIO
Marx ed Engels, al contrario, sapevano ciò che vuole dire la costruzione dell'organizzazione per il proletariato. Mentre i libri di storia pretendono che il conflitto fra Marx e Bakunin era essenzialmente di natura politica generale, la storia reale dell'AIL rivela, innanzitutto, una lotta per l'organizzazione. Qualcosa che è particolarmente noioso per gli storici borghesi, ma che per noi, al contrario, è estremamente importante e ricco di lezioni. Ciò che ci mostra Marx è che senza organizzazione rivoluzionaria non può esserci né movimento di classe rivoluzionario, né teoria rivoluzionaria.
Nei fatti, l'idea che la solidità, lo sviluppo e la crescita organizzativa sono dei prerequisiti per lo sviluppo programmatico del movimento operaio, si trova alla base stessa dell'attività politica di Marx e di Engels (1). I fondatori del socialismo scientifico sapevano bene che la coscienza della classe proletaria non può essere il prodotto di individui, ma richiede un quadro organizzato e collettivo. E' per questo che la costruzione dell'organizzazione rivoluzionaria è uno dei compiti più importanti e difficili del proletariato.
LA LOTTA A PROPOSITO DEGLI STATUTI
In nessuna altra occasione Marx ed Engels hanno lottato con tanta determinazione e in maniera così fruttuosa per la comprensione di questa questione come nei ranghi dell'AIL. Fondata nel 1864, l'AIL è sorta in un'epoca in cui il movimento operaio organizzato era ancora principalmente dominato da ideologie e sette piccolo-borghesi e riformiste. Ai suoi inizi, l'Associazione Internazionale dei Lavoratori si componeva di differenti tendenze. Al suo interno avevano un ruolo preponderante i rappresentanti opportunisti delle trade-unions inglesi, del proudhonismo riformista piccolo-borghese dei paesi latini, del blanquismo cospirativo e, in Germania, della setta dominata da Lassalle. Benché i vari programmi e le differenti visioni fossero opposte le une alle altre, i rivoluzionari dell'epoca erano sotto la pressione enorme del raggruppamento della classe operaia che reclamava l'unità. Durante la prima riunione a Londra, quasi nessuno aveva la minima idea del modo in cui questo raggruppamento poteva avvenire. In questa situazione, gli elementi veramente proletari con Marx in testa hanno lavorato per rimandare temporaneamente la chiarificazione teorica fra i differenti gruppi. I lunghi anni di esperienza politica dei rivoluzionari e l'ondata internazionale delle lotte dell'insieme della classe dovevano essere utilizzati per forgiare l'organizzazione unitaria. L'unità internazionale di questa organizzazione, incarnata dai suoi organi centrali - in particolare dal Consiglio Generale - e dagli statuti che dovevano essere accettati da tutti i membri, doveva permettere all'AIL di chiarificare, passo dopo passo, le divergenze politiche e di raggiungere un punto di vista unificato.
Il contributo più decisivo del marxismo alla fondazione dell’AIL risiede dunque chiaramente a livello della questione organizzativa. Le diverse sette presenti alla riunione di fondazione non erano in grado di concretizzare la volontà di legami internazionali che gli operai inglesi e francesi, per primi, reclamavano. Il gruppo borghese Atto di fratellanza, adepto di Mazzini, voleva imporre gli statuti cospirativi di una setta segreta. L'"Indirizzo inaugurale" presentato da Marx in qualità di delegato del comitato organizzativo difendeva il carattere proletario e unitario dell'organizzazione e stabiliva la base indispensabile per un ulteriore lavoro di chiarificazione. Se l’AIL ha potuto, in seguito, andare più lontano e superare le visioni cospiratrici, settarie, piccolo-borghesi ed utopiste, è perché, in primo luogo, le sue correnti, in maniera più o meno disciplinata, si sono sottomesse a delle regole comuni.
La specificità dei bakuninisti è consistita viceversa nel rifiuto di rispettare gli statuti. E’ per questo che l'Alleanza di Bakunin doveva distruggere il primo partito del proletariato. La lotta contro l'Alleanza è rimasta nella storia come il grande confronto fra marxismo e anarchismo. E' certo così, ma al centro di questo scontro non c’erano questioni politiche generali quali i rapporti con lo Stato, ma principi organizzativi.
I proudhoniani, ad esempio, condividevano molti dei punti di vista di Bakunin, ma essi erano per la chiarificazione delle loro posizioni secondo le regole dell'organizzazione. Essi ritenevano che gli statuti dell'organizzazione dovessero essere rispettati da tutti i membri senza eccezione. E' su questa base che i "collettivisti" belgi in particolare sono stati capaci di avvicinarsi al marxismo su diverse questioni importanti. Il loro portavoce più conosciuto, De Paepe, era uno dei principali combattenti contro il tipo di organizzazione segreta che Bakunin credeva necessaria.
LA FRATELLANZA SEGRETA DI BAKUNIN
Questa questione si trovava proprio al centro della lotta dell’AIL contro Bakunin. Anche gli storici anarchici ammettono il fatto che quando questi ha raggiunto l’AIL nel 1869, disponeva di una fratellanza segreta con la quale voleva prendere il controllo dell’AIL.
"Ecco una società che, sotto la maschera dell'anarchismo più oltranzista, dirige i suoi colpi non contro i governi esistenti, ma contro i rivoluzionari che non accettano la sua ortodossia, né la sua direzione. Fondata dalla minoranza di un congresso borghese, essa si intrufola nei ranghi dell'organizzazione internazionale della classe operaia, tenta all'inizio di tenerla in pugno e lavora poi per disorganizzarla quando vede che il suo piano fallisce. Essa sostituisce sfrontatamente il suo programma settario e le sue idee ristrette al largo programma, alle grandi aspirazioni della nostra Associazione; organizza nelle sezioni pubbliche dell'Internazionale le sue piccole sezioni segrete che, obbedendo alle stesse parole d'ordine, in molti casi riescono a dominare le sezioni pubbliche tramite la loro azione concertata; attacca pubblicamente, nei suoi giornali, tutti gli elementi che rifiutano di assoggettarsi alla sua volontà; provoca la guerra aperta ‑si tratta delle sue stesse parole‑ nei nostri ranghi". Tali sono i termini del rapporto "Un complotto contro l'Internazionale", documento pubblicato su ordine del Congresso Internazionale dell'Aia del 1872.
La lotta di Bakunin e dei suoi amici contro l'Internazionale era contemporaneamente il prodotto della situazione storica specifica dell'epoca e di fattori più generali che esistono anche oggi. Alla base delle sue attività si trova l'infiltrazione dell'individualismo e dello spirito fazioso piccolo-borghesi, incapaci di sottomettersi alla volontà e alla disciplina dell'organizzazione. A questo si aggiunge l'atteggiamento cospirativo della bohème declassata che non poteva fare a meno di intrighi e complotti al fine del perseguimento di scopi personali. Il movimento operaio si è sempre scontrato con simili atteggiamenti perché l'organizzazione non può mai mettersi completamente al riparo dall'influenza delle altre classi della società. D'altro lato il complotto di Bakunin ha preso la forma storica concreta di una organizzazione segreta di un tipo che apparteneva al passato del movimento operaio dell'epoca. Dobbiamo studiare la storia concreta di Bakunin per comprendere quegli aspetti di carattere generale che sono importanti anche per noi, ai giorni nostri.
IL BAKUNINISMO SI OPPONE ALLA ROTTURA DEL PROLETARIATO CON IL SETTARISMO PICCOLO-BORGHESE
La fondazione dell’AIL, segnando la fine del periodo di controrivoluzione aperto nel 1849, provocò delle reazioni di paura e di odio estremamente forti (secondo Marx perfino esagerate) nelle classi dominanti: fra i resti dell'aristocrazia feudale e, soprattutto, da parte della borghesia in quanto nemica storica diretta del proletariato. Furono inviati spie e agenti provocatori per infiltrare i suoi ranghi. Furono montate contro di essa campagne coordinate di calunnie spesso isteriche. Le sue attività furono impedite o anche represse dalla polizia ogni volta che era possibile. I suoi membri erano sottoposti a processi e gettati in galera. Ma tutte queste misure risultavano inefficaci perché la lotta di classe e l'attività rivoluzionaria continuavano a svilupparsi. Solo con la disfatta della Comune di Parigi cominciò a prendere il sopravvento lo scompiglio nei ranghi della I Internazionale.
Ciò che allarmava maggiormente la borghesia, a parte l'unificazione internazionale del suo nemico, era la crescita del marxismo e il fatto che il movimento operaio abbandonasse la forma settaria di organizzazione clandestina e divenisse un movimento di massa. La borghesia si sentiva ben più sicura quando il movimento operaio rivoluzionario prendeva la forma di raggruppamenti settari, segreti e chiusi, attorno ad un'unica figura dirigente, che rappresentavano uno schema utopistico, da complotto, più o meno completamente isolati dal proletariato nel suo insieme. Tali sette potevano essere sorvegliate, infiltrate, deviate e manipolate molto più facilmente di un'organizzazione di massa la cui forza e la cui principale sicurezza risiedono nell'ancoraggio all'insieme della classe operaia. Per la borghesia ciò che rappresentava un pericolo per il suo dominio di classe era innanzitutto la prospettiva dell'attività socialista rivoluzionaria verso il proletariato come classe, cosa che le sette del periodo precedente non potevano assumere. Il legame fra il socialismo e la lotta di classe, fra il Manifesto Comunista e i vasti movimenti di sciopero, fra gli aspetti economici e quelli politici della lotta di classe del proletariato è proprio quello che ha causato tante notti insonni alla borghesia a partire dal 1864. E' questo che spiega la crudeltà incredibile con la quale la borghesia ha massacrato la Comune di Parigi come la solidarietà internazionale di tutte le frazioni della classe sfruttatrice con questo massacro.
Così uno dei temi principali della propaganda borghese contro la I Internazionale era l'accusa secondo la quale dietro l’AIL ci sarebbe stata una potente organizzazione segreta che avrebbe cospirato per abbattere l'ordine dominante. Dietro questa propaganda, che costituiva una scusa ulteriore per le misure di repressione, c'era anzitutto il tentativo di convincere gli operai che ciò che temeva di più la borghesia erano i cospiratori piuttosto che i movimenti di massa. Le classi sfruttatrici fecero di tutto per incoraggiare le differenti sette ed i vari cospiratori, che erano ancora attivi nel movimento operaio, a svilupparsi a spese del marxismo e del movimento di massa. In Germania, Bismarck incoraggiò la setta lassalliana a resistere ai movimenti di massa della classe e alle tradizioni marxiste della Lega dei Comunisti. In Francia la stampa, ma anche agenti provocatori, tentarono di attizzare la sfiducia già esistente dei cospiratori blanquisti nei confronti dell'attività di massa dell'AIL. Nei paesi slavi e latini fu lanciata una campagna isterica contro un cosiddetto "dominio tedesco" dell'AIL operato da "marxisti che adorano lo stato autoritario".
Ma fu prima di tutto Bakunin a sentirsi incoraggiato da questa propaganda. Prima del 1864 Bakunin aveva riconosciuto, suo malgrado, almeno parzialmente la superiorità del marxismo sulla sua visione putschista e piccolo-borghese del socialismo rivoluzionario. Dopo la fondazione dell'AIL e con l'assalto politico della borghesia contro di essa, Bakunin si sentì confermato e rafforzato nella sua sfiducia verso il marxismo e il movimento proletario. In Italia, che era divenuto il centro delle sue attività, le diverse società segrete ‑ i carbonari, Mazzini, la Camorra, ecc.‑ che avevano cominciato a denunciare l'AIL e a combattere la sua influenza nella penisola, acclamarono Bakunin come un "vero" rivoluzionario. Ci furono dichiarazioni pubbliche che chiedevano a Bakunin di prendere la direzione della rivoluzione proletaria europea. Il panslavismo di Bakunin era salutato come il naturale alleato dell'Italia contro l'occupazione delle forze austriache. In contrapposizione si faceva presente che Marx considerava l'unificazione della Germania più importante di quella dell'Italia come fattore per lo sviluppo della rivoluzione in Europa. Le autorità italiane così come le parti più chiaroveggenti delle autorità svizzere cominciarono allora a tollerare con benevolenza la presenza di Bakunin mentre prima egli era stato vittima della repressione statale europea più brutale.
Il dibattito organizzativo sulla questione della cospirazione
Michail Bakunin, figlio di gente piuttosto povera, ruppe con il suo ambiente e la sua classe a causa di una grande sete di libertà personale, cosa che all'epoca non poteva raggiungere né nell'esercito né nella burocrazia statale, né nella proprietà terriera. Questa motivazione mostra già la distanza che separava la sua carriera politica dal carattere collettivo e disciplinato della classe operaia. All'epoca il proletariato in Russia era appena esistente. Quando, agli inizi degli anni '40, Bakunin arrivò in Europa come rifugiato politico recante con sé già una storia di cospirazioni politiche, fervevano già nel movimento operaio i dibattiti sulle questioni organizzative e particolarmente in Francia.
Il movimento operaio rivoluzionario era allora organizzato principalmente sottoforma di società segrete. Questa forma era sorta non solo perché le organizzazioni operaie erano fuori legge, ma anche perché il proletariato, ancora numericamente debole e appena uscito dall’artigianato piccolo-borghese, non aveva trovato ancora la via che gli era propria. Come scrive Marx a proposito della situazione in Francia:
"Si sa che fino al 1830, i borghesi liberali erano alla testa delle congiure contro la Restaurazione. Dopo la Rivoluzione di Luglio, i borghesi repubblicani presero il loro posto; il proletariato, già preparato alla cospirazione sotto la Restaurazione, apparve in prima linea nella misura in cui i borghesi repubblicani, spaventati dai combattimenti di strada pur vani, rinculavano dinanzi la cospirazione. La “Società delle Stagioni” con la quale Blanqui e Barbès fecero i tumulti del 1830 era già esclusivamente proletaria, così come lo erano, dopo la disfatta, le "Nuove Stagioni" (...). Queste cospirazioni non inglobarono mai, naturalmente, la grande massa del proletariato parigino (...).”
(Marx-Engels, La Nuova Gazzetta renana - Rivista Politica ed Economica, IV, aprile 1850)
Ma gli elementi proletari non si sono limitati a questa rottura decisiva con la borghesia. Essi hanno cominciato a mettere in discussione nella pratica il dominio della cospirazione e dei cospiratori:
"Man mano che il proletariato parigino entrava in scena in quanto partito, questi cospiratori persero la loro influenza dirigente, furono dispersi e trovarono una pericolosa concorrenza nelle società segrete proletarie che non si proponevano come scopo immediato l'insurrezione, ma l'organizzazione e la formazione del proletariato. Già l'insurrezione del 1839 aveva un carattere nettamente proletario e comunista. Ma dopo ci furono delle scissioni a proposito delle quali i vecchi cospiratori si disgregarono veramente. Ora, si trattava di scissioni che nascevano dal bisogno degli operai di intendersi sui loro interessi di classe e che si manifestavano in parte nelle vecchie congiure e in parte nelle nuove società di propaganda. L'agitazione comunista che Cabet intraprese con forza subito dopo il 1839, le polemiche che si accesero nello stesso seno del partito comunista, debordarono il quadro dei cospiratori. Chenu come De la Hodde riconobbero che i comuniste erano di gran lunga la frazione più potente del proletariato rivoluzionario dell'epoca della rivoluzione di febbraio. I cospiratori, al fine di non perdere la loro influenza sugli operai e, dunque, degli "habits noirs", dovettero seguire questo movimento ed adottare delle idee socialiste e comuniste". (ibid)
La conclusione intermedia di questo processo fu la Lega dei Comunisti che non solo adottò il Manifesto del Partito Comunista, ma anche i primi statuti proletari di un partito di classe liberatosi da ogni cospirazione:
"Di conseguenza la Lega dei Comunisti non era una società cospiratrice, ma una società che si sforzava in segreto di creare l'organizzazione del partito proletario, dato che il proletariato tedesco è ufficialmente privo “igni et aqua", del diritto di scrivere, di parlare e di associarsi. Dire che una tale società cospira è come dire che l'elettricità e il vapore cospirano contro lo statu quo" (Marx, Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia, 1853).
E' ugualmente questo problema che ha condotto alla scissione della tendenza Willich-Schapper:
"Così una frazione si distacca -o, se si preferisce, fu distaccata- dalla Lega dei Comunisti; essa si richiamava se non a cospirazioni reali, almeno all'apparenza della cospirazione, perciò all'alleanza diretta con gli eroi democratici del momento, la frazione Willich-Schapper".
Ciò che non andava a genio a questa gente è la stessa cosa che aveva allontanato Bakunin dal movimento operaio:
"E' evidente che una tale società segreta che ha per fine non la creazione del partito di governo, ma del partito di opposizione dell'avvenire, non poteva sedurre granché degli individui che, da una parte, volevano mascherare la propria nullità personale riempiendosi la bocca sotto il mantello teatrale delle cospirazioni e, d'altra parte, desideravano soddisfare la loro limitata ambizione per il giorno della prossima rivoluzione, ma prima di tutto, avere una sembianza di importanza momentanea, partecipare alla festa demagogica ed essere ben accolti dai ciarlatani democratici" (ibid.).
Dopo la sconfitta delle rivoluzioni europee del 1848-49, la Lega dimostrò ancora una volta a qual punto aveva superato la natura di setta. Essa tentò, attraverso un raggruppamento con i Cartisti in Inghilterra ed i Blanquisti in Francia, di formare una nuova organizzazione internazionale: la Società universale dei Comunisti Rivoluzionari. Una tale organizzazione doveva essere retta da statuti applicabili internazionalmente a tutti i suoi membri, abolendo la separazione tra una direzione segreta e i membri considerati come massa di manovra. Questo progetto, proprio come la Lega stessa, è affondato a causa del riflusso internazionale del proletariato dopo la sconfitta della rivoluzione. E' perciò che solo dieci anni dopo, con l'apparizione di una nuova ondata rivoluzionaria e la fondazione dell'AIL, poté essere inferto il colpo decisivo contro il settarismo.
I primi principi organizzativi proletari
All'epoca in cui Bakunin tornò in Europa occidentale dalla Siberia, all'inizio degli anni ‘60, le prime principali lezioni della lotta organizzativa del proletariato erano già state tirate ed erano alla portata di chiunque le volesse assimilare. Queste lezioni erano state acquisite attraverso anni di esperienza amara durante i quali gli operai erano stati utilizzati come carne da cannone dalla borghesia e dalla piccola borghesia nella lotta contro il feudalesimo. Durante questa lotta, gli elementi rivoluzionari proletari si erano separati dalla borghesia non soltanto politicamente, ma anche organizzativamente ed avevano sviluppato principi organizzativi in sintonia con la loro natura di classe. I nuovi statuti definivano l'organizzazione come un organismo cosciente, collettivo ed unito. La separazione fra la base ‑composta di operai incoscienti della vita politica reale dell'organizzazione‑ e la direzione ‑composta da cospiratori professionali‑ era superata. I nuovi principi di centralizzazione rigorosa, compresa l'organizzazione del lavoro illegale, escludevano la possibilità di una organizzazione segreta all’interno dell'organizzazione o alla sua testa. Mentre la piccola borghesia e soprattutto gli elementi declassati radicalizzati avevano giustificato la necessità di un funzionamento segreto di una parte dell'organizzazione rispetto all'insieme di questa come mezzo di protezione verso il nemico di classe, la nuova comprensione proletaria mostrava che questa élite cospiratrice favoriva l'infiltrazione della classe nemica, in particolare della polizia politica, nei ranghi proletari. E' innanzitutto la Lega dei Comunisti che ha dimostrato che la trasparenza e la solidità organizzativa costituiscono la migliore protezione contro la distruzione da parte dello Stato.
Marx aveva già tracciato un ritratto dei cospiratori di Parigi prima della rivoluzione del 1848 che poteva facilmente applicarsi allo stesso Bakunin. Vi troviamo una chiara espressione della critica della natura piccolo-borghese del settarismo che apriva largamente la porta non soltanto alla polizia ma anche alla bohème declassata:
"La loro esistenza incerta, dipendente per ciascuno più dal caso che dalla loro attività; la loro vita sregolata i cui punti di ritrovo sono le osterie, luoghi di incontro dei cospiratori; la loro inevitabile vicinanza con ogni sorta di elementi loschi, tutto ciò li pone nell'ambiente che a Parigi si chiama la bohème. Questi bohème democratici di origine proletaria ‑esiste anche una bohème di origine borghese, questi democratici bighelloni e queste colonne da bar‑ o sono degli operai che hanno abbandonato il loro lavoro cadendo in completa dissoluzione oppure dei soggetti che provenendo dal sottoproletariato si portano dietro le abitudini dissolute della classe di origine. Si capisce dunque come, in queste condizioni, pressoché in tutti i processi cospirativi si ritrovi mescolato qualche pregiudicato.
Tutta la vita di questi cospiratori di professione porta il marchio della bohème. Sergenti reclutatori della congiura, essi si trascinano da un'osteria all'altra, prendono il polso degli operai, scelgono le loro persone, le attirano nella cospirazione abbindolandoli e facendo pagare sia alla cassa della società sia al nuovo amico i litri dell'inevitabile consumo. (...) In ogni momento può essere chiamato sulle barricate e cadervi; al più piccolo dei suoi passi la polizia gli tende delle trappole che possono portarlo in galera. Tali pericoli insaporiscono il mestiere e gli danno fascino: maggiore è l'incertezza, più il cospiratore si affretta a goderne il momento. Nello stesso tempo, l'abitudine al pericolo lo rende del tutto indifferente alla vita e alla libertà" (ibid.).
Occorre dire che questa gente "(...) disprezza al massimo la preparazione teorica degli operai per quanto riguarda i loro interessi di classe" (ibid.).
"Il tratto essenziale della vita del cospiratore è la lotta contro la polizia, con la quale egli intrattiene lo stesso rapporto che ha il ladro o la prostituta. La polizia non tollera solamente i cospiratori come un male necessario: li tollera come centri facili da sorvegliare (...). I congiurati sono in contatto continuo con la polizia, entrano in ogni momento in collusione con essa; danno la caccia alle spie, come le spie danno la caccia ai cospiratori. Lo spionaggio è una delle loro maggiori occupazioni. Così, in queste condizioni, non c'è da stupirsi che , favorito dalla miseria e dalla prigione , dalle minacce e dalle promesse, si effettui il piccolo salto che separa il cospiratore artigianale dallo spione stipendiato dalla polizia."
Questa è la comprensione che si trova alla base degli statuti dell'AIL e che ha inquietato abbastanza la borghesia, per cui essa ha espresso la sua preferenza per Bakunin.
LA POLITICA COSPIRATIVA DI BAKUNIN IN ITALIA
Per comprendere come Bakunin abbia potuto finire per essere manipolato dalle classi dominanti contro l'AIL, è necessario ricordare brevemente la sua traiettoria politica così come la situazione politica in Italia dopo il 1864. Gli storici anarchici cantano le lodi del "grande lavoro rivoluzionario" di Bakunin in Italia dove questi ha creato una serie di sette segrete e ha tentato di infiltrare e di guadagnare influenza in diverse "cospirazioni". Essi pensano in genere che sia stata l'Italia ad innalzare Bakunin sul piedistallo di "papa dell'Europa rivoluzionaria". Ma siccome evitano accuratamente di entrare nei dettagli della realtà di questo ambiente, occorre disturbarli un po’.
Bakunin ha conquistato la sua reputazione nel campo socialista grazie alla sua partecipazione alla rivoluzione del 1848-49 come dirigente a Dresda. Imprigionato, estradato in Russia e infine esiliato in Siberia, Bakunin è ritornato in Europa dopo essere riuscito a fuggire nel 1861. Appena arrivato a Londra, è andato a trovare Herzen, il noto leader rivoluzionario liberale russo. Là ha immediatamente cominciato a raggruppare, indipendentemente da Herzen, l'emigrazione politica attorno alla propria persona. Si trattava di un circolo di slavi di cui Bakunin si è circondato attraverso un panslavismo appena tinteggiato di anarchismo. Si è tenuto ben lontano dal movimento operaio inglese, come dai comunisti, soprattutto dal Club d'Educazione degli Operai tedeschi di Londra. Non avendo possibilità di cospirazioni (si stava preparando la fondazione dell'AIL), è partito in Italia nel 1864 a cercare discepoli per il suo "panslavismo" reazionario e i suoi raggruppamenti segreti.
"In Italia trovò una grande quantità di società politiche segrete; trovò una intelligentsja declassata pronta in ogni momento a lasciarsi trascinare nei complotti, una massa contadina costantemente ai limiti della fame e infine un sottoproletariato brulicante, rappresentato soprattutto dai lazzaroni di Napoli, città dove, dopo un breve soggiorno a Firenze, non aveva tardato a stabilirsi e dove visse parecchi anni". (F. Mehring, Karl Marx, biografia.)
Bakunin ha evitato gli operai dell'Europa occidentale a favore dei declassati italiani.
Le società segrete come veicolo di rivolta
Nel periodo di reazione che fece seguito alla sconfitta di Napoleone e durante la quale la Santa Alleanza sotto Metternich applicava il principio dell'intervento armato contro ogni sollevamento sociale, le classi della società escluse dal potere erano obbligate ad organizzarsi in società segrete. Questo non era il caso solo degli operai, della piccola borghesia e del contadiname, ma ugualmente per parti della borghesia liberale e anche per gli aristocratici insoddisfatti. Quasi tutte le cospirazioni a partire dal 1820, quelle dei decabristi in Russia o dei Carbonari in Italia, si organizzavano secondo il modello della massoneria che era sorta in Inghilterra nel 17° secolo e i cui fini di "fratellanza internazionale" e di resistenza alla Chiesa cattolica avevano attirato europei illuminati come Diderot e Voltaire, Lessing e Goethe, Puskin e altri. Ma come molte delle cose di questo "secolo dei lumi", come i "despoti illuminati" quali Caterina, Federico il Grande o Maria Teresa, la massoneria aveva un'essenza reazionaria sotto una forma ideologica mistica, di una organizzazione di élite con differenti “gradi” di “iniziazione”, con un carattere aristocratico tenebroso e con le sue tendenze alla cospirazione e alla manipolazione. In Italia, che all'epoca era la Mecca delle società segrete non proletarie, delle manovre e delle cospirazioni a briglia sciolta, si sono sviluppate a partire dal 1820 e 1830 le strutture dei guelfi, dei federati, degli adelfi e dei carbonari. La più famosa di esse, la Carboneria, era una società segreta terrorista che difendeva un misticismo cattolico e le cui strutture e “simboli” provenivano dalla massoneria.
Ma all'epoca in cui Bakunin era andato in Italia, i carbonari si trovavano già all'ombra della cospirazione di Mazzini. I mazziniani rappresentavano un passo avanti rispetto ai carbonari poiché lottavano per una repubblica italiana unita e centralizzata. Mazzini non lavorava solo in maniera sotterranea, ma faceva anche dell'agitazione verso la popolazione. Dopo il 1848 si sono formate perfino delle sezioni operaie. Mazzini rappresentava così un progresso organizzativo poiché aveva abolito il sistema dei carbonari secondo il quale i militanti di base dovevano seguire ciecamente e senza saperne molto gli ordini della direzione sotto pena la morte. Ma, da quando l'AIL si è eretta a forza indipendente dal suo controllo, Mazzini ha cominciato a combatterla come una minaccia al suo movimento nazionalista.
Quando Bakunin è arrivato a Napoli, ha immediatamente condotto una lotta contro Mazzini ‑ma dal punto di vista dei carbonari di cui difendeva i metodi! Lungi dallo stare in guardia, Bakunin si è tuffato in tutto questo torbido ambiente con lo scopo di prendere la direzione del movimento cospirativo. Ha fondato, così, l'Alleanza della Democrazia Socialista con, alla testa, la Fratellanza Internazionale segreta, un "ordine di rivoluzionari disciplinati”.
Un ambiente manipolato dalla reazione
L'aristocratico rivoluzionario declassato Bakunin ha trovato in Italia un terreno ancora più adatto che in Russia. E' là che la sua concezione organizzativa è maturata fino al suo completo sviluppo. E’ da una cupa palude che si è sviluppata tutta una serie di organizzazioni antiproletarie. Questi raggruppamenti di aristocratici rovinati, spesso depravati, di giovani declassati o anche di semplici criminali gli sembravano più rivoluzionari del proletariato. Uno di questi gruppi era la Camorra, che corrispondeva alla visione romantica di Bakunin sul banditismo rivoluzionario. La dominazione della Camorra, organizzazione segreta che proveniva da una organizzazione di forzati a Napoli, era diventata quasi ufficiale dopo l'amnistia del 1860. In Sicilia, verso la stessa epoca, l'ala armata dell'aristocrazia rurale spossessata infiltrava l'organizzazione locale segreta di Mazzini. A partire dal quel momento essa si è autonominata “Mafia”, che corrispondeva alle iniziali del suo slogan di battaglia "Mazzini Autorizza Furti, Incendi, Avvelenamenti". Bakunin non ha saputo denunciare questi elementi, né distanziarsene chiaramente.
In questo ambiente la manipolazione diretta dello stato non poteva certo mancare. Possiamo affermare con sicurezza che questa manipolazione ha giocato un ruolo nel modo in cui l'ambiente italiano ha celebrato Bakunin come la vera alternativa rivoluzionaria di fronte alla "dittatura tedesca di Marx". Questa propaganda era nei fatti identica a quella che diffondevano gli organi di polizia di Luigi Bonaparte in Francia.
Come dice Engels, i carbonari e molti dei gruppi similari erano manipolati e infiltrati dai servizi segreti russi o altri (vedi Engels, La politica estera dello zarismo russo). Questa infiltrazione di Stato si è rafforzata soprattutto dopo la sconfitta della rivoluzione europea del 1848. Il dittatore francese, l'avventuriero Luigi Napoleone che, dopo la sconfitta di questa rivoluzione è diventato il ferro di lancia della controrivoluzione che ne è seguita, si è alleato con Palmerston a Londra ma soprattutto con la Russia allo scopo di mantenere sotto controllo il proletariato europeo. A partire dal 1864, la polizia segreta di Luigi Napoleone era in azione soprattutto per distruggere l'AIL. Uno dei suoi agenti era il "Sig. Vogt", associato a Lassalle, che ha calunniato Marx in pubblico come capo di una banda di ricattatori.
Ma l'asse principale della diplomazia segreta di Luigi Napoleone si trovava in Italia dove la Francia cercava di sfruttare il movimento nazionale ai suoi fini. Nel 1859, Marx ed Engels hanno sottolineato che alla testa dello Stato francese si trovava un ex‑membro dei carbonari. (La politica monetaria in Europa - La posizione di Luigi Napoleone).
Bakunin che si trovava in questo pantano fino al collo, evidentemente avrebbe potuto manipolare questa massa di spazzatura per i propri scopi rivoluzionari. Ma in realtà fu lui ad essere manipolato. A tutt’oggi noi non conosciamo in dettaglio tutti gli “elementi” con i quali "cospirava". Ma esistono però delle indicazioni. Per esempio nel 1865 Bakunin redige, come viene riportato dallo storico Max Nettlau, i suoi Manoscritti massonici, “uno scritto che si fissava come scopo quello di proporre le idee di Bakunin alla massoneria italiana”.
“I manoscritti massonici fanno riferimento al Sillabo di triste memoria, la condanna da parte del Papa del pensiero umano del dicembre 1864; Bakunin voleva unirsi all'indignazione sollevata contro il papa per spingere avanti la massoneria, o la sua frazione suscettibile di evolvere; comincia perfino a dire che, per diventare un corpo vivente e utile, la massoneria deve rimettersi seriamente al servizio dell'umanità.” (Max Nettlau, Storia dell'anarchismo, tomo 2).
Nettlau tenta perfino di provare, paragonando diverse citazioni, che Bakunin aveva influenzato il pensiero della massoneria dell’epoca. In realtà è successo proprio il contrario. E' in questo peiodo che Bakunin ha adottato parti dell'ideologia delle società segrete mistiche della massoneria. Una visione del mondo che Engels descriveva già perfettamente alla fine degli anni '40 a proposito di Heinzen:
“Egli prende gli scrittori comunisti per dei profeti o dei preti che detengono una saggezza segreta che nascondono ai non iniziati per tenerli in soggezione (...) come se i rappresentanti del comunismo avessero interesse a mantenere gli operai all'oscuro, come se li manipolassero come facevano gli illuminati del secolo scorso nei confronti del popolo" (Engels, I Comunisti e Karl Heinzen, 1847).
Risiede là la chiave del "mistero" bakuninista secondo il quale nella società anarchica futura, senza Stato né autorità, occorrerà sempre una società segreta.
Marx ed Engels, senza riferirsi a Bakunin, hanno espresso tutto questo in rapporto al filosofo inglese e pseudosocialista dell'epoca, Carlyle:
"La differenza di classe, storicamente prodotta, diventa così una differenza naturale che si deve riconoscere e venerare come parte dell'eterna legge della natura, inchinandosi dinanzi a ciò che è nobile e saggio nella natura: il culto del genio. Tutta la concezione del processo di sviluppo storico diventa una pallida trivialità della saggezza degli illuminati e dei massoni del secolo scorso (...). Eccoci alla vecchia questione di sapere chi dovrebbe di fatto regnare, questione dibattuta in lungo e in largo con grande superbia; essa riceve in fin dei conti la risposta logica: regneranno coloro che possiedono nobiltà, saggezza e sapere (...)" (Engels, La Nuova Gazzetta Renana - Rivista economica e politica, IV, 1850).
Bakunin “scopre” l'Internazionale
Fin dall'inizio, la borghesia europea ha cercato di utilizzare il pantano delle società segrete italiane contro l'Internazionale. Già all'epoca della sua fondazione nel 1864 a Londra, gli amici di Mazzini avevano tentato di imporre i loro statuti settari e di prendere dunque il controllo dell'Associazione. Il rappresentante di Mazzini in quel momento, Major Wolff, sarebbe stato smascherato più tardi come agente di polizia. Dopo lo scacco di questo tentativo, la borghesia ha messo in piedi la Lega per la pace e la libertà e l'ha utilizzata per attirare Bakunin nella ragnatela di coloro che volevano minare l'AIL.
Bakunin attendeva la "rivoluzione" in Italia. Mentre manovrava nella palude della nobiltà rovinata, della gioventù declassata e del sottoproletariato urbano, l'Associazione Internazionale dei lavoratori si era sviluppata, senza la sua partecipazione, fino a diventare la forza rivoluzionaria dominante nel mondo. Bakunin ha dovuto riconoscere che, nel suo tentativo di diventare il papa rivoluzionario d'Europa, aveva scelto il cavallo sbagliato. Fu allora, nel 1867, che venne fondata la Lega per la pace e la Libertà, evidentemente contro l'AIL. Bakunin con la sua "fratellanza" ha raggiunto la Lega allo scopo di "unire la Lega ‑con la Fratellanza al suo interno come forza rivoluzionaria ispiratrice‑ all'Internazionale" (Nettlau, ibid.).
Logicamente, ma senza neanche accorgersene, facendo questo passo Bakunin diventava il ferro di lancia del tentativo delle classi dominanti di distruggere l'AIL.
La “Lega per la Pace e la Libertà”
La Lega, originata dall'idea del capo guerrigliero italiano Giuseppe Garibaldi e del poeta francese Victor Hugo, fu fondata più particolarmente dalla borghesia svizzera e sostenuta da parti di società segrete italiane. La sua propaganda pacifista di disarmo e la sua rivendicazione degli "Stati Uniti d'Europa" avevano in realtà come scopo principale quello di indebolire e dividere l'AIL. In un’epoca in cui l'Europa era divisa in una parte occidentale dal capitalismo sviluppato e una parte orientale "feudale" sotto la sciabola russa, l'appello al disarmo costituiva una rivendicazione ben accetta dalla diplomazia russa. L'AIL, come tutto il movimento operaio, aveva fin dall'inizio adottato lo slogan del ripristino di una Polonia democratica come bastione contro la Russia che, in successive riprese, aveva costituito il pilastro della reazione europea. La lega denunciava ora questa politica come "militarista", mentre il panslavismo di Bakunin era presentato come autenticamente rivoluzionario e diretto contro ogni militarismo. In questa maniera, la borghesia ha rafforzato i bakuninisti contro l'AIL:
"L'Alleanza della democrazia socialista è di origine completamente borghese. Essa non è uscita dall'Internazionale; è uno scarto della Lega per la Pace e la Libertà, società nata morta dei repubblicani borghesi. L'Internazionale era già fortemente strutturata quando Michail Bakunin si mise in testa di giocare il ruolo da emancipatore del proletariato. Essa gli offriva un campo d'azione come a qualsiasi altro membro. Per diventare qualcuno, avrebbe dovuto prima guadagnarsi i galloni con un lavoro assiduo e spassionato; egli credette di trovare una migliore probabilità e una via più facile dal lato dei borghesi della Lega." ("Un complotto contro l'Internazionale, L'Alleanza della democrazia socialista e l'Associazione Internazionale dei Lavoratori", Rapporto e documenti pubblicati da parte del Congresso Internazionale dell'Aia).
La proposta fatta da Bakunin di una alleanza della Lega con l'AIL fu però rifiutata dal Congresso dell'AIL di Bruxelles. A quell'epoca era ormai chiaro che una maggioranza schiacciante rifiutava l'abbandono del sostegno alla Polonia contro la reazione russa. Così non c'era altro da fare per Bakunin che raggiungere l'AIL allo scopo di sabotarla dall'interno. Questo orientamento fu sostenuto dalla direzione della Lega all'interno della quale aveva già una base potente.
"L'alleanza fra borghesi e lavoratori sognata da Bakunin non doveva limitarsi ad un'alleanza pubblica. Gli statuti segreti dell'Alleanza della democrazia socialista (...) contengono delle indicazioni che mostrano che all'interno stesso della Lega, Bakunin aveva posto le basi di una società segreta che doveva dirigerla. Non solo i nomi dei gruppi dirigenti sono identici a quelli della Lega (...) ma gli statuti segreti dichiarano che la "maggior parte dei membri fondatori dell'Alleanza" sono dei "membri qui presenti al Congresso di Berna". (ibid.)
Coloro che conoscono la politica della Lega possono supporre che fin dall'inizio essa sia stata creata per utilizzare Bakunin contro l’AIL - un compito per il quale Bakunin era stato ben preparato in Italia. Il fatto stesso che parecchi attivisti vicini a Bakunin e alla Lega furono smascherati in seguito come agenti della polizia, parla chiaro in questo senso. Nei fatti, niente poteva essere più pericoloso per l'AIL che la corrosione dall'interno attraverso elementi che non erano, loro, agenti dello Stato e che avevano una certa reputazione nel movimento operaio, ma che perseguivano i loro scopi personali a spese del movimento.
Anche se Bakunin non intendeva servire in questa maniera la controrivoluzione, lui e quelli del par suo ne portano l'intera responsabilità per la maniera con cui si sono messi dalla parte degli elementi più reazionari e più loschi della classe dominante.
E' vero che l'Internazionale era cosciente dei pericoli che una simile infiltrazione rappresentava. La conferenza dei delegati riuniti a Londra, ad esempio, ha adottato la seguente risoluzione:
"Nei paesi in cui l'organizzazione regolare dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori è diventata momentaneamente impraticabile in seguito all'intervento governativo, l'Associazione e i suoi gruppi locali potranno costituirsi con una diversa denominazione, ma ogni costituzione di sezioni internazionali sotto forma di società segrete è e resta formalmente vietata" ("Risoluzione generale relativa ai paesi in cui l'organizzazione regolare dell'Internazionale impedita dal governo" adottata alla conferenza di Londra, settembre 1871).
Marx, che aveva proposto la risoluzione, la giustifica così:
"In Francia e in Italia, dove esiste una situazione politica tale che associarsi costituisce reato, le persone saranno fortemente inclini a lasciarsi trascinare nelle società segrete il cui risultato è sempre negativo. Allo stato presente, questo tipo di organizzazione si trova in contraddizione con lo sviluppo del movimento proletario perché le società segrete, invece di educare gli operai, li sottomettono a leggi autoritarie e mistiche che impediscono la loro autonomia e ne stornano la coscienza in una falsa direzione" (Intervento di Marx alla Conferenza di Londra del settembre 1871).
KR.
1) E' chiaro che il punto di partenza per la fondazione di una organizzazione rivoluzionaria è l'accordo su un programma politico. Niente è più estraneo al marxismo ‑e più in generale al movimento operaio‑ che i raggruppamenti senza principi programmatici. Ciò detto, il programma del proletariato, contrariamente alla visione difesa dalla corrente bordighista, non è dato una volta per tutte. Al contrario esso si sviluppa, si arricchisce, corregge gli eventuali errori attraverso l'esperienza viva della classe operaia. Al momento della fondazione dell'AIL, vale a dire ai primi passi del movimento operaio, l'essenziale di questo programma, ciò che stabilisce l'appartenenza di una organizzazione al campo proletario, si riassume in qualche principio generale che si trova nelle premesse degli statuti dell'Internazionale. Ora Bakunin ed i suoi adepti non rimettono in causa queste “premesse”. Il loro attacco contro l'AIL punta principalmente contro gli stessi statuti, le regole di funzionamento. Ciò non vuole dire che si possa operare una separazione fra programma e statuti. Per il fatto stesso che questi ultimi esprimono e concretizzano dei principi essenziali propri della classe operaia e di nessuna altra classe, essi sono parte integrante del programma.
Nella prima parte di questo articolo (Rivista Internazionale n. 19) abbiamo tentato di riappropriarci dell'esperienza storica rivoluzionaria della classe operaia in Cina. L'eroico tentativo insurrezionale del proletariato di Shanghai il 21 marzo 1927 fu, al tempo stesso, il punto culminante del formidabile movimento della classe operaia iniziato in Cina nel 1919 e l'ultima esplosione dell'ondata rivoluzionaria internazionale che aveva fatto tremare il mondo a partire dal 1917. Tuttavia, le forze alleate della reazione capitalista (il Kuomintang, i "Signori della guerra" e le grandi potenze imperialiste), rafforzate dalla complicità dell'Esecutivo di una Terza Internazionale (IC) in pieno processo di degenerazione, arrivarono a distruggere questo movimento da cima in fondo.
Gli avvenimenti successivi non ebbero più niente a che fare con la rivoluzione proletaria. Ciò che la storia ufficiale chiama "rivoluzione popolare cinese" non fu, in realtà, che una successione sfrenata di lotte per il controllo del paese fra frazioni borghesi antagoniste. La Cina era diventata una "regione calda" accanto alle dispute imperialiste che sarebbero sfociate nella 2a guerra mondiale.
La liquidazione del partito proletario
Secondo la storia ufficiale, il 1928 è una data decisiva per la vita del Partito Comunista Cinese (PCC) poiché quell'anno ci fu la creazione dell' "Armata Rossa" e l'inizio della "nuova strategia" basata sulla mobilitazione dei contadini, promossi "pilastri" della "rivoluzione popolare". Questa fu effettivamente una data decisiva per il PCC, ma non nel senso dato dalla storia ufficiale. L'anno 1928 fu, di fatto, quello della liquidazione del Partito Comunista della Cina in quanto strumento della classe operaia. La comprensione di questo avvenimento è la base per comprendere l'evoluzione posteriore della Cina.
Da una parte il partito fu disarticolato e brutalmente decimato con la disfatta del proletariato. Come abbiamo già detto, circa 25.000 militanti comunisti furono assassinati e parecchie migliaia soffrirono le persecuzioni del Kuomintang. Questi militanti erano l'avanguardia del proletariato rivoluzionario delle grandi città che si era raggruppato massicciamente nel partito durante gli anni precedenti, in mancanza di organizzazioni unitarie sul tipo dei consigli operai. D'ora in poi, non solo il partito non vedrà più l'adesione di nuove ondate di operai, ma la sua stessa composizione sociale si trasformerà radicalmente insieme ai suoi principi politici, come vedremo in seguito.
Ma la liquidazione del partito non fu soltanto fisica, fu prima di tutto una liquidazione politica. Il periodo di repressione feroce contro il PCC coincise con l'irresistibile ascesa dello stalinismo in URSS e nell'Internazionale. La simultaneità di questi avvenimenti favorì in maniera drammatica l'opportunismo che da anni era stato inoculato nel PCC dall'Esecutivo dell'IC, fino a provocarne un processo di degenerazione folgorante.
Fra il mese di agosto e di dicembre 1927, si vide così il PCC prendere la testa di una serie di tentativi avventuristici, caotici e disperati, fra i quali possiamo citare in particolare la "rivolta d'autunno" (sollevamento di qualche migliaia di contadini in alcune regioni che si trovavano sotto l'influenza del PCC), l'ammutinamento dei reggimenti nazionalisti di Nanchang (fra i quali agivano alcuni comunisti) e infine, dall' 11 al 14 dicembre, la sedicente “insurrezione” di Canton, che in realtà non fu che un tentativo di insurrezione pianificato e che, non beneficiando del sostegno dell'insieme del proletariato della città, terminò in un nuovo bagno di sangue. Tutte queste azioni si conclusero con disfatte disastrose a beneficio delle forze del Kuomintang, accelerando la dispersione e la demoralizzazione del Partito, provocando infine lo schiacciamento degli ultimi soprassalti rivoluzionari della classe operaia.
Questi tentativi avventuristici erano stati voluti da elementi che Stalin aveva piazzato alla testa del PCC, e avevano come obiettivo quello di giustificare la tesi di Stalin sull' "ascesa della rivoluzione cinese", benché queste sconfitte furono poi utilizzate, a posteriori, per espellere, con manovre sordide, proprio coloro che vi si erano opposti.
Il 1928 fu l'anno del trionfo totale della controrivoluzione staliniana. Il IX Plenum dell'IC convalidò il “rifiuto del trotskismo” come condizione d'adesione e, per finire, il VI Congresso adottò la teoria del "socialismo in un solo paese", cioè l'abbandono dell'internazionalismo rivoluzionario, momento che significò la fine dell'Internazionale in quanto organizzazione della classe operaia. E' in questo quadro che si tenne, in URSS, il VI Congresso del PCC che, per così dire, iniziò la stalinizzazione "ufficiale" del Partito prendendo la decisione di preparare una équipe di giovani dirigenti fedeli a Stalin in maniera incondizionata; ciò determinò il rovesciamento radicale del partito diventato ormai uno strumento del nuovo imperialismo russo in ascesa. Questa squadra di "studenti mancati" tentò di imporsi due anni dopo alla direzione del partito, nel 1930.
"L'Armata Rossa" e i nuovi "Signori della guerra"
La stalinizzazione non fu però l'unica espressione della degenerazione del PCC. La sconfitta di una serie di avventure nella seconda metà del 1927 provocò anche la fuga di certi gruppi che avevano partecipato alla lotta contro le truppe governative in regioni di difficile accesso. Questi gruppi cominciarono a riunirsi in distaccamenti militari e uno di questi era quello di Mao tse-tung.
Occorre precisare che Mao Tse-tung non aveva mai dato prova di particolare intransigenza proletaria. Aveva solo occupato un posto amministrativo di second'ordine durante l'alleanza fra il PCC e il Kuomintang e proprio fra i rappresentanti dell'ala opportunista. Una volta spezzata questa alleanza, era fuggito nella sua regione natale del Junan dove diresse la "rivolta contadina dell'autunno" conformemente alle direttive staliniane. Il disastro che concluse questa avventura lo forzò a ripiegare ancora di più fino al massiccio montagnoso del Chingkang, accompagnato da un centinaio di contadini. Per potervisi stabilire concluse un patto con i banditi che controllavano questa zona, apprendendo da essi i metodi d'assalto. Il suo gruppo infine si fuse con un distaccamento del Kuomintang comandato dall'ufficiale Chu Te, che era anch'egli in fuga verso la montagna dopo lo scacco del sollevamento di Nanchang.
Secondo la storia ufficiale, il gruppo di Mao Tse-tung sarebbe all'origine della sedicente Armata “Rossa" o "Popolare" e delle "basi rosse" (regioni controllate dal PCC). Mao avrebbe scoperto qualcosa come la "corretta strategia" per la rivoluzione cinese. A dire il vero, il gruppo di Mao non fu mai altro che uno dei molteplici distaccamenti simili che si formarono simultaneamente in una mezza dozzina di regioni. Tutti si impegnarono in una politica di reclutamento fra il contadiname, di avanzate e di occupazione di certe regioni, arrivando perfino a resistere agli assalti del Kuomintang per alcuni anni, fino al 1934. Ciò che occorre rimarcare qui è la fusione politica e ideologica che ebbe luogo fra l'ala opportunista del PCC, certe frazioni del Kuomintang (il partito ufficiale della borghesia nazionalista) e perfino dei mercenari provenienti da bande di contadini declassati. In realtà il dislocamento geografico che si operava sulla scena storica, dalle città verso le campagne, non corrispondeva semplicemente a un cambiamento di strategia, ma esprimeva la trasformazione della natura del PCC.
Secondo gli storici maoisti, in effetti, l'"Armata Rossa" sarebbe un esercito di contadini guidati dal proletariato. Alla testa di questo esercito non si trovava certamente la classe operaia, ma dei militanti del PCC -per la maggior parte di origine piccolo-borghese- che non avevano mai pienamente aderito alle prospettive della lotta del proletariato, mescolati a ufficiali del Kuomintang. Questo miscuglio si consoliderà successivamente con un nuovo dislocamento di professori e di studenti nazionalisti e liberali verso la campagna; questi formarono più tardi i quadri "educatori" dei contadini durante la guerra contro il Giappone.
Socialmente, il PCC diventerà allora il rappresentante degli strati della borghesia e della piccola borghesia spiazzata dalle condizioni dominanti in Cina: intellettuali, militari di carriera che non trovavano posti né nei governi locali perché vi accedevano solo i notabili, né nel governo centrale di Ciang Kai-scek che era molto chiuso e monolitico. L'ideologia dei militanti dell'"Armata Rossa" divenne allora una specie di composto a base di stalinismo e di "sunyatsenismo". Un linguaggio pseudomarxista pieno di frasi sul proletariato che non facevano che sfumare leggermente ciò che era divenuto sempre più apertamente il vero obiettivo da raggiungere: stabilire con l'aiuto di un governo "amico" un governo borghese "democratico" per rimpiazzare il governo borghese "dittatoriale" di Ciang Kai-scek. Nelle condizioni create dalla decadenza del capitalismo, ciò implicava l'immersione totale del nuovo PCC e della sua "Armata Rossa" nei conflitti imperialisti.
Il contadiname cinese è forse una classe speciale?
E' tuttavia vero che i ranghi dell'"Armata Rossa" erano soprattutto costituiti da contadini poveri. Questo, unitamente al fatto che il Partito continuava a chiamarsi "comunista", si trova alla base della creazione del mito della "rivoluzione popolare cinese".
E’ in realtà dalla seconda metà degli anni '20 che apparvero delle teorizzazioni in seno al PCC, soprattutto fra quelli che non avevano fiducia nella classe operaia, sul carattere di classe del contadino cinese. Ad esempio, si poteva leggere che: "le grandi masse contadine si sono sollevate per compiere la loro missione storica ... distruggere le forze feudali rurali" (1). In altri termini, certi consideravano che il contadiname fosse una classe storica capace di realizzare certi obiettivi rivoluzionari indipendentemente dalle altre classi. Con la degenerazione politica del PCC, queste sedicenti teorizzazioni andarono molto più lontano, fino ad attribuire al contadino nientemeno che la funzione di rimpiazzare il proletariato nella lotta rivoluzionaria. (2)
Appoggiandosi sulla storia delle ribellioni contadine in Cina, si pretendeva di dimostrare l'esistenza di una "tradizione" (per non parlare di "coscienza") rivoluzionaria del contadino cinese. Ciò che ci dimostra in realtà la storia è proprio l'assenza di un progetto rivoluzionario storico fra il contadiname, sia esso cinese o di qualsiasi altra parte del mondo, come l'ha dimostrato mille volte il marxismo. Durante il periodo ascendente del capitalismo, esso poté nel migliore dei casi aprire la strada alle rivoluzioni borghesi, ma nella fase di decadenza, i contadini poveri non possono lottare in maniera rivoluzionaria che nella misura in cui essi aderiscono agli obiettivi rivoluzionari della classe operaia, perché altrimenti essi diventano strumenti della classe dominante.
La ribellione dei Taiping (principale e più "puro" movimento del mondo contadino cinese che scoppiò nel 1850 contro la dinastia manciù e fu totalmente disfatto solo nel 1864) aveva mostrato i limiti della lotta del contadiname. I Taiping volevano instaurare il regno di Dio sulla terra, una società senza proprietà privata individuale sulla quale avrebbe regnato un monarca legittimo, vero figlio di Dio che sarebbe stato il depositario di ogni ricchezza della comunità. Ciò vuole dire che anche se essi avevano riconosciuto la proprietà privata come fonte di tutti i mali, questa coscienza non era accompagnata -e non poteva esserlo in nessun caso- da un progetto reale della società futura ma da un utopico ritorno alla dinastia idilliaca perduta. Durante i primi anni, le potenze militari che stavano penetrando in Cina lasciarono fare i Taiping, utilizzandoli per indebolire la dinastia e la ribellione si estese a tutto il regno, ma i contadini furono incapaci di formare un governo centrale e di amministrare le terre. Il movimento raggiunge il suo punto culminante nel 1856 quando il tentativo di presa di Pechino, capitale imperiale, fallì. Il movimento cominciò allora ad estinguersi, vittima di una repressione massiccia alla quale collaborarono le potenze imperiali sopra nominate. Così la rivolta dei Taiping indebolì la dinastia manciù, ma non fu che per aprire le porte all'espansione imperialista della Gran Bretagna, della Francia e della Russia. Il contadiname aveva servito il piatto in tavola alla borghesia.
Anni più tardi, nel 1898, scoppiò un'altra rivolta di minore estensione, quella dei Boxer, diretta originariamente contro la dinastia e gli stranieri. Questa rivolta segnò, però, la decomposizione e la fine dei movimenti contadini indipendenti, dato che l'imperatrice riuscì ad impadronirsene e ad utilizzarla nella propria guerra contro gli stranieri. Con la disintegrazione della dinastia e la frammentazione della Cina agli inizi del secolo, molti contadini poveri o senza terra si arruolarono negli eserciti professionali dei signori della guerra regionali. Infine le tradizionali società segrete per la protezione dei contadini si trasformarono in mafie al servizio dei capitalisti, il cui ruolo nelle città era quello di controllare la forza lavoro e di spezzare gli scioperi.
Le teorizzazioni sulla natura rivoluzionaria del contadiname trovavano evidentemente la loro giustificazione nell'effettiva effervescenza dei contadini in particolare nel sud della Cina. Queste teorizzazioni però ignoravano totalmente il fatto che questi movimenti erano dovuti alla rivoluzione nelle grandi città industriali e che l'unica speranza di emancipazione dei contadini non poteva venire che dal proletariato urbano.
Ma la formazione di un'"Armata Rossa" non ebbe niente a vedere col proletariato, né con la sua rivoluzione. Si può dire che essa non ebbe niente a che fare con la costituzione di milizie rivoluzionarie caratteristiche dei periodi insurrezionali. E' certo che i contadini si arruolarono nell'"Armata Rossa"; spinti dalle terribili condizioni di vita che subivano, sperando di ottenere o difendere delle terre, cercando di ottenere un sussidio come soldati. Tutte queste ragioni erano esattamente quelle che li spingevano ad arruolarsi in qualsiasi altro esercito dei signori della guerra che pullulavano allora in Cina.
L'"Armata Rossa" dovette d'altronde, in un primo tempo, dare l'ordine alle sue truppe di finirla con i saccheggi delle regioni conquistate. Essa era un corpo totalmente estraneo al proletariato, come si poté verificare nel 1930 quando, dopo aver preso l'importante città di Ciangsha, non poté tenerla che per qualche giorno perché gli operai della città la ricevettero freddamente se non con ostilità e rifiutarono l'appello a sostenerla con una nuova "insurrezione".
La differenza fra questo esercito e i signori della guerra tradizionali risiedeva nel fatto che questi si erano già stabiliti nella struttura sociale cinese e facevano visibilmente parte della classe dominante, mentre i primi lottavano per prenderne il posto, cosa che permetteva loro di alimentare le speranze dei contadini, di avere una maggiore flessibilità nel momento di cambiare alleanze e di vendersi all'imperialismo migliore offerente.
Riassumendo, si potrebbe dire che la disfatta della classe operaia nel 1927 non proiettò il contadino alla testa della rivoluzione, ma, proprio al contrario lo gettò nella tempesta dei conflitti nazionalisti e imperialisti nei quali non giocò che il ruolo di carne da cannone.
I conflitti imperialisti
Da quando il proletariato fu schiacciato, il Kuomintang diventò per un certo tempo l'istituzione più importante della Cina, la sola forza in grado di garantire l'unità del paese -combattendo o alleandosi ai signori della guerra regionali - e, da questo fatto, divenne la posta in gioco delle dispute fra potenze imperialiste. Ne abbiamo già parlato quando abbiamo detto che dal 1911 lo sforzo delle grandi potenze imperialiste traspariva dietro i conflitti per formare un governo nazionale. All'inizio degli anni '30 il rapporto di forze fra di esse si era modificato sotto diversi aspetti.
Da un lato, a partire dalla controrivoluzione staliniana iniziò una nuova politica imperialista russa. La "difesa della patria socialista" implicava la creazione di una zona di influenza attorno ad essa, cosa che gli serviva da protezione. Tutto questo si traduceva, in Cina, con il sostegno alle "basi rosse" formate a partire dal 1928 alle quali Stalin predicava un avvenire radioso, ma anche e soprattutto con la ricerca di un'alleanza con il governo kuomintangista.
Da un altro lato, gli Stati Uniti mostravano sempre più la volontà di dominare esclusivamente tutte le regioni bagnate dal Pacifico, rimpiazzando, grazie al loro crescente dominio economico, le vecchie potenze quali la Francia o la Gran Bretagna nei loro imperi coloniali. Per riuscirvi occorreva mettere fine ai sogni espansionisti del Giappone. Era, in ogni caso evidente che dall'inizio del secolo il Pacifico sarebbe stato troppo stretto per gli USA ed il Giappone. La contesa fra le due potenze scoppia in realtà dieci anni prima del bombardamento di Pearl Harbour, nella guerra per il controllo della Cina e del governo del Kuomintang.
Fu in fin dei conti il Giappone che dovette prendere l'iniziativa del conflitto imperialista in Cina, poiché tutte le potenze impegnate in questo paese erano quelle che avevano maggior bisogno di mercati, di materie prime e di manodopera a buon mercato. Il Giappone occupò la Manciuria nel settembre 1931 e dal gennaio 1932 invase le province del nord della Cina stabilendo una testa di ponte a Shanghai dopo avere bombardato "preventivamente" i quartieri operai della città. Il Giappone arrivò ad allearsi con alcuni signori della guerra e cominciò ad instaurare quelli che furono chiamati i "regimi fantoccio". D'altronde Ciang Kai-scek offrì solo un simulacro di resistenza all'invasione essendo già in trattative col Giappone. Fu allora che USA e URSS reagirono, ciascuno per proprio conto, facendo pressioni sul governo di Ciang Kai-scek affinché effettivamente resistesse all'invasione giapponese. Gli USA reagirono, però, con più calma, in quanto aspettavano che il Giappone si logorasse in una lunga e stancante guerra in Cina, cosa che non mancò di accadere. Stalin, quanto a lui, ordinò nel 1932 alle "basi rosse" di dichiarare guerra al Giappone, stabilendo al tempo stesso delle relazioni diplomatiche col governo di Ciang Kai-scek nel momento in cui questi lanciava furiosi attacchi contro le "basi rosse". Nel 1933, Mao Tse-tung e Fang Chi-ming proposero un'alleanza con alcuni generali del Kuomintang che si erano ribellati a Ciang Kai-scek a causa della sua politica di collaborazione col Giappone, ma gli "studenti ribelli" rifiutarono questa alleanza ... per non indebolire i legami che si stavano tessendo tra l'URSS e il regime di Ciang Kai-scek. Questo episodio mostra a qual punto il PCC si era impegnato nel gioco delle lotte e delle alleanze interborghesi, sebbene Stalin, in quel momento, considerasse l'"Armata Rossa" solo come un "elemento di pressione" e avesse preferito appoggiarsi su un'alleanza duratura con Ciang Kai-scek.
La "Lunga Marcia" ... verso la guerra imperialista
E' in questo quadro di tensioni imperialiste crescenti che durante l'estate 1934 i distaccamenti dell'"Armata Rossa" di stanza nelle basi guerrigliere del sud e del centro del paese cominciarono a spostarsi verso il nord-ovest, verso le regioni rurali più lontane dal controllo del Kuomintang e a concentrarsi nella regione del Cian-si. Questo episodio, conosciuto come La Lunga Marcia è, secondo la storia ufficiale, l'atto più significativo ed epico della "rivoluzione popolare cinese". I libri di storia rigurgitano di atti di eroismo che narrano l'odissea di questi reggimenti attraverso paludi, torrenti e montagne...L'analisi degli avvenimenti mette, però, rapidamente allo scoperto i sordidi interessi borghesi che erano in gioco in questo episodio.
L'obiettivo fondamentale della Lunga marcia era prima di tutto l'imbrigliamento dei contadini nella guerra imperialista che era in atto fra il Giappone, la Cina, la Russia e gli USA. Di fatto Po Ku (staliniano, membro del gruppo degli "studenti ribelli") aveva già posto il problema dell'eventualità della mobilitazione dei reggimenti dell' "Armata Rossa" per lottare contro i giapponesi. I libri di storia sottolineano che l'uscita della regione meridionale del Cian-Si dalla "zona sovietica" fu il risultato dell'insopportabile assedio messo in atto dal Kuomintang, ma restano reticenti al momento di spiegare che le forze dell'"Armata Rossa" furono espulse a causa del cambiamento di tattica ordinato dagli stalinisti, passando dalla forma di guerriglia, che aveva permesso all'"Armata Rossa" di resistere per anni, alla forma di combattimenti frontali contro il Kuomintang. Questi combattimenti provocarono la rottura della frontiera di "sicurezza" che proteggeva la zona della guerriglia e l'urgenza della necessità di abbandonarla. Ma ciò non fu per niente il "grave errore" degli "studenti ribelli" (più tardi accusati da Mao benché abbia egli stesso partecipato a questa strategia): proprio il contrario, fu un successo per gli obiettivi degli stalinisti che volevano indurre i contadini ad abbandonare le terre che fino a quel momento avevano difeso, per marciare verso il nord e concentrarsi in una sola armata regolare per la guerra che si stava annunciando.
I libri di storia tentano anche di dare alla lunga marcia un contenuto classista, una specie di movimento sociale o di lotta di classe. L'"Armata Rossa" avrebbe seminato il "seme della rivoluzione" al suo passaggio, sia con la propaganda, sia distribuendo la terra ai contadini. Queste azioni avevano il solo scopo di utilizzare i contadini per proteggere la retroguardia delle truppe dell' "Armata Rossa". Dall'inizio della Lunga Marcia, la popolazione civile che abitava nelle "basi rosse" fu utilizzata per coprire la ritirata dell' Armata. Questa tattica, salutata per la sua astuzia dagli storici, consistente nel lasciare le popolazioni civili da bersaglio al fine di proteggere le manovre dell'esercito regolare, è caratteristica delle classi sfruttatrici e non c'è niente di eroico nel lasciare assassinare donne, vecchi e bambini per proteggere soldati.
La Lunga Marcia non fu una via della lotta di classe , fu la via verso accordi ed alleanze con coloro che fino a quel momento erano classificati come "reazionari feudali e capitalisti" e che, come per magia, divenivano "buoni patrioti". Il 1° agosto 1935, quando i reggimenti della Lunga Marcia erano di stanza a Sechuan, il PCC lanciò un appello all'unità nazionale di tutte le classi per espellere il Giappone fuori della Cina. In altri termini, il PCC chiamava tutti i lavoratori ad abbandonare la lotta di classe per riunirsi con i loro sfruttatori e servire da carne da cannone nella guerra che doveva liberare questi ultimi. Questo appello era un'applicazione anticipata di risoluzioni del VII e ultimo congresso dell'IC che si teneva nella medesima epoca e che lanciò le famose parole d'ordine del "fronte popolare antifascista", grazie al quale i partiti comunisti stalinizzati poterono collaborare con le loro borghesie nazionali e diventare i migliori strumenti per mandare i lavoratori a farsi uccidere nella seconda carneficina imperialista.
La Lunga Marcia raggiunge ufficialmente il suo apogeo nell'ottobre 1935, quando il distaccamento di Mao arriva a Ye-Nan (provincia di Shan-Si nel nord-ovest del paese). Anni più tardi, il maoismo farà della Lunga marcia l'opera gloriosa ed esclusiva di Mao Tse-tung. La storia ufficiale preferisce passare sotto silenzio il fatto che Mao non aveva fatto che prendere la testa di una "base rossa" che esisteva già prima del suo arrivo e che arrivò con 7.000 dei 90.000 uomini che erano partiti con lui da Kiangsi, visto che parecchie migliaia di militari erano morti (più spesso per difficoltà naturali che in seguito ad attacchi del Kuomintang), e altre migliaia erano rimaste a Sechuan, separati da una scissione fra cricche dirigenti. Non è che alla fine del 1936 che il grosso dell' "Armata Rossa" si concentrò realmente quando arrivarono i reggimenti provenienti da Junan e Sechan.
L'alleanza del PCC con il Kuomintang
Nel 1936 lo sforzo di reclutamento dei contadini da parte del PCC fu sostenuto da ondate di centinaia di studenti nazionalisti che andarono verso la campagna dopo il movimento antigiapponese degli intellettuali borghesi alla fine del 1935 (3). Non bisogna certamente dedurne che gli studenti erano diventati comunisti, ma piuttosto che il PCC era diventato un organo riconosciuto dalla borghesia avente gli stessi interessi di classe.
La borghesia cinese però non era unanime nella sua opposizione al Giappone. Era divisa in funzione delle tendenze rispettive di ciascuna delle sue frazioni verso le grandi potenze. Lo si può verificare esaminando il caso del generalissimo Ciang Kai-scek che, come abbiamo visto, non si decideva ad intraprendere una campagna frontale contro il Giappone e aspettava che il combattimento fra le grandi potenze indicasse chiaramente da quale parte orientarsi. I generali del Kuomintang e i signori della guerra locali erano altrettanto divisi per gli stessi motivi.
E' in questa situazione che si verificò il famoso "incidente di Sian". Nel dicembre 1936, Ciang Hseh-liang (un generale antigiapponese del Kuomintang) e Yang Hu-Cheng, signore della guerra di Sian che tratteneva buoni rapporti con il PCC, misero Ciang Kai-scek in stato d'arresto e avevano intenzione di condurlo a giudizio per alto tradimento. Stalin però ordinò immediatamente al PCC -e senza discutere- non solo di liberare Ciang Kai-scek, ma di arruolare il suo esercito nel Fronte Popolare. Nei giorni seguenti ebbero luogo dei negoziati fra il PCC, rappresentato da Ciu En-lai, Yeh Cien-ying (come dire Stalin), gli USA rappresentati da Tu-song, il più potente e corrotto monopolista della Cina, parente di Ciang, e Ciang stesso che fu finalmente obbligato a porsi dalla parte degli USA e dell'URSS in alleanza provvisoria contro il Giappone; fu solo a questo prezzo che poté continuare ad essere il capo del governo nazionale e poté mettere sotto i sui ordini il PCC e l' "Armata Rossa" (che ribattezzò Ottavo Reggimento). Ciu En-lai e altri "comunisti" parteciparono a questo governo di Ciang mentre gli USA e l'URSS davano aiuto militare a Ciang Kai-scek. Quanto a Ciang Hsue-liang e Yang Hu-ceng furono lasciati alla vendetta di Ciang Kai-scek che imprigionò il primo e assassinò il secondo.
Così fu firmata la nuova alleanza fra il PCC il Kuomintang. E solo grazie alle contorsioni ideologiche più grottesche e alla propaganda più abbietta il PCC poté giustificare verso i lavoratori il trattato con Ciang Kai-scek, questo carnefice che aveva schiacciato la rivoluzione proletaria e assassinato decine di migliaia di operai e militanti comunisti nel 1927.
Le ostilità fra le forze armate del Kuomintang dirette da Ciang e l'"Armata Rossa" ripresero nel 1938. Questo permette agli storici ufficiali di far credere che il patto col Kuomintang non sarebbe stata che una tattica del PCC in seno alla "rivoluzione". Ma l'importanza storica reale di questo patto non è tanto nel successo o nel fiasco del patto fra il PCC e il Kuomintang quanto nella dimostrazione storica dell'assenza di antagonismo di classe fra le due forze; nella dimostrazione che il PCC non aveva più niente a che fare con il partito proletario degli anni '20 che aveva affrontato il capitale e che era poi divenuto uno strumento nelle mani della borghesia, il campione dell'inquadramento dei contadini per la carneficina imperialista.
Bilan: una luce nella notte della controrivoluzione
Nel luglio 1937 il Giappone iniziò l'invasione della Cina e fu l'inizio della guerra sino-giapponese. Solo un pugno di gruppi rivoluzionari che sopravvissero alla controrivoluzione, quelli della Sinistra Comunista quali il gruppo dei Comunisti Internazionalisti d'Olanda o il gruppo della Sinistra Comunista Italiana che pubblicava in Francia la rivista Bilan, furono capaci di anticipare e di denunciare che ciò che succedeva in Cina non era né una "liberazione nazionale", né, tantomeno, una "rivoluzione", ma il predominio di una delle grandi potenze imperialiste con forti interessi nella regione: il Giappone, gli USA, o l'URSS. Che la guerra cino-giapponese, così come la guerra di Spagna e altri conflitti regionali, era il preludio sempre più assordante della seconda carneficina mondiale. Al contrario, l'Opposizione di Sinistra di Trotsky, che dalla sua costituzione era arrivata a denunciare la politica criminale di Stalin di collaborazione col Kuomintang come una delle cause della disfatta della rivoluzione in Cina, questa Opposizione di Sinistra, prigioniera di un'analisi errata del corso storico che gli faceva vedere in ciascun nuovo conflitto imperialista regionale una nuova possibilità rivoluzionaria e prigioniera, in generale, dell'opportunismo crescente, considerava la guerra cino-giapponese come "progressista", come un passo in avanti verso la "terza rivoluzione cinese". Fin dal 1937, Trotsky affermava, senza pudore, che "se c'è una guerra giusta, è la guerra del popolo cinese contro i suoi conquistatori... tutte le forze progressiste della Cina, senza concedere nulla al loro programma, alla loro indipendenza politica, faranno fino in fondo il loro dovere in questa guerra di liberazione, indipendentemente dal loro atteggiamento verso il governo di Ciang Kai-scek" (4). Con questa politica opportunista di difesa della patria "indipendentemente dal loro atteggiamento verso il governo", Trotsky apriva completamente le porte all'arruolamento degli operai nelle guerre imperialiste dietro i loro governi e alla trasformazione, a partire dalla seconda guerra mondiale, dei gruppi trotskisti in reclutatori di carne da cannone per il capitale. La Sinistra Comunista italiana, al contrario, nelle sue analisi sulla Cina, è stata in grado di mantenere fermamente la posizione internazionalista della classe operaia. La posizione sulla Cina costituì uno dei punti cruciali della rottura delle relazioni con l'Opposizione di sinistra di Trotsky. Ciò che si delineava era una frontiera di classe. Per Bilan, "Le posizioni comuniste di fronte agli avvenimenti cinesi, della Spagna e della situazione internazionale attuale non possono essere fissati che su una base dell'eliminazione rigorosa di tutte le forze agenti in seno al proletariato e che dicono al proletariato di partecipare al massacro della guerra imperialista" (5) "...Tutto il problema consiste a determinare quale classe conduce la guerra e a stabilire una politica corrispondente. Nel caso di cui ci occupiamo è impossibile negare che è la borghesia cinese che conduce la guerra e, sia che essa sia aggressore che aggredita, il dovere del proletariato è quello di lottare per il disfattismo rivoluzionario come in Giappone" (6). Nello stesso senso, la Frazione della Sinistra Comunista Internazionale (legata a Bilan) scriveva: "Dalla parte di Ciang Kai-scek, boia di Canton, lo stalinismo partecipa all'assassinio di operai e di contadini sotto la bandiera della "guerra d'indipendenza". E solo la rottura totale con il Fronte nazionale, la fraternizzazione con gli operai e i contadini giapponesi, la guerra civile contro il Kuomintang e tutti i suoi alleati, sotto la direzione di un partito di classe può salvarli" (7). La voce ferma dei gruppi della Sinistra Comunista non fu ascoltata da una classe operaia disfatta e demoralizzata che si lasciò trascinare alla carneficina mondiale. Il metodo di analisi, però, e le posizioni di questi gruppi rappresentarono la permanenza e l'approfondimento del marxismo e costituirono il ponte tra la vecchia generazione rivoluzionaria che aveva vissuto l'ondata insurrezionale del proletariato all'inizio del secolo e la nuova generazione rivoluzionaria che sorge con la fine degli anni '60.
1937-1949: con l'URSS o con gli Stati Uniti?
Come sappiamo, la seconda guerra mondiale terminò con la disfatta del Giappone e delle potenze dell'Asse nel 1945 e questa disfatta implicò l'abbandono totale delle Cina da parte di queste potenze. Ma la fine della guerra mondiale non segnò la fine delle contese imperialiste. Immediatamente si stabilisce la rivalità tra le due grandi potenze, USA e URSS che sottometteranno il mondo per più di quaranta anni. Nel momento in cui l'esercito giapponese si ritirava, la Cina diventava il terreno di scontri tra queste due potenze.
Non è fondamentale relazionare sulle vicissitudini della guerra sino-giapponese in questo articolo, il cui scopo è demistificare la sedicente "rivoluzione popolare cinese"; è però interessante sottolinearne due aspetti in legame con la politica condotta dal PCC dal 1937 al 1945.
Il primo concerne la spiegazione della rapida estensione delle zone occupate dall'"Armata Rossa" fra il 1936 e il 1945. Come abbiamo già detto, Ciang Kai-scek non era un partigiano dell'opposizione frontale del suo esercito ai giapponesi e tendeva a rifluire e a ritirarsi a ogni avanzata di questi ultimi. L'esercito giapponese avanzava rapidamente in territorio cinese ma non aveva la capacità di stabilire un'amministrazione propria nelle zone occupate: esso dovette limitarsi molto rapidamente a occupare le vie di comunicazione più importanti. Questa situazione provocò due fenomeni: il primo è che dato che i Signori della guerra regionali si trovavano isolati dal governo centrale, erano portati a collaborare sia con i giapponesi, nei famosi "governi fantoccio", sia con l'"Armata Rossa" per resistere all'invasione; il secondo è che il PCC seppe approfittare abilmente del vuoto politico creato dall'invasione giapponese nel nord est della Cina ed allestire la propria amministrazione.
Conosciuta col nome di "nuova democrazia", questa amministrazione è stata salutata dagli storici come un "regime democratico di tipo nuovo". La "novità" non era fittizia in quanto per la prima volta nella storia un partito "comunista" creava un governo di collaborazione di classe (8), si sforzava di mantenere i rapporti di sfruttamento e proteggeva gelosamente gli interessi della classe capitalista e dei grandi proprietari. Il PCC aveva compreso che non era indispensabile requisire le terre e darle ai contadini per ottenere il loro sostegno: afflitti da esazioni di ogni sorta, bastava una piccola diminuzione delle imposte (così piccola che i grandi proprietari e i capitalisti erano favorevoli) perché i contadini fossero favorevoli all'amministrazione del PCC e si arruolassero nell'"Armata Rossa". Parallelamente a questo "nuovo regime", il PCC creò anche un governo di collaborazione di classe (fra borghesia, grandi proprietari e contadini) conosciuto sotto il nome dei Tre Terzi, di cui un terzo dei posti era occupato dai "comunisti", un terzo dai membri delle organizzazioni contadine e il terzo rimanente, dai grandi proprietari e capitalisti. Ancora una volta le contor-sioni ideologiche più assurde dei teorici sullo stile di Mao furono necessari al PCC per "spiegare" ai lavoratori questo "nuovo tipo" di governo.
Un secondo aspetto della politica del PCC che occorre sottolineare è meno conosciuto in quanto per evidenti ragioni gli storici, sia maoisti che filoamericani, preferiscono occultarlo benché sia perfettamente documentato. L'implicazione dell'URSS nella guerra in Europa che le impedì di prestare un "aiuto" efficace al PCC per alcuni anni, le oscillazioni tra il Giappone e gli USA del governo di Ciang Kai-scek a partire dal 1938 nell'attesa dell'uscita dal conflitto mondiale (9) e l'impegno nella guerra nel Pacifico degli americani a partire dal 1941, tutti questi avvenimenti pesarono fortemente per fare oscillare il PCC dalla parte degli USA.
A partire dal 1944 una missione di osservatori del governo degli USA si stabilì nella "base rossa" dello Yenan, avente come scopo quello di sondare le possibilità di collaborazione fra Stati Uniti e PCC. Per i dirigenti di questo partito e in particolare per la cricca di Mao Tse-tung e Cun-teh, era chiaro che gli Stati Uniti sarebbero stati i vincitori della guerra e intravedevano la possibilità di sottomettersi sotto la loro tutela. La corrispondenza di John Service (10), uno dei responsabili di questa missione, segnala con insistenza a proposito del PCC che:
- il PCC considera come altamente improbabile l'instaurazione di un regime sovietico in Cina e ricerca piuttosto l'instaurazione di un regime "democratico" di tipo occidentale, ed è perfino disposto a partecipare a un governo di coalizione con Ciang Kai-scek pur di evitare una guerra civile alla fine della guerra contro il Giappone;
- il PCC pensa che sarà necessario un periodo molto lungo di parecchie decine di anni per lo sviluppo del capitalismo in Cina, condizione per l'instaurazione del socialismo. Se si raggiungesse, un giorno, il socialismo, questo si installerebbe in maniera progressiva e non attraverso espropriazioni violente. Che, dunque, mettendo in piedi un governo nazionale, il PCC sarebbe stato disposto a portare avanti una politica di "porte aperte" ai capitali stranieri e principalmente al capitale americano;
- il PCC, tenendo anche conto sia della debolezza dell'URSS che della corruzione di Ciang Kai-scek e della sua inclinazione verso il Giappone, desiderava l'aiuto politico, finanziario e militare degli Stati Uniti. Che era perfino disposto a cambiare nome (come aveva già fatto con l'"Armata Rossa") per potere beneficiare di questo aiuto.
I membri della missione americana insistettero presso il loro governo sul fatto che il futuro era dalla parte del PCC. Gli USA, però, non si decisero mai ad utilizzare dei "comunisti" e infine, un anno dopo, quando, nel 1945, il Giappone si ritirò e l'URSS invase il nord della Cina, non restò altra uscita al PCC e a Mao di allinearsi momentaneamente all'URSS.
Fra il 1946 e il 1949, la contesa fra le due superpotenze provocò direttamente lo scontro fra il PCC e il Kuomintang. Nel corso di questa guerra, molti generali del Kuomintang passarono armi e bagagli dalla parte delle "forze popolari". Da quel momento si possono contare quattro periodi nel corso dei quali la borghesia e la piccola borghesia rafforzarono il PCC. Quello che completò la disfatta della classe operaia del 1928, quello che trovò le sue origini nel movimento degli studenti nel 1935, la guerra contro il Giappone e, infine, quello che vide l'affondamento del Kuomintang. I "vecchi borghesi", ad eccezione dei grandi monopolisti direttamente legati a Ciang Kai-scek, si ritrovarono nel PCC e si mescolarono ai "nuovi" borghesi usciti dalla guerra.
Nel 1949 il PCC, alla testa della sedicente "Armata Rossa", prese il potere e proclamò la Repubblica Popolare. Ma tutto questo non ha niente a che vedere col comunismo. La natura di classe del partito "comunista" che prese il potere in Cina, era totalmente estranea al comunismo e totalmente antagonista al proletariato. Il regime che si instaurò allora non fu che una variante del capitalismo di stato. Il controllo dell'URSS sulla Cina durò solo una decina di anni e finì con la rottura delle relazioni fra i due. A partire dal 1960, la Cina tentò di "rendersi indipendente" dalle grandi potenze e pretese di alzarsi essa stessa al loro livello tentando di creare un "terzo blocco", ma dal 1970 dovette decidersi a orientarsi definitivamente verso il blocco occidentale dominato dagli USA. Molti storici, soprattutto russi, accusarono Mao di tradimento. I comunisti sanno molto bene che la virata di Mao verso gli Stati Uniti non fu un tradimento, ma la concretizzazione del suo sogno.
Ldo
1) Rapporto su un'inchiesta del movimento contadino a Junan, marzo 1927. Testi scelti su Mao Tse-tung
2) Isaac Deutscher arrivò anche lui a questa conclusione assurda che pretendeva che i settori declassati della borghesia e della piccola borghesia urbana potevano dirigere il Partito Comunista, mentre non c'erano motivi perché i contadini non potessero sostituirsi al proletariato in una rivoluzione di tipo "socialista" (Maoisme its origine and outlook. The chinese cultural revolution)
3) Bisogna ricordare che le università dell'epoca non erano università di massa come oggi a cui possono accedere alcuni figli di operai. Gli studenti di allora "erano i figli della borghesia opulenta o dei funzionari di governo; molti erano figli di intellettuali ... che avevano visto diminuire il loro reddito con la rovina della Cina e che potevano prevedere i disastri che avrebbe comportato la rivoluzione cinese" (E. Collotti Pischel, La rivoluzione cinese)
4) Lutte Ouvrière n. 1937-38, citato in "Bilan" n. 46, gennaio 1938
5) "Bilan" n. 45, novembre 1937
6) "Bilan" n. 46, gennaio 1938
7) "Communisme" n. 8, novembre 1937
8) Anche in URSS la borghesia era la classe dominante, ma si trattava di una borghesia nuova, sorta dalla controrivoluzione
9) Ciang Kai-scek si pose contro il PCC dal 1938. In agosto dichiarò fuori legge le organizzazioni del PCC e in ottobre chiuse la base di Shan-si. Fra il 1939 e il 1940 ci furono scontri fra il Kuomintang e l'"Armata Rossa" e nel corso del gennaio 1941, Ciang tese un'imboscata al 4° reggimento (un distaccamento dell'"Armata Rossa" che si era formato nel centro del paese). Egli cercava, con queste azioni, di conquistare la fiducia del Giappone senza tuttavia rompere con gli alleati, aspettando, per rompere, la fine della 2a guerra mondiale
10) Pubblicato nel 1974 al momento della svolta della Cina a favore degli USA, sotto il titolo di Lost chance in China. The world war II despatches of John S. Service, JW editore, Vintage book, 1974.
· che questa situazione metteva all'ordine del giorno, senza che ciò fosse immediatamente realizzabile, la ricostituzione di nuovi blocchi, uno diretto dagli Stati Uniti e l'altro dalla Germania;
· che, nell'immediato, ciò sarebbe sfociato in uno svilupparsi di scontri aperti che “l'ordine di Yalta” era riuscito fino a quel momento a mantenere in un quadro “accettabile” per i due grandi gendarmi del mondo. (…).
In un primo tempo, la tendenza alla costituzione di un nuovo blocco intorno alla Germania, nella dinamica di riunificazione di questo paese, ha compiuto dei passi significativi. Ma molto rapidamente, la tendenza al “ciascuno per sé” ha preso il sopravvento sulla tendenza alla ricostituzione di alleanze stabili fondamento di futuri blocchi imperialisti, il che ha contribuito a moltiplicare ed aggravare gli scontri militari.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, in questo stesso numero)
E' così che la CCI, al momento del suo 12° Congresso, definiva la sua visione della situazione mondiale sul piano imperialista, visione ampiamente confermata in questi ultimi mesi. La crescente instabilità del mondo imperialista è stata espressa in particolare attraverso un moltiplicarsi di conflitti sanguinosi in tutto il pianeta. Questo aggravarsi della barbarie capitalista è soprattutto opera delle grandi potenze che non smettono di prometterci un mondo di “pace e di prosperità”, ma le cui rivalità sempre più acute ed aperte stanno costando all'umanità sempre più caro in termini di morte, povertà e terrore.
Poiché “dalla fine della divisione del mondo in due blocchi, gli USA sono stati confrontati ad una continua contestazione della loro autorità da parte dei loro precedenti alleati” (Ibid.), essi hanno dovuto sviluppare nell'ultimo periodo una “massiccia controffensiva” contro questi ultimi ed i loro interessi imperialisti, in particolare nella ex-Jugoslavia ed in Africa. Malgrado ciò, i vecchi alleati continuano a sfidare gli Stati Uniti fin dentro le sue riserve di caccia, come l'America latina ed il Medio Oriente.
Noi non possiamo trattare qui di tutte le parti del mondo che subiscono gli effetti della tendenza “al ciascuno per sé” e dell'acuirsi delle rivalità imperialiste tra le grandi potenze. Non accenneremo dunque che a poche situazioni che illustrano perfettamente questa analisi e che hanno conosciuto, in questi ultimi tempi, degli sviluppi significativi.
Africa nera: gli interessi francesi sotto il fuoco
Nella risoluzione citata prima abbiamo affermato anche che la prima potenza mondiale “è riuscita ad infliggere al paese che l'aveva sfidata più apertamente, la Francia, un serissimo smacco in quella che costituiva il suo avamposto, l'Africa.” L'evidenza dei fatti in quel momento ci autorizzava a dire che: “Dopo l'eliminazione dell'influenza francese in Ruanda, è ora lo Zaire, principale roccaforte della Francia in questo continente, che è sul punto di sfuggirle di mano con il crollo del regime di Mobutu sotto i colpi della 'ribellione' di Kabila massicciamente sostenuta dal Ruanda e dall'Uganda, cioè dagli Stati Uniti.”
Dopo, le orde di Kabila hanno abbattuto Mobutu e la sua cricca e preso il potere a Kinshasa. In questa vittoria ed in particolare nei mostruosi massacri delle popolazioni civili che essa ha provocato, il ruolo diretto e attivo giocato dallo Stato americano, in particolare attraverso i numerosi “consiglieri” che esso ha messo a disposizione di Kabila, è oggi un segreto di pulcinella. Ieri era l'imperialismo francese che armava e consigliava le bande Hutu, responsabili dei massacri in Ruanda, per destabilizzare il regime pro-USA di Kigali; oggi è Washington che nei fatti fa lo stesso contro gli interessi francesi con i ribelli tutti di Kabila.
Lo Zaire è così passato sotto la protezione esclusiva degli Stati Uniti. La Francia, quanto a lei, ha perso un baluardo essenziale, il che significa la sua esclusione completa dalla “regione dei grandi laghi”.
Inoltre, questa situazione non ha tardato a provocare una destabilizzazione a catena dei paesi vicini che sono ancora sotto l'influenza francese. L'autorità e la credibilità del “padrino francese” hanno nei fatti preso una sonora batosta nella regione e da ciò gli Stati Uniti hanno cercato di tirare il massimo profitto. Così dopo qualche settimana, il Congo-Brazzaville è sconvolto dalla guerra tra i due ultimi presidenti che sono pur tuttavia tutte e due delle "creature" della Francia. Le pressioni ed i numerosi sforzi di mediazione fatti da Parigi non conoscono per il momento alcun successo. Nell'Africa Centrale, paese che è attualmente sottomesso ad una situazione di caos sanguinoso, si manifesta questa stessa impotenza. Così, malgrado i due interventi militari molto duri e la creazione di una “forza africana d'intervento” sotto il suo controllo, l'imperialismo francese non riesce sempre a mantenere l'ordine sul posto. Più grave ancora, il presidente centroafricano Angé Patassé, un'altra “creatura” della Francia, minaccia ora di ricorrere all'aiuto americano mostrando così la sua sfiducia verso il suo padrino attuale. Questa perdita di credito tende ora a generalizzarsi attraverso tutta l'Africa nera fino ad attaccare i più fedeli alleati di Parigi. Più in generale, l'influenza francese si allenta sull'insieme del continente come lo ha chiaramente dimostrato, per esempio, l'ultimo summit della OUA dove le due “iniziative francesi” più significative sono state respinte:
- una riguardava il riconoscimento del nuovo potere di Kinshasa che Parigi voleva ritardare e porre sotto condizione; sotto la pressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati africani, Kabila ha non solo ottenuto un riconoscimento immediato ma anche un sostegno economico “per ricostruire il suo paese”;
- un'altra riguardava la nomina di una nuova direzione alla testa dell'organismo africano; il “candidato” della Francia, abbandonato dai suoi “amici” ha dovuto ritirare la sua candidatura prima del voto.
L'imperialismo francese subisce attualmente sul continente nero una serie di gravi rovesci sotto i colpi dell'imperialismo americano e si tratta per lui di un declino storico, tutto a vantaggio di quest'ultimo, in quello che era, non molto tempo fa, il bastione francese.
“E' una punizione particolarmente severa che questa potenza (gli Stati Uniti) è sul punto di infliggere alla Francia e che si vuole esemplare verso tutti gli altri paesi che vorrebbero imitarla nella sua politica di permanente sfida.” (Ibid.)
Tuttavia, malgrado il suo declino, l'imperialismo francese ha ancora degli argomenti da far valere, delle carte da giocare per difendere i suoi interessi e sostenere l'offensiva, per il momento vittoriosa, degli americani. E' proprio a questo scopo che ha attuato tutto uno spiegamento strategico delle sue forze militari in Africa. Se su questo piano (e su altri) Parigi non può rivaleggiare con Washington, ciò non significa affatto che essa va ad incrociare le braccia; e, per lo meno, è sicuro, fin da ora, che essa va a fare di tutto per mettere in difficoltà la politica e gli interessi americani. Le popolazioni africane non hanno dunque ancora finito di subire sulla propria pelle le rivalità tra i grandi gangster capitalisti.
Dietro i massacri in Algeria, gli stessi sordidi interessi dei "grandi"
L'Algeria è un altro terreno che subisce in pieno gli effetti della decomposizione del capitalismo mondiale e sul quale si esercita l'antagonismo feroce tra i “grandi”. In effetti, sono quasi cinque anni che questo paese è in preda ad un caos sempre più sanguinoso e barbaro. I regolamenti di conti in serie, gli incessanti massacri in massa di popolazioni civili, i molteplici attentati mortali perpetrati fin nel cuore della capitale spingono questo paese nell'orrore e nel terrore quotidiano. Dal 1992, da quella che i media borghesi chiamano ipocritamente “la crisi algerina”, non c'è dubbio che è stata superata la cifra di 100.000 morti. Se vi è una popolazione (e dunque un proletariato) che è preso in ostaggio in una guerra tra frazioni borghesi, è certo quello dell'Algeria. E' chiaro oggi che quelli che compiono massacri quotidianamente, che sono i responsabili diretti della morte di queste migliaia di uomini, di donne e di bambini e di vecchi, sono delle bande armate al soldo dei differenti campi in lotta:
- quello degli islamici la cui frazione più dura e più fanatica, il GIA, recluta le sue forze tra una gioventù decomposta, senza lavoro e senza prospettiva (a causa della situazione economica drammatica attuale dell'Algeria che getta la maggioranza della popolazione nella disoccupazione, la miseria e la fame) se non quella di darsi alla più profonda delinquenza. Al Wasat, il giornale della borghesia saudita che esce a Londra, riconosce che “questa gioventù ha inizialmente costituito un motore di cui il FIS si è servito per contrastare tutti quelli che si mettevano sulla sua strada verso il potere” ma che le è sempre più scappata di mano;
- lo Stato algerino stesso, che appare agli occhi di tutto il mondo come implicato direttamente nei numerosi massacri che esso ha imputato ai “terroristi islamici”. Le testimonianze raccolte in particolare sulla carneficina (tra i 200 ed i 300 morti) che ha avuto luogo nella periferia algerina, a Rais, alla fine dello scorso agosto, provano, se ve ne era bisogno, che il regime di Zeroual è tutt'altro che innocente: “Il tutto è durato dalle 22.30 alle 2.30. Essi (i massacratori) si sono presi tutto il tempo necessario. (…) Non è arrivato alcun soccorso, pur essendo le forze di sicurezza tutte molto vicine. I primi ad arrivare questa mattina sono stati i pompieri.” (testimonianze citate dal giornale Le Monde). E' chiaro oggi che una buona parte delle carneficine perpetrate in Algeria sono opera o dei servizi di sicurezza dello Stato o delle “milizie di autodifesa” armate e controllate da questo stesso Stato. Queste milizie non sono incaricate, come vuole farlo credere il regime, “di vegliare sulla sicurezza dei villaggi”; esse sono per lo Stato un mezzo di controllo sulla popolazione, un'arma formidabile per eliminare i suoi oppositori ed imporre il proprio ordine con il terrore.
Di fronte a questa situazione di terrore, l’opinione mondiale", cioè le grandi potenze occidentali soprattutto, ha cominciato ad esprimere la sua “emozione”. Così, quando il segretario generale dell'ONU Kofi Annan cerca di incoraggiare “la tolleranza ed il dialogo” e chiama ad “una soluzione urgente”, Washington, che si dice “inorridita”, gli apporta immediatamente il suo sostegno. Lo Stato francese, quanto a lui, pur manifestando la sua enorme compassione, si vieta di fare “ingerenza negli affari algerini”. L'ipocrisia di cui danno prova tutti questi “grandi democratici” è assolutamente stupefacente ma essa riesce sempre meno a mascherare le loro responsabilità nell'orrore che questo paese vive. Attraverso frazioni della borghesia algerina contrapposte, sono la Francia e gli Stati Uniti che si contrastano dopo la scomparsa dei grandi blocchi imperialisti. La posta in gioco di questa sporca rivalità è per Parigi di conservare l'Algeria nella sua sfera di influenza e per Washington di recuperarla a suo vantaggio o, per lo meno, di destabilizzare l'influenza della sua rivale.
In questa battaglia, il primo colpo è stato sferrato dall'imperialismo americano che ha sostenuto, sotto banco, lo sviluppo della frazione integralista del FIS a tal punto che questa, nel 1992, è arrivata sul punto di prendere il potere. Ed è un vero e proprio colpo di stato da parte del regime al potere in Algeria, con il sostegno del compare francese, che ha permesso di evitare il pericolo imminente sia per le frazioni borghesi che sono al potere che per gli interessi francesi. Dopo, la politica condotta dallo Stato algerino, in particolare con l'interdizione del FIS, la caccia e la prigionia per i suoi dirigenti e militanti, ha permesso di ridurre l'influenza di quest'ultimo nel paese. Ma se questa politica, su questo piano, è stata nel complesso coronata dal successo, essa è d'altra parte responsabile dell’attuale situazione di caos. E' essa che ha gettato delle frazioni del FIS nell'illegalità, la guerriglia e le azioni terroriste. Oggi, gli islamici sono screditati a causa in particolare delle loro numerose e abominevoli atrocità. Si può dunque affermare che con il sostegno di Parigi il regime di Zeroual ha per il momento raggiunto i suoi scopi ma anche che l'imperialismo francese è riuscito globalmente a resistere all'offensiva della prima grande potenza mondiale ed a preservare i suoi interessi in Algeria. Il prezzo di questo “successo” lo pagano le popolazioni oggi e lo pagheranno ancora domani. In effetti, quando recentemente gli Stati Uniti hanno parlato di apportare tutto il loro sostegno “agli sforzi personali” di Kofi Annan, era per affermare che non sono disposti a lasciare la presa: al che Chirac ha immediatamente risposto denunciando, in anticipo, ogni politica “di ingerenza negli affari algerini”, lasciando intendere che difenderà con le unghie e con i denti il suo bastione.
Medio Oriente: le crescenti difficoltà della politica americana
Se gli imperialismi di secondo rango, come la Francia, riescono male a conservare la loro autorità nelle proprie zone di influenza tradizionali e vi subiscono anche degli arretramenti sotto i colpi degli Stati Uniti, pur tuttavia questi ultimi non sono risparmiati dalle difficoltà nella loro politica, difficoltà che si manifestano fin nei loro terreni di caccia come il Medio Oriente. Questa zona sulla quale essi hanno, dopo la guerra del Golfo, un controllo quasi esclusivo si trova in uno stato di instabilità crescente che rimette in questione la “pax americana” e la loro autorità. Nella nostra risoluzione citata prima, avevamo già sottolineato un certo numero di esempi che illustrano la contestazione crescente del dominio americano da parte di un certo numero di paesi vassalli di questa regione del mondo. In particolare, nell'autunno 1996, “le reazioni quasi unanimi di ostilità verso i bombardamenti dell'Iraq con 44 missili Cruise”, reazioni alle quali si sono aggiunti dei fedelissimi come l'Egitto e l'Arabia saudita. Un altro esempio significativo è stato quello della “ascesa al potere in Israele, contro la volontà manifesta degli Stati Uniti, della destra, che ha fatto di tutto per sabotare il processo di pace con i palestinesi che costituiva uno dei migliori successi della diplomazia USA”. La situazione sviluppatasi dopo ha confermato in modo eclatante questa analisi.
Nello scorso marzo, il “processo di pace” subiva un rinculo significativo con il blocco dei negoziati israelo-palestinesi a causa della cinica politica di colonizzazione dei territori occupati sviluppata dal governo Netanyahu. Dopo, la tensione non ha smesso di crescere nella regione, fino a provocare in particolare durante questa estate numerosi attentati suicidi mortali, attribuiti ad Hamas, in pieno centro di Gerusalemme, il che ha dato l’occasione allo Stato ebreo di accentuare la repressione contro le popolazioni palestinesi e di imporre un “blocco dei territori liberi”. D'altra parte una serie di scorribande di Tsahal, con il suo seguito di distruzione e di morti sono state sferrate contro gli Hezbollah nel sud del Libano. Di fronte a questo rapido deteriorarsi della situazione, la Casa Bianca ha dovuto velocemente spedire sul posto i suoi due principali emissari, Dennis Ross e Madeleine Albright, senza grande successo. Quest'ultima ha anche riconosciuto che non aveva trovato “il modo migliore per rimettere in moto il processo di pace”. Ed in effetti, malgrado le forti pressioni di Washington, Netanyahu resta sordo e prosegue la sua politica aggressiva contro i palestinesi mettendo in pericolo l'autorità di Arafat e dunque la sua capacità a controllare i suoi. Quanto ai paesi arabi, sono sempre più quelli che esprimono il loro cattivo umore rispetto alla politica americana; essi l’accusano di sacrificare i loro interessi a profitto di quelli di Israele. Tra quelli che sfidano l'autorità del padrino americano si trova la Siria che, attualmente, sta sviluppando delle relazioni economiche e militari con Teheran e si è anche permessa di riaprire le sue frontiere con l'Iraq. D'altronde ciò che era inconcepibile fino a poco tempo fa si sta realizzando oggi: l'Arabia Saudita, “la più fedele alleata” degli americani, ma anche il paese che più si era opposto finora al “regime degli Ayatollah”, riannoda i suoi legami con l'Iran. Questi nuovi comportamenti verso l'Iran e l'Iraq, due dei principali bersagli della politica americana in questi ultimi anni, non possono essere visti da Washington che come delle bravate, cioè delle sfide.
In questo contesto di acute difficoltà per la loro rivale di oltre Atlantico, le borghesie europee si fanno forti di gettare dell'olio sul fuoco. D'altronde la nostra risoluzione faceva già notare questo aspetto, sottolineando che la contestazione della leadership americana si conferma “più in generale, (attraverso) la perdita del monopolio del controllo della situazione in Medio Oriente, zona cruciale in assoluto, mostrata in particolare dal ritorno in forza della Francia che si è imposta come copadrino del regolamento del conflitto tra Israele e Libano …”. Così, durante l'estate si è vista l'Unione Europea scavalcare Dennis Ross e creare delle difficoltà alla diplomazia americana; infatti il suo “inviato speciale” proponeva la creazione di un “comitato di sicurezza permanente” per permettere ad Israele e all'OLP di “collaborare in modo permanente e non ad intermittenza”. Più recentemente, il ministro degli affari esteri francese, H. Vedrine, soffiava un po' più sul fuoco tacciando la politica di Netanyahu di “catastrofismo”, denunciando così implicitamente la politica americana. Inoltre, egli affermava a gran voce che “il processo di pace” era “cancellato” e che esso “non ha più prospettiva”. Si tratta qui perlomeno di un incoraggiamento, rivolto ai palestinesi e a tutti i paesi arabi, a voltare le spalle agli Stati Uniti e alla loro “pax americana”.
“E' perciò che i successi della controffensiva attuale degli Stati Uniti non potrebbero essere considerati come definitivi, come un superamento della crisi della loro leadership.” E anche se “la forza bruta, le manovre volte a destabilizzare i loro concorrenti (come oggi lo Zaire), con tutto il loro seguito di conseguenze tragiche non ha smesso di essere usato da questa potenza” (ibid.), questi stessi concorrenti non hanno finito ancora di mettere in piazza tutte le loro capacità di nuocere alla politica egemonica della prima potenza mondiale.
Oggi, nessun imperialismo, anche il più forte, è immune dagli effetti destabilizzanti delle manovre dei suoi concorrenti. Le roccaforti, le riserve di caccia tendono a scomparire. Non vi sono più sul pianeta delle zone “protette”. Più che mai il mondo è sottoposto alla concorrenza sfrenata secondo la regola del “ciascuno per sé”. E tutto ciò contribuisce ad allargare ed accentuare il sanguinoso caos nel quale affonda il capitalismo.
Elfe, 20 settembre 19971) Le menzogne diffuse in abbondanza all’epoca del crollo dei regimi stalinisti, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, a proposito del “fallimento definitivo del marxismo” non sono affatto nuove. Esattamente un secolo fa, la sinistra della II Internazionale, con alla sua testa Rosa Luxemburg, aveva dovuto combattere le tesi revisioniste che affermavano che Marx si era notevolmente sbagliato quando annunciava che il capitalismo andava verso il crollo. I decenni seguenti, con la prima guerra mondiale, poi la grande depressione degli anni 30 che seguiva ad un breve periodo di ricostruzione, hanno lasciato poco margine alla borghesia per continuare a battere su questo chiodo. Di contro i due decenni di “prosperità” del secondo dopoguerra hanno consentito un nuovo fiorire, anche negli ambienti “radicali”, di “teorie” che seppellivano “definitivamente” il marxismo e le sue previsioni di crollo del capitalismo. Questi cori di autosoddisfazione sono stati evidentemente messi in difficoltà dal ritorno della crisi aperta del capitalismo alla fine degli anni 60; ma il ritmo lento di quest’ultima, con periodi di “ripresa” come quella che conosce oggi il capitale americano e britannico, ha permesso alla propaganda borghese di camuffare agli occhi della gran parte dei proletari la realtà e l’ampiezza del vicolo cieco in cui si trova oggi il modo di produzione capitalista. E’ per questa ragione che spetta ai rivoluzionari, ai marxisti, denunciare continuamente le menzogne borghesi sulle pretese possibilità del capitalismo di “uscire dalla crisi” ed, in particolare, di fare giustizia degli “argomenti” che sono di volta in volta utilizzati per tentare di “dimostrare” tali possibilità.
2) Dalla metà degli anni 70, di fronte all’evidenza della crisi, gli “esperti” hanno cominciato a ricercare tutte le spiegazioni possibili che permettessero alla borghesia di rassicurarsi favorevolmente sulle prospettive del suo sistema. Incapace di prendere in considerazione il fallimento definitivo di questo, la classe dominante aveva bisogno, non solo allo scopo di mistificare gli sfruttati, ma anche a suo proprio uso di spiegare le difficoltà crescenti dell’economia mondiale a partire da cause circostanziali che giravano evidentemente le spalle alle cause effettive. Di volta in volta, sono andate di moda le seguenti spiegazioni:
· la “crisi del petrolio” successiva alla guerra del Kippur del 73 (questo significava dimenticare che la crisi aperta risaliva a 6 anni prima, gli aumenti del prezzo del petrolio non avevano fatto altro che accentuare una degradazione che si era già manifestata con le recessioni del 67 e del 71);
· gli eccessi delle politiche neo-keynesiane seguiti alla fine della guerra che ora provocavano un’inflazione galoppante: c’era bisogno di meno intervento statale;
· gli eccessi delle “reaganomics” degli anni 80 che avevano provocato una crescita senza precedenti della disoccupazione nei principali paesi.
Fondamentalmente bisognava aggrapparsi all’idea che esistevano delle vie di uscita; che con una “buona gestione”, l’economia mondiale sarebbe potuta tornare allo splendore dei tempi d’oro. Bisognava ritrovare il segreto perduto della “prosperità”.
3) Per molto tempo le buone prestazioni economiche del Giappone e della Germania, mentre gli altri paesi erano in difficoltà, erano presentate come la dimostrazione della capacità del capitalismo di “superare la sua crisi”: “è necessario che ogni paese sia ‘virtuoso’ quanto i due grandi vinti della seconda guerra mondiale, e tutto il mondo starà bene”: questo era il credo di molti apologeti assoldati dal capitalismo. Oggi il Giappone e la Germania fanno la figura “di uomo malato”. Mentre incontra le più grandi difficoltà a rilanciare una “crescita” che fece la sua gloria passata, il primo viene classificato nella categoria D (al fianco del Brasile e del Messico) nell’indice dei paesi a rischio tanto sono minacciosi i debiti che hanno accumulato lo Stato, le imprese e i privati (in totale più di due anni e mezzo della produzione nazionale). Quanto al secondo paese, esso conosce oggi uno dei tassi di disoccupazione più elevati dell’Unione europea e non riesce nemmeno lui a soddisfare i “criteri di Maastricht” indispensabili per aderire alla “moneta unica”. In fin dei conti, ci si rende conto che la pretesa “virtù” passata di questi paesi non faceva che mascherare la stessa fuga in avanti nell’indebitamento che caratterizza l’insieme del capitalismo da decenni. In realtà, le difficoltà attuali dei due “primi della classe” degli anni 70 e 80 costituiscono una dimostrazione dell’impossibilità per il capitalismo di perseverare indefinitamente nell’inganno sul quale ha basato principalmente la ricostruzione del secondo dopoguerra e che gli ha permesso fino ad oggi di evitare un crollo simile a quello degli anni 30: l’utilizzo sistematico del credito.
4) Già quando denunciava le “teorie” dei revisionisti, Rosa Luxemburg era stata portata a demolire l’idea che a loro era cara secondo cui il credito avrebbe permesso al capitalismo di superare le sue crisi. Se è stato un indiscutibile stimolante dello sviluppo di questo sistema, tanto dal punto di vista della concentrazione del capitale che della sua circolazione, il credito non ha mai potuto sostituirsi al mercato reale stesso come alimento dell’espansione capitalista. Le cambiali permettono di accelerare la produzione e la commercializzazione delle merci ma esse devono essere rimborsate un giorno o l’altro. E questo rimborso è possibile solo se queste merci hanno trovato di che scambiarsi sul mercato, che non deriva automaticamente dalla produzione, come Marx ha sistematicamente dimostrato contro gli economisti borghesi. In fin dei conti, lungi dal permettere di superare le crisi, il credito non fa che estenderne la portata e la gravità, come Rosa Luxemburg dimostra, basandosi sul marxismo. Oggi, restano fondamentalmente valide le tesi della sinistra marxista contro il revisionismo della fine del secolo scorso. Il credito non può oggi, più che allora, allargare i mercati solvibili. Tuttavia, di fronte ad una saturazione definitiva di questi ultimi (mentre nel secolo scorso esisteva la possibilità di conquistarne di nuovi) il credito è diventato la condizione indispensabile allo smercio delle merci prodotte, sostituendosi al mercato reale.
5) Questa realtà è già stata illustrata all’indomani della seconda guerra mondiale quando il piano Marshall, oltre alla sua funzione strategica nella costituzione del blocco americano, ha permesso agli Stati Uniti di creare uno sbocco per la produzione delle loro industrie. La ricostruzione che esso ha permesso delle economie europee e giapponese ha fatto di queste nel corso degli anni 60 dei concorrenti dell’economia americana, il che ha dato il segnale del ritorno della crisi aperta del capitalismo mondiale. Dopo di allora, è principalmente utilizzando il mezzo del credito, di un indebitamento sempre maggiore, che l’economia mondiale è riuscita ad evitare una depressione brutale come quella degli anni 30. E’ così che la recessione del 1974 è stata superata fino all’inizio degli anni 80 grazie al formidabile indebitamento dei paesi del terzo mondo che ha condotto alla crisi del debito dell’inizio degli anni 80 la quale ha coinciso con una nuova recessione ancor più seria di quella del 1974. A sua volta questa nuova recessione mondiale non è stata superata che attraverso dei deficit commerciali straordinari degli Stati Uniti il cui ammontare dell’indebitamento è paragonabile a quello del terzo mondo. Parallelamente i deficit dei bilanci dei paesi avanzati sono esplosi, il che ha permesso di sostenere la domanda ma ha condotto ad una vera situazione di fallimento per gli Stati (il cui indebitamento rappresenta tra il 50% ed il 130% della produzione annuale a seconda dei paesi). E’ d’altronde per questa ragione che la recessione aperta, quella che si esprime con delle cifre negative nei tassi di crescita della produzione di un paese, è lungi dal costituire il solo indicatore della gravità della crisi. In quasi tutti i paesi il solo deficit annuale del bilancio degli Stati (senza contare quello delle amministrazioni locali) è superiore alla crescita della produzione; ciò significa che se questi bilanci fossero equilibrati (il solo mezzo di stabilizzare l’indebitamento accumulato dagli Stati) tutti questi paesi sarebbero in aperta recessione.
La maggior parte di questo indebitamento non è evidentemente rimborsabile, esso si accompagna a dei crac finanziari periodici sempre più gravi che sono dei veri terremoti per l’economia mondiale (1980, 1989) e che restano più che mai all’ordine del giorno.
6) Ricordare questi fatti permette di fare chiarezza sui discorsi sulla “salute” attuale delle economie britannica ed americana che contrasta con l’apatia di quelle dei loro concorrenti. In primo luogo, conviene ridimensionare l’importanza di questi “successi”. Così, la diminuzione molto sensibile del tasso di disoccupazione in Gran Bretagna deve molto, come confessa anche la banca di Inghilterra, alla soppressione nelle statistiche (il cui sistema di calcolo è stato modificato 33 volte dal 1979) dei disoccupati che hanno rinunciato a cercare un lavoro. Detto ciò, questi “successi” si basano in buona parte su un miglioramento della competitività di queste economie sull’arena internazionale (basata proprio sulla debolezza della loro moneta, il mantenere la Sterlina fuori dal serpente monetario si è rivelato fino ad oggi come una buona operazione), cioè su di un maggiore degradarsi delle economie concorrenti. E’ un fatto che era stato un po’ nascosto dalla sincronizzazione mondiale dei periodi di recessione e di quelli di “ripresa” che si era conosciuta fino a questo momento: il relativo miglioramento dell’economia di un paese non passa per il miglioramento di quella dei suoi “partner” ma, fondamentalmente, per un peggioramento di queste poiché i “partner” sono prima di tutto dei concorrenti. Con la scomparsa del blocco americano, seguita a quella del blocco russo, alla fine degli anni 80, il coordinamento che esisteva nel passato fra i principali paesi occidentali (per esempio attraverso il G7) delle loro politiche economiche (il che costituiva un fattore non trascurabile di rallentamento del ritmo della crisi) ha lasciato il posto al “ciascuno per sé” sempre più selvaggio. In una tale situazione, tocca alla prima potenza mondiale il privilegio di imporre i suoi diktat nell’arena commerciale a beneficio della sua propria economia nazionale. E’ ciò che spiega in buona parte i “successi” attuali del capitale americano.
Ciò detto, anche se gli andamenti attuali delle economie anglosassoni non sono affatto significativi di un possibile miglioramento dell’insieme dell’economia mondiale, comunque non sono destinati a durare. Legate al mercato mondiale, che non potrà superare la sua totale saturazione, esse vanno necessariamente a scontrarsi con questa saturazione. Soprattutto nessun paese ha risolto il problema dell’indebitamento generalizzato (anche se i deficit di bilancio degli Stati Uniti si sono un po’ ridotti in questi ultimi anni). La migliore prova di ciò è l’ossessione dei principali responsabili economici (quale il presidente della Banca federale americana) che la “crescita” attuale porti ad un “surriscaldamento” e ad un ritorno dell’inflazione. In realtà dietro questo timore vi è fondamentalmente la constatazione che la “crescita” attuale è basata su di un indebitamento esorbitante che produrrà per forza di cose un ritorno catastrofico. L’estrema fragilità delle basi su cui si poggiano i “successi” attuali dell’economia americana ci è stata ancora una volta confermata dall’inizio di panico di Wall Street come di altre Borse quando la FED (Banca federale americana) ha annunciato a fine marzo 1997 un rialzo minimo dei suoi tassi di interesse.
7) Tra le menzogne abbondantemente diffuse dalla classe dominante per far credere alla vitalità, malgrado tutto, del suo sistema, un posto particolare è comunque riservato all’esempio dei paesi del sud-est asiatico, i “dragoni” (Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) e le “tigri” (Tailandia, Indonesia, Malesia) i cui tassi di crescita attuali (qualche volta a due cifre) fanno rodere di invidia i borghesi occidentali . Questi esempi dovrebbero dimostrare che è possibile per il capitalismo attuale sia far sviluppare i paesi arretrati sia evitare la fatalità della caduta o la stagnazione della crescita. In realtà, il “miracolo economico” della maggior parte di questi paesi (in particolare la Corea e Taiwan) non è affatto fortuito: è la conseguenza dell’equivalente del piano Marshall messo in atto nel corso della guerra fredda dagli Stati Uniti con lo scopo di contenere l’avanzata del blocco russo nella regione (iniezione massiccia di capitali fino al 15 % del PIL, controllo diretto dell’economia nazionale, poggiandosi in particolare sull’apparato militare, al fine di supplire alla borghesia nazionale quasi inesistente e superare le resistenze dei settori feudali, ecc.). Come tali, questi esempi non sono per niente generalizzabili all’insieme del terzo mondo che continua nella gran parte ad affondare in una catastrofe indescrivibile. D’altra parte, l’indebitamento della maggior parte di questi paesi, sia verso l’esterno che al livello dei loro Stati, raggiunge dei livelli notevoli il che li sottomette alle stesse minacce di tutti gli altri paesi. Infine se il prezzo molto basso della loro forza lavoro ha costituito un’attrattiva per numerose imprese occidentali, il fatto che essi diventino dei rivali commerciali per i paesi avanzati li espone al rischio di misure protezionistiche verso le loro esportazioni. In realtà, come già è successo al loro grande vicino giapponese, questi paesi non potranno sfuggire per sempre alle contraddizioni dell'economia mondiale che hanno trasformato in incubo altre “storia fortunate” precedenti alla loro, come quella del Messico. E’ per l’insieme di queste ragioni che, accanto a discorsi incensanti, gli esperti internazionali e le istituzioni finanziarie prendono fin da oggi degli accorgimenti per limitare i rischi finanziari che essi presentano. E le misure destinate a rendere più “flessibile” la forza lavoro che si trovano all’origine dei recenti scioperi in Corea dimostrano che la borghesia locale è cosciente del fatto che i tempi migliori sono passati. Come scrive il Guardian del 16 ottobre 1996: “Il problema è sapere quale sarà la prima delle tigri d‘Asia a cadere.”
8) Il caso della Cina, che alcuni presentano come la futura grande potenza del prossimo secolo, non sfugge alla regola. La borghesia di questo paese è riuscita fino ad oggi ad operare con successo la transizione verso le forme classiche del capitalismo, contrariamente a quelle dei paesi dell’Europa dell’est il cui totale marasma (tranne poche eccezioni) apporta una schiacciante smentita a tutti i discorsi sulle pretese “grandi prospettive” che si offrivano loro con l’abbattimento dei regimi stalinisti. Detto ciò, l’arretratezza di questo paese resta notevole; la maggior parte dell’economia, come in tutti i regimi stalinisti, soffoca sotto il peso della burocrazia e delle spese militari. A detta stessa delle autorità il settore pubblico è completamente deficitario e centinaia di migliaia di operai sono pagati con mesi di ritardo. E anche se il settore privato è più dinamico, esso non può superare le pesantezze del settore statale ed inoltre resta particolarmente legato alle fluttuazioni del mercato mondiale. Infine il “formidabile dinamismo” dell’economia cinese non potrebbe nascondere che, anche nell’ipotesi del mantenimento della sua crescita attuale, sono più di 250 milioni i disoccupati che essa conterà alla fine del secolo.
9) Da qualsiasi parte ci si giri, per poco che si sia capaci di resistere alle sirene dei difensori del modo di produzione capitalista e di poggiarsi sugli insegnamenti del marxismo, la prospettiva dell’economia mondiale non può essere che quella di una catastrofe crescente. I pretesi “successi” attuali di certe economie (paesi anglosassoni o del sud-est asiatico) non rappresentano affatto il futuro dell’insieme del capitalismo: non sono che una mistificazione che non potrà mascherare per molto tempo questa catastrofe. Ancora, i discorsi sulla “mondializzazione”, ipotizzata aprire un’era di libertà e di espansione del commercio, non fanno che mascherare un’intensificazione senza precedenti della guerra commerciale nella quale gli assemblaggi di paesi come l’Unione Europea non hanno altro significato che creare una fortezza contro la concorrenza di altri paesi. Così, una economia mondiale in equilibrio instabile su di una montagna di debiti che non saranno mai rimborsati si scontrerà sempre più con le convulsioni del “ciascuno per sé”. Fenomeno che ha sempre caratterizzato il capitalismo ma che, nel periodo attuale di decomposizione, riveste una nuova qualità. I rivoluzionari, i marxisti non possono prevedere le forme precise né il ritmo dello sprofondamento crescente del modo di produzione capitalista, ma tocca loro di proclamare e di dimostrare il vicolo cieco totale nel quale si trova questo sistema, di denunciare tutte le menzogne su di una sua mitica “uscita dal tunnel”.
10) Più ancora che nel campo economico, il caos proprio del periodo di decomposizione rivela i suoi effetti in quello delle relazioni politiche tra gli Stati. Al momento del crollo del blocco dell’Est che portava alla scomparsa del sistema di alleanze uscito dalla seconda guerra mondiale, la CCI aveva messo in evidenza:
· che questa situazione metteva all’ordine del giorno, senza che questo fosse immediatamente realizzabile, la ricostituzione di nuovi blocchi, uno diretto dagli Stati Uniti e l’altro dalla Germania;
· che, nell’immediato, esso sarebbe sfociato in uno svilupparsi di scontri aperti che “l’ordine di Yalta” era riuscita fino a quel momento a mantenere in un quadro “accettabile” per i due grandi gendarmi del mondo.
In un primo tempo, la tendenza alla costituzione di un nuovo blocco intorno alla Germania, nella dinamica di riunificazione di questo paese, ha compiuto dei passi significativi. Ma molto rapidamente, la tendenza al “ciascuno per sé” ha preso il sopravvento sulla tendenza alla ricostituzione di alleanze stabili fondamento di futuri blocchi imperialisti, il che ha contribuito a moltiplicare ed aggravare gli scontri militari. L’esempio più significativo è quello della Yugoslavia il cui esplodere è stato favorito degli interessi imperialistici antagonisti dei grandi Stati europei, Germania, Gran Bretagna e Francia. Gli scontri nella ex Yugoslavia hanno creato un fossato tra i due grandi alleati della Comunità europea, la Germania e la Francia, provocando un ravvicinamento spettacolare tra quest’ultimo paese e la Gran Bretagna e la fine dell’alleanza di questa con gli Stati Uniti, la più solida e duratura del 20° secolo. Dopo, questa tendenza al “ciascuno per sé”, al caos nelle relazioni tra gli Stati, con il suo seguito di alleanze circostanziali ed effimere, non è stata affatto rimessa in discussione.
11) Così, l’ultimo periodo ha visto un certo numero di sensibili modificazioni nelle alleanze che si erano formate nel periodo precedente:
· importante allentamento dei legami tra la Francia e la Gran Bretagna mostrato in particolare con la mancato sostegno di quest’ultima alle rivendicazioni della prima come la rielezione di Boutros-Ghali alla testa dell’ONU o il comando da parte di un europeo del versante sud del dispositivo della NATO in Europa;
· nuovo riavvicinamento tra la Francia e la Germania che si è concretizzato in particolare con il sostegno di quest’ultima alla stesse rivendicazioni della Francia;
· attenuazione dei conflitti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che si è espressa, tra l’altro, con il sostegno di questa ultima allo Zio Sam su queste stesse questioni.
Nei fatti una delle caratteristiche di questa evoluzione delle alleanze è legata al fatto che solo gli Stati Uniti e la Germania hanno, e possono avere, una politica coerente a lungo termine, il primo di preservazione della sua leadership, la seconda di sviluppo della sua propria leadership su di una parte del mondo, poiché le altre potenze sono confinate a delle politiche più circostanziali volte, in buona parte, ad opporsi a quella delle prime. In particolare, la prima potenza mondiale si trova di fronte, dopo la scomparsa della divisione del mondo in due blocchi, ad una contestazione permanente della sua autorità da parte dei suoi vecchi alleati.
12) La manifestazione più spettacolare di questa crisi dell’autorità del gendarme mondiale è stata la rottura della sua alleanza storica con la Gran Bretagna, su iniziativa di quest’ultima, a partire dal 1994. Essa si è egualmente concretizzata con la lunga impotenza degli Stati Uniti fino all’estate 1995 su uno dei terreni maggiori di scontro imperialista, la ex Yugoslavia. Inoltre si è espressa più recentemente, nel settembre 1996, con le reazioni pressoché unanimi di ostilità verso i bombardamenti dell’Iraq con 44 missili Cruise, mentre nel 1990-91 gli Stati Uniti erano riusciti ad ottenere il sostegno degli stessi paesi con l’operazione “tempesta nel deserto” ; in particolare per quel che riguarda gli Stati della regione, la condanna molto ferma di questi bombardamenti fatta dall’Egitto e dall’Arabia Saudita rompe di netto con il sostegno totale che esse avevano dato allo Zio Sam all’epoca della guerra del Golfo. Tra gli altri esempi della contestazione della leadership americana bisogna ancora ricordare:
· la generale protesta contro la legge Helms-Burton che rafforza l’embargo contro Cuba il cui “lider maximo” è stato in seguito ricevuto in pompa magna, e per la prima volta, dal Vaticano;
· la salita al potere in Israele, contro la manifesta volontà degli Stati Uniti, della destra, che ha fatto di tutto poi per sabotare il processo di pace con i palestinesi che costituiva uno dei migliori successi della diplomazia USA;
· più in generale, la perdita del monopolio del controllo della situazione in Medio Oriente, zona particolarmente cruciale, illustrata dal ritorno in forze della Francia che si è imposta come copadrino nel contenzioso tra Israele e Libano all fine del 1995 e che ha confermato il suo successo nella regione con l’accoglienza calorosa riservata a Chirac dall’Arabia Saudita nell’ottobre 1996;
· il recente invito di numerosi dirigenti europei (tra cui lo stesso Chirac che ha lanciato appelli all’indipendenza dagli Stati Uniti) fatto da un certo numero di Stati dell’America del sud conferma la fine del controllo totale di questa zona da parte degli Stati Uniti.
13) Ciò detto, l’ultimo periodo è stato segnato, come aveva già sottolineato un anno fa il 12° Congresso della sezione in Francia, da una massiccia controffensiva degli Stati Uniti. Questa si è concretizzata in particolare in un ritorno in forze di questa potenza nella ex Yugoslavia a partire dall’estate del 1995 dietro la maschera dell’IFOR, che ha preso il posto della FORPRONU, che aveva costituito per molti anni lo strumento della presenza preponderante del tandem franco-britannico. La migliore prova del successo americano è stata la firma a Dayton, negli Stati Uniti, degli accordi di pace sulla Bosnia. Dopo, la nuova avanzata della potenza USA non si è smentita. In particolare essa è riuscita ad infliggere al paese che l’aveva sfidata più apertamente, la Francia, uno smacco molto serio in quello che costituisce il suo “terreno di conquista”, l’Africa. Dopo l’eliminazione dell’influenza francese in Ruanda, è ora lo Zaire, principale postazione della Francia in questo continente che è sul punto di sfuggirle con il crollo del regime di Mobutu sotto i colpi della “ribellione” di Kabila massicciamente sostenuta dal Ruanda e dall‘Uganda, cioè dagli Stati Uniti. E’ una punizione particolarmente severa che questa potenza è sul punto di infliggere alla Francia e che vuole essere esemplare per tutti gli altri paesi che volessero imitarla nella sua politica di sfida permanente. E’ una punizione che viene a coronare gli altri smacchi inflitti recentemente dagli USA a questo paese sulla questione del successore di Boutros-Ghali e sulla questione del comando del fianco sud della NATO.
14) E’ in gran parte perché aveva ben compreso i rischi che correva imitando la politica avventurista della Francia (che sistematicamente si prefigge degli obiettivi al di là delle sue capacità reali) che la borghesia britannica ha preso ultimamente le distanze dalla sua consorella di oltre Manica. Questo allontanamento è stato notevolmente favorito dall’azione degli Stati Uniti e della Germania che non potevano vedere che male l’alleanza contratta tra la Francia e la Gran Bretagna a partire dalla questione Jugoslava. E’ così che i bombardamenti americani dell’Iraq, nel settembre 1996, avevano come enorme risultato di mettere la diplomazia francese e britannica l’una contro l’altra, visto che la prima sostiene Saddam Hussein, la seconda mira, come gli Stati Uniti, al suo rovesciamento. Anche la Germania si è data da fare per minare la solidarietà franco-britannica sulle questioni che a lei stanno a cuore, come in particolare l’Unione Europea e la moneta unica (3 summit franco-tedeschi in due settimane su questa questione nel dicembre 1996). E’ dunque in questo quadro che si può comprendere la nuova evoluzione delle alleanze nel corso dell’ultimo periodo di cui si parlava prima. Nei fatti l’atteggiamento della Germania, e soprattutto degli Stati Uniti conferma ciò che noi dicevamo al precedente congresso della CCI: “In una tale situazione di instabilità, è più facile per ciascuna potenza creare dei problemi ai suoi avversari, sabotare le alleanze che possano adombrarla, che sviluppare da parte sua delle solide alleanze e assicurarsi una stabilità nei suoi territori.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 11). Tuttavia conviene mettere in evidenza delle differenze importanti sia nei metodi che nei risultati della politica seguita da queste due potenze.
15) Il risultato della politica internazionale della Germania non si limita affatto a separare la Francia dalla Gran Bretagna e ottenere che la prima riallacci la loro passata alleanza, il che si è concretizzato per esempio nel corso dell’ultimo periodo con degli accordi militari di primaria importanza, sia sul terreno, in Bosnia (creazione di una brigata congiunta) che a livello degli accordi di cooperazione militare (firma del 9 dicembre 1996 di un accordo per “una concezione comune in materia di sicurezza e di difesa”). In realtà, si assiste attualmente ad una avanzata molto significativa dell’imperialismo tedesco che si concretizza precisamente in:
· il fatto che all’interno della nuova alleanza tra la Francia e la Germania, quest’ultima si trovi in un rapporto di forze molto più favorevole di quello del periodo 1990-94 (la Francia è stata costretta in buona parte a ritornare ai suoi antichi amori in seguito alla defezione della Gran Bretagna);
· un’estensione della sua zona tradizionale di influenza verso i paesi dell’Est ed, in particolare, attraverso lo sviluppo di un’alleanza con la Polonia;
· un rafforzamento della sua influenza in Turchia (il cui nuovo governo diretto dall’islamista Erbakan è più favorevole del suo predecessore all’alleanza tedesca) che gli serve da postazione in direzione del Caucaso (dove essa sostiene i movimenti nazionalisti che si oppongono alla Russia) e dell’Iran con il quale la Turchia ha firmato degli accordi importanti;
· l’invio, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, di unità combattenti al di fuori delle frontiere, e proprio nella zona particolarmente critica dei Balcani con il corpo di spedizione presente in Bosnia nel quadro dell’IFOR (il che permette al ministro della difesa di dichiarare che “la Germania giocherà un ruolo importante nella nuova società”).
D’altra parte, la Germania, insieme alla Francia, si è impegnata in un forcing diplomatico in direzione della Russia, di cui essa è la prima creditrice, che non ha tratto vantaggi decisivi dalla sua alleanza con gli Stati Uniti.
16) Così, fin da oggi, la Germania è in grado di insediarsi nel suo ruolo di principale rivale imperialista degli Stati Uniti. Tuttavia bisogna notare che essa è riuscita ad avanzare nelle sue posizione senza esporsi a delle rappresaglie del mastodontico avversario americano, in particolare evitando sistematicamente di sfidarlo apertamente come fa la Francia. La politica dell’aquila tedesca (che per il momento riesce a nascondere i suoi artigli) si rivela in fin dei conti molto più efficace di quella del gallo francese. Questo è nello stesso tempo la conseguenza dei limiti che lo statuto di vinto della seconda guerra mondiale continua ad imporgli (benché proprio la sua politica attuale volga a superare questo statuto) e della sua sicurezza come sola potenza in grado eventualmente di prendere, a breve termine, la direzione di un nuovo blocco imperialista. E’ anche il risultato del fatto che, fino ad ora, la Germania ha potuto avanzare le sue posizioni senza fare ricorso diretto alla sua forza militare (anche se, evidentemente, essa ha apportato un sostegno molto grosso al suo alleato Croato nella guerra contro la Serbia). Ma la primizia storica che sostituisce la presenza del suo corpo di spedizione in Bosnia non solo ha infranto un tabù ma indica la direzione nella quale essa dovrà orientarsi sempre più per mantenere il suo rango. Così, a breve termine, non sarà più per delega (come fu il caso in Croazia, ed in minore misura nel Caucaso) che l’imperialismo tedesco apporterà il suo contributo ai sanguinosi conflitti e ai massacri nei quali affonda il mondo attuale, ma in modo molto più diretto.
17) Per quel che riguarda la politica internazionale degli Stati uniti, lo schieramento e l’impiego della forza armata non solo fa parte da molto tempo dei suoi metodi, ma esso costituisce ormai il principale strumento di difesa dei suoi interessi imperialisti, come la CCI ha messo in evidenza dal 1990, prima ancora della guerra del Golfo. Di fronte ad un mondo dominato dal “ciascuno per sé”, in cui proprio gli antichi vassalli del gendarme americano aspirano a staccarsi il più possibile dalla sua pesante tutela che essi avevano dovuto sopportare di fronte alla minaccia del blocco avverso, il solo mezzo decisivo per gli Stati Uniti di imporre la sua autorità è di fondarsi sullo strumento nel quale essi hanno una superiorità schiacciante: la forza militare. Ciò facendo, gli Stati Uniti sono presi in una contraddizione:
· o essi rinunciano a mettere in piazza e a schierare la loro superiorità militare, il che non può che incoraggiare i paesi che contestano la loro autorità ad andare ancora oltre in questa loro contestazione;
· o, se essi fanno uso della forza bruta, anche, e soprattutto, quando questo mezzo riesce momentaneamente a far raffreddare le velleità dei suoi oppositori, ciò non può che spingere questi ultimi a cogliere ogni minima occasione per prendersi la rivincita e tentare di staccarsi dalla presa americana.
Nei fatti, l’affermazione della superiorità militare per la superpotenza agisce in senso contrario a seconda se il mondo è diviso in blocchi, come prima del 1989, o che i blocchi non esistano più. Nel primo caso, l’affermazione di questa superiorità tende a rafforzare la fiducia dei vassalli verso il capo quanto alla sua capacità di difenderli efficacemente e costituisce dunque un fattore di coesione intorno a lui. Nel secondo caso, le dimostrazioni di forza della sola superpotenza superstite hanno al contrario come ultimo risultato di aggravare ancora il “ciascuno per sé” finché non esiste un’altra potenza che possa fargli concorrenza al suo livello. E’ perciò che i successi della controffensiva attuale degli Stati Uniti non possono essere considerati come definitivi, come un superamento della crisi della loro leadership. La forza bruta, le manovre volte a destabilizzare i loro concorrenti (come oggi in Zaire), con tutto il loro seguito di conseguenze tragiche, non hanno finito di essere impiegate da questa potenza, ma al contrario, contribuendo così ad accentuare il caos sanguinoso nel quale affonda il capitalismo.
18) E’ un caos che ha ancora relativamente risparmiato l’estremo Oriente e l’Asia del Sud-Est. Ma è importante sottolineare l’accumularsi in questi paesi di cariche esplosive:
· intensificazione degli sforzi di armamento delle due principali potenze, Cina e Giappone;
· volontà di questo ultimo paese di staccarsi il più possibile dal controllo americano ereditato dalla seconda guerra mondiale;
· politica più apertamente “contestatrice” della Cina (questo paese ha lo stesso ruolo della Francia in Occidente, mentre il Giappone ha una diplomazia molto più simile a quella della Germania);
· minaccia di destabilizzazione politica in Cina (in particolare dopo la morte di Deng);
· esistenza di una moltitudine di “contenziosi” tra Stati (Taiwan e Cina, le due Coree, Vietnam e Cina, India e Pakistan, ecc.).
Oltre al fatto che non potrà sfuggire alla crisi economica, questa regione non potrà sfuggire alle convulsioni imperialiste che assalgono il mondo oggi, contribuendo ad accentuare il caos generale nel quale sprofonda la società capitalista.
19) Questo caos generale, con il suo seguito di conflitti sanguinosi, di massacri, di fame, e più in generale la decomposizione che invade tutti i campi della società e che rischia, alla fine, di annientarla, trova il suo principale alimento nel vicolo cieco totale nel quale si trova l’economia capitalista. Ma, nello stesso tempo, questo impasse, con gli attacchi continui e sempre più brutali che essa provoca necessariamente contro la classe produttrice dell’essenziale della ricchezza sociale, il proletariato, porta con sé la risposta di quest’ultimo e la prospettiva del suo sorgere rivoluzionario. Dalla fine degli anni 60 il proletariato mondiale ha dato prova di non essere disposto a subire passivamente gli attacchi capitalisti e le lotte che ha condotto fin dai primi attacchi della crisi hanno dimostrato che esso era uscito dalla terribile controrivoluzione che si era abbattuta su di lui dopo l’ondata rivoluzionaria del 1917-23. Tuttavia non è in maniera continua che esso ha sviluppato le sue lotte ma in maniera sofferta, con delle avanzate e dei passi indietro. E’ così che tra il 1968 ed il 1989 la lotta di classe ha conosciuto tre ondate di lotta successive (1968-74, 1978-81, 1983-89) nel corso delle quali le masse operaie, malgrado delle sconfitte, delle esitazioni, dei rinculi, hanno acquisito un’esperienza crescente che le ha condotte, in particolare, a rigettare sempre più l’inquadramento sindacale. Tuttavia questa avanzata progressiva della classe operaia verso una presa di coscienza dei fini e dei mezzi della sua lotta è stata brutalmente interrotta alla fine degli anni 80:
“Questa lotta che era risorta con possanza alla fine degli anni 60, ponendo fine alla più terribile controrivoluzione che la classe operaia abbia mai conosciuto, ha subito un rinculo considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l’hanno accompagnati e l’insieme degli eventi (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.) che li hanno seguiti. E’ sui due piani della sua combattività e della sua coscienza che la classe operaia ha subito, in modo massiccio, questo rinculo, senza che ciò rimetta in causa, tuttavia, come la CCI aveva già affermato in quel momento il corso storico verso gli scontri di classe.” (Risoluzione sulla situazione internazionale del 11° Congresso della CCI, punto 14).
20) A partire dall’autunno 1992, con le grandi mobilitazioni operaie in Italia, il proletariato ha ripreso il cammino delle lotte. Ma è un cammino seminato di buche e di difficoltà. All’epoca del crollo dei regimi stalinisti, nell’autunno 1989, nello stesso momento in cui annunciava l’arretramento della coscienza provocato da questo evento, la CCI aveva precisato che: “l’ideologia riformista peserà notevolmente sulle lotte nel prossimo periodo, favorendo enormemente l’azione dei sindacati” (“Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell‘Est”, Rivista Internazionale n° 13). Ed effettivamente noi abbiamo assistito, nel corso dell’ultimo periodo, ad un ritorno in forze dei sindacati, frutto di una strategia elaborata da parte di tutte le forze della borghesia. Questa strategia aveva come obiettivo primario mettere a profitto il disorientamento provocato nella classe operaia dagli avvenimento del 1989-91 per ricredibilizzare il più possibile ai suoi occhi gli apparati sindacali il cui discredito acquisito in molti paesi durante tutti gli anni 80 continuava a farsi sentire. La dimostrazione più chiara di questa offensiva politica della borghesia ci è stata fornita dalla manovra sviluppata da diversi settori della borghesia nell’autunno 1995 in Francia. Grazie ad un’abile divisione dei compiti tra la destra al potere, che scatenava in maniera particolarmente provocatoria una valanga di attacchi al livello di vita della classe operaia, ed i sindacati che si presentavano come i migliori difensori di questa, mettendo essi stessi in atto i metodi proletari di lotta, l’estensione al di là del singolo settore e la conduzione del movimento tramite le assemblee generali, l’insieme della classe borghese ha ridato agli apparati sindacali una popolarità che essi non conoscevano più da un decennio. Il carattere premeditato, sistematico ed internazionale della manovra si è rivelato con l’immensa pubblicità fatta agli scioperi della fine 1995 in tutti i paesi mentre la maggior parte dei movimenti degli anni 80 era stato oggetto di un black-out totale. Viene ulteriormente confermato con la manovra sviluppata in Belgio, nello stesso periodo, che costituiva una copia conforme della prima. Inoltre il riferimento agli scioperi dell’autunno 1995 in Francia è stato largamente utilizzato all’epoca della grande manovra attuata nella primavera 1996 in Germania e che doveva culminare con l’immensa marcia su Bonn del 10 giugno. Questa manovra era destinata a dare ai sindacati, considerati degli specialisti della negoziazione e della contrattazione con il padronato, un’immagine molto più combattiva così che essi potessero in futuro controllare le lotte sociali che non mancheranno di sorgere di fronte ad un intensificarsi senza precedenti degli attacchi economici contro la classe operaia. Così si confermava chiaramente l’analisi che la CCI aveva avanzato al suo 11° Congresso: “le attuali manovre dei sindacati hanno anche, e soprattutto uno scopo preventivo: si tratta per loro di rafforzare la loro presa sugli operai prima che si sviluppi molto di più la loro combattività, combattività che deriverà necessariamente dallo loro crescente collera di fronte agli attacchi sempre più brutali della crisi.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 17). Ed il risultato di queste manovre, che viene a completare lo sbandamento provocato dagli eventi del 1989-91, ci consentiva di dire, all’epoca del 12° Congresso della nostra sezione in Francia: “ ... nei principali paesi del capitalismo, la classe operai si ritrova ad affrontare una situazione simile a quella degli anni 70 per quel che riguarda i suoi rapporti con i sindacati ed il sindacalismo: una situazione in cui la classe, globalmente, lottava dietro i sindacati, seguiva le loro consegne e le loro parole d’ordine e, in fin dei conti, si affidava a loro. In questo senso, la borghesia è momentaneamente riuscita ad oscurare nelle coscienze operaie le lezioni acquisite nel corso degli anni 80, in seguito alle ripetute esperienze di confronto con i sindacati.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 12).
21) L’offensiva politica della borghesia contro la classe operaia non si limita solo alla credibilizzazione degli apparati sindacali. La classe dominante utilizza le diverse manifestazioni della decomposizione della società (aumento della xenofobia, conflitti tra bande borghesi, ecc.) per rivoltarle contro la classe operaia. E’ così che si assiste in vari paesi di Europa a delle campagne di diversione volte cioè la collera e la combattività operaia su di un terreno totalmente estraneo a quello del proletariato:
- utilizzo dei sentimenti xenofobi sfruttati dall’estrema destra (Le Pen in Francia, Heider in Austria) per montare delle campagne sul “pericolo del fascismo”;
- in Spagna, campagne contro il terrorismo dell’ETA nelle quali gli operai sono invitati a solidarizzare con i loro padroni;
- utilizzo dei regolamenti di conti tra gli apparati della polizia e della giustizia per mettere in piedi delle campagne per uno Stato e una giustizia “pulita” nei paesi come l’Italia (operazione “mani pulite”) ed in particolare in Belgio (affare Dutroux).
Quest’ultimo paese ha costituito durante l’ultimo periodo una sorta di “laboratorio” per tutta la gamma di mistificazioni messe in piedi contro la classe operaia da parte della borghesia. Questa ha successivamente:
- realizzato una copia conforme della manovra della borghesia francese dell’autunno 1995;
- poi sviluppato una manovra simile a quella della borghesia tedesca della primavera 1996;
- montato dettagliatamente, a partire dall’estate 1996, l’affare Dutroux che è stato opportunamente “scoperto” al “momento giusto” (laddove tutti i particolari erano già da tempo conosciuti dalla giustizia) allo scopo di creare, grazie ad una campagna giornalistica senza precedenti, una vera psicosi nelle famiglie operaie, proprio mentre piovevano attacchi, e far scemare la collera in un terreno interclassista di una “giustizia al servizio del popolo”, in particolare all’epoca della “marcia bianca” del 20 ottobre;
- rilanciato, con la “marcia multicolore” del 2 febbraio, organizzata in occasione della chiusura delle Fonderie di Clabecq, la mistificazione interclassista di una “giustizia popolare” e di una “economia al servizio del cittadino”, mistificazione rafforzata dal rilancio del sindacalismo “di lotta” e “di base” intorno al molto propagandato D’Orazio;
- aggiunto un nuovo strato di menzogne democratiche dopo l’annuncio all’inizio di marzo della chiusura della fabbrica della Renault di Vilvorde (chiusura che è stata considerata illegittima dai tribunali), contemporaneamente alla campagna promozionale per una “Europa sociale”, in opposizione ad una “Europa dei capitalisti”.
L’enorme risonanza internazionale di tutte queste manovre è stata ancora un’ulteriore riprova che esse non erano destinate ad un utilizzo interno ma facevano parte di un piano elaborato in modo concertato dalla borghesia di tutti i paesi. Si tratta per la classe dominante, pienamente cosciente del fatto che i suoi attacchi crescenti contro la classe operaia prima o poi provocheranno delle reazioni molto energiche da parte di quest’ultima, di prendere il sopravvento in un momento in cui la combattività è ancora a livello embrionale e sulla coscienza pesano ancora fortemente le conseguenze del crollo dei pretesi regimi “socialisti”, allo scopo di rafforzare al massimo il suo arsenale di mistificazioni sindacaliste e democratiche.
22) Il disorientamento nel quale si trova attualmente la classe operaia ha dato alla borghesia un certo margine di manovra per quel che riguarda i suoi giochi politici interni. Come aveva affermato la CCI all’inizio del 1990: “E’ per questo motivo (…) che conviene ora mettere all’ordine del giorno l’analisi sviluppata dalla CCI sulla “sinistra all’opposizione”. Questa carta era necessaria alla borghesia dalla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80 a causa della dinamica generale della classe verso lotte sempre più decise e coscienti, per il suo crescente rigetto delle mistificazioni democratiche, elettorali e sindacali. Le difficoltà incontrate in alcuni paesi (per esempio la Francia) per metterla in atto nelle migliori condizioni non toglievano niente al fatto che essa costituiva l’asse centrale della strategia della borghesia contro la classe operaia, il che è stato illustrato dal permanere di governi di destra in dei paesi molto importanti quali gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna. D’altro canto, il rinculo attuale della classe non impone più alla borghesia, per un certo tempo, il ricorso prioritario a questa strategia. Ciò non vuol dire che in questi ultimi paesi si vedrà necessariamente la sinistra ritornare al governo: noi abbiamo in più occasioni (…) messo in evidenza che una tale formula non è indispensabile che nei periodi rivoluzionari o di guerra imperialista. Per contro non bisogna essere sorpresi se accade ciò, o meglio considerare che si tratta di un “incidente” o l’espressione di una debolezza particolare della borghesia di questo paese.” (Revue Internationale n° 61). E’ per questa ragione che la borghesia italiana ha potuto, in gran parte per delle ragioni di politica internazionale, fare appello nella primavera del 1996 ad una compagine di centro sinistra in cui domina il vecchio partito comunista (PDS), sostenuta dall’estrema sinistra di Rifondazione Comunista. E’ anche per questa ragione che la probabile vittoria dei laburisti in Gran Bretagna, nel maggio 1997, non dovrà essere vista come fonte di difficoltà per la borghesia di questo paese (che ha tra l’altro fatto di tutto per rompere il legame organico tra il partito e l’apparato sindacale, così da permettere a quest’ultimo di opporsi al governo, se necessario). Ciò detto è importante sottolineare il fatto che la classe dominante non torna ai temi degli anni 0 in cui “l’alternativa di sinistra” con il suo programma di misure “sociali”, cioè le nazionalizzazioni, aveva come obiettivo di spezzare lo slancio dell’ondata di lotte iniziate nel 1968 deviando il malcontento e la combattività vero l’impasse elettorale. Se dei partiti di sinistra (il cui programma economico si distingue d’altronde sempre meno da quello di destra) vanno al governo, sarà essenzialmente “per difetto” a causa delle difficoltà della destra, e non come mezzo di mobilitazione degli operai ai quali la crisi ha tolto oggi le illusioni che potevano avere negli anni 70.
23) In questo ordine di idee, conviene così stabilire una differenza molto netta tra le campagne ideologiche che si dispiegano oggi e quelle che sono state impiegate contro la classe operaia nel corso degli anni 30. Tra questi due tipi di campagne esiste un punto comune: esse si sviluppano entrambe sul tema della “difesa della Democrazia”. Tuttavia le campagne degli anni 30:
- si situavano in un contesto di sconfitta storica del proletariato, di vittoria indiscutibile della controrivoluzione;
- avevano come obiettivo di imbrigliare i proletari nella imminente guerra mondiale;
- si potevano basare su fatti ben reali e visibili, il fascismo in Italia, Germania e Spagna.
Al contrario, le campagne attuali:
- si situano in un contesto in cui il proletariato ha superato la controrivoluzione, in cui non ha subito sconfitte decisive che rimettessero in causa il corso storico agli scontri di classe;
- hanno come obiettivo di sabotare un corso ascendente della combattività e della coscienza nella classe operaia;
- non dispongono di un unico e credibile bersaglio, ma sono obbligate a fare appello a dei temi disparati e qualche volta circostanziali (terrorismo, “pericolo fascista”, reti di pedofilia, corruzione della giustizia, ecc.), il che tende a limitarle nella loro portata internazionale e temporale.
E’ per queste ragioni che se le campagne della fine degli anni 30 erano riuscite a mobilitare le masse operaie dietro di loro in modo permanente, quelle di oggi:
- o riescono a coinvolgere massicciamente gli operai (vedi il caso della “Marcia bianca” del 20 ottobre 1996 a Bruxelles), ma non possono farlo che per un tempo limitato (è perciò che la borghesia belga ha messo in atto in seguito nuove manovre);
- o si sviluppano in modo permanente (vedi le campagne anti Fronte Nazionale in Francia), ma non riescono ad imbrigliare gli operai, giocando essenzialmente così solo un ruolo di diversione.
Detto ciò, è importante non sottovalutare il pericolo di questo tipo di campagne nella misura in cui gli effetti della decomposizione generale e crescente della società borghese potranno fornire loro nuovi temi continuamente. Solo un’avanzata significativa della coscienza nella classe operaia permetterà a questa di respingere ogni tipo di mistificazione. E questa avanzata non potrà che essere il risultato di uno sviluppo massiccio delle lotte operaie che rimettano in causa, come avevano cominciato a fare nella metà degli anni 80, gli strumenti più importanti della borghesia nell’ambiente operaio, i sindacati ed il sindacalismo.
24) Questa rimessa in discussione, che si accompagna con la presa nelle proprie mani delle lotte e della loro estensione attraverso le assemblee generali ed i comitati di sciopero eletti e revocabili, passa necessariamente per tutto un processo di confronto con il sabotaggio dei sindacati. E’ un processo che va necessariamente a svilupparsi nel futuro a causa dell’accrescersi della combattività operaia in risposta agli attacchi sempre più brutali che scatenerà il capitalismo. Già oggi la tendenza allo sviluppo della combattività non permette alla borghesia, di fronte alla minaccia di un scavalcamento, di rinnovare le grandi manovre “alla francese” del 1995-96 destinate a ridare credito massiccio ai sindacati. Tuttavia, questi ultimi non hanno ancora avuto l’occasione di smascherarsi completamente anche se, nel corso dell’ultimo periodo, essi hanno cominciato ad impiegare più frequentemente i loro metodi di azione “classici” come la divisione tra settore pubblico e settore privato (manifestazione del 11 dicembre 1996 in Spagna, per esempio) o il rilancio del corporativismo. L’esempio più spettacolare di questa tattica è lo sciopero dichiarato all’annuncio della chiusura della fabbrica della Renault di Vilvorde dove si sono potuti vedere i sindacati dei diversi paesi in cui si trovavano fabbriche di questa ditta promuovere una mobilitazione “europea” delle “Renault”. Ma il fatto che questa ignominiosa manovra dei sindacati sia passata inosservata, che essa abbia loro permesso anche di aumentare un po’ il loro prestigio pur diffondendo la mistificazione di una “Europa sociale”, dà la prova che noi siamo oggi in una situazione cerniera tra quella della ricredibilizzazione dei sindacati e quella in cui essi dovranno venire allo scoperto e perdere sempre più considerazione. Una delle caratteristiche di questo periodo consiste nell’inizio di una messa in avanti dei temi del sindacalismo “di lotta” secondo i quali “la base” sarebbe capace di “spingere” le direzioni sindacali a radicalizzarsi (esempi delle Fonderie di Clabecq o dei minatori nel marzo scorso in Germania) o che possa esistere una “base sindacale” capace di difendere veramente gli interessi operai a dispetto dei tradimenti degli apparati (vedi, in particolare, lo sciopero dei portuali in Gran Bretagna).
25) Così è ancora un lungo cammino che attende la classe operaia sulla via della sua emancipazione, un cammino che la borghesia va sistematicamente a minare con ogni tipo di trappola, come si è visto nel corso dell’ultimo periodo. L’ampiezza delle manovre messe in atto dalla borghesia dimostra che essa è cosciente dei pericoli che cela per essa la situazione attuale del capitalismo mondiale. Se Engels aveva potuto scrivere che la classe operaia porta la sua lotta su tre piani, economico, politico e ideologico, la strategia attuale della borghesia che si sviluppa anche contro le organizzazioni rivoluzionarie (campagna sul preteso “negazionismo” della Sinistra comunista) fornisce la prova che essa lo sa perfettamente. Spetta ai rivoluzionari, non solo far venire allo scoperto e denunciare sistematicamente le trappole sparse dalla classe dominante, e l’insieme dei suoi apparati, in particolare i sindacati, ma anche mettere al primo posto, contro tutte le falsificazioni che si sono sviluppate nel corso dell’ultimo periodo, la vera prospettiva della rivoluzione comunista come scopo ultimo delle lotte attuali del proletariato. Solo se la minoranza comunista gioca pienamente il suo ruolo la classe operaia potrà sviluppare le sue forze e la sua coscienza per raggiungere tale scopo.
Aprile 1997, CCI
Nel n.5 di Revolutionary Perspectives, organo della Communist Workers Organisation (CWO), é apparso un articolo intitolato "Sette, menzogne e la prospettiva perduta della CCI", che vuole essere una risposta all'articolo "Una politica di raggruppamento senza bussola" da noi pubblicato sulla Revue Internationale n.87 e che a sua volta rispondeva ad una lettera della CWO pubblicata sulla stessa Revue. L'articolo della CWO tratta di numerose questioni, ed in particolare del metodo di costruzione delle organizzazioni comuniste, su cui ritorneremo in seguito. Nell'articolo che segue ci limiteremo quindi a trattare un solo aspetto: l'idea della CWO per cui la CCI sarebbe in crisi a causa dei suoi errori di analisi sulla prospettiva storica.
In parecchi testi pubblicati sia nella rivista teorica che nella nostra stampa territoriale (1) abbiamo reso conto della crisi che la nostra organizzazione ha dovuto affrontare nell'ultimo periodo e che si é tradotta, come segnalato dall'articolo della CWO, in un importante numero di dimissioni nella nostra sezione in Francia. La CCI ha identificato le cause delle sue difficoltà organizzative: la persistenza al suo interno del peso dello spirito di circolo, lasciatoci in eredità dalle condizioni storiche che hanno presieduto alla sua costituzione, dopo la più lunga e profonda fase di controrivoluzione conosciuta dal movimento operaio. La persistenza di questo spirito di circolo aveva portato alla formazione di clan all'interno dell'organizzazione, che ne avevano gravemente minato il tessuto organizzativo. Dall'autunno 1993 l'insieme della CCI aveva intrapreso una dura lotta contro queste debolezze ed il suo 11° Congresso, tenuto nella primavera del '95, aveva potuto constatare che esse erano state, per l'essenziale, superate (2).
Da parte sua la CWO avanza una spiegazione differente delle difficoltà organizzative della CCI: " (...) la crisi attuale della CCI... é il risultato... di una demoralizzazione politica. La vera ragione é che le prospettive su cui si basava la CCI sono definitivamente crollate di fronte ad una realtà che la CCI ha tentato per anni di non riconoscere. In effetti, alla crisi attuale si applica molto bene quello che dicevamo a proposito della precedente scissione del 1981: "Le cause della presente crisi sono andate sviluppandosi per anni e possono essere trovate nelle posizioni di base del gruppo. La CCI afferma che la crisi economica ‘é là’ in tutte le sue contraddizioni e che questo é vero da 12 anni. Ritiene inoltre che la coscienza rivoluzionaria sorge direttamente e spontaneamente fra gli operai in lotta contro gli effetti di questa crisi. Non sorprende quindi che, se questa crisi non arriva a provocare il livello di lotta di classe predetto dalla CCI, questo porti a delle scissioni nell'organizzazione." (Workers Voice n.5).
Da allora, le condizioni della classe operaia è peggiorata e questa è stata costretta alla difensiva. Invece di riconoscerlo, la CCI ha proclamato per tutti gli anni 80 che eravamo entrati negli "anni della verità", preludio di confronti di classe ancora più grandi. (...) Le contraddizioni evidenti fra le prospettive della CCI e la realtà capitalista avrebbero portato prima alla crisi attuale, se non fosse intervenuto il crollo dello stalinismo. Questo avvenimento di portata storica é stato sufficiente a mettere da parte il dibattito sul corso storico, nella misura in cui la pausa seguita ad un tale terremoto ha allontanato momentaneamente il corso della borghesia verso la guerra ed ha concesso alla classe operaia un respiro di tempo in più per raggrupparsi prima che gli attacchi del capitale rendano di nuovo necessari dei conflitti sociali di grande portata a livello internazionale. Ugualmente ha permesso alla CCI di sfuggire con qualche contorsione dialettica alle conseguenze della sua prospettive sugli "anni della verità". Per essa il 1968 ha messo fine alla controrivoluzione ed aperto un ciclo in cui la classe operaia potrebbe esercitare il suo ruolo storico. Quasi trent'anni dopo (come a dire, più di una generazione dopo!) cosa ne é stato di questo scontro di classe? Questa é la domanda che abbiamo posto alla CCI nell'81 ed é ancora lì che il dente duole quando la lingua batte.
La CCI lo sa bene, ed é allo scopo di prevenire una nuova ondata di demoralizzazione che si é decisa di ricorrere al vecchio trucco di trovare un capo espiatorio. La CCI si rifiuta di affrontare la crisi attuale in quanto risultato dei suoi errori politici. In alternativa, ha cercato -e non è la prima volta- di rivoltare la realtà e insiste sul fatto che i problemi che incontra sono dovuti ad elementi "parassiti" esterni che la sabotano sul piano organizzativo."
Con tutta evidenza, qualsiasi lettore della nostra stampa ha potuto constatare che la CCI non ha mai attribuito le sue difficoltà organizzative interne all'azione di elementi parassiti. Quindi, o la CWO mente deliberatamente (ed in questo caso le chiediamo a quale scopo) o ha letto molto male quello che abbiamo scritto (ed in questo caso consigliamo ai compagni di comprarsi degli occhiali o far controllare quelli che portano). Quale che sia il caso, questa affermazione mostra una mancanza di serietà che mal si concilia con l'importanza del dibattito politico. Per questo preferiamo non attardarci a questi livelli ed andare invece al fondo dei disaccordi esistenti fra la CCI e la CWO (ed il Bureau International pour le Parti Revolutionnaire, BIPR, di cui la CWO fa parte). In particolare ci occuperemo dell'idea per cui le prospettive sulla lotta di classe difese dalla CCI sarebbero state smentite dagli eventi (3).
Le prospettive della CCI sono fallite?
Per valutare se le nostre prospettive sono o meno fallite, dobbiamo ricordarci di quanto scrivevamo subito prima dell'inizio degli anni 80:
"(...) finché poteva mantenere credibile l'idea che vi fossero vie di uscita alla crisi, (la borghesia) ha inondato gli sfruttati di promesse illusorie: "accettate l'austerità adesso ed andrà meglio domani (...)" Oggi questi discorsi non attaccano più (...) e visto che promettere "domani che cantano" non inganna più nessuno, la borghesia ha cambiato registro. E' tutto il contrario quello che oggi promette, gridando ben chiaro che il peggio é di fronte a noi e che lei non c'entra per niente, che "la colpa é degli altri" e che non ci sono alternative ai sacrifici. Così la borghesia, nel momento in cui perde le sue illusioni, é obbligata a parlare chiaro alla classe operaia sul futuro che le riserva.
(...) Se la borghesia non ha altro da proporre che un avvenire di guerra generalizzata, le lotte che oggi si sviluppano dimostrano che il proletariato non ha nessuna intenzione di lasciarle le mani libere e che LUI ha un altro avvenire da proporre, un avvenire senza guerra e senza sfruttamento: il comunismo. Nel decennio che sta per aprirsi é dunque questa l'alternativa che sarà decisa: o la classe operaia continua nella sua offensiva, continua a paralizzare il braccio assassino del capitalismo agonizzante e raccoglie le sue forze per la sua distruzione, o si lascia ingannare, indebolire, demoralizzare dalla sua demagogia e dalla sua repressione ed in questo caso la via sarebbe aperta per un nuovo olocausto che rischia di annientare l'umanità stessa. Se gli anni 70 furono, sia per la borghesia che per il proletariato, gli anni delle illusioni, gli anni 80 saranno gli anni della verità, perchè la realtà della società attuale apparirà in tutta la sua crudezza e perchè vi si deciderà in buona parte il destino dell'umanità." (4).
Come dice la CWO, noi abbiamo mantenuto quest'analisi per tutti gli anni 80, e ciascuno dei Congressi Internazionali tenuti in quegli anni é stato un'occasione per riaffermarne la validità
"All'inizio degli anni 80 abbiamo analizzato il decennio che cominciava come "gli anni della verità" (...) Dopo tre anni questa analisi si trova ad essere pienamente confermata: mai, dagli anni 30, il vicolo cieco in cui si trova l'economia capitalista si era mostrato con tanta evidenza; mai, dall'ultima guerra mondiale, la borghesia aveva schierato simili arsenali militari, aveva mobilitato simili risorse per la produzione di strumenti di morte; mai, dagli anni 20, il proletariato aveva condotto lotte paragonabili per ampiezza a quelle che hanno scosso la Polonia e l'insieme della classe dominante nel 1980-81 (...)." ( 5).
Cionostante in quello stesso Congresso sottolineavamo il fatto che il proletariato mondiale aveva subito una disfatta molto grave, concretizzatasi con l'instaurazione dello stato di assedio in Polonia:
"Mentre gli anni 1978-80 erano stati marcati da una ripresa mondiale delle lotte operaie (sciopero dei minatori americani, dei portuali di Rotterdam, degli operai della siderurgia in Gran Bretagna, degli operai della metallurgia in Germania ed in Brasile, scontri di Longwy-Denain in Francia, sciopero di massa in Polonia), gli anni 1981 ed 82 hanno visto un riflusso marcato delle lotte. Questo fenomeno é apparso in modo particolarmente chiaro nel paese culla del capitalismo, la Gran Bretagna, dove le ore sciopero sono scese nel 1981 al livello più basso dalla seconda guerra mondiale, mentre nel 1979 erano arrivate al livello più alto mai raggiunto nella storia, con 29 milioni di giornate lavorative perse. Dunque, l'instaurazione dello stato di assedio in Polonia e la violenta repressione abbattutasi sugli operai di quel paese non arrivavano come un fulmine a ciel sereno. Il colpo di stato del dicembre 1983, punto focale della disfatta operaia dopo le grandi lotte del dicembre 1980, era parte di una generale sconfitta dell'insieme del proletariato (...). Quale che sia la gravità della sconfitta subita dalla classe in questi anni, essa non rimette in discussione il corso storico, nella misura in cui:
-non sono i battaglioni decisivi del proletariato che si sono trovati nella prima linea dello scontro;
-la crisi che sta cominciando a colpire frontalmente le metropoli del capitalismo obbligherà il proletariato di queste metropoli ad esprimere le sue riserve di combattività che non sono state finora messe decisamente in campo."
Sono bastati tre mesi perchè questa previsione si avverasse. A partire da settembre 1983 in Belgio e subito dopo in Olanda i lavoratori del settore pubblico entravano massicciamente in lotta (6). Questi movimenti non erano esplosioni isolate. In qualche mese gli scioperi si erano estesi alla maggior parte dei paesi avanzati: Germania, Gran Bretagna, Francia, Stati-Uniti, Svezia, Spagna, Italia, Giappone (7). Raramente si era vista una tale simultaneità internazionale negli scontri di classe, mentre la borghesia dei vari paesi organizzava un black-out pressocché totale su questi movimenti. Ovviamente la borghesia non si é limitata al silenzio, ma ha organizzato tutta una serie di campagne e manovre, principalmente da parte dei sindacati, destinate a scoraggiare i lavoratori, a sparpagliare le loro lotte, a bloccarle nei vicoli ciechi settoriali e corporativi. Questo ha portato nel corso del 1985 ad un certo riflusso nei principali paesi europei, in particolare in quelli che avevano visto le lotte più importanti. Allo stesso tempo queste manovre hanno ulteriormente esposto al discredito i sindacati, costituendo un fattore importante nella presa di coscienza del proletariato, dato che i sindacati sono i suoi nemici più pericolosi, quelli che hanno il compito di sabotare dall'interno le sue lotte.
"E' per queso insieme di ragioni che l'attuale sviluppo della sfiducia nei confronti dei sindacati costituisce un dato essenziale del rapporto di forze tra le classi e dunque di tutta la situazione storica. Ciononostante, questa sfiducia é essa stessa responsabile, nell'immediato, della riduzione del numero delle lotte nei vari paesi ed in particolare in quelli in cui il discredito dei sindacati é particolarmente forte (come in Francia, in seguito all'arrivo non previsto della sinistra al potere nel 1981). Quando per decenni gli operai hanno avuto l'illusione che le lotte si potessero fare solo all'interno dei sindacati e con il loro appoggio, la sfiducia in questi organi si associa nell'immediato ad una perdita di fiducia nella propria forza e li spinge ad opporre la passività a tutti i cosidetti "appelli alla lotta" dei sindacati" (8). Le lotte estremamente importanti che si sarebbero presto sviluppate in due paesi dove la combattività era stata molto bassa nel 1985, la Francia (in particolare lo sciopero dei ferrovieri nel dicembre1986) e l'Italia nel 1987 (in particolare nel settore della scuola, ma anche nei trasporti) dimostravano che l'ondata di lotte nata in Belgio nel 1983 non si era ancora esaurita. Ad ulteriore conferma di questa realtà giungeva, proprio in questo paese, un movimento di scioperi durato sei settimane (aprile-maggio 1986), il più importante dal dopoguerra ad oggi, che, coinvolgendo il settore pubblico, quello privato, ed i disoccupati, arrivava a paralizzare la vita economica del paese, costringendo il governo a rimangiarsi una serie di attacchi già preparati. Nel corso dello stesso periodo (1986-87) si sono sviluppati movimenti importanti nei paesi scandinavi (Finlandia e Norvegia agli inizi dell'86, Svezia in autunno), negli Stati Uniti (estate 86), in Brasile (un milione e mezzo di scioperanti nell'ottobre 86, lotte massiccie nell'aprile-maggio 87), in Grecia (due milioni di scioperanti nel gennaio 87), in Jugoslavia (primavera 87), in Spagna (primavera 87), In Messico, in Africa del Sud, etc. Va ancora ricordato lo sciopero spontaneo, al di fuori dei sindacati, dei 140.000 lavoratori della British Telecom alla fine del gennaio 87.
Ovviamente la borghesia non è stata con le mani in mano, ma cercava di stornare l'attenzione dei lavoratori con gigantesche campagne ideologiche sul "terrorismo islamico", sulla "pace" tra le grandi potenze (firma degli accordi di riduzione degli armamenti nucleari), sull'aspirazione dei popoli alla "libertà" ed alla "democrazia" (riflettori puntati sulla perestroika di Gorbaciov), sull’ecologia, sugli interventi “umanitari” nel terzo mondo, etc. (9). In particolare si cercava di controbilanciare il discredito crescente dei sindacati "classici", mettendo avanti nuove forme di sindacalismo (di "lotta", di "base", etc.). Uno degli aspetti più significativi di queste manovre (spesso animate dai gruppi extraparlamentari, ma a volte anche dai sindacalisti, e dai partiti tradizionali della sinistra, stalinisti e socialdemocratici) è stata la costituzione dei "Coordinamenti" nei due paesi in cui il discredito sindacale era più marcato, l'Italia (in particolare fra i macchinisti delle
ferrovie) e la Francia (in primo luogo nell'importante sciopero degli ospedali nell'autunno 1988) (10). Una delle funzioni di queste organizzazioni, che si presentavano come "emanazione della base" e "contro i sindacati" era di introdurre il veleno corporativo nelle file proletarie, sostenendo che i sindacati non difendevano gli interessi operai perché erano organizzati per aree geografiche, anziché "alla base" per mestieri.
Queste manovre hanno avuto un certo impatto che all'epoca non abbiamo mancato di riconoscere: "Questa capacità di manovra della borghesia è per il momento riuscita a bloccare il processo di estensione ed unificazione di cui l'attuale ondata di lotte è portatrice." (11) Fra le altre difficoltà della classe sottolineavamo: "il peso della decomposizione ideologica circostante, su cui si appoggiano e si appoggeranno sempre di più le manovre borghesi miranti a rafforzare l'atomizzazione, il "ciascuno per se" ed a erodere alla base la crescente fiducia della classe operaia nella propria forza e nell'avvenire insito nelle sue lotte." (ibidem). Mettevamo tuttavia in guardia che se "il fenomeno della decomposizione ha oggi e per tutto un periodo a venire un peso considerevole" e se "costituisce un pericolo reale con cui la classe deve fare i conti (...) questa constatazione non deve costituire in nessun modo un elemento di demoralizzazione o di scetticismo" poiché "per tutti gli anni 80 é stato malgrado il peso della decomposizione, sfruttato sistematicamente dalla borghesia, che il proletariato è stato capace di sviluppare le sue lotte di fronte alle conseguenze dell'aggravarsi della crisi..." (12).
Questa è l'analisi che noi facevamo qualche mese prima di uno degli avvenimenti più importanti del dopoguerra, il crollo dell'URSS e degli altri regimi stalinisti europei.
La CCI non aveva previsto quest'avvenimento (così come non l'avevano previsto le altre organizzazioni proletarie, per non parlare degli "esperti" borghesi), ma è stata fra i primi, nel settembre 89, due mesi prima del crollo del muro di Berlino, a comprendere di cosa si trattava (13). Da quel momento in poi abbiamo definito il crollo del blocco dell'Est come l'episodio finora più significativo della decomposizione del capitalismo. E ne abbiamo tratto la immediata conclusione che quest'avvenimento avrebbe provocato "un aumento delle difficoltà per il proletariato" (14). Così, coerentemente con le nostre precedenti analisi, scrivevamo:
"L'identificazione sistematicamente ribadita tra comunismo e stalinismo, le menzogne ripetute mille volte, ed oggi ancora più martellanti, sul fatto che la rivoluzione proletaria non può che portare alla catastrofe, avranno per tutto un periodo maggiori possibilità di penetrare fra le file operaie, grazie al crollo dello stalinismo. Dobbiamo dunque aspettarci (...) un passo indietro temporaneo della coscienza proletaria. In particolare, l'ideologia riformista peserà con forza sulle prossime lotte, favorendo notevolmente l'azione dei sindacati. Tenuto conto dell'importanza dei fenomeni storici che l'hanno determinato, l'attuale passo indietro del proletariato, pur non rimettendo in causa il corso storico, la prospettiva generale allo scontro di classe, si annuncia ben più grave di quello seguito alla sconfitta operaia nel 1981 in Polonia." (15).
E' dunque con non poca leggerezza che la CWO afferma che il crollo dello stalinismo "ha permesso alla CCI di sfuggire con delle contorsioni alle conseguenze della sua prospettiva sugli 'anni della verità' ". Non è stato per “parare il colpo” e mascherare il fallimento delle nostre prospettive sullo sviluppo delle lotte durante gli anni 80 che abbiamo annunciato che gli avvenimenti dell'89 avrebbero causato un arretramento della classe proletaria. Come abbiamo dimostrato nei paragrafi precedenti questa tesi non è apparsa improvvisamente, come un coniglio estratto a sorpresa da un cappello, ma è in completa coerenza con il nostro quadro di analisi. Se gli anni 80 si sono chiusi con un avvenimento che ha prodotto un arretramento molto pesante per la classe operaia, questo non significava affatto che l'analisi storica della CCI era fallimentare, come sostiene la CWO.
In primo luogo, per fare una simile affermazione non ci si può basare sul presentarsi di avvenimenti storicamente originali, che nessuno era stato in grado di prevedere (anche se il marxismo, una volta verificatisi, è perfettamente in grado di spiegarli). D'altra parte, i rivoluzionari dell'800 avevano forse previsto uno degli avvenimenti chiave del secolo, la Comune di Parigi? Lenin, quando diceva ai giovani operai svizzeri: "Noi, i vecchi, forse non vedremo le lotte decisive della rivoluzione imminente" ("Rapporto sulla rivoluzione del 1905", gennaio 1917), aveva forse previsto quello che sarebbe accaduto qualche settimana più tardi, la rivoluzione di Febbraio 1917 in Russia, preludio all'Ottobre rosso? In ogni caso, quello che i marxisti debbono saper fare è di reagire rapidamente di fronte agli avvenimenti imprevisti e di saperne tirare le conseguenze e le lezioni. E' quello che Marx aveva fatto con la Comune prima ancora che fosse schiacciata dalla repressione ("La guerra civile in Francia"). E' quello che Lenin è stato capace di fare all'annuncio della rivoluzione di Febbraio ("Lettere da lontano" e "Tesi di Aprile"). Per quanto ci riguarda, abbiamo messo in evidenza fin dall'estate dell'89 il terremoto che gli eventi dell'Est avrebbero provocato, tanto dal punto di vista dei rapporti interimperialisti che dello sviluppo della lotta di classe.
Precisato questo, dobbiamo ancora chiarire che questo terremoto non ha rimesso in causa la nostra analisi di fine 1979: "Gli anni 80 ,(...) poiché vi si deciderà per buona parte il futuro dell'umanità, saranno gli anni della verità." In effetti, è stato proprio in questo periodo che si è decisa una parte della prospettiva storica. All'inizio degli anni 80, la borghesia, in particolare quella occidentale, mentre sviluppava in modo massiccio i suoi armamenti, aveva lanciato tutta una serie di campagne miranti a sottomettere la classe operaia allo staffile del capitale, per poterla inquadrare in vista di una nuova guerra mondiale. Per fare ciò, ha tentato di utilizzare la disfatta degli operai polacchi nel 1981, che aveva il doppio pregio di disorientare gli operai e permettere un'accresciuta campagna propagandistica contro "l'impero del male" (Reagan dixit). L'ondata di lotte cominciata nel 1983 ha fatto fallire questo obiettivo, dimostrando che la classe operaia dei paesi centrali non era pronta a lasciarsi inquadrare per il massacro, non più di quanto lo fosse negli anni 70.
Inoltre, il fatto che la borghesia non sia riuscita ad imporre la sua soluzione alla crisi, la guerra imperialista, mentre il proletariato non era ancora pronto a proporre la sua prospettiva rivoluzionaria, ha fatto sprofondare la società capitalista nella sua fase di decomposizione (16), una delle cui principali manifestazioni è stato per l'appunto il crollo dei regimi stalinisti che ha reso momentaneamente impossibile una nuova guerra mondiale. Infine, gli anni 80, con il crollo del blocco dell'Est e tutte le sue conseguenze, si sono conclusi -in modo imprevisto- con la messa a nudo della verità del capitalismo decadente: un caos indescrivibile, una barbarie senza nome che non fa che aggravarsi ogni giorno che passa.
La cecità della C.W.O. e del B.I.P.R.
Come abbiamo potuto vedere, la tesi della CWO sul "fallimento delle prospettive della CCI" non resiste alla prova dei fatti e delle nostre stesse analisi. In effetti, se c'è stata un'organizzazione completamente cieca rispetto a quello che succedeva negli anni 80, non è stata la CCI, ma la CWO (ed il BIPR). Un'organizzazione capace di de-scrivere le lotte di classe di quel periodo in questi termini:
"... a partire dal 1976, la classe dominante, utilizzando principalmente sindacati e socialdemocrazia, è stata nuova-mente capace di restaurare di nuovo la pace sociale. Si è trattato di una pace sociale punteggiata di grandi lotte ope--raie (Polonia 1980-81, portuali belgi nel 1983 e lo sciopero dei minatori britannici nell'84-85). Cionostante, non ci sono state ondate internazionali di scioperi, come nel 1968-74, e questi movimenti si sono chiusi con un arretramento ancora più accentuato di fronte agli attacchi del capitale." (17).
Si rimane stupefatti davanti a simili affermazioni. Tanto per fare un esempio, di tutte le lotte dell'83 in Belgio, la CWO non menziona che quella dei portuali, passando sotto silenzio l'intero settore pubblico. Le lotte della primavera 1986 in questo stesso paese, ancora più importanti (un milione di operai mobilitati per più di un mese in un paese che conta meno di dieci milioni di abitanti) per la CWO non sono proprio esistite. Si potrebbe pensare che questa apparente cecità della CWO derivi dal fatto che, al pari della sua organizzazione sorella, Battaglia Comunista, non è presente in Belgio ed è stata dunque, assieme alla maggioranza del proletariato mondiale, vittima del black-out internazionale organizzato dalla borghesia per nascondere le lotte che vi si sono svolte. Ma, se la scusa è questa, è una scusa fino ad un certo punto: una organizzazione rivoluzionaria non può accontentarsi, per analizzare la situazione della lotta di classe, delle informazioni lasciate filtrare sui giornali borghesi dei paesi dove è presente. Laddove possibile, può utilizzare quello che viene riportato dalla stampa di altre organizzazioni rivoluzionarie, nel caso particolare, la nostra stampa, che ha ampiamente riferito questi avvenimenti. Ma è proprio qui che risiede il problema: non è la CCI che deve fare i conti con "le contraddizioni evidenti fra le sue prospettive e la realtà capitalista", non è la CCI che "ha tentato per anni di ignorare la realtà" per non riconoscere i propri sbagli, ma piuttosto la stessa CWO. La migliore prova di quanto affermiamo sta nel fatto che anche quando parla delle "grandi lotte operaie" che "hanno punteggiato la pace sociale" nel paese dove essa stessa è presente, la Gran Bretagna, la CWO non parla che della lotta dei minatori del 1984-85, passando completamente sotto silenzio le formidabili mobilitazioni del 1979, le più importanti in quel paese da mezzo secolo a questa parte. Analogamente, non parla proprio della lotta estremamente significativa sviluppatasi per tutto l'87 nel settore della scuola in Italia, nonostante la sua organizzazione sorella, Battaglia Comunista, vi avesse partecipato attivamente.
Come si spiega la cecità della CWO, la sua incapacità a vedere, o piuttosto la sua capacità di cercare di non vedere la realtà? E' la stessa CWO a rispondere (attribuendo questo atteggiamento alla CCI): perché questa realtà ha smentito le sue prospettive. In particolare la CWO, e tutto il BIPR, non ha mai compreso la questione del corso storico.
Il BIPR ed il corso storico
La CCI, e la Revue Internationale hanno già dedicato una serie di articoli di dibattito con il BIPR sulla questione del corso storico (18). Non è qui possibile riprendere tutti gli argomenti che abbiamo utilizzato per criticare l'assenza di metodo con cui il BIPR affronta la caratterizzazione della fase storica in cui situare le lotte operaie del nostro tempo. In poche parole possiamo dire che il BIPR rigetta la nozione stessa di corso storico così come è stata elaborata in particolare negli anni '30 dalla Frazione di Sinistra del Partito Comunista d'Italia. E' perché aveva compreso che il corso alla guerra ed il corso allo scontro di classe non sono paralleli, ma si escludono a vicenda, che la Frazione è stata capace di prevedere, in periodo di profonda controrivoluzione, l'ineluttabilità della 2° guerra mondiale, nel momento in cui il capitalismo conosceva un'altra crisi aperta, dopo quella del '29.
Per il BIPR: "il ciclo di accumulazione cominciato dopo la seconda guerra mondiale si avvicina alla sua conclusione. Il boom del dopoguerra ha da molto tempo lasciato il posto ad una generale crisi economica. La questione della guerra imperialista o della rivoluzione proletaria è nuovamente posta all'ordine del giorno della storia." (Piattaforma del BIPR del 1994) Allo stesso tempo, si riconosce oggi (ma non in quegli anni) che c'è stata una "risposta operaia, massiccia ed a scala internazionale, agli attacchi della crisi capitalista, alla fine degli anni '60 ed all'inizio degli anni '70" ("Prospettive della CWO", Revolutionary Perspectives n.5). Cionostante, il BIPR si è sempre rifiutato di ammettere che se il capitalismo non si è buttato in una nuova guerra mondiale a partire dalla fine degli anni '60, questo è stato essenzialmente perché la risposta della classe operaia ha dimostrato che non era pronta, contrariamente agli anni '30, a lasciarsi intruppare per un nuovo massacro. Così, per rispondere alla domanda: "perché la guerra non è ancora scoppiata", mentre "a livello obbiettivo sono presenti tutte le condizioni necessarie per l'esplosione di una nuova guerra generalizzata", la rivista teorica di Battaglia Comunista, Prometeo n.11 (dicembre 1987), comincia con l'affermare che "è chiaro che nessuna guerra potrà mai essere combattuta senza la disponibilità (al combattimento ed alla produzione di guerra) del proletariato e di tutte le classi lavoratrici. E' evidente che, senza un proletariato irregimentato, nessuna guerra sarebbe possibile. E' altrettanto evidente che un proletariato in piena fase di ripresa della lotta di classe sarebbe la dimostrazione del nascere di una controtendenza precisa, quella della marcia verso la rivoluzione socialista." E' esattamente in questo modo che anche la CCI pone il problema, ma è proprio questo metodo che è criticato in un altro articolo pubblicato in Battaglia Comunista n.83 (marzo 1987), ripreso poi in inglese nel n.5 dell'organo del BIPR, Communist Review, ed intitolato "La CCI ed il corso storico: un metodo erroneo". In questo articolo si può leggere, tra le altre cose, "la forma della guerra, i suoi mezzi tecnici, il suo ritmo, le sue caratteristiche rispetto all'insieme della popolazione, sono molto cambiate rispetto al 1939. In particolare, la guerra di oggi richiede meno il consenso o la passività della classe operaia di quanto non lo richiedessero le guerre di ieri (......) ci si può impegnare in azioni di guerra senza l'accordo del proletariato". A questo punto, comprenda chi può. O piuttosto si capisce che il BIPR non capisce bene di cosa sta parlando. Quello che è sicuro è che la coerenza non è la sua principale preoccupazione.
Una conferma ulteriore di questi zig-zag sta nell'atteggiamento tenuto dal BIPR di fronte alla crisi che avrebbe portato alla guerra del Golfo, agli inizi del 1991. Nella versione inglese di un appello adottato dal BIPR in quell'occasione (la versione inglese, perché quella italiana è differente!) si poteva leggere: "Dobbiamo combattere tutti i piani ed i preparativi di guerra (del nostro Stato)... Tutti i tentativi di inviare nuove forze devono essere ostacolati, per esempio con scioperi nei porti e negli aereoporti... chiamiamo gli operai inglesi dell'industria petrolifera del mare del Nord a sviluppare la loro lotta ed a impedire ai padroni di incrementare la produzione. Questo sciopero deve essere esteso per includere tutti gli operai del petrolio e tutti gli altri lavoratori." (Workers Voice n.53) Se è vero che "ci si può impegnare in azioni di guerra senza l'accordo del proletariato", questi appelli che senso hanno? La CWO vuol essere tanto cortese da spiegarcelo?
Per ritornare all'articolo di Prometeo n.11, quello che comincia con il porre la questione negli stessi termini della CCI, possiamo leggervi: "La tendenza alla guerra avanza a passo rapido ma il livello della lotta di classe, invece, è assolutamente al disotto di quello che sarebbe necessario per respingere i pesanti attacchi lanciati contro il proletariato internazionale ". Dunque per il BIPR non è il livello attuale della lotta di classe quello che permette di rispondere alla sua stessa domanda: "perché la guerra non è ancora scoppiata?".
Le risposte che esso avanza sono sostanzialmente due:
-le alleanze militari non si sono ancora sufficientemente costituite e stabilizzate;
-gli armamenti atomici costituiscono un fattore di dissuasione per la borghesia a causa della minaccia che essi rappresentano per la sopravvivenza stessa dell'umanità." (19).
Nella Revue Internationale n. 54 abbiamo lungamente risposto a questi "argomenti". Ci contenteremo qui di ricordare che il secondo argomento costituisce una concessione, inaudita per dei marxisti, alle campagne della borghesia sul tema dell'armamento atomico come garante della pace mondiale. Quanto al primo argomento, è stato refutato dal BIPR stesso, quando scriveva, al momento dell'esplosione della guerra del Golfo: "la terza guerra mondiale è cominciata il 17 gennaio " (Battaglia Comunista del gennaio '91), e questo nel momento stesso in cui si sfasciavano le alleanze che avevano dominato il pianeta per mezzo secolo. Bisogna peraltro segnalare che il BIPR ha successivamente lasciato cadere questa analisi dell'imminenza della guerra. Per esempio, le prospettive della CWO ci dicono oggi che "una guerra su grande scala tra le potenze imperialiste dominanti è stata rinviata nel tempo". Il problema è che il BIPR ha la pessima abitudine di allineare una a fianco all'altra analisi contraddittorie. E' vero che così facendo si mette al sicuro da critiche come quella che fa alla CCI, di aver mantenuto la stessa analisi per tutti gli anni '80. Ma che questo sia un segno di superiorità del metodo o delle prospettive del BIPR è ancora tutto da dimostrare.
La CWO ci accuserà probabilmente di nuovo di ricorrere alle menzogne, come ha già fatto abbondantemente nell'articolo a cui rispondiamo. E forse si rifugerà sotto il grande ombrello della "dialettica" per affermare che tutto quello che essa (o il BIPR) dice, non è assolutamente contraddittorio. Con il BIPR, la "dialettica" ha un significato molto largo: nel metodo marxista, per contro, "dialettica" non ha mai significato che si può affermare una cosa ed il suo esatto contrario.
"Falsificazioni!", già ci pare di sentire le grida dei compagni della CWO. Diamo allora un'altro esempio, non su una questione secondaria ed occasionale (su cui le contraddizioni sono più facilmente scusabili) ma su una questione essenziale: la controrivoluzione abbattutasi sulla classe operaia in seguito alla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra, è finita si o no?
Si potrebbe supporre che il BIPR, se non è capace di dare una risposta chiara e coerente sulla questione del corso storico -visto che la comprensione di questo argomento sembra essere al di là delle sue forze (20)- sia almeno in grado di rispondere a questa semplice domanda. Ma la risposta non la troviamo né nella Piattaforma del BIPR del 1994, né nelle "Prospettive" della CWO del dicembre 1996, dove pure sarebbe essenziale trovarla. Ciò detto, delle risposte possono essere trovate in altri testi:
-nell'articolo di Revolutionary Perspectives n.5 citato prima, la CWO sembra affermare che la controrivoluzione non è ancora terminata, dato che rigetta l'idea della CCI per cui "Maggio '68 ha messo fine alla controrivoluzione";
-questa affermazione sembra essere in continuità con le tesi adottate dal 5° Congresso di Battaglia Comunista del 1982 (vedi Prometeo n.7), anche se le cose non sono dette con la stessa chiarezza: "se oggi il proletariato, confrontato alla gravità della crisi e sotto la pressione dei ripetuti attacchi borghesi, non ha ancora mostrato la capacità di reagire, questo significa semplicemente che il lungo lavoro della controrivoluzione mondiale è ancora attiva nelle coscienze operaie”
Se ci limita a questi due testi potrebbe sembrare che esista una certa costanza nella posizione del BIPR: il proletariato non è ancora uscito dalla controrivoluzione. Il problema è che nel 1987 si poteva leggere in "La CCI ed i corso storico: un metodo sbagliato" (Communist Review n.5): "il periodo controrivoluzionario seguito alla sconfitta della rivoluzione di Ottobre è finito" e "non mancano i segni di una ripresa della lotta di classe e noi non manchiamo di segnalarli."
Così, anche su una questione così semplice, non esiste una posizione del BIPR, ma diverse posizioni. Cercando di riassumere quello che esce dai differenti testi pubblicati dalle organizzazioni che costituiscono il BIPR, potremmo esprimere in questi termini la sua analisi:
-"I movimenti che si sono sviluppati nel 68 in Francia, nel 69 in Italia e poi in molti altri paesi, sono essenzialmente delle rivolte piccolo-borghesi" (posizione di Battaglia a quell'epoca), pur costituendo "una risposta operaia massiccia a scala internazionale agli attacchi della crisi capitalista" (CWO nel dicembre 1996);
-"Il lungo lavoro della controrivoluzione è ancora all'opera nelle coscienze operaie" (BC nel 1982), tuttavia "il periodo controrivoluzionario seguito alla sconfitta della rivoluzione di Ottobre è finito" (BC nel 1987), il che non impedisce che il periodo attuale sia senza dubbio "una continuazione del dominio capitalista che ha regnato, solo con sporadiche contestazioni, dalla fine dell’ondata rivoluzionaria seguita alla prima guerra mondiale" (la CWO, in una lettera inviata nel 1988 al CBG e pubblicata nel n.13 del suo Bulletin);
-"a partire dal 1976 (e fino ad oggi, ndr) la classe dominante ... è stata capace di restaurare un'altra volta la pace sociale" (la CWO, dicembre 1996), anche se "queste lotte (il movimento dei Cobas nel 1987 nel settore scuola in Italia e gli scioperi in Gran Bretagna dello stesso anno, ndr) confermano l’inizio di un periodo caratterizzato dall'accentuazione dei conflitti di classe." (BC n.3, marzo 1988).
Uno sarebbe portato a pensare che queste diverse prese di posizione contraddittorie corrispondano a delle divergenze esistenti tra la CWO e BC. Ma, se c'è una cosa che assolutamente non bisogna dire, è proprio questa, perché si tratta di una “calunnia” della CCI, che è invitata a "farla finita" con questa storia ("Sette, menzogne e la prospettiva perduta della CCI", nota 1). Dato che non esistono disaccordi tra le due organizzazioni, bisogna allora concludere che è nella testa di ogni singolo militante del BIPR che coabitano queste posizioni contraddittorie. A noi sembra un pochino strano, ma la CWO è così gentile da confermarcelo.
Cercando di essere seri, questo intrico di contraddizioni non spinge a riflettere i militanti del BIPR? Si tratta di compagni che hanno dimostrato di essere capaci di analisi coerenti. Come è possibile che quando tentano di sviluppare la loro analisi sul periodo attuale si ritrovano con un tale minestrone? Non è forse l'inadeguatezza del quadro di analisi prescelto a costringerli a prendersi delle libertà con il rigore marxista, in nome della "dialettica", fino a scivolare nell'empirismo e nell'immediatismo, come abbiamo messo in evidenza in altri articoli?
Esiste in effetti una causa supplementare alle difficoltà che il BIPR incontra nel situare in modo chiaro e coerente lo stato attuale della lotta di classe: un'analisi confusa della questione sindacale, che non gli ha permesso di comprendere, tanto per fare un esempio, tutta l'importanza del processo di crescente discredito sindacale nel corso degli anni '80. Su questo aspetto torneremo in un prossimo articolo.
Per il momento, ci limitiamo a rispondere alla CWO: non è a causa delle sue analisi sul periodo storico attuale e sul livello della lotta di classe che la CCI ha conosciuto la crisi di cui abbiamo parlato nella nostra stampa. Per una organizzazione rivoluzionaria possono esistere, contraria-mente a quanto pensa la CWO, che fa sempre la stessa diagnosi dal 1981, altri fattori di crisi, in particolare quelli legati alle questioni organizzative. E' ciò che ci insegna, fra tanti altri esempi, la crisi del Partito Operaio Social-democratico Russo in seguito al 2° Congresso del 1903. Ciononostante, ci permettiamo di mettere fraternamente in guardia la CWO (ed il BIPR): se un'analisi erronea della situazione storica costituisce per essa la sola, o anche la principale causa di crisi organizzativa (può darsi che questo sia il caso nella sua esperienza), allora è il caso che stia molto attenta, perché con la montagna di incoerenze che infesta la sua analisi corre di sicuro un pericolo non lieve.
Non è certamente questo quello che ci auguriamo. Il nostro augurio più sincero è che la CWO ed il BIPR rompano una volta e per sempre con il loro empirismo ed il loro immediatismo e facciano proprie le migliori tradizioni della Sinistra Comunista e del marxismo.
Fabienne
1. Vedi in particolare il nostro articolo sull'11 Congresso della CCI su Rivista Internazionale n. 19
2. Ibidem
3. Va comunque ricordato alla CWO che, volendo affrontare la questione delle nostre difficoltà, sarebbe preferibile cominciare da un'analisi seria della spiegazione avanzata dalla nostra organizzazione piuttosto che dai propri postulati. L'analisi della CCI sulla propria crisi organizzativa è stata pubblicata sulla sua stampa e se la CWO pensa di saperne più di noi su questa crisi deve almeno dimostrare (sempre che le sia possibile) in cosa quest'analisi sia falsa o inadeguata.
4. Révue Internationale n.20, "Anni 80, anni della verità", dicembre 1979.
5. 5° Congresso della CCI, 1983, Révue Internationale n.35
6. Vedi a questo proposito il nostro articolo "Belgio-Olanda, crisi e lotta di classe", Révue Internationale n.38.
7. Per un ricapitolo delle caratteristiche e dell'ampiezza di queste lotte, vedi "Simultaneità degli scioperi operai: quali prospettive?", Révue Internationale n.38.
8. "Risoluzione sulla situazione internazionale" adottata dal 6° Congreso della CCI, Révue Internationale n.44.
9. Vedi a questo proposito il nostro articolo "Le manovre borghesi contro l'unificazione della lotta di classe", Révue Internationale n.58.
10. Vedi in merito il nostro articolo "Francia, i "coordinamenti" all'avanguardia del sabotaggio delle lotte", Révue Internationale n.56.
11. "Risoluzione sulla situazione internazionale" dell'8° Congresso della CCI, Révue Internationale n.59.
12. "Presentazione della risoluzione sulla situazione internazionale", Révue Internationale n.59.
13. Vedi le "tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est", nella Rivista Internazionale n.13.
14. Titolo di un articolo del novembre 1989 nella Révue Internationale n.60.
15. "Tesi", punto 22. Nonostante noi avessimo annunciato già nel novembre 1989 il riflusso che si sarebbe manife-stato nella coscienza di classe, riflusso che è stato am-piamente confermato dagli eventi e che noi abbiamo rego-larmente sottolineato nella nostra stampa, la CWO si per-mette di scrivere, nella risposta ad un lettore, "La CCI conti-nua a credere, contro ogni evidenza, che questo sia un periodo di alta coscienza di classe. Tutto quello che i rivolu-zionari debbono fare è smascherare i sindacati agli occhi degli operai e la via alla rivoluzione sarà aperta." Quando si falsifica la posizione dell'avversario o se ne fa una carica-tura, è ovviamente più facile confutarla, ma tutto questo non fa avanzare di un millimetro il dibattito.
16. Per una presentazione organica della nostra analisi della decomposizione, vedi "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo", Rivista Internazionale n. 14.
17. "Prospettive Generali della CWO" adottate dalla riunione generale di questa organizzazione nel dicembre 1996, Revolutionary Perspectives n.5.
18. Revue Internationale nn.36, 41, 50, 54, 55, 59, 72.
19. Per chiarire il concetto Battaglia arriva a scrivere: "La battuta 'la guerra sarà dichiarata il giorno dopo la firma dell'accordo sul non impiego delle armi nucleari' è ormai un classico fra di noi, ed ha tutto il sapore della verità" (BC n.4, aprile 1986). Come se la borghesia fosse una classe dedita al "fair play" e soprattutto rispettosa dei pezzi di carta che firma!
20. Sembra proprio questa la constatazione fatta nell'articolo "La CCI ed il corso storico: un metodo sbaglia-to", dove si rigetta ogni possibilità di definire il corso storico: "Per quello che riguarda il problema postoci dalla CCI, di improvvisarci profeti infallibili del futuro, la difficoltà è che la soggetività non segue meccanicamente i movimenti ogget-tivi.... Nessuno può pensare che la maturazione della coscienza.... possa essere determinata in modo rigido a partire da dati osservabili e messi in una relazione razio-nale." Ovviamente, noi non pretendiamo che i rivoluzionari siano "profeti infallibili del futuro " o che "determinino la co-scienza in maniera rigida". Ci basta, molto banalmente, che rispondano alla seguente domanda: "le lotte che si sono sviluppate dopo il 1968 erano o no un segno del fatto che il proletariato non era pronto a farsi arruolare in un nuovo massacro mondiale?" Alterando la formulazione della nostra domanda, il BIPR dimostra o di non averla com-presa o di essere incapace di rispondervi.
Nella costante lotta che conducono contro il marxismo, i professori borghesi hanno come argomento favorito l’idea che esso sarebbe una pseudo-scienza, dello stesso tipo della frenologia o altre ciarlatanerie del genere. L’esposizione più elaborata di questa tesi si trova nel libro di Karl Popper, The Open Society and its ennemies (La società liberale e i suoi nemici), che è una giustificazione classica del liberalismo e... della guerra fredda. Secondo Popper il marxismo non è una scienza della società dato che non si possono nè verificare nè confutare le sue affermazioni attraverso l’esperienza pratica, condizione indispensabile per ogni vera investigazione scientifica.
Il marxismo, comunque, non ha la pretesa di essere una “scienza” dello stesso tipo delle scienze naturali. Esso riconosce che i rapporti sociali umani non possono essere sottomessi a un esame preciso e controllato come avviene per i processi fisici, chimici e biologici. Quello che esso afferma è che in quanto visione mondiale di una classe sfruttata che non ha nessun interesse nè a nascondere nè a travestire la realtà sociale, esso è il solo capacce di applicare il metodo scientifico allo studio della società e della evoluzione storica. E’ chiaro che non si può esaminare la storia nelle condizioni ideali di un laboratorio, non si possono verificare le previsioni di una critica sociale rivoluzionaria con degli esperimenti ripetuti e accuratamente controllati. Ma anche tenendo conto di ciò, è sempre possibile fare delle estrapolazioni a partire dal movimento passato e presente dei processi storici, economici e sociali, e disegnare a grandi tratti il movimento futuro. E se c’è qualcosa che colpisce nel gigantesco concatenarsi di eventi storici inaugurati dalla prima guerra mondiale è precisamente il fatto che esso costituisce una verifica delle previsioni del marxismo nel laboratorio vivente dell’azione sociale.
Una premessa fondamentale del materialismo storico è il fatto che, come tutte le precedenti società di classe, anche il capitalismo avrebbe raggiunto una fase in cui i suoi rapporti di produzione, da condizione di sviluppo delle forze produttive, si sarebbero trasformati in ostacolo, sprofondando l’insieme della sovrastruttura giuridica e politica della società nella crisi, aprendo un’epoca di rivoluzione sociale. I fondatori del marxismo hanno quindi analizzato in profondità le contraddizioni della struttura capitalista, le sue basi economiche, che avrebbero trascinato il sistema nella sua crisi storica. Questa analisi era inevitabilmente generale e non poteva arrivare a delle previsioni precise circa la data della crisi rivoluzionaria. Malgrado questo, anche Marx ed Engels sono stati a volte vittime della loro impazienza rivoluzionaria e hanno annunciato in maniera affrettata il declino generale del sistema e quindi l’imminenza della rivoluzione. D’altra parte la forma che avrebbe preso questa crisi storica non era molto chiara. Avrebbe preso la forma di depressioni economiche cicliche come quelle che avevano segnato il periodo ascendente o una forma più vasta e senza possibilità di ritorno? Anche qui non si poteva avanzare che una prospettiva generale. Nondimeno, a partire dal Manifesto dei Comunisti, viene annunciato il dilemma essenziale a cui era confrontata l’umanità: socialismo o ritorno alla barbarie, emergenza di una forma superiore di rapporti umani o scatenamento di tutte le tendenze distruttrici insite nel capitalismo - quello che il Manifesto chiama “la rovina comune delle classi in lotta”.
Tuttavia verso la fine del 19° secolo, con l’entrata del capitalismo nella sua fase imperialista, una fase di militarismo sfrenato e di competizione acuta per la conquista delle zone extra-capitaliste che restavano sul pianeta, il disastro a cui il capitalismo conduceva l’umanità ha cominciato ad apparire chiaramente, non sotto forma di una vasta depressione economica ma sotto quella di una catastrofe militare su grande scala: la guerra globale come competizione economica sotto altra forma, ma sviluppando sempre più la propria folle dinamica, distruggendo tutta la civilizzazione con i suoi congegni mortali. Da qui la rimarchevole “profezia” di Engels nel 1887:
“Per la Prussia tedesca non è più possibile altro tipo di guerra che una guerra mondiale, una guerra di una estensione e di una violenza sconosciute finora. Otto o dieci milioni di soldati si massacreranno reciprocamente, e ciò facendo divoreranno tutta l’Europa fino a che l’avranno spogliata e messa a nudo come uno sciame di cavallette non potrebbe mai fare. Le devastazioni della guerra dei Trenta anni, concentrate in tre o quattro anni ed estese all’intero continente: la fame, la peste, la caduta generale nella barbarie degli eserciti e della massa delle popolazioni; il caos senza speranza del sistema artificiale del commercio, dell’industria e del credito, che porterà alla bancarotta generalizzata; il crollo dei vecchi Stati e della saggezza tradizionale della loro classe dirigente al punto che le corone crolleranno a dozzine e non ci sarà nessuno a raccoglierle; l’impossibilità assoluta di poter prevedere come tutto ciò potrebbe finire e chi uscirebbe vincitore dalla battaglia; un solo risultato è assolutamente certo: la rovina generale e lo stabilirsi delle condizioni della vittoria finale del proletariato.
E’ questa la prospettiva, quando il sistema di moltiplicazione generalizzata degli armamenti, spinto fino all’estremo, finisce per portare i suoi inevitabili frutti. Ecco, miei signori, principi, uomini di Stato, ecco dove, nella vostra saggezza, avete portato la vecchia Europa. E quando non vi resterà altro da fare che ingaggiare l’ultima grande danza guerriera, ciò ci andrà molto bene. La guerra può forse portarci temporaneamente all’indietro, essa può toglierci qualche posizione che abbiamo già conquistato. Ma quando delle forze che voi non potete controllare si saranno liberate, le cose andranno come andranno: alla fine della tragedia, voi sarete rovinati e la vittoria del proletariato avrà avuto luogo o sarà in ogni caso inevitabile”.
Le frazioni rivoluzionarie che nel 1914 hanno tenuto fede ai principi internazionalisti di fronte alla guerra, avevano buone ragioni per ricordarsi di queste parole di Engels. Nella sua Juniusbroshure Rosa luxemburg non fece che aggiornarle:
“Frederik Engels disse un giorno: ‘La società borghese è posta davanti a un dilemma o pasaggio al socialismo o ricaduta nella barbarie’. Ma che significa dunque una ‘ricaduta nella barbarie’ al livello della civilizzazione che noi conosciamo oggi in Europa? Finora noi abbiamo letto queste parole senza rifletterci su e le abbiamo ripetute senza sentirne la terribile gravità. Gettiamo un colpo d’occhio intorno a noi in questo momento e capiremo cosa significa ricaduta della società borghese nella barbarie. Il trionfo dell’imperialismo sbocca nell’annullamento della civilizzazione - sporadicamente durante il tempo di una guerra moderna, definitivamente se il periodo delle gguerre mondiali che comincia ora dovesse proseguire senza ostacoli fino alle sue estreme conseguenze. E’ esattamente quello che aveva predetto Engels quaranta anni fa. Noi siamo posti oggi di fronte a due scelte: o il trionfo dell’imperialismo e la decadenza di ogni civilizzazione,, con la conseguenza, come fu per Roma antica, lo spopolamento, la desolazione, la degenerazione, un grande cimitero; oppure vittoria del socialismo, cioè della lotta cosciente del proletariato internazionale contro l’imperialismo e contro il suo metodo d’azione, la guerra. Si tratta di un dilemma per la storia del mondo, un ‘o l’uno o l’altro’ ancora incerto, i cui piatti sono bilanciati davanti alla decisione del proletariato cosciente (...) L’avvenire dell’umanità è in gioco.”
Rosa Luxemburg aggiunge alle previsioni di Engels che se il proletariato non si sbarazza del capitalismo, la guerra imperialista non sarà che la prima di una serie di conflitti globali sempre più devastanti che finiranno per minacciare la sopravvivenza stessa dell’umanità. E questo è stato infatti il dramma del XX secolo, la prova più evidente di quello che diceva Lenin: “il capitalismo ha smesso di crescere. Esso è diventato il freno più reazionario allo sviluppo umano”.
Ma se la guerra del 1914 ha confermato questo aspetto dell’alternativa storica - la decadenza del sistema capitalista, la sua caduta nella regressione - la rivoluzione russa e l’ondata rivoluzionaria internazionale che la seguì hanno confermato con altrettanta chiarezza l’altro aspetto: secondo i termini del manifesto del I Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1919, l’epoca della disintegrazione capitalista è anche l’epoca della rivoluzione comunista; e la classe operaia è la sola forza sociale che possa mettere fine alla barbarie capitalista e inaugurare una nuova società.
Le terribili privazioni della guerra imperialista e la disintegrazione del regime zarista trascinarono tutta la società russa in un turbine sociale. Ma nel seno di una rivolta di una immensa popolazione composta in maggioranza di operai e di contadini in uniforme, fu la classe operaia dei centri urbani che creò i nuovi organi rivoluzionari di lotta - i soviet, i comitati di fabbrica, le guardie rosse - che sono serviti da modello al resto della popolazione, che hanno fatto avanzare il più rapidamente possibile la coscienza politica (a cui corrispose la crescita spettacolare del partito bolscevico) e che, ad ogni tappa del processo rivoluzionario, agirono da elemento determinante nel corso degli avvenimenti: nel rovesciamento del regime zarista in febbraio, smascherando i piani della controrivoluzione in settembre, portando avanti l’insurrezione in ottobre. Ancora, fu la classe operaia in Germania, Ungheria, Italia e sull’intero globo che, attraverso i suoi scioperi e lotte, mise fine alla guerra e minacciò l’esistenza stessa del capitale mondiale.
Se le masse proletarie hanno realizzato questi movimenti rivoluzionari non è perché erano intossicate da qualche visione mistica, o perché erano state manipolate da un pugno di cospiratori machiavellici, ma perché attraverso la loro lotta pratica, i loro dibattiti e le loro discussioni, esse videro che le parole d’ordine e il programma dei marxisti rivoluzionari corrispondevano ai loro interessi e bisogni di classe.
Tre anni dopo l’apertura dell’epoca della rivoluzione proletaria, la classe operaia ha fatto la rivoluzione, ha preso il potere in un paese e ha sfidato l’ordine capitalista nel mondo intero. Lo spettro del “bolscevismo”, del potere sovietico, dell’ammutinamento contro la macchina di guerra imperialista ha fatto cadere corone e ha spaventato dappertutto la classe dominante. Durante tre anni e più sembrava che le previsioni di Engels si stessero confermando in tutti i loro aspetti: la barbarie della guerra assicurava la vittoria del proletariato. Evidentemente, come i professori della borghesia non hanno cessato di ripeterci, “alla fine è fallita”. Ed aggiungono che non poteva che finire così, perché il progetto grandioso di liquidare il capitalismo e di creare una società a misura d’uomo è del tutto contrario alla “natura umana”. Ma la classe dominante dell’epoca non se ne è stata ad aspettare che la “natura umana” facesse il suo corso. Per esorcizzare lo spettro della rivoluzione mondiale essa si è data la mano su tutto il pianeta per mettere assieme le sue forze controrivoluzionarie, attraverso l’intervento militare contro la repubblica sovietica, con la provocazione e il massacro degli operai rivoluzionari, da Berlino a Shangai. E quasi senza alcuna eccezione sono stati i difensori del liberalismo e della socialdemocrazia, i Kerensky, i Noske e i Wodroow Wilson, quelli che la maggioranza dei professori presentano come i portatori di una alternativa più razionale e realizzabile di fronte ai sogni impossibili del marxismo, ad essere i dirigenti e gli organizzatori delle forze della controrivoluzione.
La fisica quantistica del XX secolo ha riconosciuto come una necessità una premessa fondamentale della dialettica: non si può osservare la realtà dall’esterno. L’osservatore influenza il processo che egli osserva. Il marxismo non ha mai preteso di essere una “scienza” neutra “della società”, perché esso prende parte al processo sociale e, ciò facendo, si definisce come una forza che accelera e trasforma il processo. Gli accademici borghesi si dicono imparziali e neutrali, ma quando essi commentano la realtà sociale il loro punto di vista partigiano si rivela pienamente. La differenza con i marxisti è che questi ultimi fanno parte del movimento verso una società libera, mentre i professori che criticano il marxismo finiscono sempre per fare l’apologia delle forze più feroci della reazione sociale e politica.
Il proletariato e la questione del potere
Da storico e generale com’era nel 19° secolo, il programma comunista è diventato molto preciso. Nel 1917 la questione bruciante era quella del potere politico, della dittatura del proletariato. Ed è il proletariato russo che ha risolto il problema, sia dal punto di vista pratico che teorico, con “ Stato e rivoluzione – La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione” scritto da Lenin nell’agosto-settembre 1917.
Come abbiamo mostrato in un articolo precedente (vedi Révue Internationale n. 90), l’esperienza diretta della classe operaia e l’analisi di questa esperienza da parte delle minoranze marxiste avevano già, prima della guerra e dell’ondata rivoluzionaria, gettato le basi essenziali per risolvere il problema dello Stato nella rivoluzione proletaria. La Comune di Parigi del 1871 aveva già condotto Marx ed Engels alla conclusione che il proletariato non poteva semplicemente “impadronirsi” del vecchio Stato borghese, ma doveva distruggerlo e sostituirlo con nuovi organi del potere. Gli scioperi di massa del 1905 avevano dimostrato che i soviet dei deputati operai costituivano la forma del potere rivoluzionario più appropriata alla nuova epoca storica che si apriva. Pannekoek nella sua polemica con Kautsky aveva riaffermato che la rivoluzione non poteva che essere il risultato di un movimento di massa che paralizzi e disintegri il potere dello Stato della borghesia.
Ma il peso dell’opportunismo nel movimento operaio prima della guerra era troppo grande per essere spazzato via, anche con le polemiche più violente. Quello che la Comune aveva insegnato era stato già dimenticato nei decenni di parlamentarismo e di legalismo, del riformismo crescente nel partito e nei sindacati. In più l’abbandono della visione rivoluzionaria di Marx ed Engels non colpiva solo i revisionisti aperti tipo Bernstein. Attraverso il lavoro di correnti tipo quella intorno a Kautsky il feticismo parlamentare e la teorizzazione di una via pacifica, "democratica" al socialismo erano presentati come l’interpretazione più intelligente del “marxismo ortodosso”. In questa situazione solo quando le posizioni della sinistra della II Internazionale hanno potuto fondersi con il vasto movimento delle masse l’amnesia proletaria sulla sua propria storia ha potuto essere superata. Questo non sminuisce affatto l’intervento “teorico” dei rivoluzionari su questa questione, al contrario. Quando la teoria rivoluzionaria si impadronisce delle masse e diventa una forza materiale, la sua chiarificazione e la sua diffusione diventano più urgenti e decisive che mai.
In un articolo sulla Révue Internationale n. 89 la CCI ha ricordato l’importanza vitale dell’intervento teorico e politico delle Tesi di aprile di Lenin che mostravano al partito e all’insieme della classe operaia come uscire dalle nebbie della confusione creata da menscevichi, socialisti rivoluzionari e tutte le forze del compromesso e del tradimento. Al centro della posizione di Lenin, nell’aprile, si trova l’insistenza sul fatto che la rivoluzione russa non poteva concepirsi che come parte della rivoluzione socialista mondiale. Di conseguenza, il proletariato doveva proseguire la sua lotta contro la repubblica parlamentare – presentata dagli opportunisti e dalla sinistra borghese come la più grande acquisizione delle rivoluzione – e che il proletariato non doveva limitarsi a lottare per una repubblica parlamentare, ma per il trasferimento del potere ai soviet, per la dittatura del proletariato in alleanza con i contadini poveri.
Da parte loro gli oppositori politici di Lenin, soprattutto quelli che si nascondevano sotto la coperta dell’ortodossia marxista, hanno immediatamente accusato Lenin di anarchismo, di cercare di occupare il trono vacante di Bakunin. Questa offensiva ideologica dell’opportunismo richiedeva una risposta, una riaffermazione dell’ABC del marxismo, ma anche un approfondimento alla luce dell’esperienza storica recente. Stato e rivoluzione ha risposto a questa esigenza, fornendo allo stesso tempo una delle più notevoli dimostrazioni del metodo marxista, della profonda interazione tra la teoria e la pratica. Lenin aveva già scritto, dieci anni prima, che “non c’è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”. Costretto a rientrare nella clandestinità e a nascondersi nel territorio finlandese a causa della repressione seguita alle giornate di luglio, Lenin ha visto la necessità di tuffarsi a fondo nei classici del marxismo, nella storia del movimento operaio al fine di chiarificare i fini immediati di un movimento di massa immensamente pratico.
Stato e rivoluzione costituisce una continuazione e una chiarificazione della teoria marxista. Ma ciò non ha impedito alla borghesia (a cui gli anarchici, come d’abitudine, fanno spesso eco) di dire che questo libro che insiste sul potere dei soviet e della distruzione di ogni burocrazia era il prodotto di una conversione temporanea di Lenin all’anarchia. E lo hanno detto da diversi angoli. Uno storico di estrema sinistra “simpatico” come Liebman per esempio (Leninism under Lenin, Londra 1975) parla di Stato e rivoluzione come del lavoro di un Lenin “libertario”, cercando di far credere che quel libro esprime un entusiasmo di breve durata di Lenin per il potenziale creativo delle masse nel 1917-18, in opposizione al Lenin “più autoritario” del 1902-1903, che avrebbe rigettato la spontaneità delle masse e difeso l’idea di un partito di stile giacobino agente come stato maggiore di queste. Ma la capacità di Lenin di rispondere al movimento spontaneo, alla creatività delle masse, anche correggendo alla luce dell’esperienza le sue proprie esagerazioni, non si limita al 1917. Essa si era già chiaramente manifestata nel 1905 (vedere l’articolo in merito sulla Révue Internationale n. 90). Nel 1917 Lenin era convinto che la rivoluzione proletaria era all’ordine del giorno e perciò non si fece legare le mani dalla teoria della “rivoluzione democratica” in Russia. E’ questo che lo ha condotto a contare ancora di più sulla lotta autonoma della classe operaia; ma si trattava di uno sviluppo delle sue posizioni precedenti e non di una improvvisa conversione all’anarchia.
Altre interpretazioni, più apertamente ostili, del libro Stato e rivoluzione lo considerano come facente parte di un trucco machiavellico per far si che le masse si allineassero ai progetti dei bolscevichi di fare un colpo di stato e di stabilire la dittatura del partito. Gli anarchici e i consiliaristi sono pieni di argomenti di questo tipo. Non ci interessa qui confutarli nei dettagli. Questo rientra più nella nostra difesa d’insieme della rivoluzione russa e dell’insurrezione di Ottobre. Quello che si può dire è che la difesa intransigente da parte di Lenin dei principi marxisti sulla questione dello Stato, a partire dal suo ritorno dall’esilio in aprile, lo mise in estrema minoranza. E non c’era nessuna garanzia che la sua posizione avrebbe conquistato le masse. In questa visione il machiavellismo di Lenin avrebbe avuto qualcosa di sovrumano, il che significa abbandonare il mondo della realtà per divagare sulle teorie cospirative.
Un altro punto di vista, disgraziatamente contenuta in un articolo pubblicato su Internationalism, la nostra pubblicazione negli Stati Uniti, più di venti anni fa, quando l’ideologia consiliarista aveva un peso considerevole sui nuovi gruppi rivoluzionari che sorgevano, consiste nel passare al setaccio Stato e rivoluzione per cercare la “prova” che il libro di Lenin, a differenza degli scritti di Marx sulla dittatura del proletariato, continua a costituire il punto di vista di un autoritario che non può concepire che gli operai si liberino essi stessi con le loro forze (vedi in Internationalism n. 3: “La dittatura del proletariato: Marx contro Lenin”).
Noi non cercheremo di evitare di parlare delle debolezze che esistono realmente in Stato e rivoluzione. Ma non arriveremo a creare una falsa opposizione tra Marx e Lenin, nè considereremo Stato e rivoluzione come un punto di contatto tra Lenin e Bakunin. Il libro di Lenin è in perfetta continuità con Marx ed Engels e tutta la tradizione marxista prima di lui; e la tradizione marxista che lo ha seguito ha, a sua volta, tirato molta forza e chiarezza da questo lavoro indispensabile.
Lo Stato, strumento del dominio di classe
Il primo obiettivo di Stato e rivoluzione è stato quello di confutare le concezioni degli opportunisti sulla natura fondamentale dello Stato. La tendenza opportunista nel movimento operaio, in particolare l’ala lassalliana della socialdemocrazia tedesca, si era basata per lungo tempo sull’idea che lo Stato è essenzialmente un organismo neutro che può essere usato altrettanto bene a beneficio della classe sfruttata come per difendere i privilegi degli sfruttatori. Molte delle battaglie teoriche condotte da Marx ed Engels rispetto al partito tedesco avevano per scopo di demolire l’idea di uno “Stato popolare”, mostrando come lo Stato, in quanto prodotto specifico della società di classe, è per essenza uno strumento della dominazione di una classe sulla società, e sulla classe sfruttata in particolare. Ma nel 1917 l’ideologia della Stato come uno strumento neutro di cui gli operai potevano appropriarsi aveva preso un abito “marxista”, in particolare nelle mani dei seguaci di Kautsky. E’ perciò che Stato e rivoluzione comincia e finisce con un attacco contro la distorsione opportunista del marxismo; all’inizio, con un passaggio giustamente celebre:
“La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale ‘trattamento’. Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, Si mette in primo piano e si esalta tutto ciò che è o pare accettabile alla borghesia. (...) Così stando le cose, e dato che le deformazioni del marxismo si sono diffuse in modo inaudito, compito nostro è, innanzitutto, ristabilire la vera dottrina di Marx sullo Stato.” (Stato e rivoluzione, cap. 1, Editori Riuniti)
A questo fine, Lenin procede ricordando il lavoro dei fondatori del marxismo, in particolare di Engels, sulle origini storiche dello Stato. Ma benché Lenin parli del suo lavoro come di uno scavo sotto le macerie dell’opportunismo, la sua ricerca è ben più di un interesse archeologico. Da Engels (L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato) apprendiamo che lo Stato sorge come prodotto degli antagonismi di classe inconciliabili e serve ad impedire che questi antagonismi facciano esplodere l’edificio sociale. Ma, per paura che si possa concludere che lo Stato sia una specie di arbitro sociale, Lenin, sulla scia di Engels, aggiunge subito che quando lo Stato mantiene la coesione sociale, lo fa nell’interesse della classe economicamente dominante. Esso appare dunque come un organo della repressione e dello sfruttamento per eccellenza.
Nel fuoco della rivoluzione russa questa questione “teorica” era di una importanza gigantesca. I menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che agivano sempre più come ala sinistra della borghesia, presentavano lo Stato che si era formato dopo la caduta dello zar nel febbraio 1917 come una specie di “Stato popolare”, come una espressione della “democrazia rivoluzionaria”. Gli operai avrebbero quindi dovuto subordinare i loro “egoistici” interessi di classe alla difesa di questo Stato che, con un po’ di lavoro di persuasione, avrebbe potuto sicuramente adattarsi ai bisogni di tutti gli oppressi. Demolendo le basi dell’idea di uno Stato “neutro”, Lenin preparava il terreno per il rovesciamento di questo Stato. Per sviluppare i suoi argomenti contro i sedicenti “democratici rivoluzionari”, Lenin ricorda le parole dense di significato di Engels sui limiti del suffragio universale:
“Bisogna ancora rilevare che Engels definisce in modo categorico il suffragio universale come uno strumento di dominio della borghesia. Il suffragio universale, egli dice, tenendo evidentemente conto della lunga esperienza della socialdemocrazia tedesca, è ‘la misura della maturità della classe operaia. Più non può nè potrà mai essere nello Stato odierno’”. I democratici piccolo-borghesi sul tipo dei nostri socialisti rivoluzionari e dei nostri menscevichi, come i loro fratelli, (...)aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa ‘di più’. Essi condividono e inculcano nel popolo la falsa concezione che il suffragio universale possa ‘nello Stato odierno’ esprimere realmente la volontà della maggioranza dei lavoratori e assicurarne la realizzazione”. (Ibidem)
Questo richiamo della natura borghese della versione più democratica dello “Stato odierno” era vitale nel 1917, nel momento in cui Lenin chiama a una forma di potere rivoluzionario che possa realmente esprimere i bisogni della classe operaia. Ma nel corso di questo secolo i rivoluzionari hanno dovuto ripetere lo stesso richiamo. Gli eredi più diretti dei riformisti socialdemocratici, i partiti laburisti e socialisti di oggi, hanno costruito l’insieme del loro programma (in difesa del capitale) sull’idea di uno Stato neutro, benevolo, che, impadronendosi delle principali industrie e dei servizi sociali, prenderebbe un carattere “pubblico” o addirittura “socialista”. Ma questa impostura è portata avanti anche da quelli che si dicono gli eredi di Lenin, gli stalinisti e i trotskysti, che non hanno mai smesso di difendere l’idea che le nazionalizzazioni e i servizi dello Stato sociale sarebbero delle conquiste operaie e costituirebbero altrettante tappe verso il socialismo, anche nello “Stato odierno”. Questi sedicenti “leninisti” sono tra gli avversari più accaniti della sostanza rivoluzionaria del lavoro di Lenin.
L’evoluzione della teoria marxista dello Stato
Poiché lo stato è uno strumento della dominazione di classe, un organo di violenza diretto contro la classe sfruttata, il proletariato non può contare su di esso per difendere i suoi interessi immediati, né utilizzarlo come strumento di costruzione del socialismo. Lenin mostra come il concetto marxista di estinzione dello Stato sia stato distorto dall’opportunismo per giustificare l’idea che la nuova società potesse nascere gradualmente, armoniosamente, tramite lo Stato esistente che si democratizzerebbe e si approprierebbe dei mezzi di produzione, “estinguendosi” man mano che si sarebbero stabilite le basi materiali del comunismo. Tornando di nuovo ad Engels, Lenin dimostra che quello che si estingue non è lo Stato borghese esistente, ma lo Stato che sorge dalla rivoluzione proletaria che è necessariamente una rivoluzione violenta avente per compito la “distruzione” del vecchio Stato borghese.
Evidentemente, sia Engels che Lenin rigettano l’idea anarchica secondo cui lo Stato può essere semplicemente abolito in una notte: in quanto prodotto di una società di classe, la sparizione finale di ogni forma di Stato non può aver luogo che dopo un periodo più o meno lungo di transizione. Ma lo Stato del periodo di transizione non è il vecchio Stato borghese. Questo è stato distrutto e rimpiazzato da una nuova forma di Stato, un semi-Stato che permette al proletariato di esercitare il suo dominio sulla società, ma che è già in un processo di “estinzione”. Per rafforzare ed approfondire questa posizione fondamentale del marxismo, Lenin continua esaminando l’esperienza storica reale dello “Stato e la rivoluzione” e lo sviluppo della teoria marxista in connessione con questa esperienza. E’ quello che Pannekoek, malgrado le sue capacità, ha trascurato di fare, trovandosi così più vulnerabile all’accusa opportunista di “anarchismo”.
Il punto di partenza di Lenin è quello degli inizi del movimento operaio, cioè il periodo che precede le rivoluzioni del 1848. Avendo riletto Il Manifesto Comunista e Miseria della filosofia, Lenin mette in evidenza i punti chiave di questi testi sulla questione dello Stato:
- la necessità per il proletariato di prendere il potere politico, di costituirsi in classe dominante, atto che è generalmente descritto come il risultato di una “guerra civile più o meno larvata” e del “rovesciamento violento della borghesia” (Manifesto);
- lo stato formato nella rivoluzione aprirà la strada a una società senza classi in cui non ci sarà bisogno di potere politico.
Riguardo la natura di questo “rovesciamento violento”, del rapporto esatto tra il proletariato rivoluzionario e lo Stato borghese esistente, non era evidentemente possibile essere precisi data l’assenza di esperienza storica concreta. Tuttavia Lenin sottolinea che “se il proletariato ha bisogno dello Stato in quanto organizzazione particolare della violenza contro la borghesia, ne scaturisce spontaneamente la conclusione: la creazione di una tale organizzazione è concepibile senza che sia prima annientata, distrutta la macchina dello Stato che la borghesia ha creato per sé? Il Manifesto comunista conduce direttamente a questa conclusione, ed è di questa conclusione che Marx parla quando fa il bilancio dell’esperienza della rivoluzione del 1848-51”. (Ibidem, cap. 2).
Lenin prosegue citando un passaggio chiave del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in cui Marx denuncia lo Stato come un “spaventoso corpo parassitario” e in cui sottolinea che prima della rivoluzione proletaria “tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla” (ibidem)
Come abbiamo ricordato nel nostro articolo sulla Révue Internationale n. 73, le rivoluzioni del 1848, pur ponendo per la prima volta la questione della “distruzione” dello Stato, hanno permesso ugualmente a Marx di avere qualche squarcio sulla maniera in cui, nel corso della lotta, il proletariato forma i suoi propri comitati indipendenti, i nuovi organi dell’autorità rivoluzionaria. Ma il contenuto proletario dei movimenti del 1848 era troppo debole, troppo immaturo per rispondere alla questione: “Cosa rimpiazzerà il vecchio apparato di Stato borghese?”. Lenin quindi prosegue sulla sola esperienza precedente di presa del potere da parte del proletariato, la Comune del 1871. Egli traccia in dettaglio le principali lezioni che Marx ed Engels hanno tirato dalla Comune:
- Innanzitutto, come dicono Marx ed Engels nella loro introduzione del 1872 al Manifesto Comunista: “La Comune ha in particolare dimostrato che la classe operaia non può contentarsi di prendere la macchina dello Stato così com’è e farla funzionare a suo proprio conto”. Il movimento rivoluzionario deve distruggere lo Stato borghese esistente e rimpiazzarlo con nuovi organi di potere. Nel bilancio della rivoluzione del 1848, questo punto di vista si rivela come un lampo luminoso di comprensione. Nella loro analisi della Comune di Parigi, esso era diventato già un punto programmatico. Per Marx ed Engels nel 1872 una tale lezione era tanto significativa da meritare una correzione del Manifesto Comunista.
- La Comune era la forma specifica di questo semi-Stato rivoluzionario, una nuova forma di potere politico che era già in un processo di estinzione.
Le sue caratteristiche più importanti erano:
a) l’abolizione dell’esercito permanente e l’armamento del popolo. La sua soppressione era necessaria, ma doveva essere fatta dalla maggioranza contro la vecchia minoranza sfruttatrice.
b) Impedire la nascita di una nuova burocrazia, i funzionari devono essere eletti e revocabili in ogni momento. Nessun funzionario dello Stato poteva essere pagato con un salario superiore alla media dei salari operai. Le masse dovevano supervisionare le funzioni statali e parteciparvi in maniera costante attraverso la democrazia diretta.
c) Superare il parlamentarismo borghese, da una parte rimpiazzando i rappresentanti (deputati eletti per quattro o cinque anni in circoscrizioni elettorali amorfe) con dei delegati (i deputati alla Comune potevano essere revocati in ogni momento da assemblee convocate in permanenza) e dall’altra con la fusione dell’esecutivo e del legislativo in un solo corpo. Anche qui Lenin ha applicato le lezioni del passato alle lotte presenti: la critica del parlamentarismo borghese, la difesa di una forma superiore di democrazia diretta costituivano anche un punto di polemica aspra contro i “parlamentari socialisti” della sua epoca, contro gli opportunisti che volevano tenere gli operai legati alla difesa dello Stato esistente.
d) La Comune è una forma di organizzazione centralizzata. Contrariamente alla visione anarchica che guarda all’indietro e rivendica il modello della Comune, questa non difendeva la dispersione dell’autorità in unità federali o locali. Pur permettendo la più grande iniziativa locale possibile, la Comune era la forma che cementava l’unità del proletariato a livello nazionale e internazionale.
Lenin non ha potuto prolungare il suo giro sull’orizzonte storico al di là della Comune. In origine aveva intenzione di scrivere un settimo capitolo di Stato e rivoluzione:
“Vedremo più avanti che le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 continuano, in una situazione differente, in altre condizioni, l’opera della Comune e confermano la geniale analisi storica di Marx” (Ibidem, cap. 3)
Ma l’accelerazione della storia gli ha tolto questa opportunità:
“Non ho avuto tempo di scrivere una sola riga di questo capitolo; ne fui ‘impedito’ dalla crisi politica, vigilia della rivoluzione d’ottobre 1917. Non c’è che da rallegrarsi di un tale impedimento. Ma la seconda parte di questo opuscolo (L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) dovrà certamente essere rinviata a molto più tardi; è più piacevole e più utile fare ‘l’esperienza di una rivoluzione’ che non scrivere su di essa).” (post-scriptum alla prima edizione di Stato e rivoluzione)
Nei fatti questa seconda parte non fu mai redatta. E’ sicuro che questo settimo capitolo avrebbe avuto un valore immenso. Ma Lenin aveva acquisito l’essenziale. La riaffermazione degli insegnamenti di Marx ed Engels sulla questione dello Stato costituivano una base sufficiente per un programma rivoluzionario nella misura in cui la questione primordiale era la necessità della distruzione dello stato borghese e l’instaurazione della dittatura del proletariato. Ma il lavoro di Lenin, come abbiamo già detto, non fu mai una semplice ripetizione. Ritornando sul passato, e con un fine militante, i marxisti fanno anche avanzare la loro visione teorica. In questo senso Stato e rivoluzione ha permesso due importanti chiarificazioni per il programma comunista. Innanzitutto esso ha identificato i soviet come i successori naturali della Comune, anche se questi organismi non sono citati che di passaggio. Lenin non ha potuto analizzare in profondità perché i soviet costituivano una forma di organizzazione superiore rispetto alla Comune. Forse avrebbe potuto farlo sviluppando il punto di vista di Trotsky che, nei suoi scritti del 1905, sottolinea in particolare che i soviet dei deputati operai, essendo basati sulle assemblee dei posti di lavoro, sono una forma di organizzazione più adatta ad assicurare l’autonomia di classe del proletariato (la Comune era basata su unità territoriale e non di lavoro, come riflesso di una situazione di minor sviluppo della concentrazione proletaria).
In effetti, alcuni scritti successivi di Lenin dimostrano che questa era la comprensione a cui era arrivato (1). Ma anche se Lenin non ha potuto esaminare più nei dettagli i soviet nel suo testo, non c’è dubbio che egli li considerava come gli organismi più appropriati per distruggere lo Stato borghese e formare la dittatura del proletariato. A partire dalle Tesi di aprile lo slogan “Tutto il potere ai soviet” era innanzitutto quello di Lenin e del partito bolscevico riformato.
In secondo luogo, Lenin è stato capace di fare delle chiare generalizzazioni sul problema dello Stato e della sua distruzione rivoluzionaria. Nella parte del suo testo in cui tratta delle rivoluzioni del 1848 Lenin poneva la questione:
“ci si chiederà forse se è giusto generalizzare l’esperienza, le osservazioni e le conclusioni di Marx e se le si può applicare al di là dei limiti della storia di Francia di questi tre anni 1848-51” (ibidem, cap. 2)
La formula “concentrazione di tutte le forze” della rivoluzione proletaria sulla “distruzione” dell’apparato di Stato era valida per tutti i paesi? La questione aveva sempre una importanza estrema nel 1917 perché, malgrado le lezioni che Marx ed Engels avevano tirato dalla Comune, essi avevano per lo meno lasciato molto spazio alla ambiguità circa la possibilità che il proletariato vinca pacificamente attraverso il processo elettorale in certi paesi, quelli che avevano le istituzioni parlamentari più sviluppate e un apparato militare poco importante. Come sottolinea Lenin, Marx citava la Gran Bretagna ma anche gli Stati Uniti e l’Olanda. Tuttavia, su questo, Lenin non ha avuto paura di correggere Marx e di andare fino in fondo nella sua posizione. Egli l’ha fatto utilizzando il metodo di Marx, ponendo la questione nel contesto storico giusto:
“L’imperialismo – epoca del capitale bancario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato – mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della macchina statale. L’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani.” (Ibidem cap. 2)
E il risultato è che:
“Attualmente, nel 1917, nell’epoca della prima grande guerra imperialista, questa riserva di Marx cade: l’Inghilterra e l’America, che erano, in tutto il mondo, le maggiori e le ultime rappresentanti della ‘libertà’ anglosassone per quanto riguarda l’assenza di militarismo e di burocrazia, sono precipitate nel lurido, sanguinoso pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi, in Inghilterra e in America, la ‘condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare’ è la rottura, la distruzione della ‘macchina statale già pronta’.” (Ibidem, cap. 3)
Per questo non ci potevano essere più eccezioni.
L’obiettivo principale di Stato e rivoluzione era l’oppor-tunismo che, come abbiamo visto, non ha esitato ad accusare Lenin di anarchismo, quando questo si è messo a insistere sulla necessità di distruggere l’apparato statale. Ma, come Lenin ha risposto:
“Per i socialdemocratici contemporanei la critica dell’anarchismo si riduce abitualmente a questa pura banalità piccolo-borghese: ‘noi ammettiamo lo Stato, gli anarchici no!’” (ibidem, cap. 4)
Dopo aver demolito questa stupidità, Lenin ricorda la vera critica marxista all’anarchismo, basandosi in particolare su quello che Engels diceva per rispondere alle assurdità degli “antiautoritari”: una rivoluzione è giustamente la cosa più autoritaria che possa esistere. Rigettare ogni autorità, ogni potere politico, significa rinunciare alla rivoluzione. Lenin fa con cura la distinzione tra la posizione marxista che offre una soluzione storica realizzabile al problema della subordinazione, delle divisioni tra dirigenti e diretti, tra Stato e società, e quella dell’anarchismo che non propone che dei sogni apocalittici di una sparizione immediata di tutti questi problemi, sogni che hanno, alla fine dei conti, il risultato più conservatore:
“Noi non siamo degli utopisti. Non ‘sogniamo’ di fare a meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni subordinazione, questi sono sogni anarchici, fondati sulla incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che nulla hanno a che vedere con il marxismo e che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di ‘sorveglianti’, né di ‘contabili’.
Ma bisogna subordinarsi all’avanguardia armata di tutti gli sfruttati e di tutti i lavoratori, al proletariato.” (Ibidem, cap. 3)
Contrariamente agli anarchici che pretendevano che l’estinzione dello Stato fosse il risultato di un atto di volontà rivoluzionario, il marxismo riconosce che una società senza Stato non può emergere che quando le radici economiche e sociali delle divisioni in classi siano state erose e sia stata aperta la via verso la costruzione di una società di abbondanza materiale. Sottolineando la base economica dell’estinzione Lenin torna ancora una volta ai classici, in particolare alla Critica del programma di Gotha di Marx, da cui prende i seguenti punti:
- la necessità di un periodo di transizione durante il quale il proletariato esercita la sua dittatura pur attirando, allo stesso tempo, la maggioranza della popolazione alla direzione politica ed economica della società;
- economicamente parlando, questa fase di transizione può essere descritta come la fase inferiore del comunismo. E’ la società comunista quale emerge dal capitalismo, ancora pesantemente marcata da molti dei difetti della vecchia società. Le forze produttive sono diventate proprietà comune, ma le condizioni dell’abbondanza ancora non esistono. Di conseguenza ci sono ancora diseguaglianze nella distribuzione. Il sistema dei buoni di lavoro impedisce l’accumulazione del capitale, ma esso riflette una situazione di disuguaglianza, perché alcuni possono lavorare più di altri, alcuni hanno bambini mentre altri no, e così via. Insomma, persiste quello che Marx chiama il “diritto borghese” in materia di distribuzione; e per poter proteggere il diritto borghese, deve ancora esistere qualche resto della “legge borghese”;
- lo sviluppo delle forze produttive permette di superare la divisione del lavoro e di instaurare un sistema di libera distribuzione: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. E’ la fase superiore del comunismo, una società di vera libertà. Lo Stato non ha più motivo di esistere e si estingue; l’estensione radicale della democrazia porta alla estinzione della democrazia reale, poiché la democrazia è essa stessa una forma di Stato. L’amministrazione delle persone è sostituita dall’amministrazione delle cose. Non si tratta di una utopia. Anche a un tale stadio, per un periodo indeterminato, gli eccessi individuali possono continuare, e dovranno essere impediti. “Ma, innanzitutto, per questo non c’è bisogno di una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle persone in rissa o non permette che venga usata della violenza contro una donna.” (Ibidem, cap. 5)
In breve, “…la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto un costume”. (Ibidem)
Quando Lenin scriveva Stato e rivoluzione, il mondo era sull’orlo di una rivoluzione comunista. La difesa delle posizioni di Marx sulle trasformazioni economiche non era una cosa astratta. La classe operaia era spinta allo scontro rivoluzionario da bisogni immediati e brucianti: il bisogno di pane e quello di finirla con il massacro imperialista. Ma l’avanguardia comunista non dubitava che la rivoluzione non si sarebbe fermata alla soluzione di queste questioni immediate. Essa doveva andare fino alla sua conclusione storica ultima: l’inaugurazione di una nuova fase della storia dell’umanità.
Abbiamo già segnalato che Stato e rivoluzione era un lavoro incompleto. Lenin non ha potuto fare degli sviluppi sul ruolo dei soviet come “forma infine trovata della dittatura del proletariato”. Ma anche se la sua opera non fosse stata interrotta dall’insurrezione di ottobre, essa non avrebbe potuto rappresentare che il punto più alto di chiarezza raggiunto prima della esperienza della rivoluzione.
La rivoluzione russa (e soprattutto la sua sconfitta) avrebbe portato molte lezioni sui problemi del periodo di transizione; perciò non possiamo rimproverare a Lenin di non aver risolto queste questioni prima che l’esperienza reale del proletariato non le ponesse concretamente. Torneremo su queste questioni in altri articoli; qui ci sembra utile accennare ai tre campi principali in cui l’esperienza successiva a Lenin ha rivelato le inevitabili lacune di Stato e rivoluzione.
Benchè Lenin abbia chiaramente difeso l’idea di una trasformazione comunista della economia – nozione sviluppata da Marx in opposizione alle tendenze “socialiste di Stato” presenti nel movimento operaio (2) – il suo lavoro soffre ancora di ambiguità circa il ruolo dello Stato durante la transizione economica. Abbiamo visto come queste ambiguità esistevano anche nel lavoro di Marx ed Engels. Ma durante il periodo della II Internazionale si pensava sempre più che la prima tappa sulla via del comunismo fosse la statizzazione della economia nazionale, che una economia completamente nazionalizzata non potesse essere una economia capitalista. In parecchi dei suoi scritti dell’epoca, pur denunciando i “trust capitalisti di Stato” che erano diventati la forma dell’organizzazione capitalista nella guerra imperialista, Lenin aveva la tendenza a considerare questi trust come degli strumenti neutri, come una sorta di trampolino verso il socialismo, come una forma di centralizzazione economica di cui il proletariato vittorioso potesse semplicemente impadronirsi in blocco. In un testo redatto nel settembre 1917, “I bolscevichi conserveranno il potere?”, Lenin è più esplicito:
“Il capitalismo ha creato degli apparati di controllo sotto forma di banche, di cartelli, servizio postale, cooperative di consumo, associazioni di impiegati. Senza le grandi banche il socialismo sarebbe irrealizzabile.
Le grandi banche costituiscono ‘l’apparato di Stato’ di cui abbiamo bisogno per realizzare il socialismo e che noi prenderemo già fatto al capitalismo …”
In Stato e rivoluzione Lenin esprime una idea simile quando scrive:
“Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai di un solo cartello di tutto il popolo, dello Stato.”
Evidentemente è giusto dire che la trasformazione comunista non comincia da zero – il suo punto di partenza inevitabile è costituito dalle forze produttive esistenti, dalle reti di trasporto, di distribuzione esistenti, ecc. Ma la storia ci ha insegnato che bisogna essere estremamente prudenti di fronte all’idea che ci si possa semplicemente impadronire degli organismi e delle istituzioni economiche creati dal capitale per i suoi bisogni, soprattutto quando si tratta di istituzioni fondamentali come le grandi banche. Più importante ancora, la rivoluzione russa e, in particolare la controrivoluzione staliniana, hanno mostrato che la semplice trasformazione dell’apparato produttivo in una proprietà dello Stato non elimina lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Questo è un errore che è presente in Stato e rivoluzione quando Lenin dice che nella prima fase del comunismo, "non sarà più possibile lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, perché non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc.” (ibidem, cap. 5)
Questa debolezza è aggravata dall’insistenza di Lenin sul fatto che c’è una “distinzione scientifica” da fare tra il socialismo e il comunismo (il primo essendo la fase inferiore del comunismo). In effetti Marx ed Engels non hanno mai veramente teorizzato una tale distinzione, e non è un caso se, nella Critica del programma di Gotha, Marx parla delle fasi inferiore e superiore del comunismo, perché egli voleva trasmettere l’idea di un movimento dinamico tra il capitalismo e il comunismo, non quella di un “terzo” modo di produzione fisso caratterizzato dalla “proprietà pubblica”. Infine, quando Lenin parla della transizione economica egli non è esplicito sul fatto che la dinamica verso il comunismo non può svilupparsi che a scala internazionale; questo apre la porta all’idea che almeno certe tappe della “costruzione socialista” possano essere realizzate in un solo paese.
La tragedia della rivoluzione russa costituisce una perfetta testimonianza del fatto che anche se si statalizza l’insieme dell’economia, anche se si ha il monopolio del commercio estero, le leggi del capitale globale continuano ad imporsi su un bastione proletario isolato. In assenza di estensione della rivoluzione mondiale, queste leggi sfideranno ogni tentativo di gettare le basi di una qualsiasi “costruzione socialista”, trasformando anche il vecchio bastione del proletariato in un nuovo e mostruoso “trust capitalista di Stato” in competizione sul mercato mondiale. Una tale mutazione non può non accompagnarsi ad una controrivoluzione politica che non lascerà nessuna traccia della dittatura del proletariato.
E’ stato notato che Lenin non dice granchè sul ruolo del partito nel suo libro. E’ forse questa una prova supplementare della sua temporanea conversione all’anarchismo nel 1917? Questione idiota! La chiarificazione teorica contenuta in Stato e rivoluzione costituisce essa stessa una preparazione del partito bolscevico al suo ruolo di dirigente diretto nella insurrezione di ottobre. Mediante la sua aspra polemica contro quelli che iniettano l’ideologia borghese nel proletariato esso è innanzitutto un documento politico “di partito” avente per scopo di allontanare gli operai da questa influenza e guadagnarli alle posizioni del partito rivoluzionario.
Tuttavia la questione esiste: alla vigilia dell’ondata rivoluzionaria mondiale, i rivoluzionari (e non solo i bolscevichi) come vedevano il rapporto tra il partito e la dittatura del proletariato? L’unico riferimento al partito nel testo di Lenin non ci dà una risposta chiara, perché la formulazione è ambigua:
“ Educando il partito operaio, il marxismo educa una avanguardia del proletariato, capace di prendere il potere e di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di organizzare il nuovo regime, d’essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell’organizzazione della loro vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia.” (ibidem, cap. 2)
E’ una ambiguità perché non si sa se è il partito in quanto tale che assume il potere o se è il proletariato, che Lenin definisce spesso come l’avanguardia di tutta la popolazione oppressa. Il testo I bolscevichi conserveranno il potere? è una guida migliore per capire quale è il livello di comprensione della questione. Già dal titolo si vede la confusione principale: i rivoluzionari dell’epoca, malgrado il loro impegno verso il sistema di rappresentanza dei soviet che aveva reso obsoleto il vecchio sistema parlamentare, erano ancora influenzati dall’ideologia parlamentare, al punto che pensavano che era il partito che, avendo la maggioranza nei soviet centrali, doveva formare il governo a amministrare lo Stato. In articoli successivi esamineremo più in dettaglio come questa concezione abbia implicato una identificazione fatale del partito con lo Stato e creato una situazione insopportabile che ha svuotato i soviet della loro vita proletaria, indirizzato il partito contro la classe, e soprattutto trasformato il partito, frazione più radicale della classe rivoluzionaria, in uno strumento della conservazione sociale.
Ma questa evoluzione non ha avuto luogo in maniera autonoma. Essa è innanzitutto il risultato dell’isolamento della rivoluzione e dello sviluppo materiale di una controrivoluzione interna. Nel 1917, l’insistenza di Lenin, in tutti i suoi scritti, non è sull’esercizio della dittatura da parte del partito, ma da parte dell’insieme del proletariato (e progressivamente da parte dell’insieme della popolazione) che prende in carico i suoi affari economici e politici, attraverso la sua esperienza pratica, i suoi dibattiti, le sue proprie organizzazioni di massa. Così, quando egli risponde positivamente alla questione: i bolscevichi conserveranno il potere?, è perché ha in mente l’idea che qualche centinaia di migliaia di bolscevichi faranno parte di uno sforzo ben più grande, lo sforzo di milioni di operai e contadini poveri che, dal primo giorno, impareranno a dirigere lo Stato per proprio conto. Dunque il vero potere non è nelle mani del partito, ma delle masse. Se le speranze originarie della rivoluzione fossero state realizzate, se la Russia non fosse caduta nella guerra civile, carestia ed embargo internazionale, le contraddizioni evidenti di questa posizione avrebbero potuto essere risolte, dimostrando che in un sistema autentico di delegati eletti e revocabili non ha nessun senso parlare di un partito che detiene il potere.
Nella Critica del programma di Gotha Marx descrive lo Stato di transizione come “nient’altro che la dittatura del proletariato”. Lenin riprende questa identificazione tra il potere della classe operaia e lo Stato di transizione in Stato e rivoluzione quando parla di uno “Stato proletario” o di uno “Stato degli operai in armi” ed egli sostiene teoricamente queste formulazioni definendo lo Stato come essendo formato essenzialmente di “corpi di uomini armati”. In breve, nel periodo di transizione lo Stato non rappresenta altro che gli operai in armi che spodestano la borghesia.
Come si vedrà in prossimi articoli, questa formulazione si è rivelata presto inadeguata. Lenin stesso ha detto che il proletariato aveva bisogno dello Stato non solo per sopprimere la resistenza degli sfruttatori, ma anche per condurre il resto della popolazione non sfruttatrice nella direzione socialista. E quest’ultima funzione, la necessità di integrare la popolazione essenzialmente contadina nel processo rivoluzionario, diede nascita a uno Stato che non era costituito solo da delegati operai dei soviet, ma anche da soviet di soldati e di contadini. Con l’apertura della guerra civile le milizie operaie armate, le Guardie rosse, non erano una forza adeguata per combattere la potenza della controrivoluzione. La principale forza armata dello Stato sovietico era ormai l’Armata rossa, formata nella sua maggioranza da contadini. Allo stesso tempo la necessità di combattere la sovversione e il sabotaggio interni diede nascita alla Ceca, forza di polizia speciale che progressivamente sfuggì al controllo dei soviet. Nelle settimane dell’insurrezione di ottobre lo Stato-Comune era diventato qualcosa di più che “gli operai in armi”. E soprattutto, con l’isolamento crescente della rivoluzione, il nuovo Stato era sempre più infestato dalla cancrena della burocrazia, che rispondeva sempre meno agli organi eletti dal proletariato e dai contadini poveri. Lungi dal cominciare ad estinguersi, il nuovo Stato cominciava ad invadere tutta la società. Lungi dal piegarsi alla volontà della classe rivoluzionaria, esso era diventato il punto centrale di una sorta di degenerazione e di controrivoluzione interne che non si erano mai viste prima.
Nel suo bilancio della controrivoluzione, la Sinistra comunista italiana doveva portare una attenzione particolare al problema dello Stato di transizione; una delle conclusioni a cui sono arrivati Bilan e Internationalisme in seguito alla rivoluzione russa è che non era più possibile identificare la dittatura del proletariato con lo Stato di transizione. Va comunque detto che anche se le formulazioni del movimento marxista prima della rivoluzione russa soffrivano di serie debolezze su questa questione, allo stesso tempo questa idea della non identificazione tra proletariato e Stato di transizione non è caduta dal cielo. Lenin era perfettamente cosciente della definizione di Engels sullo Stato di transizione come un “male necessario”. E nel suo libro c’è una forte insistenza sulla necessità che gli operai sottomettano tutti i funzionari dello Stato a una supervisione e a un controllo costante, in particolare gli elementi dello Stato che incarnano una certa continuità con il vecchio regime, tipo gli “esperti” tecnici e militari che i soviet erano costretti ad utilizzare.
Lenin sviluppa anche un fondamento teorico per questo atteggiamento di sana diffidenza del proletariato verso il nuovo Stato. Nella parte sulla trasformazione economica, egli spiega che, siccome il suo ruolo sarà di salvaguardare la situazione di “diritto borghese”, si può definire lo Stato di transizione come “lo Stato borghese senza la borghesia!” Anche se questa formulazione è più una provocazione e un appello alla riflessione piuttosto che una chiara definizione della natura di classe dello Stato di transizione, Lenin ha colto l’essenziale: poichè il compito dello Stato è quello di salvaguardare uno stato di cose che non è ancora comunista, lo Stato-Comune rivela la sua natura fondamentalmente conservatrice, che è quello che lo rende particolarmente vulnerabile alla dinamica della controrivoluzione. Queste percezioni sulla natura dello Stato dovevano permettere a Lenin di sviluppare certi punti di vista importanti sulla natura del processo di degenerazione. Per esempio, la sua posizione sui sindacati nel dibattito del 1921, quando egli riconosce la necessità per gli operai di mantenere degli organi di difesa anche contro lo Stato di transizione, o gli avvertimenti sulla crescita della burocrazia di Stato verso la fine della sua vita.
Il partito bolscevico ha dovuto soccombere a una morte insidiosa, ma le frazioni comuniste di sinistra avrebbero ripreso la bandiera della chiarificazione. Tuttavia non c’è alcun dubbio che gli sviluppi teorici più importanti che queste ultime hanno effettuato, hanno potuto essere realizzate prendendo come punto di partenza l’immenso contributo di Lenin in Stato e rivoluzione.
CDW
1. Vedere in particolare le “Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e la dittatura del proletariato”, scritte da Lenin e adottate dalla Internazionale Comunista al suo congresso di fondazione nel 1919. Tra gli altri punti, questo testo afferma che: “il potere dei soviet, cioè la dittatura del proletariato, è invece strutturato in modo da avvicinare le masse lavoratrici all’apparato amministrativo. A questo scopo tende anche l’unificazione del potere legislativo e del potere esecutivo nell’organizzazione sovietica dello Stato, e la sostituzione delle circoscrizioni elettorali territoriali con le unità elettorali fondate sui luoghi di produzione: fabbrica, officina, ecc.” (Tesi 16)
2. Vedere “Il comunismo contro il capitalismo di Stato” in Révue Internationale n. 79.
La crisi finanziaria, che si è manifestata da poco più di un anno nel sud-est asiatico, è attualmente in via di prendere la sua vera dimensione. Essa ha conosciuto una nuova impennata nel corso dell'estate, con il crollo dell'economia russa e con le convulsioni senza precedenti nei “paesi emergenti” dell'America latina. Ma sono ora le principali metropoli del capitalismo, i paesi più sviluppati d'Europa e d'America del nord, che si trovano in prima linea con una caduta continua dei loro indici borsistici e con previsioni di crescita continuamente riviste al ribasso. Siamo lontani dall'euforia che animava le borghesie ancora qualche mese fa, un’euforia che si rifletteva nella montata vertiginosa delle Borse occidentali durante tutti i primi mesi del 1998. Attualmente, gli stessi “specialisti” che si felicitavano della “buona salute” dei paesi anglosassoni e che prevedevano una ripresa in tutti i paesi europei non sono gli ultimi a parlare di recessione, anzi di “depressione”. Ed hanno ragione ad essere pessimisti. Le nuvole che attualmente si accumulano sulle più potenti economie non presagiscono una piccola burrasca. Annunciano, al contrario, una vera tempesta che manifesta l'impasse in cui si trova l'economia capitalista.
Teatro di un nuovo e brutale colpo d'acceleratore, l'estate del 1998 sarebbe stata mortale per la credibilità del sistema capitalista: approfondimento della crisi in Asia dove la recessione s'installa e raggiunge ora direttamente le due “grandi” che sono il Giappone e la Cina, situazione minacciosa in America latina, crollo spettacolare dell'economia russa e cadute che sfiorano i record storici sulle principali piazze borsistiche. In tre settimane, il rublo ha perduto il 70% del suo valore (da giugno del 1991, il PIB russo è caduto del 50% se non dell'80%). Il 31 agosto, il famoso “lunedì blu”, secondo l'espressione di un giornalista che non ha osato chiamarlo “nero”, ha visto l'indice di Wall Street cadere del 6,4% e quello del Nasdaq (l'indice dei valori tecnologici) dell'8,5%. All'indomani, I° settembre, anche le Borse europee erano colpite. Francoforte iniziava la mattinata con una perdita del 2% e Parigi del 3,5%. Nel corso della giornata, Madrid perdeva il 4,23%, Amsterdam 3,56% e Zurigo 2,15%. Per l'Asia, il 31 agosto, la Borsa di Hong Kong cadeva oltre il 7%, quanto a quella di Tokyo, essa precipitava, raggiungendo il livello più basso negli ultimi 12 anni. In seguito, il movimento al ribasso dei mercati borsistici non ha fatto che proseguire al punto tale che il lunedì 21 settembre la maggior parte degli indici erano ritornati ai livelli dell'inizio del 1998: +0,32% a New York, +5,09% a Francoforte ma saldo negativo a Londra, Zurigo, Amsterdam, Stoccolma…
L'accumularsi di tutti questi avvenimenti non è per niente dovuta al caso. Al contrario di quanto hanno voluto farci credere, essa non è per niente la manifestazione di una “crisi di sfiducia passeggera” verso i paesi detti “emergenti” o una “correzione meccanica salutare di un mercato sopravvalutato”, ma si tratta di un nuovo episodio che caratterizza la discesa agli inferi di tutto il capitalismo, una discesa agli inferi di cui il crollo dell'economia russa ci offre una sorta di caricatura.
La crisi in Russia
Per mesi, la borghesia mondiale e i suoi “esperti”, seriamente spaventati con la crisi finanziaria dei paesi del sud-est asiatico, si erano consolati costatando che essa non aveva trascinato nella sua scia gli altri paesi “emergenti”. I media avevano allora esagerato sulle caratteristiche “specifiche” delle difficoltà che assillavano la Tailandia, la Corea, l'Indonesia, ecc. E poi il campanello d'allarme si è fatto sentire di nuovo con il vero caos che si è impadronito dell'economia russa all'inizio dell'estate (1). La “comunità internazionale”, che aveva già fortemente contribuito nei confronti del sud-est asiatico, ha finito per dare un aiuto di 22,6 miliardi di dollari su 18 mesi, accompagnato, come al solito, da condizioni draconiane: riduzione drastica delle spese dello Stato, aumento delle imposte (particolarmente quelle che pesano sui salari, tanto per compensare l'impossibilità accertata dello Stato russo a ricoprire quelli dovuti alle imprese), innalzamento dei prezzi, aumento delle tasse sulle pensioni. Tutto ciò mentre le condizioni d’esistenza dei proletari russi erano già miserabili e quando la maggior parte degli impiegati statali e una buona parte di quelli delle imprese private non vedevano i propri salari da molti mesi. Una miseria che si traduce in maniera drammatica: da giugno 1991 si riconosce che la speranza di vita maschile si è ridotta da 69 a 58 anni; il tasso di natalità da 14,7‰ a 9,5‰.
Un mese più tardi, il risultato era là: i fondi stanziati si erano trasformati in pura perdita. Dopo una settimana nera che ha visto la Borsa di Mosca cadere vertiginosamente e messo centinaia di banche sull'orlo del fallimento, Eltsin ed il suo governo sono stati costretti, il 17 agosto, a mollare su ciò che era l'ultima difesa della loro credibilità: il rublo e la sua parità in rapporto al dollaro. Sulla prima parte di 4,8 miliardi di dollari versati in luglio come aiuto da parte del FMI, 3,8 erano stati inghiottiti, in vano, nella difesa del rublo. Quanto al miliardo restante, non era per niente servito alla messa in opera di misure di risanamento delle finanze dello Stato ed ancor meno a pagare gli arretrati del salario degli operai, per la buona ragione che anche quest'ultimo si era liquefatto nella sola funzione del debito (che divora più del 35% delle risorse del paese), cioè nel semplice pagamento degli interessi venuti a scadenza nello stesso periodo. Senza parlare dei fondi sottratti che vanno direttamente nelle tasche di questa o quella fazione di una borghesia "gangsterizzata". L'insuccesso di questa politica significa per la Russia che, oltre ai fallimenti a catena di banche (circa 1500 banche coinvolte), oltre alla caduta nella recessione e all'esplosione del suo debito estero trasformato in dollari, l'attende il ritorno dell'inflazione galoppante. Fin da ora si stima che questa potrebbe arrivare dal 200 al 300% in questo anno. E non è ancora tutto.
Questo marasma ha immediatamente provocato lo sbandamento del vertice statale russo, provocando una crisi politica. Questo dissesto della sfera dirigente russa, che la fa somigliare sempre di più a quella di una volgare repubblica delle banane, ha allarmato le borghesie occidentali. Ma la borghesia può ben preoccuparsi della sorte di Eltsin e soci, è innanzi tutto la popolazione russa e la classe operaia che pagano e vanno a pagare il prezzo più alto delle conseguenze di questa situazione. La caduta del rublo ha già rincarato di oltre il 50% il prezzo delle derrate alimentari importate che rappresentano più della metà di quelle consumate in Russia. La produzione è appena il 40% di quella che era prima della caduta del muro di Berlino…
Attualmente la realtà conferma in pieno ciò che dicevamo circa nove anni fa nelle “Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est”, redatte nel settembre del 1989: “Di fronte al fallimento totale dell'economia di questi paesi, la sola possibilità che ha quest'ultima non di accedere ad una reale competitività, ma di tenere almeno la testa fuori dall'acqua, sta nell'introduzione di meccanismi che permettano una reale responsabilizzazione dei suoi dirigenti. Questi meccanismi presuppongono una "liberalizzazione” dell'economia, la creazione di un mercato interno che veda una maggiore "autonomia" per le imprese e lo sviluppo di un forte settore "privato"(…) Tuttavia, anche se un tale programma diventa sempre più indispensabile, la sua attuazione comporta degli ostacoli praticamente insormontabili.” (Revue Internationale n°60)
Qualche mese dopo dicemmo: “(…) alcuni settori della borghesia rispondono che ci sarebbe bisogno di un nuovo "Piano Marshal" per consentire la ricostruzione del potenziale economico di questi paesi (…) oggi, un’iniezione massiva di capitali verso i paesi dell'Est che mira a sviluppare il loro potenziale economico, e in particolare industriale, non può essere possibile. Anche supponendo che si rimetta in piedi un tale potenziale produttivo, le merci prodotte non farebbero che ingombrare ancora di più un mercato mondiale già super saturo. E' quello che vediamo nei paesi che oggi escono dallo stalinismo come paesi sottosviluppati: tutta la politica di crediti massivi iniettati in questi ultimi nel corso degli anni 70 ed 80 non ha potuto portare che alla situazione catastrofica che ben si conosce (un debito di 1400 miliardi di dollari e delle economie ancora più devastate rispetto a prima). I paesi dell'Est (la cui economia si avvicina d'altra parte a quella dei paesi sottosviluppati per le evidenti somiglianze) non possono conoscere sorti differenti. (…) La sola cosa che è possibile aspettarsi, è l'invio di crediti o di aiuti urgenti che permettono a questi paesi di evitare una bancarotta finanziaria aperta e una miseria che non farebbe che aggravare le convulsioni che li scuotono.” (“Dopo il crollo del blocco dell'Est, destabilizzazione e caos”, Revue Internationale n°61).
Due anni dopo, scriviamo: “E' ancora per allentare un po’ la strozzatura finanziaria dell'ex URSS che il G7 ha accordato una proroga di un anno per il rimborso degli interessi del debito sovietico, il quale attualmente ammonta ad 80 miliardi di dollari. Ma ciò non sarà che un ulteriore rimedio inutile dato che i crediti assegnati sembrano scomparire in un pozzo senza fondo. Due anni fa era stata propagandata ogni sorte d'illusione sui "nuovi mercati" aperti con il crollo dei regimi stalinisti. Attualmente, nello stesso momento in cui la crisi economica mondiale si traduce, tra l'altro, in una crisi acuta di liquidità, le banche sono sempre più reticenti a piazzare i loro capitali in queste parti del mondo.” (Revue Internationale n° 68)
Così la realtà dei fatti è venuta a confermare, contro tutte le illusioni interessate della borghesia e dei suoi difensori, ciò che la teoria marxista ha permesso ai rivoluzionari di prevedere. L'oggi è una disgregazione totale, che sviluppa una miserie spaventosa e che incomincia a bussare alle stesse porte di ciò che appare ancora come la “fortezza Europa”.
Il tentativo dei media di far passare il messaggio che, caduto l'attuale vento di panico borsistico, le conseguenze per l'economia a livello internazionale sarebbero minime, non ha avuto molto successo. E ciò è normale perché la volontà dei capitalisti di farsi coraggio e soprattutto di nascondere alla classe operaia la gravità della crisi mondiale, si scontra con la dura realtà dei fatti. Innanzitutto, tutti i creditori della Russia sono nuovamente e severamente messi male. Circa 75 miliardi di dollari sono stati prestati a questo paese dalle banche occidentali, i buoni del Tesoro che esse detengono hanno già perduto l'80% del loro valore e la Russia ha sospeso tutto i rimborsi per quelli convertiti in dollari. Inoltre, la borghesia occidentale teme che gli altri paesi dell'Europa dell'Est possano conoscere lo stesso incubo. Ed a ragione: la Polonia, l'Ungheria e la Repubblica Ceca rappresentano insieme 18 volte di più degli investimenti occidentali rispetto alla Russia. Ora, fin dalla fine di agosto, i primi cedimenti si sono fatti sentire nelle Borse di Varsavia (-9,5%) e di Budapest (-5,5%) dimostrando che i capitali cominciavano a disertare queste nuove piazze finanziarie. In più, ed in maniera ancora più pressante, la Russia trascina nel suo crollo i paesi della CEI le cui economie sono molto legate alla sua. Pertanto, anche se la Russia non è che un “piccolo debitore” del mondo in rapporto ad altre regioni, la sua situazione geopolitica, il fatto che essa costituisca, in piena Europa, un campo minato di armi nucleari e la minaccia di uno sprofondamento nel caos provocato dalla crisi economica e politica, tutto ciò conferisce alla situazione in questi paesi una gravità particolare.
D'altra parte, il fatto che il debito della Russia sia relativamente limitato rispetto ai crediti accordati in Asia o in altre regioni del mondo è proprio una ben misera consolazione. In realtà, questa constatazione, deve al contrario attirare l'attenzione su altre minacce che si vanno a delineare, come quella dell’estendersi della crisi finanziaria in America latina che è stata, in questi ultimi anni, la principale destinataria degli investimenti diretti stranieri nei paesi “in via di sviluppo” (45% del totale nel 1997, contro il 20% nel 1980 e del 38% nel 1990). I rischi di svalutazione in Venezuela, la violenta caduta dei prezzi delle materie prime dopo la crisi asiatica che tocca i paesi sudamericani in maniera più forte che in Russia, un debito estero fenomenale, un indebitamento pubblico astronomico (il deficit pubblico del Brasile, il 7° PIL mondiale, è ben superiore a quello della Russia) fanno dell'America latina una bomba ad orologeria che minaccia di aggiungere i suoi effetti devastanti a quelli dei marasmi asiatici e russi. Una bomba ad orologeria che si trova alle porte della prima potenza economica mondiale, gli Stati-Uniti.
Tuttavia, la minaccia principale non proviene dai paesi sottosviluppati o poco sviluppati, ma da un paese altamente sviluppato, la seconda potenza economica del mondo, il Giappone.
La crisi in Giappone
Ancor prima del cataclisma dell'economia russa che ha avuto l'effetto di una doccia fredda sull'ottimismo della borghesia di ogni paese, nel giugno del 1998, un terremoto con epicentro a Tokyo aveva lanciato le sue minacce di destabilizzazione del sistema economico mondiale. Dal 1992, malgrado sette piani di “rilancio” che hanno iniettato l'equivalente del 2-l 3% del PNL per un anno ed una svalutazione dello yen, dimezzato in tre anni che avrebbe dovuto sostenere la competitività dei prodotti giapponesi sul mercato mondiale, l'economia giapponese continua ad affondare nel marasma. Per paura di doversi scontrare con le conseguenze economiche e sociali in un contesto già molto fragile, lo Stato giapponese ha continuato a adottare misure di “risanamento” del suo settore bancario. L'ammontare dei crediti non recuperabili rappresenta una somma equivalente al 15% del PIL…Da qui il crollo dell’economia giapponese, e internazionale per contraccolpo, in una recessione di un’ampiezza senza precedenti dopo la grande crisi del 1929. Di fronte a questo impantanarsi crescente del Giappone nella recessione e ai tentennamenti del potere nel prendere le misure necessarie, lo yen è stato oggetto di un’importante speculazione che ha minacciato tutte le monete dell'Estremo-Oriente di una svalutazione a catena che avrebbe dato il segnale al peggiore scenario deflazionistico. Il 17 giugno del 1998, la Riserva Federale americana finì per portarsi massivamente in aiuto di uno yen che cominciava a precipitare. Tuttavia, la partita non era che rinviata; aiutato dalla comunità internazionale il Giappone ha potuto ritardare la scadenza… ma al prezzo di un indebitamento che aumenta a velocità vertiginosa. Il solo debito pubblico raggiunge già l'equivalente di un anno di produzione (100% del PNL).
E' interessante notare, a questo proposito, che sono gli stessi economisti “liberali”, quelli che mettono alla berlina l'intervento dello Stato nell'economia e che attualmente occupano il primo posto nelle grandi istituzioni finanziarie internazionali proprio come nei governi occidentali, che reclamano ad alta voce una nuova iniezione massiccia di fondi pubblici nei settori bancari al fine di salvarli dal fallimento. Questa è la prova che, al di là di tutte le chiacchiere ideologiche sul “meno Stato”, gli “esperti” borghesi sanno che lo Stato costituisce l'ultima difesa di fronte allo sbandamento economico. Quando parlano di “meno Stato” si riferiscono fondamentalmente allo “Stato previdenziale”, cioè ai dispositivi di protezione sociale dei lavoratori (sussidi di disoccupazione e di malattia, minimo sociale) e i loro discorsi significano che bisogna attaccare ancora e sempre di più le condizioni di vita della classe operaia.
Alla fine, il 18 settembre, governo ed opposizione fanno un compromesso per salvare il sistema finanziario nipponico ma, al posto di rilanciare i mercati borsistici, queste misure sono accolte da una nuova caduta di questi ultimi, prova della sfiducia profonda che i finanzieri hanno ormai per l'economia della seconda potenza mondiale che per decenni ci è stata presentata come un “modello”. L'economista in testa alla Deutsche Bank di Tokio, Kenneth Courtis, personaggio serio quale egli è, vede solo quattro percorsi possibili:
“E’ necessario rovesciare la dinamica alla caduta, la più grave le crisi petrolifere degli inizi degli anni 70 (consumo ed investimenti in caduta libera), perché ormai si è entrati in una fase in cui si stanno creando nuovi crediti incerti. Si parla di quelli bancari, ma poco di quelli familiari. Con la perdita dei valori degli alloggi e la disoccupazione che aumenta, si rischia di vedere delle inadempienze dei rimborsi dei prestiti garantiti su dei beni immobiliari ipotecati da dei privati. Queste ipoteche ammontano alla strabiliante cifra di 7500 miliardi di dollari, il cui valore è precipitato del 60%. Il problema politico e sociale è latente. (…) Non dobbiamo ingannarci è in corso: una purga di grande ampiezza dell'economia… e le imprese che sopravviveranno saranno caratterizzate da una forza incrollabile. E' in Giappone che si può concretizzare il più grande rischio per l'economia mondiale dopo gli anni 30…” (Le Monde, 23 settembre).
Le cose sono chiare, per l'economia del Giappone e per la classe operaia di questo paese, il peggio deve ancora arrivare, i lavoratori giapponesi già duramente colpiti da questi ultimi dieci anni di stagnazione e ora dalla recessione, devono ancora subire molteplici piani di austerità, di licenziamenti massivi e un forte aumento del loro sfruttamento in un contesto in cui la crisi finanziaria s'accompagna fin da ora alla chiusura delle più importanti fabbriche. Ma non è questo che, nell'immediato, nel momento in cui la classe operaia mondiale non ha ancora finito di digerire la sconfitta ideologica che essa ha subito con il crollo del blocco dell'Est, preoccupa la maggior parte dei capitalisti. Ciò che comincia in maniera crescente a roderli, è la distruzione delle loro illusioni e la scoperta crescente delle prospettive catastrofiche della loro economia.
Verso una nuova recessione mondiale
Se ad ogni allarme passato gli “esperti” ci avevano abituato a dichiarazioni consolatrici del tipo “gli scambi commerciali con l'Asia del Sud-Est sono poco importanti”, “la Russia non ha un gran peso sull’economia mondiali”, “l'economia europea è stimolata dalla prospettiva dell'Euro”, “le fondamenta US sono buone”, ecc., attualmente il tono è cambiato! Il mini crac alla fine di agosto in tutte le grandi piazze finanziarie del globo ha ricordato che se a rompersi nella tempesta sono i rami più fragili dell'albero è proprio perché è il tronco che non trova più sufficienti energie dalle proprie radici per alimentare le sue parti più periferiche. Il cuore del problema è proprio nei paesi centrali, i professionisti della Borsa non si sono sbagliati. Dal momento che le proposte rassicuranti sono ogni volta sconfessate dai fatti, non è più possibile nascondere la verità. Fondamentalmente, si tratta ora per la borghesia di preparare poco a poco gli animi alle dolorose conseguenze sociali ed economiche di una recessione internazionale più che certa: “Una recessione su scala mondiale non è scongiurata. Le autorità americane hanno ritenuto opportuno rendere noto che seguivano gli avvenimenti da vicino (…) la probabilità di un rallentamento economico su scala mondiale non è trascurabile. Una gran parte dell'Asia è in recessione. Negli Stati-Uniti la caduta delle quotazioni potrebbe stimolare le famiglie ad aumentare il risparmio a detrimento delle spese di consumo, provocando un rallentamento economico.” (Le Soir, 2 settembre).
La crisi in Asia orientale ha già prodotto una svalutazione massiccia dei capitali attraverso la chiusura di centinaia di luoghi di produzione, attraverso la svalutazione di proprietà, i fallimenti di migliaia di imprese, e la caduta in miseria di decine di milioni di persone: ”il crollo più drammatico di un paese degli ultimi cinquanta anni”, è in questo modo che la Banca mondiale giudica la crisi in Indonesia. D'altra parte, il crollo improvviso delle Borse asiatiche era l'annuncio ufficiale dell'entrata in recessione nel secondo trimestre del 1998 della Corea del sud e della Malesia. Dopo il Giappone, Hong-Kong, l'Indonesia e la Tailandia, è quasi tutto il tanto vantato sud-est asiatico che crolla perché si prevede che anche Singapore entrerà in recessione alla fine dell'anno. Non resta che la Cina continentale e Taiwan che fanno eccezione, ma per quanto tempo ancora? Del resto, a proposito dell'Asia non si parla più di recessione, ma di depressione: “C'è depressione quando la caduta della produzione e quella degli scambi si accumulano ad un punto tale che le basi sociali dell'attività economica sono messe in discussione. A questo stadio, diventa impossibile presupporre un rovesciamento di tendenza e diventa difficile, se non inutile, intraprendere le classiche azioni di rilancio. Questa è la situazione che conoscono attualmente molti paesi dell'Asia, e che costituisce una minaccia per l'intera regione” (Le Monde Diplomatique, settembre 1998).
Se si coniugano le difficoltà economiche dei paesi centrali con la recessione della seconda economia mondiale -il Giappone- e con quella di tutta la regione del Sud-est asiatico, che si sommano agli effetti recessivi indotti dal crac della Russia sugli altri paesi dell'Est e dell'America latina (principalmente con la diminuzione del prezzo delle materie prime, tra cui il petrolio), il risultato è una contrazione del mercato mondiale che sarà alla base di una nuova recessione internazionale. Il FMI d'altra parte non si fa illusioni, ha già integrato l’effetto recessivo nelle sue previsioni e il calo si rivela enorme: la crisi finanziaria costerà il 2% di crescita mondiale in meno nel 1998 in rapporto al 1997 (4,3%), mentre il 1999 dovrebbe sopportare il grosso dello shock, una bazzecola per quello che doveva essere un epifenomeno senza importanza! Il secondo millennio, previsto essere il testimone della vittoria definitiva del capitalismo e del nuovo ordine mondiale comincerà verosimilmente con una crescita zero!
Continuità e limiti dei palliativi
Da più di trenta anni, la fuga in avanti in un indebitamento sempre più grande e uno scaricare gli effetti più devastanti della crisi sulla periferia, hanno permesso alla borghesia internazionale di rimandare le scadenze. Questa politica, ancora largamente usata oggi, produce dei segnali sempre più evidenti di asfissia. Il nuovo ordine finanziario che ha progressivamente rimpiazzato gli accordi di Bretton Woods del dopo guerra “si rivela oggigiorno fortemente costoso. I paesi ricchi (Stati Uniti, Unione europea, Giappone) ne hanno beneficiato, mentre i piccoli sono facilmente sommersi anche da un arrivo modesto di capitali” (John Llewellyn, Global economista capo presso la Lehman Brothers London).Con tale giro di vite, è sempre più difficile contenere gli effetti più devastanti della crisi margini del sistema economico internazionale. Il degrado e gli scossoni economici sono di una tale ampiezza che le ripercussioni si fanno inevitabilmente e direttamente sentire nel cuore stesso delle metropoli più potenti. Dopo il fallimento del terzo mondo, del blocco dell'Est e dell'Asia del sud-est, è ora la seconda potenza economica mondiale -il Giappone- che è in procinto di vacillare. A questo punto non è più il caso di parlare di problemi riguardanti la periferia del sistema, è uno dei tre poli che costituiscono il cuore del sistema che è colpito. Altro segno inequivocabile di questo esaurimento dei palliativi, è l'incapacità crescente delle istituzioni internazionali, come il FMI o la Banca mondiale -a cui si è fatto ricorso per evitare che si ripetessero gli scenari del 1929- a spegnere gli incendi che si moltiplicano ad intervalli sempre più ravvicinati nei quattro angoli del mondo. Questo si traduce concretamente in campo finanziario ne “l'incertezza dell'ultima risorsa creditrice: il FMI”. I mercati mormorano che il FMI non ha più risorse sufficienti per agire da pompiere: “Inoltre, gli ultimi sviluppi della crisi russa hanno mostrato che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) non era più disposto -capace dicono alcuni- a giocare sistematicamente da pompiere. La decisione del FMI e del gruppo dei sette paesi più industrializzati di non dare alla Russia un sostegno finanziario supplementare nell'ultima settimana, può essere considerato come fondamentale per l'avvenire della politica d'investimenti nei paesi emergenti (…) Traduzione: niente dice che il FMI interverrebbe finanziariamente per spegnere una crisi possibile in America latina o altrove. Ecco chi non rassicura gli investitori” (secondo AFP, Le Soir, 25 agosto). Sempre più, come la deriva del continente africano, la borghesia non avrà altra scelta che abbandonare pezzi interi della sua economia mondiale per isolare i focolai più incancreniti e preservare un minimo di stabilità su un territorio più ristretto.
Questa è una delle ragioni principali che giustifica l'accelerazione nella creazione di insiemi economici regionali (Unione europea, ALENA, ecc.). Inoltre, mentre, dal 1995, la borghesia dei paesi sviluppati lavora per dare nuova credibilità ai suoi sindacati allo scopo di tentare di inquadrare le lotte operaie che verranno, con l'Euro essa si prepara a tentare di resistere agli scossoni finanziari e monetari, cercando di stabilizzare quello che ancora funziona nell'economia mondiale. E' in questo senso che la borghesia europea parla dell'Euro come scudo. Un calcolo cinico comincia ad elaborarsi: per vedere se salvare o no un paese, il capitalismo internazionale fa il bilancio tra il costo dei mezzi che dovranno essere impiegati per salvare un paese o una regione e le conseguenze della sua bancarotta se nulla viene fatto. E' come dire che in futuro, la certezza che il FMI sarà sempre presente come “prestatore in ultima istanza” non è più data. Questa incertezza prosciuga i detti “paesi emergenti” dei capitali su cui essi avevano basato la loro “prosperità”, ipotecando in tal modo una possibile ripresa economica.
Il fallimento del capitalismo
Non è passato ancora molto tempo da quando il termine di “paesi emergenti faceva fremere di eccitazione i capitalisti del mondo intero che, in un mercato mondiale saturo, ricercavano disperatamente nuovi territori d'accumulazione per i loro capitali. Questi paesi erano la ciliegina sulla torta di tutti gli ideologi prezzolati che li presentavano come la prova stessa dell'eterna giovinezza del capitalismo che era sul punto di trovare in questi territori la nuova “boccata d’aria”. Oggi il termine evoca immediatamente il panico in borsa, e la paura che una nuova “crisi” venga ad abbattersi nei paesi centrali a partire da qualche regione “lontana”.
Ma la crisi non proviene da questa parte del mondo in particolare. Essa non è una crisi dei “paesi giovani”, ma una crisi di senilità, quella di un sistema entrato in decadenza circa 80 anni fa e che si scontra da allora senza sosta con le stesse insolubili contraddizioni: l'impossibilità di trovare sempre più sbocchi solvibili per le merci prodotte al fine di assicurare il proseguimento dell'accumulazione del capitale. Due guerre mondiali, fasi di crisi aperte distruttrici, di cui quella che viviamo da trent’anni, sono il prezzo pagato. Per “reggersi”, il sistema non ha cessato di barare con le sue stesse leggi. E la principale di questa truffa è la fuga in avanti in un indebitamento sempre più esorbitante.
L'assurdità della situazione in Russia, dove le banche e lo Stato “tengono bene” solo al prezzo di un debito esponenziale che li costringe ad indebitarsi sempre di più, e solo per pagare gli interessi di questi debiti accumulati, non è affatto una follia “russa”. E' l'insieme dell'economia mondiale che si mantiene in vita da decenni al prezzo della stessa fuga in avanti delirante, perché è la sola risposta che essa possa dare alle sue contraddizioni, perché è il solo mezzo per creare artificialmente nuovi mercati per i capitali e le merci. E' l'intero sistema mondiale che è basato su un enorme castello di carta che diventa sempre più fragile. I prestiti e gli investimenti massicci verso i paesi “emergenti”, essi stessi finanziati da altri prestiti, non sono stati che un mezzo per spostare la crisi del sistema e le sue contraddizioni esplosive dal centro verso la periferia. I crolli borsistici -1987, 1989, 1997, 1998- che ne sono un prodotto, esprimono la dimensione sempre più enorme del crollo del capitalismo.
Di fronte a questo sprofondamento brutale che si svolge sotto i nostri occhi, il problema non è sapere perché vi è una tale recessione ora, ma piuttosto perché essa non è arrivata molto prima. La sola risposta è che la borghesia, a livello mondiale, ha fatto di tutto per allontanare nel tempo tali scadenze barando con le leggi del suo stesso sistema. La crisi da sovrapproduzione, iscritta nelle previsioni del marxismo fin dal secolo scorso, non può trovare delle soluzioni reali negli imbrogli. E oggi, è ancora il marxismo che ribatte colpo su colpo questi esperti signori difensori del “liberalismo” e quei partigiani di “un controllo più stretto” degli aspetti finanziari. Né gli uni né gli altri possono salvare un sistema economico le cui contraddizioni esplodono lo stesso nonostante gli imbrogli. Solo il marxismo ha veramente analizzato come inevitabile questo fallimento del capitalismo, facendo di questa comprensione un'arma per la lotta degli sfruttati.
E quando bisogna pagare il conto, quando il fragile sistema finanziario crolla, le contraddizioni di fondo reclamano i loro “diritti”: caduta nella recessione, esplosione della disoccupazione, fallimento in serie di imprese e di settori industriali. In soli pochi mesi, in Indonesia ed in Tailandia, per esempio, la crisi ha spinto decine di milioni di persone nella miseria totale. La stessa borghesia lo riconosce e quando è obbligata a riconoscere tali fatti vuol dire che la situazione è veramente grave. E ciò non è affatto l’appannaggio dei paesi “emergenti”.
L'ora della recessione è suonata anche nei paesi centrali del capitalismo. I paesi più indebitati del mondo non sono d'altra parte né la Russia, né il Brasile, ma appartengono al cuore del capitalismo più sviluppato, a cominciare dagli Stati-Uniti. Il Giappone è ora entrato ufficialmente in recessione dopo due trimestri di crescita negativa, e si prevede che il suo PIL cada di più del l'1,5% per il 1998. La Gran Bretagna, che era presentata fino a poco tempo fa come un modello di “dinamismo” economico al pari degli Stati-Uniti, è oggi costretta, sotto le minacce inflazionistiche, a prevedere un “raffreddamento economico” ed “un aumento rapido della disoccupazione” (Liberation, 13 agosto). Gli annunci di licenziamenti si moltiplicano nell'industria (100 000 soppressioni di impiego su 1,8 milioni sono previsti nelle industrie meccaniche per i prossimi 18 mesi).
La prospettiva per l’economia capitalista mondiale è quella mostrataci dall’Asia. Mentre i piani di salvataggio e di risanamento avrebbero dovuto dare nuovo vigore a questi paesi, la realtà ha visto imporsi la recessione e la formazione di enormi tasche di disoccupazione e di fame.
Il capitalismo non ha soluzioni alla sua crisi e quest'ultima non ha limiti all'interno del sistema. Per questo la sola soluzione alla barbarie e alla miseria che esso impone all'umanità sta nel suo rovesciamento da parte della classe operaia. Per questa prospettiva, il proletariato del cuore del capitalismo, in particolare quello dell'Europa, a causa della sua concentrazione e della sua esperienza storica, ha una responsabilità decisiva verso i suoi fratelli di classe del resto del mondo.
MFP, settembre 1998.
1. Bisogna segnalare che all'assemblea generale annuale dell'ottobre del 1997, il FMI aveva considerato che il prossimo “paese a rischio” avrebbe potuto essere la Turchia. Evviva la lucidità dei più "qualificati" organismi della borghesia!
In più occasioni durante l’inverno dello scorso anno si è avuto modo di assistere nei due più grandi paesi dell’Europa occidentale a delle mobilitazioni sulla questione della disoccupazione. In Francia per parecchi mesi si sono avute sia delle manifestazioni di piazza nelle principali città sia occupazioni di luoghi pubblici (in particolare le sedi degli organismi incaricati di pagare le indennità ai disoccupati). In Germania, il 5 febbraio si sono svolte tutta una serie di manifestazioni indette dalle organizzazioni dei disoccupati e dai sindacati. La mobilitazione non ha avuto la stessa ampiezza di quella francese ma è stata abbondantemente riportata dai mezzi di informazione. La questione della disoccupazione è fondamentale per la classe operaia poiché questa costituisce una delle forme più importanti degli attacchi che essa subisce da parte del capitale in crisi. Nello stesso tempo, l’aumento ed il permanere della disoccupazione costituiscono una delle migliori prove del fallimento del sistema capitalista. Ed è proprio l’importanza di questa questione che si trova sullo sfondo delle manifestazioni cui stiamo assistendo.
La disoccupazione oggi e le sue prospettive
Oggi la disoccupazione investe dei settori enormi della classe operaia nella maggior parte dei paesi della terra. Nel terzo mondo, la percentuale della popolazione senza lavoro varia spesso tra il 30 ed il 50%: ed anche in un paese come la Cina che, nel corso degli ultimi anni era stata presentata dagli “esperti” come uno dei grandi campioni dello sviluppo, ci saranno almeno 200 milioni di disoccupati nel giro di due anni (1). Nei paesi dell’Europa dell’est appartenenti al vec-chio blocco russo, il crollo economico ha gettato in strada milioni di lavoratori e anche se, in qualche raro paese come la Polonia, un tasso di crescita molto sostenuto permette, al prezzo di salari miserevoli, di limitare i danni, nella maggior parte di questi paesi, in particolare in Russia, si assiste ad una vera pauperizzazione di enormi masse di operai costretti per sopravvivere a fare dei “piccoli lavori” squallidi come vendere sacchi di plastica nei sottopassaggi della metropolitana (2).
Nei paesi più sviluppati, anche se la situazione non è tragica come in quelli che si è appena citati, la disoccupazione di massa è divenuta una piaga della società. Per l’insieme della Comunità europea, il tasso ufficiale di “quelli che cercano un lavoro” in rapporto alla popolazione in età di lavoro è dell’ordine dell’11%, mentre era dell’8% nel 1990, cioè nel momento in cui il presidente americano Bush prometteva, con il crollo del blocco russo, una “era di prosperità”.
TASSI DI DISOCCUPAZIONE
Paese |
Fine 1996 |
Fine 1997 |
Germania |
9,3 |
11,6 |
Francia |
12,4 |
12,3 |
Italia |
11,9 |
12,3 |
Regno Unito |
7,5 |
5,0 |
Spagna |
21,6 |
20,5 |
Paesi bassi |
6,4 |
5,3 |
Belgio |
9,5 |
|
Svezia |
10,6 |
8,4 |
Canada |
9,7 |
9,2 |
Stati Uniti |
5,3 |
4,6 |
Fonti: OCSE e ONU
Queste cifre del tasso di disoccupazione danno un’idea dell’importanza attuale di questa calamità. Meritano tuttavia di essere commentate.
In primo luogo, si tratta di cifre ufficiali calcolate secondo dei criteri che nascondono una considerevole proporzione di disoccupazione. Così non tengono conto (tra l’altro):
Ugualmente queste cifre non tengono conto della disoccupazione parziale, cioè di tutti quei lavoratori che non riescono a trovare un lavoro stabile a tempo pieno (per esempio i precari il cui numero è in continuo aumento da più di dieci anni). D’altronde, tutti questi fatti sono ben noti agli “esperti” dell’OCSE che, nella loro rivista per specialisti, sono obbligati a confessare che: “Il tasso classico di disoccupazione… non fornisce una misura totale del sotto impiego.” (3)
In secondo luogo, è importante comprendere il significato delle cifre che riguardano i “primi della classe”, che sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Per molti esperti queste cifre sarebbero la prova della superiorità del “modello anglosassone” rispetto agli altri modelli di politica economica. Così ci riempiono le orecchie con il fatto che negli Stati Uniti la disoccupazione raggiunge oggi dei tassi tra i più bassi da un quarto di secolo. E’ vero che l’economia americana conosce attualmente un tasso di crescita della produzione superiore a quello degli altri paesi sviluppati e che nel corso degli ultimi cinque anni ha creato 11 milioni di posti di lavoro, tuttavia è necessario precisare che la maggior parte di questi ultimi sono degli “impieghi Mac Donald”, cioè piccoli lavori precari e molto mal pagati che fanno sì che la miseria si mantenga a dei livelli mai conosciuti dagli anni 30 con il suo seguito di centinaia di migliaia di persone senza risorse e di milioni di poveri privi di ogni assistenza sociale.
Tutto ciò è chiaramente confessato da qualcuno che certo non può essere sospettato di voler denigrare gli Stati Uniti visto che si tratta del ministro del lavoro durante il primo mandato di Bill Clinton di cui è un vecchio amico personale: “Da venti anni una gran parte della popolazione americana conosce una stagnazione o una diminuzione dei salari reali, tenuto conto dell’inflazione. Per la maggioranza dei lavoratori la caduta è continuata malgrado la ripresa. Nel 1996 il salario medio reale si situava al disotto del livello del 1989, cioè prima dell’ultima recessione. Tra la metà del 1996 e la metà del 1997 non è aumentato che dello 0,3% mentre i redditi più bassi hanno continuato a diminuire. La proporzione di Americani considerati poveri, secondo la definizione e le statistiche ufficiali, è oggi superiore a quella del 1989.” (4)
Ciò detto, quello che i fautori del “modello” made in USA dimenticano anche in generale di precisare è che gli 11 milioni di nuovi posti di lavoro creati dall’economia americana corrispondevano ad un aumento di 9 milioni della popolazione in età da lavoro. Così, una gran parte dei risultati “miracolosi” di questa economia nel campo della disoccupazione è il risultato della messa in atto ad alti livelli degli artifizi, descritti più avanti, che permettono di mascherarla. D’altra parte, negli Stati Uniti il fatto è riconosciuto sia dalle più prestigiose riviste economiche che dalle stesse autorità politiche: “Il tasso di disoccupazione ufficiale negli Stati Uniti è divenuto progressivamente sempre meno descrittivo della reale situazione prevalente sul mercato del lavoro” (5). Questo articolo dimostra che “nella popolazione maschile tra i 16 ed i 55 anni, il tasso ufficiale di disoccupazione non riesce a comprendere come ‘disoccupati’ che il 37% dei senza lavoro; il restante 63%, benché essendo nel pieno delle forze è classificato come ‘non impiegato’, ‘al di fuori della popolazione attiva’.” (6)
Analogamente la pubblicazione ufficiale del ministero del Lavoro americano spiegava: “Il tasso ufficiale di disoccupazione è accettabile e ben conosciuto; tuttavia, concentrandoci troppo su questa sola misura, potremmo avere una visione deformata dell’economia degli altri paesi, paragonata a quella degli Stati Uniti (…). Sono necessari altri indicatori se si vuole interpretare in maniera intelligente le rispettive situazioni sui diversi mercati del lavoro.” (7)
In realtà sulla base di studi che non sono stati compiuti da abominevoli “sovversivi”, si può considerare che negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione del 13% è molto più vicino alla realtà di quello inferiore al 5% che è sbandierato dappertutto come prova del “miracolo americano”. Non potrebbe essere altrimenti visto che non sono considerati come disoccupati (secondo i criteri del BIT, Ufficio Internazionale del Lavoro) che quelli che:
Così, negli Stati Uniti, dove la maggior parte dei giovani fanno dei piccoli “lavoretti” non verrà considerato come disoccupato colui che, per pochi dollari, ha tagliato l’erba del prato del suo vicino o ha fatto il baby sitter la settimana precedente. Lo stesso varrà per colui che si è scoraggiato dopo mesi o anni di insuccessi nella ricerca del lavoro o della madre nubile che non è “immediatamente disponibile” perché ormai non esistono più degli asili collettivi.
La “success story” della borghesia britannica è ancora più falsa di quella della sua grande sorella di oltre Oceano. L’osservatore ingenuo si trova di fronte ad un paradosso: tra il 1990 ed il 1997 il livello di occupazione è diminuito del 4 % e tuttavia, durante lo stesso periodo, il tasso di disoccupazione ufficiale è passato dal 10% al 5%. Nei fatti come dice timidamente una istituzione finanziaria internazionale tra le più “serie”: “la diminuzione della disoccupazione inglese sembra dovuta complessivamente all’aumento della percentuale degli inattivi.” (8)
E per comprendere il mistero di questa trasformazione dei disoccupati in “inattivi” si può leggere ciò che scrive un giornalista del Guardian, giornale inglese che con difficoltà si classificherebbe nella stampa rivoluzionaria: “Quando Margaret Tatcher vinse la sua prima elezione, nel 1979, il Regno Unito contava 1,3 milioni di disoccupati ufficiali. A parità di metodo di calcolo, oggi ve ne dovrebbero essere un po’ più di 3 milioni. Un rapporto della Midland’s Bank, pubblicato recentemente, faceva una stima a 4 milioni, cioè il 14% della popolazione attiva – più che in Francia o in Germania.”
“… il governo britannico non conta più i senza lavoro, ma solo i beneficiari di una indennità di disoccupazione sempre più ridotta. Dopo aver cambiato 32 volte la maniera di censire i disoccupati, ha deciso di escludere centinaia di migliaia di loro dalle statistiche grazie al nuovo regolamento sulla indennità di disoccupazione, che sopprime il diritto al sussidio dopo sei mesi anziché dopo dodici.”
“La maggioranza degli impieghi creati sono degli impieghi a tempo parziale. Secondo gli ispettori del lavoro il 43% dei posti di lavoro creati tra l’inverno 1992-1993 e l’autunno 1996 erano a tempo parziale. Quasi un quarto dei 28 milioni di lavoratori sono impiegati per un lavoro di questo tipo. La proporzione non è che di un lavoratore su sei in Francia ed in Germania.” (9)
Le enormi menzogne che permettono alla borghesia dei due “campioni dell’occupazione” anglosassoni di inorgoglirsi godono negli altri paesi di un silenzio compiacente da parte dei numerosi “specialisti”, economisti e politici di ogni razza, ed in particolare da parte dei mezzi di informazione di massa (è solo in pubblicazioni molto confidenziali che viene svelato il segreto). La ragione è semplice: bisogna far radicare l’idea che le politiche praticate nel corso di questo ultimo decennio in questi paesi con una brutalità particolare, volte a ridurre i salari e la protezione sociale, a sviluppare la “flessibilità”, sono efficaci per limitare i guai della disoccupazione di massa. In altri termini bisogna convincere gli operai che i sacrifici sono “paganti” e che essi hanno tutto l’interesse ad accettare le imposizioni del capitale.
E poiché la borghesia non mette tutte le sue uova nello stesso paniere, quando comunque vuole, allo scopo di seminare ancora più confusione nella testa degli operai, illuderli affermando che può esistere un “capitalismo dal volto umano”, alcuni dei suoi uomini di fiducia si richiamano oggi all’esempio olandese (10). Anche in questo caso le cifre ufficiali della disoccupazione non vogliono dire nulla. Come in Gran Bretagna la diminuzione del tasso di disoccupazione è andata di pari passo con la diminuzione dell’impiego. Così il tasso di occupati (percentuale della popolazione in età attiva che lavora effettivamente) è passato dal 60% nel 1970 al 50,7% nel 1994.
Il mistero sparisce quando si constata che: “La percentuale dei posti di lavoro a tempo parziale sul numero totale è passata negli ultimi venti anni dal 15% al 36%. Ed il fenomeno si accelera, poiché (…) i nove decimi dei posti di lavoro creati negli ultimi dieci anni totalizzano tra le 12 e le 36 ore per settimana.” (11) D’altra parte una considerevole proporzione della forza lavoro in eccesso è uscita dalle cifre della disoccupazione per entrare in quelle ancora più alte dell’invalidità. E’ ciò che nota l’OCSE quando scrive che: “Le stime di questa componente “disoccupazione nascosta” nelle persone in invalidità varia notevolmente, andando da poco più del 10% a circa il 50%.” (12)
Come dice l’articolo del Monde Diplomatique citato prima:
“A meno di immaginare una debolezza genetica che colpisce le persone di questo paese, e solo loro, come spiegare diversamente che il paese conta più inabili al lavoro che disoccupati?”
Evidentemente un tale metodo che permette ai padroni di “modernizzare” la loro fabbrica sbarazzandosi del loro personale più anziano e poco “malleabile” non ha potuto essere applicato che grazie ad un sistema di assicurazione sociale tra i più “generosi” del mondo. Ma nel momento in cui proprio questo sistema è radicalmente messo in discussione (come in tutti i paesi avanzati) sarà sempre più difficile per la borghesia camuffare in questo modo la disoccupazione. D’altra parte le nuove leggi esigono che siano le imprese che versino per cinque anni la pensione di invalidità il che porta a dissuaderle dal dichiarare “invalidi” i lavoratori di cui esse vogliono sbarazzarsi. Nei fatti, fin da ora, il mito del “paradiso sociale” rappresentato dai Paesi Bassi è seriamente scalfito quando si viene a sapere che, secondo un’inchiesta europea (citata dal The Guardian del 28 aprile 1997), il 16% dei ragazzi olandesi appartengono a famiglie povere, contro il 12% della Francia. Quanto al Regno Unito, paese del “miracolo”, questa cifra è del 32%!
Così non esiste eccezione alla crescita della disoccupazione massiccia nei paesi più sviluppati. Fin da ora in questi paesi, il tasso di disoccupazione reale (che deve in particolare tenere conto di tutti i lavori a tempo parziale non voluti come di tutti coloro che hanno rinunciato a cercare un lavoro) va dal 13% al 30% della popolazione attiva. Sono delle cifre che si avvicinano sempre più a quelle conosciute dai paesi avanzati all’epoca della grande “depressione” degli anni 1930. Nel corso di questo periodo, i tassi raggiunsero i valori del 24% negli Stati Uniti, del 17,5% in Germania e del 15% in Gran Bretagna. A parte il caso degli Stati Uniti, si nota che gli altri paesi non sono molto lontani dal raggiungere questi sinistri “record”. In alcuni paesi, la disoccupazione ha anche superato il livello degli anni 1930. E’ il caso in particolare della Svezia (8% nel 1933), dell’Italia (7% nel 1933) e della Francia (5% nel 1936, che è comunque probabilmente una cifra sottostimata). (13)
Infine non bisogna lasciarsi ingannare dal leggero arretramento dei tassi di disoccupazione del 1997 che è oggi sbandierato dalla borghesia (e che appare nella tabella riportata prima). Come si è visto le cifre ufficiali non significano granché e soprattutto, questa diminuzione, che è imputabile ad una “ripresa” della produzione mondiale nel corso degli ultimi anni, va rapidamente a lasciare il posto ad un nuovo aumento dal momento che l’economia mondiale va di nuovo a confrontarsi con una nuova recessione aperta come quelle che abbiamo conosciuto nel 1974, nel 1978, agli inizi del 1980 e agli inizi degli anni 1990. Una recessione aperta che è inevitabile per il fatto che il modo di produzione capitalista è assolutamente incapace di superare la causa di tutte le convulsioni che conosce da una trentina d’anni: la sovrapproduzione generalizzata, la sua incapacità storica di trovare una quantità sufficiente di mercati per la sua produzione. (14)
D’altronde l’amico di Clinton che abbiamo citato precedentemente è chiaro sull’argomento: “L’espansione è un fenomeno temporaneo. Gli Stati Uniti beneficiano attualmente di una crescita molto elevata, che trascina con sé una buona parte dell’Europa. Ma le perturbazioni sopravvenute in Asia, come l’indebitamento crescente dei consumatori americani lasciano pensare che la vitalità di questa fase del ciclo potrebbe non durare a lungo.”
Effettivamente questo “specialista” mette il dito, senza osare evidentemente andare fino in fondo nel suo ragionamento, sugli elementi fondamentali della situazione attuale dell’economia mondiale:
La disoccupazione di massa che deriva direttamente dalla incapacità del capitalismo a superare le contraddizioni che gli impongono le sue proprie leggi non può sparire, e nemmeno essere superata. Non può che aggravarsi inesorabilmente continuando a gettare masse crescenti di proletari nella miseria e la privazione più insopportabile.
Fabienne
1. “… la mano d’opera in sovrannumero nelle campagne oscilla tra i 100 ed i 150 milioni di persone. In città vi sono dai 30 ai 40 milioni di persone che sono in disoccupazione, totale o parziale. Senza contare, ben inteso, le folle di giovani che si preparano ad entrare nel mondo del lavoro. “ (“Paradossale modernizzazione della Cina”, Le Monde Diplomatique, Marzo 1997)
2. Le statistiche sulla disoccupazione in questo paese non vogliono dire niente di preciso. Così la cifra ufficiale era del 9,3% nel 1996 mentre, tra il 1986 ed il 1996, il PIL della Russia è diminuito di circa il 45%. In realtà una quantità molto elevata di operai passa le sue giornate sul posto di lavoro a non fare niente (a causa della mancanza di commesse per le loro fabbriche) in cambio di salari da miseria (al paragone molto più bassi delle indennità di disoccupazione dei paesi occidentali) che li obbligano a fare al nero un altro lavoro per poter sopravvivere.
3. Perspectives de l’emploi, (Prospettive di impiego), luglio 1993.
4. Robert B. Reich, “Un’economia aperta può preservare la coesione sociale?” in Bilan du Monde (Bilancio del Mondo), edizione del 1998.
5. “Disoccupazione e non-occupazione”, American Economic Review, maggio 1997.
6. “I senza lavoro negli Stati Uniti”, L’etat du monde 1998, Edizioni La Découverte, Parigi.
7. “Confronti internazionali di indicatori della disoccupazione”, Monthly Labor Review, Washington, marzo 1993.
8. Banca dei regolamenti internazionali, Rapporto annuale, giugno 1997.
9. Seumas Milne, “Come Londra manipola le statistiche”, Le Monde Diplomatique, maggio 1997.
10. “La Francia dovrebbe ispirarsi al modello economico olandese” (Jean Claude Trichet, governatore della Banca di Francia, citato da Le Monde Diplomatique del settembre 1997). “L’esempio della Danimarca e quello dei Paesi bassi dimostrano che è possibile ridurre la disoccupazione pur mantenendo dei salari relativi abbastanza stabili.” (Banca dei regolamenti internazionali, Rapporto annuale, giugno 1997)
11. “Miracolo o miraggio nei Paesi Bassi”, Le Monde Diplomatique, luglio 1997.
12. “Paesi Bassi 1995-1996”, Studi economici dell’OCSE, Parigi 1996.
13. Fonti: Encyclopaedia Universalis, articolo su “Le crisi economiche” e Maddison, “Crescita economica in Occidente”, 1981.
14. Vedere Revue Internationale n. 92, “Rapporto sulla crisi economica al 12° Congresso della CCI”.
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Trenta anni fa si svolgeva in Francia un grande movimento di lotta che vide in campo 10 milioni di lavoratori in sciopero per circa un mese. E' ben difficile che i giovani compagni che oggi si avvicinano alle posizioni rivoluzionarie sappiano cosa successe in quel mese di tanti anni fa. E questo non per loro colpa. In realtà la borghesia ha sempre mistificato il significato profondo di quegli avvenimenti e gli storici borghesi (di destra o di sinistra non fa differenza) lo hanno sempre presentato come la ”rivolta studentesca", la più importante di un movimento che si ebbe anche in Italia, negli USA, e un po' in tutti i paesi più industrializzati. Non c'è da meravigliarsi. La borghesia cerca da sempre di nascondere agli occhi del proletariato le proprie lotte passate, e quando non ci riesce fa di tutto per mistificarle, per presentarle come altra cosa rispetto alle manifestazioni dell'antagonismo storico e irriducibile della principale classe sfruttata della nostra epoca e la classe dominante e responsabile di questo sfruttamento. Oggi la borghesia sta addirittura cercando di snaturare il significato della Rivoluzione d'ottobre, presentata come il colpo di Stato dei bolscevichi assetati di sangue e di potere invece che per quello che fu veramente: il più grandioso tentativo di una classe sfruttata di dare “l'assalto al cielo", di prendere il potere politico per cominciare a trasformare la società in senso comunista, cioè verso l'abolizione di ogni sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Lo fa per esorcizzare il pericolo che la memoria storica costituisce come arma per il proletariato. E proprio perché per il proletariato la conoscenza delle proprie esperienze passate è indispensabile per preparare le battaglie presenti e future, tocca ai rivoluzionari, all'avanguardia politica di questa classe, ricordarle e riproporle all'insieme del proletariato.
Gli avvenimenti del Maggio '68
Trenta anni fa, il 3 maggio, veniva organizzata all’interno della Sorbona, a Parigi, una assemblea di alcune centinaia di studenti da parte dell’UNEF (un sindacato studentesco) e del “Movimento del 22 marzo” (Formato alla Facoltà di Nanterre, nella periferia parigina, qualche settimana prima).
I discorsi teorici del leader gauchistes non avevano niente di particolarmente esaltante, ma a un certo punto una voce si propaga: “Occidente sta per attaccare”. Questo movimento di estrema destra dà quindi alla polizia il pretesto per “interporsi” tra i due schieramenti. Si trattava in realtà di spezzare l’agitazione studentesca che da qualche settimana si sviluppava a Nanterre, semplice manifestazione della rabbia degli studenti, legata a motivi diversi, dalla contestazione al baronato universitario, alla rivendicazione di una maggiore libertà individuale e sessuale nella vita interna dell’Università.
E tuttavia “l’impossibile si era verificato”; per parecchi giorni l’agitazione prosegue al quartiere latino. Ogni sera essa aumenta di un poco: ogni manifestazione, ogni incontro raccoglierà un po’ più di gente della volta precedente: diecimila, trentamila, cinquantamila persone. Gli scontri con la polizia sono anch’essi sempre più violenti. Nelle piazze i giovani operai si uniscono alla lotta malgrado l’ostilità apertamente dichiarata del PCF, che getta fango sugli “arrabbiati” e sull’”anarchico tedesco” Daniel Cohn-Bendit; la CGT (sindacato di obbedienza stalinista) per non essere completamente scavalcata è costretta a “riconoscere” il movimento di scioperi operai che si sviluppa spontaneamente e che si generalizza rapidamente: 10 milioni di scioperanti scuotono il torpore della 5^ Repubblica e segnano in maniera eclatante il risveglio del proletariato mondiale.
Lo sciopero scoppiato il 14 maggio a Sud-Aviation, che si è esteso spontaneamente, prende da subito un carattere radicale rispetto a quelle che erano state fino ad allora le “azioni” organizzate dai sindacati. Nei settori essenziali della metallurgia e dei trasporti lo sciopero è quasi generale. I sindacati sono scavalcati da un’agitazione che si distacca dalla loro politica tradizionale e da un movimento che prende da subito un carattere esteso e spesso poco preciso, ispirato, com’era, da una inquietudine profonda anche se poco “cosciente”.
Negli scontri che si verificano un ruolo importante è giocato dai disoccupati, quelli che la stampa borghese chiama i “declassati”. Ora, questi “declassati”, questi “deviati” sono proletari a tutti gli effetti. Infatti sono proletari non solo gli operai e i licenziati, ma anche quelli che non hanno ancora potuto lavorare e sono già disoccupati. Essi sono il prodotto tipico della decadenza del capitalismo: nella disoccupazione di massa che colpisce i giovani si mostra uno dei limiti storici del capitalismo che, a causa della sovrapproduzione generalizzata, è diventato incapace di integrare le nuove generazioni nel processo di produzione.
Ma questo movimento sviluppatosi al di fuori dei sindacati, e in una certa misura contro di essi, poiché rompe con i metodi di lotta che essi avevano predicato in ogni occasione, è presto oggetto delle attenzioni dei sindacati che fanno di tutto per riprenderne il controllo.
Fin dal venerdì 17 maggio la CGT diffonde dappertutto un volantino che precisa bene i limiti che essa intende dare alla sua azione: da una parte delle rivendicazioni di tipo tradizionale accoppiate ad accordi tipo quelli di Matignon del giugno 1936 che garantiscono l’esistenza di sezioni sindacali di fabbrica; dall’altra un appello a un cambiamento di governo, cioè elezioni. Diffidenti nei confronti dei sindacati durante lo sciopero, scoppiato al di fuori di questi ed esteso spontaneamente, gli operai hanno tuttavia agito, durante lo sciopero, come se essi trovassero normale che i sindacati si potessero incaricare di porvi fine.
Costretto a seguire il movimento per non perderne il controllo, il sindacato riesce nel suo intento e comincia allora un doppio lavoro, con l'aiuto prezioso del PCF: da un lato comincia i negoziati con il governo, dall'altro invita alla calma, a non turbare il sereno svolgimento delle elezioni, facendo circolare anche, con discrezione, voci di un possibile colpo di Stato, di movimenti di truppe alla periferia delle città. In realtà, benché presa di sorpresa, benché spaventata dalla radicalità del movimento, la borghesia non aveva nessuna intenzione di passare alla repressione militare. Essa sapeva bene che questo avrebbe rilanciato il movimento, mettendo fuori gioco i ”conciliatori" sindacali, costringendola ad un bagno di sangue che sarebbe stato un prezzo troppo alto che avrebbe poi dovuto scontare in seguito. E in realtà le sue forze di repressione la borghesia le aveva già messo in campo, non tanto i CRS che disperdevano ed attaccavano le manifestazioni e le barricate, ma i poliziotti di fabbrica sindacali, ben più abili e pericolosi di quelli in divisa, perché svolgono il loro sporco lavoro di divisione tra le fila stesse degli operai.
La prima operazione di polizia il sindacato la realizza favorendo l'occupazione delle fabbriche, riuscendo cioè a chiudere gli operai sui loro luoghi di lavoro, togliendo loro la possibilità di riunirsi, discutere, confrontarsi nelle piazze.
Il 27 maggio il sindacato annuncia di aver firmato un accordo con il governo (gli accordi di Grenelle).
Alla Renault, prima fabbrica del paese, il segretario generale della CGT è fischiato dagli operai che considerano che la loro lotta è stata svenduta. Dappertutto gli operai assumono lo stesso atteggiamento: il numero di scioperanti aumenta ancora. Molti operai strappano le tessere sindacali.
Perciò sindacati e governo si dividono il lavoro. La CGT, che ha immediatamente sconfessato gli accordi di Grenelle che aveva già sottoscritto, dichiara che bisogna “aprire negoziati settore per settore per avere dei miglioramenti”. Il governo e il padronato accettano il gioco, facendo qualche importante concessione in alcuni settori, il che permette di ottenere una ripresa del lavoro. Allo stesso tempo, il 30 maggio, De Gaulle accetta la richiesta dei partiti di sinistra: scioglie il Parlamento e indice nuove elezioni. Lo stesso giorno centinaia di migliaia di gaullisti sfilano per gli Champs Elisés; raggruppamento eterogeneo di tutti quelli che hanno un odio viscerale per la classe operaia e i “comunisti”: abitanti dei quartieri nobili e militari in pensione, suore e portinaie, piccoli commercianti, tutto questo bel mondo sfila dietro i ministri di De Gaulle, con André Malraux alla testa (lo scrittore antifascista molto noto per il suo impegno nella guerra di Spagna del 1936).
Anche i sindacati si dividono il lavoro al loro interno: alla CFDT (sindacato cristiano) tocca il compito di vestirsi da “radicale”, al fine di conservare il controllo degli operai più combattivi. La CGT si distingue invece nel ruolo di “spezzasciopero”. Nelle assemblee essa propone la fine dello sciopero, sostenendo che gli operai delle fabbriche vicine hanno già ripreso il lavoro, il che è una menzogna.
Il PCF, a sua volta, chiama alla “calma”, a un “atteg-giamento responsabile” (agitando anche lo spettro della guerra civile e della repressione poliziesca) per non turbare le elezioni che si dovevano tenere il 23 e il 30 giugno. Queste si concludono con una schiacciante vittoria della destra, cosa che scoraggia ancora di più gli operai più combattivi che avevano proseguito lo sciopero fino ad allora.
Lo sciopero generale, malgrado i suoi limiti, ha contribuito con il suo immenso slancio alla ripresa generale della lotta di classe. Dopo una serie ininterrotta di passi indietro, dopo il suo schiacciamento alla fine dell’ondata rivoluzionaria degli anni 1917-23, gli avvenimenti di maggio-giugno 1968 costituiscono una svolta decisiva, non solo in Francia, ma nel mondo intero. Gli scioperi hanno scosso non solo il potere dominante, ma anche quelli che costituiscono il suo supporto più efficace e più difficile da abbattere: la sinistra e i sindacati.
Un “movimento degli studenti"?
Passata la sorpresa e il panico iniziali, la borghesia si è impegnata a trovare delle spiegazioni per questi avvenimenti che rimettessero a posto la sua tranquillità. Non ci si deve meravigliare quindi che la sinistra utilizza il movimento degli studenti per esorcizzare il vero spettro che si leva davanti agli occhi della borghesia impaurita, il proletariato, e che limiti gli avvenimenti sociali a una semplice contesa ideologica tra generazioni. Il Maggio 68 è presentato come il risultato del disorientamento della gioventù di fronte alle inadeguatezze del mondo moderno.
E’ più che evidente che il maggio 68 è effettivamente marcato da una decomposizione certa dei valori dell’ideologia dominante, ma questa rivolta “culturale” non è la causa reale del conflitto. In effetti Marx ci ha mostrato, nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica che “con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere costatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.”
Tutte le manifestazioni di crisi ideologica trovano le loro radici nella crisi economica, non il contrario. E’ lo stato della crisi che determina il corso delle cose. Il movimento studentesco è certo una espressione della decomposizione generale dell’ideologia borghese. Esso è l’annunciatore di un movimento sociale più fondamentale. Ma per il posto che l’università assume nel sistema di produzione essa ha solo eccezionalmente un legame con la lotta di classe.
Maggio 68 non fu un movimento degli studenti e dei giovani, fu innanzitutto il movimento della classe operaia che risorgeva dopo decenni di controrivoluzione. E lo stesso movimento studentesco fu spinto alla radicalizzazione da questa stessa presenza della classe operaia.
Gli studenti infatti non sono una classe, e meno ancora uno strato sociale rivoluzionario. Anzi, essi sono spesso i veicolatori della peggiore ideologia borghese. Se nel 68 migliaia di giovani furono influenzati dalle idee rivoluzionarie fu proprio perché in campo era scesa l'unica classe rivoluzionaria della nostra epoca, la classe operaia.
Con questa sua discesa in campo, la classe operaia faceva giustizia anche di tutte quelle teorie che ne avevano decretato la “morte" per “imborghesimento", per “integrazione nel sistema capitalista". Come spiegare altrimenti che queste teorie, fino ad allora ampiamente maggioritarie proprio nell’ambiente universitario in cui erano nate grazie ai Marcuse, Adorno e compagnia, svanirono come neve al sole, e gli stessi studenti si rivolgevano alla classe operaia, anche se proponendosi come sue ”mosche cocchiere" ?
E come spiegare ancora che negli anni successivi gli studenti, benché continuando ad agitarsi per gli stessi motivi di allora, hanno smesso di proclamarsi rivoluzionari?
No, il maggio 68 non fu la rivolta della gioventù contro le ”inadeguatezze del mondo moderno", non fu la rivolta delle coscienze, ma il primo sintomo di uno sconvolgimento sociale che aveva radici ben più profonde che non il mondo della sovrastruttura, ma che pescavano nella crisi del modo di produzione capitalista.
Lungi dal costituire il trionfo delle teorie marcusiane, il maggio 68 ne decretò la morte per mancanza di alimento, le seppellì nel mondo fantasioso delle ideologie da cui erano state partorite.
No, l'inizio della ripresa storica della lotta della classe operaia
Lo sciopero generale di 10 milioni di operai in un paese centrale del capitalismo segnava la fine del periodo di controrivoluzione apertosi con la sconfitta dell'ondata rivoluzionaria degli anni venti e proseguito e approfondito dall'azione contemporanea del fascismo e dello stalinismo. La metà degli anni sessanta segnava la fine del periodo di ricostruzione apertosi dopo la Seconda Guerra mondiale e l'inizio di una nuova crisi generalizzata del sistema capitalista.
I primi colpi di questa crisi colpirono una nuova generazione di operai che non aveva conosciuto la demoralizzazione della sconfitta degli anni venti e che era cresciuta nel mito del boom economico. La crisi colpiva allora ancora molto leggermente, ma la classe operaia cominciava a sentire che qualcosa cambiava:
“Un sentimento di insicurezza sul futuro si sviluppa tra gli operai e soprattutto fra i giovani. Questo sentimento è tanto più vivo in quanto era praticamente sconosciuto agli operai francesi dopo la guerra.
(...) Le masse hanno sempre più fortemente la sensazione che la prosperità è finita. L’indifferenza e il menefreghismo, le caratteristiche tanto ricordate degli operai degli ultimi 15 anni, cedono il passo a una inquietudine sorda e crescente.
(...) Bisogna riconoscere che una tale esplosione si basa su una lunga accumulazione di un malcontento reale, legato alla situazione economica e lavorativa, che si riscontra nelle masse anche se un osservatore superficiale non se ne rende conto.” (1)
Ed in effetti non era un osservatore superficiale che poteva capire ciò che avveniva nel profondo del mondo capitalista di allora. Non a caso un gruppo, radicale ma senza solide basi marxiste, come l'Internazionale Situazionista, scriveva, a ridosso degli avvenimenti del maggio 68, che:
“Non si poteva notare nessuna tendenza alla crisi economica... Lo scoppio rivoluzionario non era venuto da una crisi economica... Quello che è stato attaccato di faccia nel Maggio è l’economia capitalista in buona salute” (2)
La realtà era ben diversa e gli operai cominciavano a percepirla sulla loro pelle.
Dopo il 1945 l’aiuto degli Stati Uniti permise il rilancio della produzione in Europa che paga in parte i suoi debiti cedendo le sue imprese alle compagnie americane. Ma dopo il 1955 gli USA cessano il loro aiuto “gratuito”. La bilancia commerciale di questi è in avanzo, mentre quella della maggioranza degli altri paesi è in deficit. I capitali americani continuano a essere investiti rapidamente in Europa più che nel resto del mondo, il che equilibra la bilancia dei pagamenti dei paesi europei, ma squilibra quella americana. Questa situazione porta a un indebitamento crescente del tesoro americano, giacchè i dollari emessi e investiti in Europa o nel resto del mondo costituiscono un debito degli USA rispetto ai detentori di questa moneta. A partire dagli anni sessanta questo debito estero sorpassa le riserve d’oro del tesoro americano, ma questa assenza di copertura del dollaro non basta ancora a mettere gli Stati Uniti in difficoltà finchè gli altri paesi sono ancora indebitati rispetto agli USA. Questi possono allora continuare ad appropriarsi del capitale del resto del mondo pagando con della carta.
La situazione si rovescia con la fine della ricostruzione nei paesi europei. Questa si manifesta con la riacquistata capacità delle economie europee di lanciare sul mercato internazionale dei prodotti concorrenti di quelli americani: verso la metà degli anni sessanta le bilance commerciali della maggioranza dei paesi prima assistiti diventano positive, mentre, dopo il 1964, quella degli Stati Uniti non smette di peggiorare. A partire da allora la ricostruzione dei paesi europei è conclusa, l’apparato produttivo diventa eccedente e trova di fronte a sè un mercato saturo, costringendo le borghesie nazionali ad accrescere le condizioni di sfruttamento del loro proletariato per fare fronte all’aumentare della concorrenza internazionale.
La Francia non sfugge a questa situazione e durante il 1967 la sua situazione economica deve far fronte alla inevitabile ristrutturazione capitalista: razionalizzazione e aumento della produttività non possono che provocare un aumento della disoccupazione. E infatti all’inizio del 1968 il numero dei disoccupati supera i 500.000. La cassa integrazione è applicata in numerose fabbriche e provoca reazioni tra gli operai. Numerosi scioperi scoppiano, scioperi limitati e ancora inquadrati dai sindacati, ma che manifestano un malessere certo. Questo anche perché la diminuzione dei posti di lavoro capita tanto più a sproposito in un momento in sui sul mercato del lavoro si presenta questa generazione frutto della esplosione demografica che ha seguito la fine della seconda guerra mondiale.
In aggiunta alla disoccupazione, il padronato cerca di abbassare il livello di vita degli operai. Un attacco concertato è portato alle condizioni di vita e di lavoro dalla borghesia e dal suo governo. In tutti i paesi industriali la disoccupazione si sviluppa sensibilmente, le prospettive economiche si incupiscono, la concorrenza internazionale si fa più accanita. La Gran Bretagna, alla fine del 1967, procede a una prima svalutazione della sterlina al fine di rendere i suoi prodotti più competitivi. Ma questa misura è annullata dalla successiva svalutazione delle monete di tutta un’altra serie di paesi. La politica di austerità imposta dal governo laburista dell’epoca è particolarmente severa: riduzione massiccia della spesa pubblica, ritiro delle truppe britanniche dall’Asia, blocco dei salari, prime misure protezioniste. Gli Stati Uniti, principale vittima dell’offensiva europea non mancano di reagire con forza: all’inizio del 1968 Johnson annuncia misure economiche e a marzo, in risposta alle svalutazioni delle monete concorrenti, il dollaro cala a sua volta.
E’ questo il quadro economico di fondo che precede il maggio ‘68.
Un movimento rivendicativo ma non solo
E' questa la situazione in cui si svolgono gli avvenimenti del maggio 68. Una situazione economica deteriorata che genera una reazione nella classe operaia.
Certo, altri fattori contribuirono alla radicalizzazione della situazione: la repressione poliziesca contro gli studenti e le manifestazioni operaie, la guerra del Vietnam. Contemporaneamente erano tutti i miti del capitalismo del dopoguerra che venivano messi in crisi: il mito della democrazia, della prosperità economica, della pace. E' una situazione che crea una crisi sociale a cui la classe operaia dà la sua prima risposta.
Una risposta sul piano economico ma non solo. Gli altri elementi della crisi sociale, il discredito dei sindacati e delle forze di sinistra tradizionali spingono migliaia di giovani e di operai a porsi problemi più generali, a ricercare delle risposte alle cause profonde del malcontento e della disillusione.
Si viene così a creare una nuova generazione di militanti che si avvicinano alle posizioni rivoluzionarie. Si torna a rileggere Marx, Lenin, a studiare il movimento operaio del passato. La classe operaia non ritrova solo la sua dimensione di lotta in quanto classe sfruttata ma mostra anche la sua natura di classe rivoluzionaria.
La maggior parte di questi nuovi militanti viene ingabbiata nelle false prospettive dei vari gruppi gauchistes perdendosi poi per la strada. In effetti, se il sindacalismo era stata l'arma con cui la borghesia era riuscita ad ingabbiare il movimento di massa degli operai, il gauchisme è l'arma con cui vengono bruciate molti dei militanti che si erano formati nella lotta.
Ma molti altri riescono a trovare le organizzazioni autenticamente rivoluzionarie, quelle che rappresentavano la continuità storica con il movimento operaio del passato, i gruppi della Sinistra Comunista. Se alcuni di questi non riescono a cogliere in pieno il significato degli avvenimenti, restandone ai margini (e lasciando così il campo libero al gauchisme), altri piccoli nuclei seppero invece raccogliere queste nuove energie rivoluzionarie dando luogo a nuove organizzazioni e a un nuovo lavoro di raggruppamento dei rivoluzionari.
Una ripresa storica lunga e tortuosa
Gli avvenimenti del maggio 68 non costituirono che l'inizio della ripresa storica della lotta di classe, la rottura del periodo di controrivoluzione e l'apertura di un nuovo corso della storia verso lo scontro decisivo tra le classi antagoniste della nostra epoca: il proletariato e la borghesia.
Un inizio clamoroso, che trovò la borghesia momentaneamente impreparata, ma che doveva scontrarsi in seguito con la reazione di questa e con l'inesperienza della nuova generazione operaia che si era affacciata sulla scena della storia.
Questo nuovo corso storico trovò conferma negli avvenimenti internazionali che seguirono al maggio francese.
Non possiamo qui ricordare tutti gli episodi di lotta di classe che si sono succeduti al maggio francese, ci limitiamo a citarne alcuni dei più significativi per mettere in evidenza la dinamica che si era aperta con gli avvenimenti di maggio.
Nel 1969 scoppia il grande movimento di scioperi conosciuti in Italia come "l'autunno caldo", una stagione di lotte che prosegue per qualche anno in cui gli operai scavalcano i sindacati, costruiscono loro organismi per la direzione della lotta, si scontrano con i poliziotti di fabbrica, i sindacati, e quelli di strada, i poliziotti in divisa. Una ondata di lotte che ebbe il limite di restare isolata nelle singole fabbriche, in cui era forte l'illusione che con la lotta "dura" in fabbrica si poteva "piegare il padrone". Con questi limiti, finendo la spinta alla lotta, i sindacati riuscirono a riprendere il loro posto in fabbrica ripresentandosi con la nuova veste degli "organismi di base" costituiti dai Consigli di fabbrica, in cui si affrettarono a confluire tutti quegli elementi gauchistes che durante la fase alta del movimento avevano giocato a fare i rivoluzionari e che ora trovavano la loro sistemazione come bonzi sindacali.
Gli anni 70 vedono altri movimenti di lotta che si realizzano in tutto il mondo industrializzato: in Italia (ferrovieri, ospedalieri), in Francia (LIP, Renault, Longwy e Denain), in Spagna, in Portogallo e altrove, gli operai fanno i conti con un sindacato che nonostante la sua nuova veste, "più vicina alla base", continua a mostrarsi come il difensore degli interessi capitalisti e il sabotatore delle lotte proletarie.
Nel 1980 in Polonia la classe operaia mette a profitto l'esperienza sanguinosa che aveva fatto negli scontri precedenti del 1970 e 1976, organizzando uno sciopero di massa che blocca l'intero paese. Questo formidabile movimento degli operai polacchi, che mostra agli occhi del mondo intero la forza del proletariato, la sua capacità a prendere in mano le lotte, ad organizzarsi autonomamente attraverso le sue assemblee generali (gli MKS) per estendere la lotta in tutto il paese, costituisce un incoraggiamento per la classe operaia di tutti i paesi.
E’ il sindacato Solidarnosc, creato dalla borghesia (con l’aiuto dei sindacati occidentali) per inquadrare, controllare e deviare il movimento, che alla fine consegna gli operai polacchi, piedi e mani legati, alla repressione del governo Jaruzelski. Questa sconfitta provoca un profondo disorientamento nelle fila del proletariato mondiale e ci vorranno due anni per digerirla.
Durante gli anni ottanta i proletari mettono a profitto tutta l'esperienza del decennio precedente del sabotaggio sindacale. Nuove lotte scoppiano ancora in tutti i principali paesi e i lavoratori cominciano a prendere in mano le loro lotte creando organismi specifici. I ferrovieri in Francia, i lavoratori della scuola in Italia, danno vita a lotte che si basano su organismi controllati dal basso, attraverso le assemblee generali degli scioperanti.
Di fronte a questa maturazione della lotta di classe la borghesia è costretta a rinnovare le proprie armi sindacali: è in questi anni che si sviluppa una nuova forma di sindacalismo "di base" (Coordinations in Francia, Cobas in Italia), sindacati mascherati che riprendono le forme degli organismi che i lavoratori si erano dati nelle lotte per ricondurli nell'alveo di contenuti sindacali (delega permanente, negoziati, scioperi dimostrativi, corporativismo, ecc.).
Anche se abbiamo fatto solo uno schizzo di quanto è successo nei due decenni successivi al maggio francese, crediamo che questo basti a dimostrare che il maggio francese non era stato un incidente della storia o francese, ma solo l'inizio di una nuova fase storica in cui la classe operaia rompeva con la controrivoluzione e si riproponeva sulla scena della storia per intraprendere il lungo cammino del confronto con il capitale.
Una ripresa storica della lotta di classe lunga e difficile
Se la nuova classe operaia del dopoguerra era riuscita a rompere il periodo di controrivoluzione grazie al fatto di non aver vissuto direttamente la demoralizzazione della sconfitta degli anni venti essa era tuttavia inesperta e questa ripresa storica della lotta di classe doveva mostrarsi lunga e difficile.
Abbiamo già visto le difficoltà a fare i conti con gli organismi sindacali e con il loro ruolo di difensori del capitale. Tuttavia è stato un avvenimento storico importante ed imprevisto che ha reso ancora più difficile e lunga questa ripresa: il crollo del blocco dell'Est.
Espressione dell'erosione provocata dalla crisi economica, questo crollo ha tuttavia implicato un riflusso nella coscienza proletaria, un riflusso ampiamente sfruttato dalla borghesia per cercare di riguadagnare il terreno perso negli anni precedenti.
Attraverso l'identificazione dello stalinismo con il comunismo, la borghesia ha presentato il crollo di questo come il "fallimento del comunismo", lanciando alla classe operaia un messaggio semplice, ma forte: la lotta operaia non ha prospettive, perchè non esiste alternativa valida al capitalismo. Questo sarà anche un sistema con molti difetti, ma è "l'unico dei mondi possibili".
Questa campagna ha provocato nella coscienza operaia un riflusso molto più profondo e lungo di quello che si era manifestato tra le ondate di lotta precedenti. In effetti questa volta non si era trattato di un movimento finito male, di un sabotaggio sindacale che era riuscito a frenare un movimento di lotta. Era la possibilità stessa di una prospettiva più di lungo termine che veniva messa in discussione.
Tuttavia la crisi, che era stata il detonatore del ripresa storica della lotta di classe, era sempre lì e colpiva il livello di vita egli operai con sempre più violenza.
Perciò nel 1992 la classe operaia è costretta a tornare a lottare, con il movimento di scioperi contro il governo Amato in Italia, seguito da altre lotte in Belgio, Germania, Francia, ecc. Una ripresa della combattività in una classe operaia che tuttavia non aveva superato il riflusso della coscienza. Perciò questa ripresa non riesce a congiungersi con il livello raggiunto alla fine degli anni ottanta: la classe deve un po' riprendere da capo.
E la borghesia non è rimasta a guardare, non ha lasciato che il proletariato sviluppasse le sue lotte da solo e attraverso esse riprendesse fiducia e capacità di ricongiungersi con le esperienze del passato.
Già nell'autunno del 1994,in Italia, profittando di avere al governo una compagine particolarmente discreditata, il governo Berlusconi, la borghesia rivitalizza i suoi sindacati e li mette alla testa della lotta contro la legge finanziaria di lacrime e sangue che Berlusconi voleva far passare.
Con ancora più forza e capacità di manovra la borghesia organizza lo sciopero della funzione pubblica dell'autunno 1995 in Francia: attraverso una grande campagna di stampa a livello internazionale questo sciopero viene additato come la capacità del sindacato di organizzare la lotta operaia e difendere gli interessi del proletariato.
Una manovra simile viene provata ancora in Belgio e Germania, con il risultato di una ricredibilizzazione internazionale dei sindacati che possono così svolgere il loro ruolo di sabotatori della combattività operaia.
Ma non è solo su questo terreno che la borghesia manovra. Essa lancia anche una serie di campagne finalizzate a spingere gli operai sul terreno della difesa della democrazia (e dunque dello Stato borghese): Mani pulite in Italia, l'affare Dutroux in Belgio, campagne antirazziste in Francia, tutti avvenimenti che ricevono un grande risalto sui mezzi di informazione per convincere i lavoratori di tutto il mondo che i problemi sono altri rispetto alle volgari rivendicazioni economiche, che essi devono stringersi intorno ai loro rispettivi Stati per difendere la democrazia, la giustizia pulita e altre fesserie di questo genere.
Infine, in particolare negli ultimi due anni, è la memoria storica della classe che la borghesia ha cercato di distruggere, discreditando la storia della lotta di classe e le organizzazioni che ad essa si rifanno.
Prima si è attaccata la Sinistra Comunista presentandola come la prima ispiratrice del "negazionismo" (il filone storico che nega l’esistenza dei lager nazisti) (3).
Poi si è passati allo snaturamento del vero e profondo significato della Rivoluzione di ottobre, presentata come un colpo di Stato dei bolscevichi, cercando di cancellare così la grandiosa ondata rivoluzionaria degli anni venti, in cui la classe operaia, sebbene sconfitta, dimostrò di essere capace di attaccare il capitalismo come modo di produzione e non solo di difendersi dal suo sfruttamento. In due enormi libri, originariamente scritti in Francia e Gran Bretagna, ma già tradotti in altri paesi, si continua con la mistificazione dell'identificazione dello stalinismo con il comunismo, attribuendo a quest'ultimo tutti i crimini dello stalinismo (4).
Ma l'avvenire appartiene sempre al proletariato
Se la borghesia si preoccupa tanto di deviare la lotta della classe operaia, di snaturare la sua storia, di discreditare le organizzazioni che difendono la prospettiva rivoluzionaria della classe operaia, è perchè essa sa che il proletariato non è sconfitto, che nonostante tutte le difficoltà attuali la strada è ancora aperta verso degli scontri aperti in cui la classe operaia potrà arrivare di nuovo a mettere in discussione il potere borghese. E la borghesia sa anche che l'aggravarsi della crisi e i sacrifici che essa impone ai lavoratori spingerà questi a ingaggiarsi sempre più nella lotta. Ed è in questa lotta che i proletari ritroveranno fiducia in se stessi, che sapranno imparare a riconoscere la natura dei sindacati e attrezzarsi per trovare nuove e autonome forme di organizzazione.
Una nuova fase si sta aprendo, una fase in cui la classe operaia ritroverà la strada aperta trenta anni fa con il grandioso sciopero generale del maggio francese.
Helios
1. Révolution Internationale, vecchia serie, n. 2, 1969
2. "Enragés et Situationnistes dans le mouvement des occupations", Internationale Situationniste, 1969.
3. Vedi Révue Internationale nn. 88 e 89.
4. Vedi Révue Internationale n. 92.
Nel numero 89 del nostro organo internazionale Revue Internationale (di cui pubblichiamo in lingua italiana periodicamente solo una selezione di articoli) abbiamo pubblicato un articolo in risposta a quello di Revolutionary Perspectives N°5 (pubblicazione della Communist Workers’ Organisation – CWO) dal titolo «Sette, menzogne e la prospettiva perduta della CCI». Non potendo, per mancanza di spazio, trattare tutti gli aspetti affrontati dalla CWO, ci siamo limitati a rispondere ad uno solo dei problemi posti: l’idea secondo la quale la prospettiva delineata dalla CCI per l'attuale periodo storico sarebbe completamente fallita. Noi abbiamo messo in evidenza come le affermazioni della CWO si basavano essenzialmente su di una profonda incomprensione delle nostre posizioni e soprattutto su di una totale assenza di un quadro di analisi del periodo attuale. Assenza di quadro che è, d’altra parte, rivendicata con fierezza dalla CWO e dal BIPR (Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario, a cui questo gruppo è affiliato), nella misura in cui si considera che è impossibile per un'organizzazione rivoluzionaria identificare la tendenza dominante nel rapporto di forza tra proletariato e borghesia, ovvero se ci sia un corso verso scontri di classe crescenti o verso la guerra imperialista. In realtà, il rifiuto del BIPR di prendere in considerazione il fatto che per i rivoluzionari sia possibile -e necessario- identificare la natura del corso storico, trae le sue origini dalle condizioni stesse in cui si è costituita, alla fine della 2a guerra mondiale, l’altra organizzazione del BIPR ed ispiratrice delle sue posizioni politiche: il Partito Comunista Internazionalista (PCInt ). In un altro articolo «Le radici politiche della debolezza organizzativa della CCI», pubblicato sul n. 15 della rivista teorica in lingua inglese del BIPR, Internationalist Communist (IC), questa organizzazione ritorna sul problema delle origini del PCInt e di quelle della CCI. Nel presente articolo parleremo essenzialmente di questo argomento.
La grande debolezza dei due testi (della CWO e del BIPR) sta nel fatto che non si menziona mai l’analisi sviluppata dalla CCI sulle difficoltà organizzative da essa affrontate in quest'ultimo periodo (1): agli occhi del BIPR queste non possono che sorgere da debolezze di ordine programmatico o da una errata valutazione della situazione mondiale attuale. Incontestabilmente, tali questioni possono essere fonti di difficoltà per una organizzazione comunista. Ma tutta la storia del movimento operaio ci dimostra che i problemi legati alla struttura ed al funzionamento dell’organizzazione sono questioni politiche in senso stretto e che debolezze in questo campo, più ancora che su punti programmatici o di analisi, hanno delle conseguenze di primo piano, spesso drammatiche, sulla vita delle formazioni rivoluzionarie. Bisogna forse ricordare ai compagni del BIPR, che peraltro si richiamano alle posizioni di Lenin, l’esempio del 2° congresso del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia , nel 1903, dove è proprio sul problema dell’organizzazione (e non su punti programmatici o di analisi del periodo) che si è determinata la scissione tra bolscevichi e menscevichi? Di fatto, l’incapacità attuale del BIPR di fornire un'analisi sulla natura del corso storico trae le sue origini in larga misura dagli errori politici che riguardano la questione dell’organizzazione, e più particolarmente la questione del rapporto tra frazione e partito. E’ quanto risulta ancora una volta dall’articolo di I.C. Per evitare di essere accusati dai compagni del BIPR di falsificare le loro posizioni, riportiamo una lunga citazione del loro articolo:
«La CCI è stata costituita nel 1975 ma la sua storia risale alla Sinistra Comunista di Francia (GCF), un minuscolo gruppo che si era formato nel corso della 2a guerra mondiale ad opera dello stesso elemento ("Marc") che negli anni '70 avrebbe poi fondato la CCI. La GCF si basava essenzialmente sul rigetto della formazione del Partito Comunista Internazionalista in Italia dopo il 1942 da parte degli antenati del BIPR.
La GCF affermava che il Partito Comunista Internazionalista non costituiva un avanzamento in rapporto alla vecchia Frazione della Sinistra Comunista che era andata in esilio in Francia durante la dittatura di Mussolini. La GCF si era appellata ai membri della Frazione affinché non raggiungessero il nuovo Partito che era stato costituito da rivoluzionari come Onorato Damen , scarcerato con il crollo del regime di Mussolini. Si argomentava ciò con il fatto che la controrivoluzione che si era abbattuta sugli operai dopo la loro sconfitta negli anni '20 continuava ancora e che, perciò, non vi era la possibilità di creare un partito rivoluzionario negli anni '40. Con il crollo del fascismo in Italia e la trasformazione dello Stato italiano in un campo di battaglia tra i due fronti imperialisti, la grande maggioranza della Frazione italiana in esilio raggiunse il Partito Comunista Internazionalista (PCInt) puntando sul fatto che la combattività operaia non sarebbe rimasta limitata al Nord Italia via via che la guerra si avvicinava alla sua fine. L’opposizione della GCF non ebbe alcun impatto in questa epoca ma costituì il primo esempio delle conseguenze dei ragionamenti astratti che costituiscono oggi uno dei tratti metodologici della CCI. Oggi la CCI afferma che dalla 2a guerra mondiale non scaturì alcuna rivoluzione e che ciò costituisce la prova che la GCF aveva ragione. Ma questa ignora il fatto che il PCInt era la creazione più riuscita della classe operaia rivoluzionaria dopo la Rivoluzione russa e che, malgrado un mezzo secolo di dominazione capitalista che ne è seguito, essa continua ad esistere e ad accrescersi oggi.
La GCF, d’altra parte, ha spinto le sue astrazioni "logiche" un poco più avanti. Essa ha considerato che, poiché la controrivoluzione era sempre dominante, la rivoluzione proletaria non era all’ordine del giorno. E se ciò era vero doveva scoppiare una nuova guerra imperialista! Il risultato fu che la direzione si trasferì in America del Sud e la GCF scomparve durante la guerra di Corea. La CCI è sempre stata un pò imbarazzata dalla rivelazione delle capacità di comprensione del "corso storico" dei suoi antesignani. Tuttavia la sua risposta è stata sempre quella di prendere la questione alla larga. Quando la vecchia GCF, durante gli anni '60, è ritornata in una Europa notevolmente preservata, invece di riconoscere che il PCInt. aveva sempre avuto ragione in rapporto alle sue prospettive e alla sua concezione dell’organizzazione, ha cercato di denigrare il PCInt. affermando che esso era "sclerotico" ed "opportunista" ed affermando pubblicamente che esso era "bordighista" (…Un’accusa che è stata poi costretta a ritirare). Tuttavia, anche dopo essere stata costretta a questa ritrattazione, la sua politica di denigrazione dei possibili "rivali" (per riprendere i termini della stessa CCI) non è finita e adesso la CCI tenta di sostenere che il PCInt. ha "lavorato tra i partigiani" (ovvero che aveva appoggiato le forze borghesi che tentavano di ristabilire uno Stato democratico italiano). Questa è una calunnia vile e nauseante. In realtà dei militanti del PCInt. erano stati assassinati per ordine diretto di Palmiro Togliatti (Segretario generale del Partito Comunista Italiano) per aver tentato di combattere il controllo degli stalinisti sulla classe operaia guadagnandosi un credito presso dei partigiani».
Questo passaggio, che affronta le storie rispettive della CCI e del BIPR, merita una risposta di fondo, apportando anche degli elementi storici. Tuttavia, per la chiarezza del dibattito, è opportuno cominciare a rettificare alcuni argomenti che denotano o malafede o una ignoranza penosa da parte del redattore dell’articolo.
Qualche rettifica e qualche precisazione
Cominciamo dalla questione dei partigiani, che provoca una così forte indignazione nei compagni del BIPR da spingerli a considerarci dei "calunniatori" e dei "vigliacchi". Effettivamente noi abbiamo detto che il PCInt. aveva "lavorato tra i partigiani". Ma ciò non è affatto una calunnia, è la pura verità. E’ vero o non è vero che il PCInt. ha inviato alcuni dei suoi militanti e dei suoi quadri nei ranghi dei partigiani? Questo è un fatto che non si può nascondere. Inoltre, il PCInt. rivendica questa politica, a meno che esso non abbia cambiato posizione dopo che il compagno Damen scriveva, a nome dell’Esecutivo del PCInt. nell’autunno del 1976, che il suo partito poteva "presentarsi con tutte le carte in regola" evocando "questi militanti rivoluzionari che facevano un lavoro di penetrazione nei ranghi partigiani per diffondervi i principi e le tattiche del movimento rivoluzionario e che, per questo impegno, sono anche andati a pagare con la propria vita" (2). Al contrario, noi non abbiamo mai affermato che questa politica consisteva "nell’appoggiare le forze che cercavano di ristabilire uno Stato democratico italiano". Noi abbiamo trattato più volte questa questione sulla nostra stampa (3) - e ci ritorneremo ancora nella seconda parte di questo articolo - ma se abbiamo criticato impietosamente gli errori commessi dal PCInt. in occasione della sua costituzione, non lo abbiamo però mai confuso con le organizzazioni trotzkiste, ed ancor meno con quelle staliniste. Piuttosto che protestare, i compagni del BIPR avrebbero fatto meglio a fornire le citazioni che provocano la loro collera. In attesa che lo facciano, noi pensiamo che sia preferibile che essi lascino perdere la loro indignazione e con essa i loro insulti.
Un altro punto su cui è necessario apportare una rettifica ed una precisione riguarda l’analisi del periodo storico fatta dalla GCF all’inizio degli anni '50 e che ha motivato la partenza dall’Europa di un certo numero dei suoi membri. Il BIPR si sbaglia quando pretende che la CCI sia imbarazzata da questa questione e che risponda "prendendola alla larga". Così, nell’articolo dedicato alla memoria del nostro compagno Marc (Revue Internationale n° 66) scriviamo:
«Questa analisi, la si trova principalmente nell’articolo "L’evoluzione del capitalismo e la nuova prospettiva" pubblicato da Internationalisme n° 46 (…). Questo testo, redatto nel maggio del 1952 da Marc, costituisce in qualche modo il testamento politico della GCF. In effetti, Marc lascia la Francia per il Venezuela nel giugno del 1952. Questa partenza corrisponde ad una decisione collettiva della GCF che, di fronte alla guerra di Corea, reputa che una 3a guerra mondiale tra il blocco americano ed il blocco russo sia ormai inevitabile a breve scadenza (come viene detto nel testo in questione). Una tale guerra, che devasterebbe principalmente l’Europa, rischierebbe di distruggere completamente i pochi gruppi comunisti esistenti -e principalmente la GCF- che sono sopravvissuti alla precedente guerra mondiale. La "messa al riparo" fuori dall’Europa di un certo numero di militanti non corrisponde dunque alla preoccupazione della loro sicurezza personale (…) ma alla preoccupazione di preservare la sopravvivenza della stessa organizzazione. Tuttavia, la partenza per un altro continente dell'elemento più esperto e maturo infliggerà alla GCF un colpo fatale i cui elementi rimasti in Francia, malgrado la corrispondenza che Marc intrattiene con loro, non riescono, in un periodo di profonda controrivoluzione, a mantenere in vita l’organiz-zazione. Per delle ragioni che non possiamo qui riportare, la 3a guerra mondiale non è scoppiata. E’ chiaro che questo errore di analisi è costato la vita della GCF (e questo è probabilmente l’errore, tra quelli commessi dal nostro compagno durante il corso della sua vita di militante, che ha avuto le più gravi conseguenze)».
D’altronde, quando abbiamo ripubblicato il testo su citato (fin dal 1974 nel n° 8 del Bollettino di studio e di discussione di RI, antesignano della Revue Internationale), noi abbiamo ben precisato:
«Internationalisme aveva ragione ad analizzare il periodo che è seguito alla 2a guerra mondiale come una continuazione del periodo di reazione e di riflusso della lotta di classe del proletariato (…). Aveva ancora ragione ad affermare che, con la fine della guerra, il capitalismo non sarebbe uscito dal suo periodo di decadenza, che tutte le contraddizioni che hanno condotto il capitalismo alla guerra sarebbero rimaste ed avrebbero inesorabilmente spinto il mondo verso nuove guerre. Ma Internationalisme non ha colto o non ha messo sufficientemente in evidenza la fase di "ricostruzione" possibile nel ciclo: crisi-guerra-ricostruzione-crisi. E’ per questa ragione e nel contesto della pesante atmosfera della guerra fredda USA-URSS dell’epoca che Internationalisme non vedeva la possibilità di rinascita del proletariato che all'interno ed in seguito ad una 3a guerra».
Come si può vedere, la CCI non ha mai "preso alla larga" questi problemi e non si è mai "imbarazzata" nell’evocare gli errori della GCF (anche in un periodo in cui il BIPR non stava ancora là a ricordarglieli). Detto ciò, il BIPR ancora una volta ci da prova di non aver capito la nostra analisi sul corso storico. L’errore della GCF non consiste in una valutazione sbagliata del rapporto di forza tra le classi, ma nel fatto di aver sottovalutato la tregua che la ricostruzione aveva dato all’economia capitalista, permettendole di sfuggire alla crisi aperta per più di venti anni e dunque d’attenuare alquanto l’ampiezza delle contraddizioni imperialiste tra i blocchi. Queste ultime potevano allora restare contenute nel quadro di guerre locali (Corea, Medio Oriente, Vietnam, ecc.). Se in questa epoca la guerra mondiale non ha potuto avere luogo non è stato grazie al proletariato (il quale rimaneva paralizzato ed imbrigliato dalle forze di sinistra del capitale) ma solo perché essa non si imponeva ancora al capitalismo.
Dopo aver fatto queste precisazioni, è necessario ritornare su di un "argomento" che sembra stare a cuore al BIPR (poiché lo impiega già nell’articolo di polemica di RP n°5): quello che riguarda la taglia "minuscola" della GCF. In realtà, il riferimento al carattere "minuscolo" della GCF viene posto in contrapposizione alla "creazione della classe operaia rivoluzionaria più riuscita dopo la rivoluzione russa", e cioè al PCInt, che all’epoca contava parecchie migliaia di membri. Il BIPR vuole così forse dimostrare che la ragione della "più grande riuscita" del PCInt stava nel fatto che le sue posizioni erano più corrette di quelle della GCF?
Se questa è la prova, è piuttosto inconsistente. Tuttavia, al di là della povertà di tale argomento, l'analisi del BIPR tocca delle questioni di fondo dove si situano alcune delle divergenze fondamentali tra le nostre due organizzazioni. Per affrontare queste questioni di fondo, bisogna ritornare sulla storia della Sinistra Comunista d’Italia. Perché se era vero che la GCF era un gruppo "minuscolo", era altrettanto vero che essa era la vera continuatrice di questa corrente storica a cui si rifanno il PCInt. ed il BIPR.
Qualche elemento di storia della Sinistra italiana
La CCI ha pubblicato un libro, La Sinistra comunista d’Italia, che presenta la storia di questa corrente. Ci soffermiamo qui solo per sottolineare qualche aspetto importante di questa storia.
La corrente della Sinistra italiana, che si era costituita attorno ad Amadeo Bordiga ed alla Federazione di Napoli come Frazione «astensionista» all’interno del PSI, è stata all’origine della fondazione del Partito Comunista d’Italia nel 1921 al Congresso di Livorno ed ha assunto la direzione di questo partito fino al 1925. Come altre correnti di sinistra all'interno dell’Internazionale Comunista (come la Sinistra tedesca o la Sinistra olandese), essa ha reagito, molto prima dell’Opposizione di sinistra di Trotsky, contro la deriva opportunista dell’Internazionale. In particolare, contrariamente al trotzkismo che si richiamava integralmente ai primi 4 congressi dell’Internazionale, la Sinistra italiana rigettava alcune posizioni adottate dal 3°e dal 4° Congresso, ed in particolare la tattica del «Fronte Unito». Su molti aspetti, ed in particolare sulla natura capitalista dell’URSS o sulla natura definitivamente borghese dei sindacati, le posizioni della Sinistra tedesco-olandese erano all’inizio molto più giuste di quelle della Sinistra italiana. Tuttavia, il contributo al movimento operaio della Sinistra comunista d’Italia si è rivelato più fecondo di quello di altre correnti della Sinistra Comunista nella misura in cui questa era stata capace di comprendere meglio due questioni essenziali:
· il riflusso e la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria;
· la natura dei compiti delle organizzazioni rivoluzionarie in una tale situazione.
In particolare, essendo cosciente della necessità di una rimessa in discussione delle posizioni politiche che erano state invalidate dall’esperienza storica, la Sinistra italiana aveva la preoccupazione di avanzare con molta prudenza, cosa che le ha evitato di «gettare il bambino con l’acqua sporca» contrariamente a quanto fatto dalla Sinistra olandese che ha finito per considerare «l’ottobre del 1917» come una rivoluzione borghese ed a rigettare la necessità di un partito rivoluzionario. Ciò non ha impedito alla Sinistra italiana di far proprie alcune posizioni che erano state elaborate precedentemente dalla Sinistra tedesco-olandese.
La repressione crescente del regime mussoliniano, soprattutto a partire dalle leggi speciali del 1926, costrinse la maggior parte dei militanti della Sinistra comunista d’Italia all’esilio. E’ dunque all’estero, principalmente in Francia ed in Belgio, che questa corrente ha proseguito una attività organizzata. Nel febbraio del 1928 è stata fondata a Pantin, nelle vicinanze di Parigi, la Frazione di Sinistra del Partito comunista d’Italia. Quest’ultima ha tentato di partecipare allo sforzo di discussione e di raggruppamento delle differenti correnti di Sinistra che erano state espulse dalla Internazionale in degenerazione, tra cui la figura più conosciuta era quella di Trotsky. In particolare, la Frazione aveva come obiettivo la pubblicazione di una rivista di discussione comune a queste differenti correnti. Tuttavia, essendo stata esclusa dall’Opposizione della Sinistra internazionale, nel 1933 essa decise di pubblicare una propria rivista, Bilan, in lingua francese, pur continuando a pubblicare Prometeo in lingua italiana.
Non passeremo in rivista le posizioni della Frazione né l'evoluzione di questa. Ci limiteremo a ricordare una delle sue posizioni essenziali su cui fondava la sua esistenza: quella sul rapporto tra partito e frazione.
Questa posizione è stata progressivamente elaborata dalla Frazione alla fine degli anni '20 ed all’inizio degli anni '30 quando si trattava di definire quale politica conveniva portare avanti nei confronti dei partiti comunisti in via di degenerazione.
A grandi tratti, si può così riassumere tale posizione. La Frazione di Sinistra si forma in un momento in cui il partito del proletariato tende a degenerare, vittima dell’opportunismo, cioè della penetrazione dell’ideologia borghese al suo interno. E’ responsabilità della minoranza che mantiene il programma rivoluzionario di lottare in maniera organizzata per far trionfare tale programma all’interno del partito. O la Frazione riesce a far trionfare i suoi principi ed a salvare il partito, o quest’ultimo prosegue il suo corso degenerativo e finisce per passare, armi e bagagli, nel campo della borghesia. Il momento del passaggio del partito proletario nel campo borghese non è facile da determinare. Tuttavia, uno degli indici più significativi di tale passaggio è il fatto che non possa più apparire vita politica proletaria al suo interno. La Frazione di Sinistra ha la responsabilità di condurre la lotta all’interno del partito finché esiste una speranza che questo possa essere raddrizzato: e perciò che negli anni 1920 e all'inizio degli anni 1930, non sono le correnti di sinistra che si sono separate dai partiti dell’Internazionale Comunista ma sono stati questi ultimi ad espellerle, spesso con manovre sordide. Detto ciò, una volta che un partito del proletariato è passato nel campo della borghesia, non c’è possibilità che esso possa tornare indietro. Necessariamente, il proletariato dovrà far sorgere un nuovo partito per riprendere il suo cammino verso la rivoluzione e il ruolo della Frazione è proprio quello di costituire un «ponte» tra il vecchio partito passato al nemico ed il futuro partito del quale essa dovrà elaborare le basi programmatiche e costituire l’ossatura. Il fatto che, dopo il passaggio del partito nel campo borghese, non possa esistere vita proletaria al suo interno significa anche che è completamente inutile, e pericoloso, per i rivoluzionari praticare «l’entrismo» che costituiva una delle «tattiche» del trotzkismo e che la Frazione ha sempre rigettato. Voler mantenere una vita proletaria in un partito borghese - dunque sterile per le posizioni di classe - non ha mai avuto altro risultato che quello di accelerare la degenerazione opportunista delle organizzazioni che vi hanno provato e non di raddrizzare in nessun modo tale partito. Quanto al "reclutamento" che questi metodi hanno prodotto, esso è stato sempre particolarmente confuso, corrotto dall’opportunismo e non ha mai potuto condurre ad una avanguardia per la classe operaia.
Di fatto, una delle differenze fondamentali tra la Frazione italiana ed il trotzkismo sta nel fatto che la Frazione, nella politica di raggruppamento delle forze rivoluzionarie, anteponeva sempre la necessità della più grande chiarezza, del più grande rigore programmatico, anche se essa rimaneva aperta alla discussione con tutte le altre correnti che avevano ingaggiato la lotta contro la degenerazione della Internazionale Comunista. Al contrario la corrente trotzkista ha cercato di costituire delle organizzazioni in maniera precipitosa, senza una discussione seria ed una decantazione preliminare delle posizioni politiche, puntando essenzialmente su accordi tra "personalità" e sull’autorità acquisita da Trotsky come uno dei principali dirigenti della rivoluzione del 1917 e dell’IC alla sua origine.
Un’altra questione che ha contrapposto il trotzkismo alla Frazione italiana era quella del momento in cui bisognava formare un nuovo partito. Per Trotsky ed i suoi compagni, la questione della fondazione del nuovo partito era posta immediatamente all’ordine del giorno da quando il vecchio partito era perso per il proletariato. Per la Frazione, la questione era molto chiara:
“La trasformazione della Frazione in partito è condizionata da due elementi intimamente legati (4):
1. L’elaborazione, da parte della frazione, di nuove posizioni politiche capaci di dare un quadro solido alle lotte del proletariato per la Rivoluzione in una nuova fase più avanzata (…).
2. Il rovesciamento dei rapporti di classe del sistema attuale (…) con lo scoppio di movimenti rivoluzionari che potranno permettere alla Frazione di riprendere la direzione delle lotte nella prospettiva dell'insurrezione” (“Verso l’Internazionale 2 e ¾?”, Bilan n°1, 1933).
Perché i rivoluzionari siano capaci di stabilire in maniera corretta quale è la loro responsabilità in un certo momento, è necessario che essi identifichino in maniera chiara il rapporto di forze tra le classi e il senso dell’evoluzione di tale rapporto. Uno dei grandi meriti della Frazione è giustamente quello di aver saputo identificare la natura del corso storico durante gli anni '30: dalla crisi generale del capitalismo, con il peso della controrivoluzione operante sulla classe operaia, non poteva venire fuori che una nuova guerra mondiale.
Questa analisi ha dimostrato tutta la sua importanza al momento della guerra di Spagna. Mentre la maggior parte delle organizzazioni che si richiamavano alla sinistra dei partiti comunisti vedono negli avvenimenti di Spagna una ripresa rivoluzionaria del proletariato mondiale, la Frazione capisce che, malgrado il coraggio e l’alta combattività espressa dal proletariato spagnolo, questo era caduto nella trappola dell’ideologia antifascista portata avanti da tutte le organizzazioni che avevano una certa influenza su di esso (la CNT anarchica, l’UGT socialista, come i partiti comunisti, socialisti ed il POUM, un partito socialista di sinistra che partecipava al governo borghese della «Generalitat»). La Frazione comprende che i proletari sono destinati a servire da carne da cannone in uno scontro tra settori della borghesia (quello «democratico» contro quello «fascista»), che rappresenta il preludio della guerra mondiale che di lì a poco sarebbe inevitabilmente scoppiata. In questa occasione, nella Frazione si forma una minoranza che pensa che in Spagna la situazione restava «obiettivamente rivoluzionaria» e che, a disprezzo di ogni disciplina organizzativa e rifiutando il dibattito che gli proponeva la maggioranza, si arruola nelle brigate antifasciste del POUM (5) e si esprime anche nelle colonne del giornale dell’organizzazione. La Frazione è obbligata a prendere atto della scissione della minoranza che alla fine del 1936, al suo ritorno dalla Spagna (6), va ad integrare i ranghi dell’Union Communiste, un gruppo che aveva rotto a sinistra, all’inizio degli anni 1930, con il trotzkismo ma che raggiunse questa corrente qualificando come «rivoluzionari» gli avvenimenti di Spagna e promuovendo un «antifascismo critico».
Così, in compagnia di un certo numero di comunisti di sinistra olandesi, la Frazione italiana è la sola organizzazione che abbia mantenuto una posizione di classe intransigente di fronte alla guerra imperialista che si sviluppava in Spagna (7). Malauguratamente, alla del 1937, Vercesi che è il principale teorico ed animatore della Frazione comincia ad elaborare una teoria secondo la quale i diversi scontri militari che si erano prodotti nella seconda metà degli anni ‘30 non costituivano i preparativi di un nuovo macello imperialista generalizzato ma delle «guerre locali» destinate a prevenire, attraverso i massacri operai, la minaccia proletaria impellente. Secondo questa «teoria» il mondo si trovava dunque alla vigilia di una nuova ondata rivoluzionaria e la guerra mondiale non era più all’ordine del giorno nella misura in cui l’economia di guerra era in grado, da sola, di superare la crisi capitalista. Solo una minoranza della Frazione, a cui apparteneva il nostro compagno Marc, fu allora capace di non lasciarsi trascinare in questa deriva che rappresentava una sorte di rivalsa postuma della minoranza del 1936. La maggioranza decide di interrompere la pubblicazione della rivista Bilan e di sostituirla con Octobre (il cui nome è conforme alla «nuova prospettiva»), organo del Bureau Internazionale delle Frazioni di Sinistra (italiana e belga), che intende pubblicare in tre lingue. In effetti, anziché «fare di più» come la supposta «nuova prospettiva» lo esigeva, la Frazione è incapace di mantenere il suo lavoro dall’inizio: Octobre, contrariamente a Bilan, apparve in maniera irregolare ed unicamente in francese; numerosi militanti, disorientati da questa rimessa in causa delle posizioni della Frazione, cadono nella demoralizzazione o dimissionano.
La Sinistra italiana durante la seconda guerra mondiale e la formazione della GCF
Quando scoppia la seconda guerra mondiale, la Frazione è disarticolata. Più ancora che la repressione da parte della polizia «democratica» prima e della Gestapo poi (parecchi militanti, tra i quali Mitchell - principale animatore della Frazione belga - vengono deportati ed uccisi), è il disorientamento politico e l’impreparazione di fronte ad una guerra mondiale non prevista che stanno alla base di tale sbandata. Da parte sua, Vercesi proclama che con la guerra il proletariato è diventato «socialmente inesistente», che ogni lavoro di frazione è divenuto inutile e che conviene quindi sciogliere le frazioni (decisione che è presa dal Bureau Internazionale delle frazioni), cosa che contribuisce ulteriormente a paralizzare la Frazione. Tuttavia, il nucleo di Marsiglia, costituito da militanti che si erano opposti alle concezioni revisioniste di Vercesi prima della guerra, prosegue un lavoro paziente per ricostituire la frazione, un lavoro particolarmente difficile per la repressione e per la mancanza di mezzi materiali. Delle sezioni sono ricostituite a Lione, Tolone ed a Parigi. Dei contatti sono presi in Belgio. A partire dal 1941 la Frazione italiana «ricostituita» tiene delle conferenze annuali, nomina una Commissione Esecutiva e pubblica un Bollettino internazionale di discussione. Parallelamente si costituisce nel 1942, sulle posizioni della Frazione italiana, il Nucleo francese della Sinistra Comunista , a cui partecipa Marc, membro della CE della FI e che si dà come prospettiva la costituzione della Frazione francese.
Quando nel 1942-43 si sviluppano, nel Nord dell’Italia, grandi scioperi operai che determinano la caduta di Mussolini ed il rimpiazzo di quest’ultimo con l’ammiraglio filo-alleati Badoglio (scioperi che si ripercuotono in Germania tra gli operai italiani sostenuti da scioperi di operai tedeschi), la Frazione reputa che, coerentemente con la sua posizione di sempre, «il corso della trasformazione della frazione in partito in Italia è aperto». La sua conferenza dell’agosto 1943 decide di riprendere il contatto con l’Italia e chiede ai militanti di prepararsi a farvi ritorno appena possibile. Tuttavia questo ritorno non fu possibile, in parte per delle ragioni materiali e in parte per ragioni politiche dovute al fatto che Vercesi e una parte della Frazione belga erano contrari considerando che gli avvenimenti italiani non avrebbero rimesso in causa «l’inesistenza sociale del proletariato». Alla conferenza di maggio del 1944, la Frazione condanna le teorie di Vercesi (8). Tuttavia quest’ultimo non termina qui la sua deriva. Nel settembre del 1944 egli partecipa, a nome della Frazione (ed in compagnia di un altro membro di quest’ultima, Pieri) alla costituzione della «Coalizione antifascista» di Bruxelles a fianco dei partiti democratico cristiano, «comunista», repubblicano, socialista e liberale e che pubblica il giornale L’Italia di Domani sulle cui colonne si trovano appelli alla sottoscrizione finanziaria per sostenere lo sforzo di guerra degli alleati. Presa conoscenza di questi fatti, la Frazione escluse Vercesi il 20 gennaio del 1945. Ciò non ha impedito a quest’ultimo di proseguire ancora per parecchi mesi la sua attività nella «Coalizione» e come presidente della «Croce Rossa» (9).
Da parte sua, la Frazione proseguiva un difficile lavoro di propaganda contro l’isteria antifascista e di denuncia della guerra imperialista. Essa aveva adesso al suo fianco il Nucleo francese della Sinistra Comunista che si era costituito in Frazione francese della Sinistra Comunista e che aveva tenuto il suo primo congresso nel dicembre del 1944. Le due Frazioni distribuiscono dei volantini e attaccano dei manifesti che chiamano alla «fraternizzazione» i proletari in divisa dei due campi imperialisti. Tuttavia, alla conferenza di maggio del 1945, avendo preso notizia della costituzione in Italia del Partito comunista internazionalista con le figure prestigiose di Onorato Damen e di Amadeo Bordiga, la maggioranza della Frazione decide lo scioglimento di quest’ultima e l’entrata individuale dei suoi membri nel PCInt. Era questa una rimessa in discussione radicale di tutto il cammino politico della Frazione a partire dalla sua costituzione nel 1928. Marc, membro della CE della Frazione e principale animatore del suo lavoro durante la guerra, si oppose a questa decisione. Non si trattava di un presa di posizione formale ma politica: egli riteneva che la Frazione doveva continuare ad esistere finché questa non si fosse assicurata delle posizioni del nuovo partito, che non erano ben conosciute, e verificare se esse erano conformi a quelle della frazione (10). Per non essere complice del suicidio della Frazione, egli dimissionò dalla sua CE e lasciò la conferenza dopo aver fatto una dichiarazione con la quale spiegava il suo atteggiamento. La Frazione, che peraltro non aveva più motivo di esistere, lo escluse per «indegnità politica» e rifiutò di riconoscere la FFGC della quale egli era il principale animatore. Qualche mese dopo, due membri della FFGC che avevano incontrato Vercesi, il quale si era espresso per la costituzione del PCInt, dettero luogo ad una scissione e costituirono una FFGC-bis con il sostegno del PCInt. Per evitare ogni confusione, la FFGC prende allora il nome di Sinistra Comunista di Francia (Gauche Communiste de France, GCF) che si richiama completamente alla continuità politica della Frazione. Da parte sua ,la FFGC-bis si trova «rafforzata» dall’entrata nelle sue fila dei membri della minoranza espulsa dalla Frazione nel 1936 e del principale animatore dell’Union Communiste, Chazé. Ciò non impedisce al PCInt e alla Frazione belga di riconoscerla come «la sola rappresentante in Francia della Sinistra comunista».
La «minuscola» GCF terminò nel 1946 la pubblicazione del suo giornale d’agitazione, l’Etincelle, (la Scintilla), ritenendo che la prospettiva di una ripresa storica della lotta di classe, come essa era stata prevista nel 1943, non si era verificata. Al contrario, essa pubblicò tra il 1945 ed il 1952 46 numeri della sua rivista teorica Internationalisme, che affrontava l’insieme dei problemi che si ponevano al movimento operaio all’indomani della seconda guerra mondiale e precisando le basi programmatiche sulle quali andava a costituirsi Internacionalismo nel 1964 in Venezuela, Révolution Internationale nel 1968 in Francia e la Corrente Comunista Internazionale nel 1975.
Fabienne.
1.Vedere l’articolo sul 12° Congresso della CCI sulla Revue Internationale n° 90.
2. Lettera pubblicata su Rivoluzione Internazionale n°7 con la nostra risposta: «Le ambiguità sui "partigiani" nella costituzione del Partito Comunista Internazionalista in Italia».
3. Vedere articolo della Rivoluzione Internazionale n°7.
4. Noi abbiamo spesso affrontato nella nostra stampa ciò che, conformemente alla concezione elaborata dalla Sinistra italiana, distingue la forma partito dalla forma frazione (vedere in particolare il nostro studio «Il rapporto Frazione-Partito nella tradizione marxista» nella Revue Internationale n° 59, 61, 64 e 64. Possiamo ricordare i seguenti elementi per chiarire il problema. La minoranza comunista esiste in permanenza come espressione del divenire rivoluzionario del proletariato. Tuttavia l’impatto che essa può avere sulle lotte immediate della classe è fortemente condizionato dal livello di queste ultime e dal grado di coscienza delle masse operaie. Non è che nei periodi di lotte aperte e sempre più coscienti del proletariato che questa minoranza può sperare di avere un impatto su queste lotte. Solo in queste circostanze si può parlare di questa minoranza come di un partito. Al contrario, nei periodi di riflusso storico del proletariato, di trionfo della controrivoluzione, è vano sperare che le posizioni rivoluzionarie possano avere un impatto significativo e determinante sull’insieme della classe. In tali periodi, il solo lavoro possibile - ed indispensabile - è quello di frazione: preparare le condizioni politiche della formazione del futuro partito quando i rapporti di forza tra le classi permetterà nuovamente che le posizioni comuniste abbiano un impatto sull’insieme del proletariato.
5. Un membro della minoranza, Candiani, prende anche il comando della colonna «Lenin» del POUM sul fronte aragonese.
6. La maggioranza della Frazione, contrariamente alla legenda alimentata dalla minoranza come da altri gruppi, non si è limitata ad osservare da lontano gli avvenimenti di Spagna. I suoi rappresentanti sono rimasti in Spagna fino a maggio del 1937, non per arruolarsi sul fronte antifascista ma per proseguire, nella clandestinità di fronte ai sicari stalinisti, il cui compito era proprio quello di assassinarli, un lavoro di propaganda per tentare di sottrarre qualche militante dalla spirale della guerra imperialista.
7. Bisogna notare che gli avvenimenti di Spagna hanno provocato delle scissioni in altre organizzazioni (l’Union Communiste in Francia, la Ligue des Communistes in Belgio, la Revolutionary Workers’ League negli Stati Uniti, la Liga Comunista in Messico) che si ritrovano sulle posizioni della Frazione italiana raggiungendo le sue fila o costituendo, come in Belgio, una nuova frazione della Sinistra Comunista Internazionale. E’ in quest’epoca che il compagno Marc lascia l’Union Communiste e raggiunge la Frazione con la quale egli era in contatto da parecchi anni.
8. Durante questo periodo, la Frazione ha pubblicato parecchi numeri del suo bollettino di discussione, cosa che le ha permesso di sviluppare tutta una serie di analisi, principalmente sulla natura dell’URSS, sulla degenerazione della rivoluzione russa e sulla questione dello Stato nel periodo di transizione, sulla teoria dell’economia di guerra sviluppata da Vercesi e sulle basi economiche della guerra imperialista.
9. A questo titolo, Vercesi ha ricevuto i ringraziamenti di “sua eccellenza il nunzio apostolico” per il suo “appoggio a questa opera di solidarietà e di umanità” dichiarandosi certo “che nessuno italiano si coprirebbe dell’onta di restare sordo al nostro pressante appello” (L’Italia di Domani n°11, marzo 1945).
10. In questo senso, la ragione per la quale Marc si oppose alla decisione della Frazione, nel marzo del 1945, non è quella data da IC: «che la controrivoluzione che si era abbattuta sugli operai dopo la sconfitta degli anni ‘20 continuava ancora e che, per questo, non vi era la possibilità di creare un partito rivoluzionario durante gli anni ‘40» poiché in quel momento, pur sottolineando tutte le difficoltà crescenti incontrate dal proletariato per la politica sistematica degli Alleati che mirava a deviare la sua combattività su di un terreno borghese, Marc non aveva ancora messo in discussione esplicitamente la posizione adottata nel 1943 sulla possibilità di formare il Partito.
RETTIFICA
Il BIPR ci ha chiesto di rettificare la frase seguente del nostro articolo «Una politica di raggruppamento senza bussola» (Revue Internationale n° 87, p. 22): «Alla quarta conferenza (dei gruppi della Sinistra Comunista), la CWO e BC hanno allentato i criteri allo scopo di permettere che il posto della CCI fosse preso dal SUCM.» Il BIPR ci ha detto che in realtà la quarta conferenza si è svolta secondo i criteri che erano stati adottati alla fine della terza, e che il SUCM aveva affermato di essere d’accordo con tali criteri. Noi prendiamo atto di questo fatto. Siamo interessati al fatto che le polemiche tra la CCI e il BIPR, come ogni dibattito tra rivoluzionari, si basino su questioni di fondo e non su dei malintesi o su dettagli erronei.
Per i comunisti lo studio della storia del movimento operaio e delle sue organizzazioni non corrisponde affatto ad una curiosità di tipo accademico. E' al contrario un mezzo indispensabile per permettere loro di fondare su solide basi il loro programma, di orientarsi nella situazione presente e stabilire in modo chiaro le prospettive per l'avvenire. In particolare, l'esame delle esperienze passate della classe operaia deve permettere di verificare la validità delle posizioni che sono state allora difese dalle organizzazioni politiche e tirarne le lezioni. I rivoluzionari di un'epoca non si pongono come giudici dei loro antenati. Ma devono essere in grado di mettere in evidenza le posizioni giuste come gli errori delle organizzazioni del passato, e devono saper riconoscere il momento in cui una posizione corretta in un certo contesto storico diviene caduca quando le condizioni storiche cambiano. In mancanza di ciò, incontrano grandi difficoltà ad assumere le loro responsabilità, condannati a ripetere gli errori del passato oppure a mantenere una posizione anacronistica.
Un tale approccio è l'ABC per una organizzazione rivoluzionaria. Se ci rapportiamo al suo articolo, il BIPR condivide questo approccio e noi consideriamo molto positivo che questa organizzazione abbia abbordato, insieme ad altri aspetti, la questione delle proprie origini storiche (o piuttosto le origini del PCInt) come di quelle della CCI. Ci sembra che la comprensione dei disaccordi tra le nostre organizzazioni debba partire dall'esame delle nostre rispettive storie. E' perciò che la nostra risposta alla polemica del BIPR si concentra su questo aspetto. Abbiamo cominciato a farlo nella prima parte di questo articolo per ciò che concerne la Frazione italiana e la GCF. Si tratta ora di ritornare sulla storia del PCInt.
Infatti, uno dei punti importanti che qui si tratta di stabilire è il seguente: possiamo considerare, come dice il BIPR, che il «il PCInt era la creazione della classe operaia che ha avuto la miglior riuscita dalla rivoluzione russa» (1). Se tale è il caso, allora è necessario considerare l'azione del PCInt come esemplare e fonte d'ispirazione per le organizzazioni comuniste di oggi e di domani. La domanda che si pone è la seguente: come possiamo misurare il successo d'una organizzazione rivoluzionaria? La risposta s'impone da sola: se adempie correttamente ai compiti che sono suoi nel periodo storico in cui agisce. In questo senso, i criteri di «riuscita» che saranno scelti sono di per sé significativi del modo in cui si concepisce il ruolo e la responsabilità dell'organizzazione d'avanguardia del proletariato.
I criteri di "riuscita" di una organizzazione rivoluzionaria
Una organizzazione rivoluzionaria è l'espressione, e anche un fattore attivo, del processo di presa di coscienza che deve condurre il proletariato ad assumere il suo compito storico di rovesciamento del capitalismo e di instaurazione del comunismo. Una tale organizzazione è uno strumento indispensabile del proletariato nel momento del salto storico che rappresenta la sua rivoluzione comunista. Quando una organizzazione rivoluzionaria è confrontata a questa situazione particolare, come fu il caso dei partiti comunisti a partire dal 1917 e all'inizio degli anni '20, il criterio decisivo sul quale deve essere apprezzata la sua azione è la capacità di richiamare attorno a sé, e al programma comunista che difende, le grandi masse operaie che costituiscono il soggetto della rivoluzione. In questo senso, si può considerare che il partito bolscevico ha pienamente compiuto il suo compito nel 1917 (non solo, d'altronde, di fronte alla rivoluzione in Russia, ma di fronte alla rivoluzione mondiale poiché è stato ugualmente esso ad essere il principale ispiratore della costituzione e del programma rivoluzionario dell'Internazionale Comunista fondata nel 1919). Da febbraio ad ottobre 1917, la sua capacità di legarsi alle masse in piena effervescenza rivoluzionaria, a mettere davanti, in ogni momento del processo di maturazione della rivoluzione, le parole d'ordine le più adatte dando prova della più grande intransigenza di fronte alle sirene dell'opportunismo, ha costituito un fattore incontestabile del suo «successo».
Ciò detto, il ruolo delle organizzazioni comuniste non si limita ai periodi rivoluzionari. Se così fosse, allora tali organizzazioni non sarebbero esistite che nel periodo che va dal 1917 al 1923 e ci si potrebbe chiedere quale sia oggi il significato dell'esistenza del BIPR e della CCI. E' chiaro che, al di fuori di periodi direttamente rivoluzionari, le organizzazioni comuniste hanno il ruolo di preparare la rivoluzione, cioè contribuire nel miglior modo possibile allo sviluppo della condizione essenziale di questa: la presa di coscienza da parte dell'insieme del proletariato dei suoi fini storici e dei mezzi da usare per arrivarci. Ciò significa, in primo luogo, che la funzione permanente delle organizzazioni comuniste (che vale dunque anche nei periodi rivoluzionari) è di definire nel modo più chiaro e coerente possibile il programma del proletariato. Ciò significa, in secondo luogo e in diretto legame con la prima funzione, preparare politicamente e organizzativamente il partito che dovrà trovarsi alla testa del proletariato nel momento della rivoluzione. Infine, ciò passa soprattutto attraverso un intervento continuo nella classe, in funzione dei mezzi dell'organizzazione, allo scopo di guadagnare alle posizioni comuniste gli elementi che tentano di rompere con l’influenza ideologica della borghesia e dei suoi partiti.
Per ritornare a « la creazione della classe operaia che ha avuto la miglior riuscita dopo la rivoluzione russa», cioè il PCInt (secondo l'affermazione del BIPR), ci si deve porre la domanda: di quale «riuscita» si tratta?
Ha forse giocato un ruolo decisivo nell'azione del proletariato nel corso di un periodo rivoluzionario o di attività intensa del proletariato?
Ha apportato dei contributi di primo piano all'elaborazione del programma comunista, seguendo l’esempio, tra l'altro, della Frazione italiana della Sinistra comunista, organizzazione a cui si richiama?
Ha gettato delle basi organizzative significative e solide sulle quali potrà poggiare la fondazione del futuro partito comunista mondiale, avanguardia della futura rivoluzione mondiale?
Cominceremo col rispondere a quest'ultima domanda. In una lettera del 9 giugno 1980 indirizzata dalla CCI al PCInt all’indomani del fallimento della terza conferenza dei gruppi della Sinistra comunista, scrivevamo:
«Come spiegate (..) che la vostra organizzazione, che era già sviluppata nel momento della ripresa di classe nel 1968, non abbia potuto mettere a profitto questa ripresa per estendersi a livello internazionale mentre la nostra, praticamente inesistente nel 1968, a partire da questa data ha decuplicato le sue forze e si è impiantata in dieci paesi?»
La questione che ponevamo allora resta perfettamente valida ancora oggi. Da quel periodo, il PCint è riuscito ad allargare la sua estensione internazionale costituendo il BIPR assieme alla CWO (che ha ripreso, per l'essenziale, le sue posizioni e analisi politiche) (2). Ma occorre riconoscere che il bilancio del PCint, dopo più di mezzo secolo di esistenza, è piuttosto modesto. La CCI ha sempre messo in evidenza e deplorato l'estrema debolezza numerica e l'impatto molto ridotto delle organizzazioni comuniste, tra cui la nostra, nel periodo presente. Noi non siamo del genere che pratica i bluff o si attribuisce i galloni per farsi riconoscere come il «vero stato maggiore del proletariato». Lasciamo ad altri gruppi la mania di prendersi come il «vero Napoleone» e di proclamarlo. Ciò detto, appoggiandosi sul criterio di «riuscita» che si esamina qui, quello della «minuscola GCF», benché essa abbia cessato di esistere dal 1952, è incomparabilmente più soddisfacente di quello del PCInt. Con sezioni e nuclei in 13 paesi, 11 pubblicazioni territoriali regolari in 7 lingue diverse (tra cui quelle più diffuse nei paesi industrializzati: inglese, tedesco, spagnolo e francese), una rivista teorica trimestrale in tre lingue, la CCI, che si è costituita attorno alle posizioni e analisi politiche della GCF, è oggi l'organizzazione della Sinistra comunista non solo la più importante ed estesa, ma anche e soprattutto quella che ha conosciuto la dinamica di sviluppo più positiva nel corso dell'ultimo quarto di secolo. Il BIPR può sicuramente considerare che la «riuscita» attuale degli eredi della GCF, se la si paragona a quella del PCInt, è giustamente la prova della debolezza della classe operaia. Quando questa avrà sviluppato molto di più le sue lotte e la sua coscienza, essa riconoscerà la validità delle posizioni e delle parole d'ordine del BIPR e si raggrupperà più numerosa di oggi attorno ad esso. Ognuno si consola come può.
Dunque, quando il BIPR evoca con il superlativo assoluto la «riuscita» del PCInt, non può trattarsi della sua capacità di gettare le future basi organizzative del partito mondiale, a meno che non si rifugga in delle speculazioni su ciò che sarà il BIPR nel futuro. Passiamo allora ad esaminare un altro criterio: il PCInt del 1945-46 (cioè quando adotta la sua prima piattaforma) ha apportato dei contributi di primo piano all'elaborazione del programma comunista?
Noi non passeremo in rivista l'insieme delle posizioni contenute in questa piattaforma che contiene effettivamente delle cose eccellenti. Ci limiteremo ad evocare soltanto alcuni punti programmatici, estremamente importanti già in quell’epoca, sui quali non c’è nella piattaforma una grande chiarezza. Si tratta della natura dell'URSS, della natura delle lotte dette di «liberazione nazionale e coloniale» e della questione sindacale.
La piattaforma attuale del BIPR è chiara sulla natura capitalista della società che è esistita in Russia fino al 1990, sul ruolo dei sindacati come strumento della conservazione dell'ordine borghese che il proletariato non può in alcun modo «riconquistare» e sulla natura controrivoluzionaria delle lotte nazionali. Tuttavia, questa chiarezza non esisteva nella piattaforma del 1945 dove l'URSS era ancora considerata come uno «Stato proletario», dove la classe operaia era chiamata a sostenere certe lotte nazionali e coloniali e dove i sindacati erano ancora considerati come delle organizzazioni che il proletariato poteva «riconquistare», soprattutto grazie alla creazione, sotto l'egida del PCInt, di minoranze candidate alla loro direzione (3). Nella stessa epoca, la GCF aveva già rimesso in discussione la vecchia analisi della Sinistra italiana sulla natura proletaria dei sindacati e compreso che la classe operaia non poteva più, in alcun modo, riconquistare questi organi. Anche l'analisi sulla natura capitalista dell'URSS era stata già elaborata nel corso della guerra dalla Frazione italiana ricostituita attorno al nucleo di Marsiglia. Infine, la natura controrivoluzionaria delle lotte nazionali, il fatto che esse costituivano semplici momenti di scontri imperialisti tra grandi potenze, era stata già stabilita dalla Frazione nel corso degli anni '30. E' perciò che noi manteniamo oggi ciò che la GCF diceva già del PCInt nel 1946 e che irrita il BIPR quando si lamenta che «la GCF affermava che il PCInt non costituiva un avanzamento rispetto alla vecchia Frazione della Sinistra comunista che era andata in esilio in Francia durante la dittatura di Mussolini». Sul piano della chiarezza programmatica, i fatti parlano da soli (4).
Così non si può considerare che le posizioni programmatiche che erano quelle del PCInt nel 1945 facciano parte della «riuscita» poiché una buona parte di esse ha dovuto essere rivista in seguito, soprattutto nel 1952, durante il congresso che ha visto la scissione della tendenza di Bordiga e ancora dopo. Se il BIPR ci permette di fare un po’ d'ironia, potremo dire che alcune delle attuali posizioni sono più ispirate a quelle della GCF che a quelle del PCInt del 1945. Allora dove si trova il «grande successo» di questa organizzazione?
Non resta altro che la forza numerica e l'impatto che essa ha avuto in un certo momento della storia.
Effettivamente, il PCInt contava, tra il 1945 e 1947, circa 3000 membri e un numero significativo di operai si riconosceva in esso. Si può dire che questa organizzazione ha potuto giocare un ruolo significativo nel corso degli avvenimenti storici indirizzandoli nel senso della rivoluzione proletaria, anche se questa infine non ha avuto luogo? Evidentemente, sarebbe fuori luogo qualunque rimprovero fatto al PCInt di aver fallito nella sua responsabilità di fronte ad una situazione rivoluzionaria poiché una tale situazione non esisteva nel 1945. Ma è giustamente lì che si pone il problema. Come afferma l'articolo del BIPR, il PCInt puntava «sul fatto che la combattività operaia non restasse limitata al nord dell'Italia allorché la guerra si avvicinava alla fine». Infatti, il PCInt si era costituito nel 1943 sulla base della ripresa di scontri di classe nel nord dell'Italia puntando sul fatto che questi scontri fossero i primi di una nuova ondata rivoluzionaria che sarebbe sorta dalla guerra come avvenne nel corso del primo conflitto mondiale. La storia si è incaricata di smentire in seguito una tale prospettiva. Ma nel 1943, era legittimo metterla davanti (5). Dopo tutto, l'Internazionale Comunista e la maggior parte dei partiti comunisti, tra cui il partito italiano, si erano formati quando l'ondata rivoluzionaria iniziata nel 1917 era già in declino dopo il tragico massacro del proletariato tedesco del gennaio 1919. Ma i rivoluzionari dell'epoca non ne erano ancora consapevoli (ed è giustamente uno dei grandi meriti della Sinistra italiana d'esser stata una delle prime correnti a costatare questa inversione del rapporto di forza tra borghesia e proletariato). Tuttavia, quando si è tenuta la conferenza alla fine del 1945-inizio 1946, la guerra era già finita e le reazioni proletarie che aveva prodotto a partire dal '43 erano già state soffocate sul nascere grazie a una sistematica politica preventiva da parte della borghesia (6). Malgrado ciò, il PCInt non ha rimesso in causa la sua politica precedente (anche se un certo numero di voci si sono alzate nella conferenza per constatare il rafforzamento della presa borghese sulla classe operaia). Ciò che era un errore del tutto normale nel 1943, lo era già molto meno alla fine del 1945. Tuttavia, il PCInt ha continuato sullo slancio e non rimetterà più in causa la validità della formazione del partito nel 1943.
Ma la cosa più grave per il PCInt non è l'errore di valutazione del periodo storico e la difficoltà a riconoscere questo errore. Ben più catastrofico è stato il modo in cui il PCInt si è sviluppato e le posizioni che è stato portato a prendere in conseguenza di ciò, soprattutto il fatto che ha cercato di «adattarsi» alle illusioni crescenti di una classe operaia in riflusso.
La costituzione del PCInt
Alla sua nascita nel 1943, il PCInt si richiamava alle posizioni politiche elaborate dalla Frazione italiana della Sinistra comunista. D'altronde, se il suo principale animatore, Onorato Damen, uno dei dirigenti della Sinistra negli anni '20, era rimasto in Italia dal 1924 (la maggior parte del tempo nelle prigioni mussoliniane da dove i rivolgimenti del 1942-43 lo tirarono fuori) (7), esso contava nei suoi ranghi un certo numero di militanti della Frazione che erano rientrati in Italia all'inizio della guerra. Effettivamente, nei primi numeri di Prometeo clandestino (che riprende il nome tradizionale del giornale della Sinistra, quello degli anni '20 e quello della Frazione italiana negli anni '30) pubblicati a partire da novembre '43, si trovano denunce molto chiare della guerra imperialista, dell'antifascismo e dei movimenti «partigiani» (8). Tuttavia, a partire dal 1944, il PCInt si orienta verso un lavoro d'agitazione in direzione dei gruppi di partigiani e diffonde, in giugno, un manifesto che incita alla «trasformazione delle formazioni partigiane là dove esse sono composte da elementi proletari di sana coscienza di classe, in organi d'autodifesa proletaria, pronti a intervenire nella lotta rivoluzionaria per il potere". Nell'agosto 1944, Prometeo n° 15 va più lontano nei compromessi: «Gli elementi comunisti credono sinceramente alla necessità della lotta contro il nazi-fascismo e pensano che, una volta abbattuto questo ostacolo, potranno marciare verso la conquista del potere, abbattendo il capitalismo». E' la rimessa in piedi dell'idea sulla quale si sono appoggiati tutti quelli che, nel corso della guerra di Spagna, come gli anarchici e i trotzkisti, avevano chiamato i proletari a «riportare prima una vittoria sul fascismo, poi a fare la rivoluzione». E' l'argomento di quelli che tradiscono la causa del proletariato per schierarsi dietro la bandiera d'uno dei campi imperialisti. Questo non era il caso del PCInt poiché esso restava fortemente impregnato della tradizione della Sinistra del partito comunista d'Italia che si era distinto, di fronte all'ascesa del fascismo all'inizio degli anni '20, per la sua intransigenza di classe. Ciò detto, tali argomenti nella stampa del PCInt permettono di misurare l'ampiezza delle sbandate. D'altronde, seguendo l'esempio della minoranza della Frazione che nel 1936 aveva raggiunto le unità antifasciste del POUM in Spagna, un certo numero di militanti e quadri del PCInt si arruola nei gruppi partigiani. Ma se la minoranza aveva rotto la disciplina d'organizzazione, non è lo stesso per questi militanti del PCInt: essi non fanno che applicare le consegne del Partito (9).
Evidentemente, la volontà di raggruppare il maggior numero di operai nei suoi ranghi e attorno ad esso, in un momento in cui questi ultimi soccombono in gran parte alle sirene dei «partigiani», conduce il PCInt a prendere le distanze dall'intransigenza che aveva mostrato all'inizio contro l'antifascismo e le «bande partigiane». Questa non è una «calunnia» della CCI in continuità con le «calunnie» della GCF. Questa propensione a reclutare nuovi militanti senza troppo preoccuparsi della fermezza delle loro convinzioni internazionaliste è stata rilevata dal compagno Danielis, responsabile della federazione di Torino nel 1945 e anziano membro della Frazione:
«Una cosa deve essere chiara per tutti, cioè che il Partito ha subito l'esperienza grave del facile allargamento della sua influenza politica, non in profondità, perché questo non è facile, ma in superficie. Debbo citare un'esperienza personale che servirà da messa in guardia contro il pericolo di una facile influenza del Partito su certi strati, su certe masse, conseguenza automatica di una altrettanto facile formazione teorica di quadri… Si doveva dunque pensare che nessun iscritto avrebbe accettato le direttive del “Comitato di Liberazione Nazionale”. Ebbene, la mattina del 25 aprile [data della "liberazione" di Torino] tutta la tutta la federazione di Torino era in armi per partecipare al coronamento di quel massacro che durò sei anni, e alcuni compagni della provincia, inquadrati militarmente e disciplinati, entrarono in Torino per partecipare alla caccia all'uomo… Il Partito non esisteva: era sfumato». (Processo verbale del congresso di Firenze del PCInt, 6-9 maggio 1948). Evidentemente anche Danielis era un «calunniatore»!
Seriamente, se le parole hanno un senso, la politica del PCInt che gli ha permesso i suoi «grandi successi» del 1945, non era altro che una politica opportunista. Occorrono altri esempi? Si potrebbe citare questa lettera del 10 febbraio 1945 indirizzata dal «Comitato d'agitazione» del PCInt «ai comitati d'agitazione dei partiti a direzione proletaria e dei movimenti sindacali d'azienda per dare alla lotta rivoluzionaria del proletariato una unità di direttive e d'organizzazione… A questo fine, viene proposto un raggruppamento di questi diversi comitati per mettere a punto un piano unitario.» (Prometeo, aprile 1945) (10). I «partiti a direzione proletaria» di cui si tratta sono soprattutto il partito socialista e il partito stalinista. Per quanto sorprendente questo possa apparire oggi, è la stretta verità. Quando abbiamo ricordato questi fatti nella Revue Internationale n° 32, il PCInt ci rispose: «Il documento "Appello del Comitato di agitazione del PCInt" contenuto nel numero di aprile '45 fu un errore? D'accordo. Questo fu l'ultimo tentativo della Sinistra italiana d'applicare la tattica del "fronte unico alla base" raccomandata vivamente dal PC d'Italia nella sua polemica con l'IC negli anni 21-23. In quanto tale, noi lo cataloghiamo tra i "peccati veniali" perché i nostri compagni hanno saputo eliminarlo tanto sul piano politico che teorico, con una chiarezza che oggi ci rende sicuri di fronte a chiunque.» (Battaglia Comunista n°3, febbraio 1983) A cui noi replicammo: «Non si può che restare ammirati davanti la delicatezza e l'abilità con la quale BC tratta il suo amor proprio. Se una proposta di fronte unico con i macellai staliniani e socialdemocratici non è che un semplice 'peccato veniale', che cosa avrebbe dovuto fare il PCInt affinché si potesse parlare d'errore… Entrare nel governo?» (Revue Internationale n°34) (11) In ogni caso è chiaro che nel 1944, la politica del PCInt rappresentava bene un passo indietro in rapporto a quella della «vecchia frazione». E che passo! La Frazione aveva da molto tempo fatto una critica profonda della tattica del fronte unico e non si sarebbe azzardata, a partire dal 1935, a qualificare il partito stalinista di «partito a direzione proletaria»; senza parlare della socialdemocrazia la cui natura borghese era riconosciuta dagli anni '20.
Questa politica opportunista del PCInt la ritroviamo «nell'apertura» e la mancanza di rigore di cui fa prova alla fine della guerra allo scopo di allargarsi. Le ambiguità del PCInt formato nel Nord del paese non sono ancora che poca cosa di fronte a quelle dei gruppi del Sud che vengono ammessi nel Partito alla fine della guerra, come la «Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti» costituita a Napoli, attorno a Bordiga e Pistone che, fino all'inizio del 1945 pratica l'entrismo nel PCI stalinista nella speranza di raddrizzarlo e che è particolarmente vago sulla questione dell'URSS. Il PCInt apre ugualmente le sue porte a degli elementi del POC (Partito Operaio Comunista) che aveva costituito per un certo tempo la sezione italiana della 4a internazionale trotzkista.
E' anche necessario ricordare che Vercesi, che durante la guerra riteneva che non ci fosse niente da fare e che, alla fine di questa, aveva partecipato alla «Coalizione Antifascista» di Bruxelles (12), s'integrò anch’egli nel nuovo partito senza che questo gli chiedesse di condannare la sua deriva antifascista. Su questo episodio, O. Damen, per il PCInt, aveva scritto alla CCI nell'autunno 1976: «Il Comitato antifascista di Bruxelles nella persona di Vercesi, che nel momento della costituzione del PCInt pensa di dovervi aderire, mantiene le sue posizioni bastarde fino al momento in cui il partito, rendendo il necessario tributo alla chiarezza, si separa dai rami morti del bordighismo». A cui noi rispondevamo: «Che parole galanti per dire queste cose! Lui, Vercesi, pensa di dover aderire?! E il Partito, che cosa ne pensa? Oppure il Partito è una società di bridge dove chiunque può aderirvi?» (Revue Internationale n° 8). Occorre notare che in questa lettera O. Damen aveva la franchezza di riconoscere che nel 1945 il partito non aveva ancora «reso il tributo necessario alla chiarezza» poiché fu più tardi, (nel 1952) che lo fece. Si può prendere atto di questa affermazione che contraddice tutte le favole sulla pretesa «grande chiarezza» che ci sarebbe stata alla fondazione del PCInt e che avrebbe rappresentato, secondo il BIPR, «un passo avanti» rispetto a quella della Frazione (13).
Il PCInt non è stato più scrupoloso nei confronti dei membri della minoranza della Frazione che, nel 1936, si erano arruolati nelle milizie antifasciste in Spagna e che avevano raggiunto l'Union Communiste (14). Questi elementi poterono integrarsi nel Partito senza fare la minima critica dei loro errori passati. Su questa questione, O. Damen ci scriveva nella stessa lettera: «Per quanto riguarda i compagni che, durante il periodo della guerra di Spagna, decisero di abbandonare la Frazione della Sinistra italiana per lanciarsi in una avventura al di fuori di ogni posizione di classe, ricordiamo che gli avvenimenti di Spagna, che non facevano che confermare le posizioni della Sinistra, servirono loro da lezione per farli rientrare di nuovo nel solco della sinistra rivoluzionaria.» (Ibid.). A cui noi rispondevamo: «Non si è mai posto il problema del ritorno di questi militanti alla Sinistra Comunista, fino al momento della dissoluzione della Frazione e l'integrazione dei suoi militanti nel PCInt (alla fine del '45). Nei confronti di questi compagni non è mai stato posto un problema di "lezione", né di rigetto di posizioni, né di condanna della loro partecipazione alla guerra antifascista di Spagna.» Se il BIPR stima che si tratti di una nuova «calunnia» della CCI, ci indichi i documenti che la provano. E proseguivamo: «E' semplicemente l'euforia e la confusione della costituzione del Partito "con Bordiga" che hanno spinto questi compagni … a raggiungerlo.. Il Partito in Italia non ha chiesto loro di rendere conto del passato, non per ignoranza... ma perché non era il momento delle "vecchie querelle"; la ricostituzione del Partito cancellava tutto. Questo partito che non si preoccupava tanto dei maneggi dei partigiani presenti tra i suoi militanti non poteva mostrarsi rigoroso verso questa minoranza per la sua attività verso un passato già lontano e gli apriva "naturalmente" le sue porte..».
Infatti, la sola organizzazione che il PCInt non vede di buon occhio e con la quale non vuole aver rapporti è la GCF, giustamente perché questa continua ad appoggiarsi sullo stesso rigore e la stessa intransigenza che avevano caratterizzato la Frazione negli anni '30. Ed è vero che la Frazione di questo periodo non avrebbe potuto che condannare la politica da rigattieri sulla quale si costituì il PCInt, una politica del tutto simile a quella praticata allora dal trotzkismo e contro la quale la Frazione non trovava mai parole abbastanza dure.
Negli anni '20, la Sinistra comunista si era opposta all'orientazione opportunista assunta dall'Internazionale Comunista a partire dal suo terzo congresso e consistente soprattutto nel voler «andare alle masse» in un momento in cui l'ondata rivoluzionaria rifluiva, facendo entrare nei suoi ranghi le correnti centriste provenienti dai partiti socialisti (gli Indipendenti in Germania, i «Terzini» in Italia, Cachin-Frossard in Francia, ecc.) e lanciando la politica del «Fronte unico» con i PS. Al metodo del «raggruppamento largo» utilizzato dall'IC per costituire i partiti comunisti, Bordiga e la Sinistra opponevano il metodo della «selezione» basato sul rigore e l'intransigenza nella difesa dei principi. Questa politica dell'IC aveva avuto delle conseguenze tragiche con l'isolamento, e perfino l'esclusione, della Sinistra e l'invasione del partito da parte di elementi opportunisti che avrebbero costituito i migliori vettori della degenerazione dell'IC e dei suoi partiti.
All'inizio degli anni 30, la Sinistra italiana, fedele alla sua politica degli anni '20, aveva lottato all’interno dell'Opposizione di Sinistra internazionale per imporre questo stesso rigore di fronte alla politica opportunista di Trotsky per il quale l'accettazione dei primi quattro congressi dell'IC - e soprattutto della sua politica manovriera - erano dei criteri ben più importanti di raggruppamento che le lotte portate avanti nell'IC contro la sua degenerazione. Con questa politica di Trotsky, gli elementi più sani che tentavano di costruire una corrente internazionale della Sinistra comunista o venivano corrotti, o scoraggiati o ancora condannati all'isolamento. Costruita su fondamenta così fragili, la corrente trotzkista conobbe crisi su crisi prima di passare armi e bagagli nel campo borghese nel corso della seconda guerra mondiale. Al contrario la politica intransigente della Frazione le era costata l’esclusione dall'Opposizione internazionale nel 1933 allorché Trotsky colse il pretesto di una fantomatica «Nuova Opposizione Italiana» costituita da elementi che, alla testa del PCI ancora nel 1930, avevano votato a favore dell’esclusione di Bordiga da questo partito.
Nel 1945, preoccupato di radunare il massimo di effettivi, il PCInt - che si richiama alla Sinistra - riprende non la politica di quest'ultima di fronte all'IC e al trotzkismo ma la politica che la Sinistra aveva giustamente combattuto: adesione «larga» basata sulle ambiguità programmatiche, raggruppamento - senza chiedere spiegazioni- di militanti e di «personalità» (15) che avevano combattuto le posizioni della Frazione durante la guerra di Spagna o nel corso della guerra mondiale, politica opportunista che favoriva le illusioni degli operai sui partigiani e sui partiti passati al nemico, ecc. E perché il parallelo sia il più completo possibile c’è l’esclusione dalla Sinistra comunista internazionale della GCF, la corrente che rivendicava maggiormente la propria fedeltà alla lotta della Frazione, mentre si riconosceva come solo gruppo rappresentante la Sinistra comunista in Francia la FFGC-bis. Occorre ricordare che quest’ultima era costituita da tre giovani elementi che si erano scissi dalla GCF nel maggio 45, da membri dell'ex minoranza della Frazione esclusa durante la guerra di Spagna e da membri dell'ex Union Communiste che si era lasciata andare all'antifascismo nello stesso periodo (16)? Non c'è una certa similitudine con la politica di Trotsky verso la Frazione e la Nuova Opposizione Italiana?
Marx ha scritto che «se la storia si ripete, la prima volta è come tragedia e la seconda volta come farsa». C'è un po' di ciò nell'episodio poco glorioso della formazione del PCInt. Sfortunatamente, gli avvenimenti che seguirono mostrarono che la ripetizione da parte del PCInt nel 1945 della politica contro cui aveva combattuto la Sinistra negli anni '20 e '30 ha avuto conseguenze molto drammatiche.
Le conseguenze dell'approccio opportunista del PCInt
Quando si legge il processo verbale della conferenza del PCInt di fine '45-inizio '46, si è colpiti dall'eterogeneità che vi regna.
Sull'analisi del periodo storico, che costituisce una questione essenziale, i principali dirigenti si oppongono. Damen continua a difendere la «posizione ufficiale»: «Si sta per aprire il nuovo corso della storia della lotta del proletariato. Tocca al nostro partito il compito di indirizzare questa lotta in modo tale che, alla prossima e inevitabile crisi, la guerra e i suoi artefici siano distrutti in tempo e definitivamente dalla rivoluzione proletaria.» («Rapporto sulla situazione generale e le prospettive», pag. 12).
Ma alcune voci constatano, senza dirlo apertamente, che le condizioni non sono propizie alla formazione del partito:
«… quello che domina oggi è l'ideologia guerrafondaia del CNL e del movimento partigiano, ed è per ciò stesso che non esistono le condizioni per l'affermazione vittoriosa della classe proletaria. Ne consegue che non si può altrimenti qualificare il momento attuale che come un momento reazionario.» (Vercesi, «Il partito e i problemi internazionali», pag. 14)
«Concludendo questo bilancio politico, è necessario chiedersi se si debba continuare in una politica di allargamento della nostra influenza, o se la situazione ci imponga anzitutto (in una atmosfera ancora avvelenata) di salvaguardare le basi fondamentali della nostra differenziazione politica e ideologica, di rafforzare ideologicamente i quadri, di immunizzarli dai bacilli patogeni che si respirano nell'ambiente attuale e di prepararli così alle nuove posizioni politiche che si presenteranno domani. E' in questa direzione, a mio avviso, che l'attività del Partito deve essere orientata in tutti i campi.» (Maffi, «Relazione politico-organizzativa per l'Italia settentrionale», pag. 7).
In altri termini, Maffi raccomanda vivamente lo sviluppo d'un lavoro classico di frazione.
Sulla questione parlamentare, si constata la stessa eterogeneità:
«Perciò noi utilizzeremo, in regime democratico, tutte le concessioni che ci verranno fatte, sempre che questa utilizzazione non leda gli interessi della lotta rivoluzionaria. Noi restiamo irriducibilmente antiparlamentari; ma il senso del concreto che anima la nostra politica ci farà rifuggire da ogni posizione astensionista a priori.» (O. Damen, ibidem pag. 12).
«Maffi, riprendendo le conclusioni a cui è giunto il Partito, si chiede se il problema dell'astensionismo elettorale debba essere posto nella sua vecchia forma (partecipare o no alle elezioni a seconda che la situazione evolva o meno verso lo sbocco rivoluzionario) o se invece, in un ambiente corrotto dalle illusioni elettorali, non convenga assumere una posizione nettamente anti-elettorale, anche a prezzo dell’isolamento. Non abbarbicarsi alle concessioni che ci fa la borghesia (concessioni che non sono un atto di debolezza, ma di forza da parte sua), ma al processo reale della lotta di classe ed alla nostra tradizione di sinistra». (ibid. pag. 12)
Occorre ricordare qui che la Sinistra di Bordiga nel partito socialista italiano si era fatta conoscere nel corso della prima guerra mondiale come «Frazione astensionista»?
Ancora, Luciano Stefanini, relatore sulla questione sindacale, afferma contro la posizione che sarà poi adottata:
«La linea politica del partito, nei confronti del problema sindacale, non è ancora sufficientemente chiara. Da una parte si riconosce la dipendenza dei sindacati dallo stato capitalista; dall'altra s'invitano gli operai a lottare al loro interno e a conquistarli dall'interno per riportarli su una posizione di classe. Ma questa possibilità è esclusa dalla evoluzione del capitalismo che abbiamo menzionato prima… il sindacato attuale non potrà cambiare la sua fisionomia di organo dello Stato... La parola d'ordine di nuove organizzazioni di massa non è attuale, ma il Partito ha il dovere di prevedere quale sarà il corso degli avvenimenti e di indicare fin da oggi ai lavoratori quali saranno gli organismi che, scaturendo dall'evoluzione delle situazioni, si imporranno come la guida unitaria del proletariato sotto la direzione del Partito. La pretesa di conquistare delle posizioni di comando negli attuali organismi sindacali allo scopo di trasformarli deve essere definitivamente liquidata.» (pagg 18-19)
All’indomani di questa conferenza, la GCF poteva scrivere:
«Il nuovo partito non è una unità politica ma un conglomerato, una somma di correnti e di tendenze che non mancheranno di manifestarsi e di scontrarsi. L'armistizio attuale non può essere che del tutto provvisorio. L'eliminazione dell'una o dell'altra corrente è inevitabile. Presto o tardi la definizione politica e organizzativa s'imporrà.» (Internationalisme n° 7, febbraio '46).
Dopo un periodo di intenso reclutamento questa delimitazione comincia a prodursi. Dalla fine del 1946, lo smarrimento che provoca nel PCInt la sua partecipazione alle elezioni (molti militanti hanno in testa la tradizione astensionista della Sinistra) conduce la direzione del Partito a fare nella stampa una messa a punto intitolata «La nostra forza» e che chiama alla disciplina. Dopo l'euforia della conferenza di Torino, molti militanti scoraggiati lasciano il Partito in punta di piedi. Un certo numero di elementi rompe per partecipare alla formazione del POI trotzkista, il che prova che essi non avevano il loro posto in una organizzazione della Sinistra comunista. Molti militanti sono esclusi senza che le divergenze appaiano chiaramente, almeno nella stampa pubblica del Partito. Una delle principali federazioni si scinde per costituire la «Federazione autonoma di Torino». Nel 1948, durante il Congresso di Firenze, il Partito ha già perduto la metà dei suoi membri e la sua stampa la metà dei suoi lettori. Quanto «all'armistizio» del 1946, questo si è trasformato in «pace armata» che i dirigenti cercano di non turbare evitando le principali divergenze. E' così che Maffi afferma che si è «astenuto nel trattare tale problema» perché «sapevo che questa discussione avrebbe potuto avvelenare il Partito». Ciò non impedisce, tuttavia, al Congresso di mettere radicalmente in causa la posizione sui sindacati adottata due anni e mezzo prima (la posizione del 1945, che si supponeva rappresentasse la massima chiarezza!). Questa pace armata sfocia infine sullo scontro (soprattutto dopo l'entrata di Bordiga nel Partito nel 1949) che condurrà alla scissione del 1952 tra la tendenza animata da Damen e quella animata da Bordiga e Maffi che darà origine alla corrente «Programma Comunista».
Quanto alle «organizzazioni sorelle» sulle quali il PCInt contava per costituire un Bureau internazionale della Sinistra comunista, la loro sorte è ancora meno invidiabile: la Frazione belga cessa la pubblicazione de L'Internationaliste nel 1949 e scompare poco dopo; la Frazione francese-bis conosce nello stesso periodo un’eclisse di due anni, con l’uscita della maggior parte dei suoi membri, prima di riapparire come Gruppo francese della Sinistra comunista internazionale che si riunirà alla corrente «bordighista» (17)
La «migliore riuscita dopo la rivoluzione russa» è stata dunque di corta durata. E quando il BIPR, per appoggiare la sua argomentazione su questa «riuscita», ci dice che il PCInt «malgrado un mezzo secolo di dominazione capitalista in seguito, continua ad esistere e crescere», dimentica di precisare che il PCInt attuale, in termini di effettivi e audience nella classe operaia , non ha niente a che vedere con ciò che era alla fine dell'ultima guerra. Senza insistere sui paragoni, si può considerare che l'importanza attuale di questa organizzazione è sensibilmente la stessa dell'erede diretta della «minuscola GCF», la sezione in Francia della CCI. E vogliamo ben credere che il PCInt «s'accresce oggi». Anche la CCI ha constatato nel corso dell'ultimo periodo un maggiore interesse per le posizioni della Sinistra comunista che si è tradotto in un certo numero di adesioni. Ciò detto, non crediamo che la crescita attuale delle forze del PCInt gli permetterà di ritrovare così presto i suoi effettivi del 1945-46.
Così questa grande «riuscita» è finita in modo assai poco glorioso in una organizzazione che, continuando a denominarsi «partito», è costretta a giocare il ruolo d'una frazione. Ciò che è più grave, è che il BIPR oggi non tira gli insegnamenti di questa esperienza e soprattutto non rimette in causa il metodo opportunista che era una delle ragioni dei «gloriosi successi» del 1945 e che prefiguravano gli «insuccessi» che sarebbero seguiti (18).
Questo atteggiamento non critico verso gli ondeggiamenti opportunisti del PCInt alle sue origini, ci fa temere che il BIPR, quando il movimento di classe sarà più sviluppato di oggi, sia tentato di ricorrere agli stessi espedienti opportunisti che abbiamo segnalato. Fin da ora, il fatto che il BIPR ritenga come principale «criterio di riuscita» di una organizzazione proletaria il numero dei membri e l'impatto che ha potuto avere in un certo momento, lasciando da parte il suo rigore programmatico e la sua capacità di gettare le basi per un lavoro a lungo termine, mette in evidenza l'approccio immediatista che gli è proprio sulla questione dell’organizzazione. E noi sappiamo che l'immediatismo costituisce l'anticamera dell'opportunismo. Si possono segnalare altre conseguenze incresciose, più immediate ancora, dell'incapacità del PCInt di fare la critica delle sue origini.
In primo luogo, il fatto che il PCInt dopo il 1945-46 (quando è evidente che la controrivoluzione continua ad imporre la sua cappa di piombo) ha mantenuto la tesi della validità della fondazione del partito, l'ha condotto poi a rivedere radicalmente tutta la concezione della Frazione italiana sui rapporti tra Partito e Frazione. Per il PCInt, ormai, la formazione del Partito può avvenire in qualsiasi momento, indipendentemente dal rapporto di forza tra proletariato e borghesia (19). Questa è la posizione dei trotzkisti, non della Sinistra italiana che, al contrario, ha sempre considerato che il Partito può formarsi solo al momento di una ripresa storica degli scontri di classe. Ma nello stesso tempo, questa rimessa in causa si accompagna alla rimessa in causa dell’esistenza di corsi storici determinati e antagonisti: corso verso scontri di classe decisivi o corso verso la guerra mondiale. Per il BIPR questi due corsi possono essere paralleli, non escludersi a vicenda e ciò l'ha condotto ad una incapacità notoria ad analizzare il periodo storico presente, come abbiamo visto nel nostro articolo «La CWO e il corso storico, un accumulo di contraddizioni» apparso nella Revue Internationale n° 89. Per questo abbiamo scritto nella prima parte di questo articolo (in questo stesso numero ): « a guardare da vicino, l'incapacità attuale del BIPR a fornire un’analisi sul corso storico trova una buona parte delle sue origini negli errori politici che riguardano la questione organizzativa, e in particolare sulla questione dei rapporti tra frazione e partito.»
Alla domanda del perché gli eredi della «minuscola GCF» sono riusciti là dove quelli del glorioso partito del 1943-45 hanno fallito, cioè costituire una vera organizzazione internazionale, noi proponiamo alla riflessione del BIPR la seguente risposta: perché la GCF, e la CCI successivamente, sono rimaste fedeli al percorso che aveva permesso alla frazione di costituire nel momento del crollo dell'IC la principale corrente, e la più feconda, della Sinistra comunista:
Il successo più grande dopo la morte dell'IC (e non dopo la rivoluzione russa) non è stato ottenuto dal PCInt, ma dalla Frazione. Non in termini numerici ma in termini di capacità a preparare, al di là della propria scomparsa, le basi sulle quali potrà domani costituirsi il Partito mondiale.
In linea di principio il PCInt (e di conseguenza il BIPR) si presenta come erede politico della frazione italiana. Abbiamo messo in evidenza in questo articolo come, durante la sua costituzione, questa organizzazione si fosse allontanata dalla tradizione e dalle posizioni della Frazione. Dopo, il PCInt ha chiarificato una serie di questioni programmatiche, ciò che noi consideriamo estremamente positivo. Tuttavia ci sembra che il PCInt non potrà apportare il suo pieno contributo alla costituzione del futuro partito mondiale se non mette in accordo le sue dichiarazioni e i suoi atti, cioè se non si riappropria veramente della tradizione e del percorso politico della Frazione italiana. E ciò presuppone in primo luogo che esso sia capace di fare una seria critica dell'esperienza della costituzione del PCInt nel 1943-45 al posto di farne il panegirico e di prenderla come esempio.
Fabienne
1. Noi supponiamo che l'autore dell'articolo, trasportato dal suo entusiasmo, sia stato vittima d'un errore di penna e che volesse dire «dalla fine dell'ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra e dell'Internazionale Comunista». Invece, se ciò che è scritto corrisponde al suo pensiero, ci si può porre delle domande sulla sua conoscenza della storia e sul suo senso di realtà: non ha mai sentito parlare, tra l'altro, del Partito Comunista d'Italia che, all'inizio degli anni '20, aveva un impatto ben più importante di quello del PCInt nel 1945 trovandosi tra l’altro all'avanguardia dell'insieme dell'Internazionale su tutta una serie di questioni politiche? In ogni caso, per il seguito del nostro articolo, preferiamo basarci sulla prima ipotesi: fare polemica contro le assurdità non è di alcun interesse.
2. Facciamo notare che nel corso di questo periodo, la CCI si è estesa con tre nuove sezioni territoriali: in Svizzera e in due paesi della periferia del capitalismo, il Messico e l'India, che sono oggetto di un particolare interesse da parte del BIPR (vedi in particolare l'adozione da parte del 6° congresso del PCInt, nell'aprile '97, delle «Tesi sulla tattica comunista nei paesi della periferia capitalista»).
3. Ecco come era formulata la politica del PCInt verso i sindacati: «Il contenuto sostanziale del punto 12 della piattaforma del partito può essere concretizzato nei seguenti punti:
1) Il partito aspira alla ricostruzione della CGL attraverso il metodo della lotta diretta del proletariato contro il padronato nei movimenti parziali e generali di classe
2) La lotta del partito non può mirare direttamente alla scissione delle masse organizzate nel sindacato.
3) Il processo di ricostruzione del sindacato di classe, se non può che realizzarsi attraverso la conquista degli organi dirigenti del sindacato, scaturisce da un programma di inquadramento delle lotte di classe sotto la guida del partito.»
4. Il PCInt di oggi è proprio imbarazzato da questa piattaforma del 1945. Infatti quando ha ripubblicata, nel 1974, questo documento assieme allo «Schema di Programma» redatto nel 1944 dal gruppo di Damen, si è preso la cura di farne una critica a regola d’arte opponendolo allo «Schema di programma» per il quale non ha parole d'elogio. Nella presentazione si può leggere: «Nel 1945, il Comitato Centrale riceve un progetto di Piattaforma politica del compagno Bordiga che, lo sottolineiamo, non era iscritto al partito. Il documento la cui accettazione fu richiesta in termini di ultimatum, è riconosciuto come incompatibile con le ferme prese di posizione adottate ormai dal Partito sui problemi più importanti e, malgrado le modifiche apportate, il documento è stato sempre considerato come un contributo al dibattito e non come una piattaforma di fatto (..) Il CC non poteva, come lo si è visto, accettare il documento che come un contributo del tutto personale per il dibattito del congresso futuro che, riportato nel 1948, metterà in evidenza posizioni molto differenti.» Sarebbe stato necessario precisare DA PARTE DI CHI questo documento fosse considerato «un contributo al dibattito». Probabilmente dal compagno Damen e qualche altro militante. Ma essi hanno conservato per sé le loro impressioni poiché la conferenza del 1945-46 cioè la rappresentazione dell'insieme del Partito, ha preso tutt'altra posizione. Questo documento è stato adottato all'unanimità come piattaforma del PCInt, servendo come base di adesione e di costituzione di un Bureau Internazionale della Sinistra comunista. Invece, è lo «Schema di Programma» che è stato rinviato alla discussione per il congresso successivo. E se i compagni del BIPR pensano ancora una volta che noi «mentiamo» e «calunniamo» che si rapportino allora al processo verbale della Conferenza di Torino della fine del 1945. Se c'è menzogna questa è nel modo in cui il PCInt presentò nel 1974 la sua «versione» delle cose. Nei fatti, il PCInt è talmente poco fiero di certi aspetti della sua storia che prova il bisogno di abbellirla un po'. Ciò detto, ci si può domandare perché il PCInt ha accettato di sottomettersi a un «ultimatum» di chicchessia, e particolarmente di qualcuno che non era neanche membro del Partito.
5. Come si è visto nella prima parte di questo articolo, la Frazione italiana aveva considerato, nella sua conferenza dell'agosto '43, che «con il nuovo corso che si è aperto con gli avvenimenti di agosto in Italia, si è aperto il corso della trasformazione della Frazione in partito». La GCF, all’atto della sua fondazione nel 1944, aveva ripreso la stessa analisi.
6. Noi abbiamo a più riprese messo in evidenza nella nostra stampa in che cosa consisteva questa politica sistematica della borghesia, cioè come questa classe, avendo tirato le lezioni della prima guerra mondiale, aveva imparato a ripartire il lavoro, lasciando ai paesi vinti la responsabilità di fare il «lavoro sporco» (repressione antioperaia nel Nord dell'Italia, annientamento dell'insurrezione di Varsavia, ecc.) mentre i vincitori bombardavano sistematicamente le concentrazioni operaie in Germania, incaricandosi in seguito di fare da polizia nei paesi vinti occupando tutto il territorio e trattenendo per più anni i prigionieri di guerra.
7. La GCF e la CCI hanno spesso criticato le posizioni programmatiche difese da Damen così come il suo percorso politico. Ciò non cambia nulla alla stima che si può avere per la profondità delle sue convinzioni comuniste, la sua energia militante e il suo grande coraggio.
8. «Operai! Alla parola d'ordine della guerra nazionale, che arma i proletari italiani contro i proletari tedeschi e inglesi, opponete la parola d'ordine della rivoluzione comunista, che unisce al di là delle frontiere gli operai del mondo intero contro il loro nemico comune: il capitalismo.» (Prometeo, n°1, 1°novembre 1943) «All'appello del centrismo [è così che la Sinistra italiana qualificava lo stalinismo] di raggiungere le bande partigiane , si deve rispondere con la presenza nelle officine da dove uscirà la violenza di classe che distruggerà i centri vitali dello Stato capitalista» (Prometeo del 4 marzo 1944).
9. Per maggiori elementi sulla questione dell'atteggiamento del PCInt verso i partigiani vedere «Le ambiguità sui "partigiani" nella costituzione del Partito Comunista Internazionalista in Italia» su Rivoluzione Internazionale n° 8.
10. Nella Revue Internationale n° 32 abbiamo pubblicato il testo completo di questo appello con i nostri commenti.
11. Occorre precisare che nella lettera inviata dal PCInt al PS in risposta a quella di quest'ultimo in seguito all'appello, il PCInt s'indirizzava alle canaglie socialdemocratiche chiamandole «cari compagni». Questo non era il modo migliore per smascherare, agli occhi degli operai, i crimini commessi contro il proletariato da questi partiti a partire dalla prima guerra mondiale e durante l’ondata rivoluzionaria che la seguì. Era al contrario un mezzo eccellente per incoraggiare le illusioni degli operai che li seguivano ancora.
12. Vedere a questo proposito la prima parte di questo articolo.
13. Su questo argomento vale la pena di fare altre citazioni del PCInt: «Le posizioni espresse dal compagno Perrone (Vercesi) alla Conferenza di Torino (1946) (…) erano delle libere manifestazioni di una esperienza del tutto personale e con una prospettiva politica fantasiosa alla quale non è lecito riferirsi per formulare critiche alla formazione del PCInt» (Prometeo n° 18, 1972). La preoccupazione è che queste posizioni erano espresse nel rapporto su «Il Partito e i problemi internazionali» presentato alla Conferenza dal Comitato centrale, di cui Vercesi faceva parte. Il giudizio dei militanti del 1972 è veramente molto severo nei riguardi del loro Partito del 1945-46, un Partito il cui Organo centrale presenta un rapporto in cui si può dire qualunque cosa. Noi supponiamo che dopo questo articolo del 1972 il suo autore sia stato seriamente rimproverato per aver così «calunniato» il PCInt del 1945 anziché riprendere la conclusione che O. Damen aveva apportato alla discussione su questo rapporto: «Non vi sono divergenze ma sensibilità particolari che permettono una chiarificazione organica dei problemi» (Processo verbale, pag. 16). E' vero che lo stesso Damen ha scoperto più tardi che le «sensibilità particolari» erano di fatto delle «posizioni bastarde» e che la «chiarificazione organica» consisteva nel «separarsi dai rami morti». In ogni caso, viva la chiarezza del 1945!
14. Sulla minoranza del 1936 nella Frazione, vedere la prima parte di questo articolo.
15. E' chiaro che se il PCInt del 1945 accetta l'integrazione di Vercesi senza chiedergli spiegazioni e si fa «forzare la mano» da Bordiga sulla questione della piattaforma è perché conta sul prestigio di questi due dirigenti «storici» per attrarre a sé un gran numero di operai e militanti. L'ostilità di Bordiga avrebbe privato il PCInt dei gruppi ed elementi del Sud dell'Italia; quella di Vercesi l'avrebbe tagliato dalla Frazione belga e dalla FFGC-bis.
16. Su questo episodio, vedere la prima parte del nostro articolo.
17. Si può dunque costatare che la «minuscola GCF», che era stata trattata con disprezzo e tenuta con cura in disparte dagli altri gruppi, è sopravvissuta malgrado tutto più a lungo della Frazione belga e della FFGC-bis. Fino alla sua scomparsa nel 1952, pubblicherà 46 numeri di Internationalisme che costituiscono un patrimonio inestimabile sul quale è stata costruita la CCI.
18. E' vero che il metodo opportunista non è l'unico a spiegare l'impatto che ha potuto avere il PCInt nel 1945. Infatti l'impatto è determinato da due cause fondamentali:
Al contrario, una delle cause della debolezza numerica della GCF è proprio il fatto che non c'era in Francia la tradizione della Sinistra comunista nella classe operaia e che quest’ultima era stata incapace di risorgere nel corso della guerra mondiale. C'è anche il fatto che la GCF ha evitato ogni atteggiamento opportunista nei confronti delle illusioni degli operai verso la «Liberazione» e i «partigiani». Facendo ciò essa ha seguito l'esempio della Frazione nel 1936 di fronte alla guerra di Spagna, cosa che ha condotto la Frazione all'isolamento come essa constatava in Bilan n° 36.
19. Su questa questione, vedere in particolare i nostri articoli «Il rapporto Frazione-Partito nella tradizione marxista», Rivista Internazionale nn. 14 e 15.
1. Lungo tutta la sua storia, il movimento operaio ha dovuto fare fronte alla penetrazione nei suoi ranghi di ideologie provenienti sia dalla classe dominante che dalla piccola borghesia. Questa penetrazione si è manifestata all'interno delle organizzazioni operaie sotto svariate forme. Fra le più frequenti si possono citare in particolare:
2. Il settarismo è una manifestazione tipica di una visione piccolo borghese dell'organizzazione. E' collegabile allo stato d'animo del piccolo bottegaio, de "l'artigiano padrone a casa sua" e si esprime nella tendenza a fare predominare gli interessi e le concezioni proprie dell'organizzazione sugli interessi del movimento nel suo insieme. Nella visione settaria, l'organizzazione è "sola al mondo" e manifesta un disprezzo sovrano per tutte le altre organizzazioni appartenenti al campo del proletariato, viste come "concorrenti", per non dire "nemiche". Preferisce rifugiarsi in uno "splendido isolamento", facendo finta che le altre non esistano, oppure si ostina a sottolineare quello che la divide dalle altre, senza tener conto di quanto la unisce alle altre.
3. L'individualismo può provenire tanto dalle influenze piccolo borghesi che direttamente borghesi. Dalla classe dominante, riprende l'ideologia ufficiale che fa degli individui i soggetti della storia, che valorizza il "self-made man", che giustifica la "lotta di tutti contro tutti". Tuttavia, è soprattutto attraverso il tramite fisico della piccola borghesia che l'individualismo penetra nelle organizzazioni operaie, in particolare tramite elementi provenienti da strati recentemente proletarizzati, come l'artigianato ed i contadini ( ed era il caso più frequente nel secolo scorso ) o come l'ambiente intellettuale e studentesco (ed è il caso più frequente dopo la ripresa storica della classe operaia alla fine degli anni '60 ). L'individualismo si manifesta principalmente attraverso la tendenza a:
4. L'opportunismo, che ha storicamente costituito il pericolo più grave per le organizzazioni proletarie, è un'altra espressione di penetrazione di ideologie estranee e soprattutto piccolo borghesi. In particolare, una delle sue radici è l'impazienza, che esprime la visione di uno strato condannato all'impotenza sociale e che non ha alcun avvenire nella storia. L'altra sua radice è la tendenza a voler conciliare gli interessi e le posizioni delle due principali classi della società, il proletariato e la borghesia, fra cui la piccola borghesia è schiacciata. Da questo punto di vista, l'opportunismo si distingue per il fatto che tende a sacrificare gli interessi generali e storici del proletariato a favore di illusori "successi" particolaristici ed immediati. Ma dato che per la classe operaia non esiste contrapposizione fra la sua lotta quotidiana all'interno del capitalismo e la sua lotta storica per la sua abolizione, la politica dell'opportunismo alla fine sacrifica gli stessi interessi immediati del proletariato, spingendolo a scendere a compromessi continui con gli interessi e le posizioni della borghesia. Come conclusione ultima, nei momenti cruciali della storia, come la guerra imperialista e la rivoluzione proletaria, le correnti opportuniste sono spinte a raggiungere direttamente il campo borghese, come avvenne per la maggioranza dei partiti socialisti durante la prima guerra mondiale e per i partiti comunisti all'avvicinarsi della seconda.
5. Il putschismo (altrimenti detto avventurismo) (1), si presenta come il contrario dell'opportunismo. Sotto la facciata della "intransigenza" e del "radicalismo" si dichiara pronto in permanenza a lanciarsi all'assalto della borghesia per la lotta "finale", mentre le condizioni di una simile lotta per il proletariato non esistono ancora. Nel caso, non manca di qualificare di opportunista, di conciliatrice, se non direttamente di "traditrice" la corrente autenticamente proletaria e marxista che si preoccupa di evitare che la classe si lanci in una battaglia perduta in anticipo. In realtà, provenendo dalla stessa fonte dell'opportunismo, l'impazienza piccolo borghese, non è infrequente che l'avventurismo si trovi a convergere con quest'ultimo. La storia del movimento operaio non manca di esempi di correnti opportuniste che hanno sostenuto correnti putschiste o si sono convertite al radicalismo putschista. E' così che agli inizi del secolo, la destra della socialdemocrazia tedesca apportava, contro l'opposizione di sinistra rappresentata in particolare da Rosa Luxemburg, il suo sostegno ai socialisti-rivoluzionari russi, adepti del terrorismo. Analogamente, nel Gennaio 1919, mentre la stessa Rosa Luxemburg si pronuncia contro l'insurrezione degli operai berlinesi, innescata dalla provocazione del governo socialdemocratico, gli Indipendenti, che sono appena usciti da quel governo, si precipitano a testa bassa nell'insurrezione, che porta al massacro di migliaia di operai, oltre che dei principali dirigenti comunisti.
6. La lotta contro la penetrazione dell'ideologia borghese e piccolo borghese, in tutte le sue manifestazioni, nell'organizzazione di classe, è un dovere permanente dei rivoluzionari. In effetti, si tratta della principale lotta che la corrente autenticamente proletaria e rivoluzionaria ha dovuto condurre all'interno delle organizzazioni della classe, proprio perché era ben più difficile della lotta diretta contro le forze ufficiali e dichiarate della borghesia. La lotta contro le sette ed il settarismo è stato una delle prime che Marx ed Engels hanno dovuto affrontare, in particolare all'interno dell'AIT. Analogamente, la lotta contro l'individualismo, in particolare nella sua forma anarchica, è stato affrontato sia da questi ultimi che dai marxisti della 2° Internazionale (in particolare Lenin e Rosa Luxemburg ). La lotta contro l'opportunismo è certamente la più costante e la più sistematica svolta dalla corrente rivoluzionaria dalla sua nascita:
La lotta contro l'avventurismo-putschismo, infine, non è stato all'ordine del giorno con la stessa regolarità della precedente. Ciononostante, è stata presente fin dai primi passi del movimento operaio ( contro la tendenza immediatista Willich-Schapper nella Lega dei Comunisti, contro le avventure bakuniniste durante la "Comune" di Lione nel 1870 e la guerra civile in Spagna nel 1873 ). Ancora, prende una particolare importanza nel corso dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23; è proprio grazie alla capacità dei bolscevichi di portare avanti questa lotta nel Luglio 17 che la rivoluzione di Ottobre ha potuto avere luogo.
7. Gli esempi precedenti mettono in evidenza che l'impatto delle diverse manifestazioni della penetrazione di ideologie nemiche dipende strettamente da:
Per esempio, una delle espressioni più importanti ed esplicitamente combattute della penetrazione di ideologie estranee al proletariato, l'opportunismo, anche se si è manifestata lungo tutta la storia del movimento operaio, ha trovato il suo massimo impatto nei partiti della 2° Internazionale, durante un periodo:
Per contro, la penetrazione dell'opportunismo all'interno dei partiti della 3° Internazionale è largamente determinato dal riflusso dell'ondata rivoluzionaria degli anni 20, che dà spazio all'idea che sia possibile guadagnare un seguito fra le masse operaie facendo concessioni alle illusioni che pesano su di esse in campi come il parlamentarismo, il sindacalismo o la natura dei partiti socialisti.
L'importanza del momento storico sui differenti tipi di manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee alla classe si manifesta ancora più chiaramente per quanto riguarda il settarismo. In effetti quest'ultimo si presenta fin dall'inizio del movimento operaio, quando i proletari provengono ancora di recente dall'artigianato e dalle società di apprendisti (con i loro rituali ed i loro segreti di mestiere). Conosce poi un nuovo sviluppo nella fase più profonda della contro-rivoluzione, con la corrente bordighista cui il ripiegamento su se stessa sembra (a torto, evidentemente ) un mezzo per proteggersi dalla minaccia dell'opportunismo.
8. Il fenomeno del parassitismo politico, anche esso risultante dalla penetrazione di ideologie estranee all'interno della classe operaia, non è stato analizzato, nel corso della storia del movimento operaio, con la stessa accuratezza di altri fenomeni, come ad esempio l'opportunismo. Questo accade perché il parassitismo aggredisce in modo significativo le organizzazioni proletarie solo in momenti storici molto particolari. L'opportunismo, per esempio, costituisce una minaccia costante per le organizzazioni proletarie e si esprime particolarmente nei momenti in cui queste organizzazioni conoscono il massimo sviluppo. Per contro, il parassitismo non si sviluppa nei momenti più importanti della lotta di classe. Anzi, è nei momenti di immaturità relativa del movimento, in cui le organizzazioni hanno ancora un impatto limitato ed una tradizione insufficiente che il parassitismo trova il suo terreno più propizio. Ciò è dovuto alla natura stessa del parassitismo che, per risultare efficace, deve agire su elementi alla ricerca di una coerenza di classe, ma che non siano ancora capaci di distinguere chiaramente fra le vere organizzazioni rivoluzionarie e le correnti la cui sola ragione d'essere è di vivere a spese delle prime, sabotarne l'azione, se possibile distruggerle. Allo stesso tempo, il fenomeno del parassitismo, sempre per sua natura intrinseca, non appare all'inizio della formazione delle organizzazioni di classe, ma quando queste si sono già costituite ed hanno provato nella pratica di difendere gli interessi proletari.
Tutti questi elementi si ritrovano nella prima manifestazione storica del parassitismo, l'Alleanza della Democrazia Socialista che ha tentato di sabotare la lotta dell'AIT e di distruggerla dall'interno.
9. E' merito di Marx ed Engels di avere per primi identificato la minaccia costituita dal parassitismo per le organizzazioni proletarie:
"E' ormai tempo, una volta per tutte, di mettere fine alle quotidiane lotte interne provocate dalla presenza di questo corpo parassita nella nostra Associazione. Queste polemiche non servono che a disperdere l'energia che dovrebbe essere utilizzata per combattere il regime borghese. Paralizzando l'attività dell'Internazionale contro i nemici della classe operaia, l'Alleanza fa mirabilmente il gioco della borghesia e dei governi." (Engels, "Il Consiglio Generale a tutti i membri dell'Internazionale - messa in guardia contro l'Alleanza di Bakunin").
Come si può vedere, la nozione di parassitismo non è in nessun modo "una invenzione della CCI". E' l'AIT che per prima nel movimento operaio si è trovata di fronte a questa minaccia e per prima l'ha denunciata e combattuta. E' stata l'AIT, Marx ed Engels per primi, a caratterizzare già come parassiti questi elementi politicizzati che, pur facendo mostra di aderire al programma ed alle organizzazioni del proletariato, concentrano poi i loro sforzi, non contro la classe dominante, ma contro le organizzazioni della classe rivoluzionaria. L'essenza della loro attività è quella di denigrare e di manovrare contro il campo comunista, anche se pretendono di appartenervi e di difenderlo (2).
"Per la prima volta nella storia della lotta di classe, ci troviamo di fronte ad una cospirazione segreta all'interno della classe operaia, destinata a sabotare non il regime di sfruttamento esistente, ma l'Associazione stessa che rappresenta il nemico più indefettibile di questo regime." ( Engels: "Rapporto al Congresso dell'Aja sull'Alleanza" ).
10. Nella misura in cui il movimento operaio dispone con l'AIT di una ricca esperienza di lotta contro il parassitismo, è fondamentale, per poter fare fronte alle attuali offensive parassite ed esservi ben preparati, tenere bene a mente i principali insegnamenti di questa lotta storica.
Questi insegnamenti concernono tutta una serie di aspetti:
Nei fatti, come vedremo, esiste in tutti questi aspetti una somiglianza sorprendente fra la situazione attuale e quella affrontata a suo tempo dall'AIT.
11. Anche se colpisce una classe operaia ancora priva di esperienza, il parassitismo, come abbiamo visto, non è apparso come nemico del movimento operaio finché questo non ha raggiunto un certo grado di maturità, superando la sua fase infantile di settarismo.
"La prima fase nella lotta proletaria contro la borghesia è caratterizzata dal movimento delle sette. Questo è giustificato in un momento in cui il proletariato non è ancora sufficientemente sviluppato in quanto classe." (Marx/Engels).
E' l'apparizione del marxismo, la maturazione della coscienza della classe proletaria e la capacità della classe e della sua avanguardia di organizzare la lotta che assestano il movimento operaio su basi solide.
" A partire da questo momento, in cui il movimento della classe operaia è diventato una realtà, le utopie fantastiche sono scomparse (...) perché una comprensione reale delle condizioni storiche di questo movimento aveva preso il posto di queste utopie, e perché le forze di un'organizzazione di combattimento della classe operaia cominciavano a raccogliersi." ( Marx, "La guerra civile in Francia", primo progetto ).
Nei fatti il parassitismo è storicamente apparso in risposta alla fondazione della prima Internazionale, che Engels descriveva come " lo strumento per dissolvere progressivamente ed assorbire tutte le differenti piccole sette". ( Engels, Lettera a Kelly/Vischnevetsky).
In altri termini, l'Internazionale era lo strumento che obbligava le differenti componenti del movimento operaio ad impegnarsi in un processo collettivo e pubblico di chiarificazione, ed a sottomettersi ad una disciplina unificata, impersonale, proletaria, organizzativa. E' stato in primo luogo resistendo contro questa "dissoluzione ed assorbimento" di tutte le particolarità ed autonomie programmatiche ed organizzative non proletarie che il parassitismo ha dichiarato la sua guerra al movimento rivoluzionario.
"Le sette, all'inizio un volano per il movimento, diventano un impedimento nel momento in cui non sono più all'ordine del giorno; diventano dunque reazionarie. La prova di ciò, sono le sette in Francia ed in Gran Bretagna, e recentemente i Lassalliani in Germania, i quali, dopo anni di sostegno all'organizzazione del proletariato, sono semplicemente divenuti delle armi della polizia." (Marx/Engels, "Le pretese scissioni nell'Internazionale").
12. E' questo quadro dinamico di analisi sviluppata dalla Prima Internazionale che ci permette di comprendere perché il periodo attuale, quello degli anni 80 e soprattutto 90 sia stato testimone di un sviluppo del parassitismo senza precedenti, dopo l'epoca dell'Alleanza e del Lassallismo. In effetti, abbiamo oggi a che fare con un insieme di raggruppamenti informali, spesso agenti nell'ombra, che pretendono di appartenere al campo della Sinistra Comunista, ma che dedicano le loro energie a combattere le organizzazioni marxiste esistenti piuttosto che il regime borghese.
Come all'epoca di Marx ed Engels, la funzione di quest'ondata parassitaria è di sabotare lo sviluppo del dibattito aperto e della chiarificazione proletaria, e di impedire lo stabilirsi di regole di condotta impegnative per tutti i membri del campo proletario. L'esistenza di:
sono tra gli elementi più importanti che spiegano l'odio e l'offensiva del parassitismo politico. Come si è visto con l'esperienza dell'AIT, non è che nei periodi in cui il movimento operaio sta passando da uno stato di immaturità di base ad un livello qualitativamente superiore, specificamente comunista, che il parassitismo diviene il suo principale nemico interno. Nella fase attuale, questa immaturità non più è il prodotto della giovinezza del movimento operaio nel suo insieme, ma soprattutto il risultato dei 50 anni di controrivoluzione che hanno seguito la disfatta dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23. Oggi, è in primo luogo questa rottura della continuità organica con le tradizioni delle generazioni passate dei rivoluzionari che spiega il peso dei riflessi e dei comportamenti antiorganizzativi piccolo-borghesi tra molti elementi che si richiamano al marxismo ed alla Sinistra Comunista.
13. Insieme a tutta una serie di similitudini esistenti fra le condizioni e le caratteristiche di sviluppo del parassitismo all'epoca dell'AIT ed oggi, va tuttavia segnalata una differenza: nel secolo scorso, il parassitismo aveva preso essenzialmente la forma di un'organizzazione strutturata e centralizzata all'interno dell'organizzazione della classe, mentre oggi prende essenzialmente la forma di piccoli gruppi, o anche di elementi "non organizzati" (anche se lavorano spesso in contatto fra di loro). Questa differenza, che non rimette in causa la natura fondamentalmente identica del fenomeno parassitario nei due periodi, si spiega con le seguenti ragioni:
Da questo punto di vista è importante affermare chiaramente che l'attuale dispersione dell'ambiente politico proletario, e tutti gli atteggiamenti settari che impediscono o ritardano lo sforzo verso il raggruppamento o verso il dibattito fraterno tra le sue diverse componenti, non fanno altro che il gioco del parassitismo.
14. Il marxismo, in seguito all'esperienza dell'AIT, ha messo in evidenza le differenze tra il parassitismo e le altre manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee nelle organizzazioni della classe. Per esempio, l'opportunismo, anche se può in certi momenti manifestarsi sul terreno organizzativo (come fu il caso per i menscevichi nel 1903), aggredisce fondamentalmente il programma dell'organizzazione proletaria. Da parte sua, il parassitismo, proprio per poter svolgere il suo ruolo, non parte a testa bassa contro questo programma. E' essenzialmente sul terreno organizzativo che svolge la sua azione, anche se per poter meglio "reclutare" è spesso condotto a rimettere in causa questo o quell'aspetto del programma. Così, si è potuto vedere Bakunin cavalcare la proposta della "abolizione del diritto ereditario" al Congresso di Basilea del 1869, perché sapeva che all'interno dell'AIT circolavano molte illusioni in proposito. Ma quello che in realtà voleva era rovesciare il Consiglio Generale influenzato da Marx per poterlo sostituire con un Consiglio Generale che gli fosse devoto (4).
Il parassitismo, proprio per il fatto che attacca direttamente la struttura organizzativa delle formazioni proletarie, rappresenta, quando le condizioni storiche ne permettono la nascita, un pericolo molto più immediato dell'opportunismo. Queste due manifestazioni della penetrazione delle ideologie estranee costituiscono un pericolo mortale per le organizzazioni proletarie. L'opportunismo le uccide come strumenti della classe operaia attraverso un lento passaggio al servizio della borghesia, ma, nella misura in cui attacca prima di tutto il programma, non può arrivare a questo risultato che attraverso tutto un processo in cui la corrente rivoluzionaria, la Sinistra, potrà dal canto suo sviluppare all'interno dell'organizzazione la lotta per la difesa di questo programma (5). Al contrario, poiché è l'organizzazione stessa in quanto struttura che è presa di mira dal parassitismo, i tempi in cui la corrente proletaria deve organizzare la difesa sono brevissimi. L'esempio dell'AIT è significativo: l'insieme della lotta al suo interno contro l'Alleanza non dura più di quattro anni, tra il 1868 in cui Bakunin entra nell'Internazionale ed il 1872 in cui ne è escluso dal Congresso dell'Aia. Questo non fa che sottolineare una cosa: la corrente proletaria deve reagire immediatamente al parassitismo, senza attendere che abbia già colpito a fondo prima di iniziare a combatterlo.
15. Come abbiamo visto, è importante distinguere il parassitismo dalle altre manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee all’interno della classe. Va d’altra parte ricordato che una delle caratteristiche del parassitismo è quella di poter utilizzare queste altre manifestazioni. Questo dipende dall’origine del parassitismo, che è a sua volta il risultato della penetrazione di influenze estranee, ma dipende anche dalla sua dinamica, che mira in ultima analisi a distruggere le organizzazioni proletarie, senza preoccuparsi né dei principi né di eventuali scrupoli. Così, all’interno dell’AIT e del movimento operaio dell’epoca, l’Alleanza si è distinta, come già ricordato, per la sua capacità di appoggiarsi alle vestigia del settarismo, di prendere atteggiamenti opportunisti ( sulla questione del diritto ereditario, per esempio ) o a lanciarsi in movimenti totalmente avventuristi (la “Comune” di Lione, per esempio e la guerra civile in Spagna del 1873). Analogamente, si è servita delle tendenze all’individualismo di un proletariato che usciva appena dall’artigianato o dal contadiname ( in particolar modo in Spagna e nel Giura svizzero ). Le stesse caratteristiche si possono ritrovare nel parassitismo attuale. Il ruolo giocato dalle tendenze individualistiche nella costituzione dell’ambiente parassitario attuale è già stato sottolineato, ma vale ancora la pena di ricordare che tutte le scissioni della CCI che hanno dato luogo in seguito a gruppi parassiti (GCI, CBG, FECCI ) si sono basate su un atteggiamento settario consistente nel rompere prematuramente e nel rifiutarsi di discutere fino in fondo le divergenze. Analogamente, l'opportunismo è stata una delle caratteristiche del GCI che, dopo aver accusato la CCI, quando era una “tendenza” al suo interno, di non imporre sufficienti discriminanti ai nuovi candidati, si è convertita all’ammucchiata senza principi, modificando il suo programma nel senso delle suggestioni extraparlamentari alla moda (come il terzo-mondismo). Questo stesso opportunismo è stato messo in pratica dal CBG e dalla FECCI che, all’inizio degli anni '90, si sono dedicati ad un mercanteggiare incredibile per cercare di iniziare una dinamica verso il raggruppamento. Infine, per quanto concerne l’avventurismo-putschismo, è interessante notare che, anche lasciando da parte i flirt del GCI con il terrorismo, tutti questi gruppi siano sistematicamente caduti nelle trappole che la borghesia tendeva alla classe, chiamandola a estendere le sue lotte quando il terreno era già stato sterilizzato dalla classe dominante e dai sindacati, come fu il caso, in particolare, nell’Autunno 95 in Francia.
16. L’esperienza dell’AIT ha messo in evidenza la differenza che può esistere tra il parassitismo e la palude (anche se all’epoca, quest’ultimo termine non era ancora in uso). Il marxismo definisce la palude come una area politica oscillante fra le posizioni politiche della classe operaia e quelle della borghesia o della piccola borghesia. Correnti di questo tipo possono sorgere come una prima tappa nel processo di presa di coscienza di settori del proletariato o di rottura con le posizioni borghesi. Possono anche rappresentare residuati di correnti che, in un dato momento storico hanno espresso uno sforzo reale di presa di coscienza da parte della classe, ma che si sono dimostrati incapaci di evolvere in funzione delle nuove condizioni della lotta proletaria e dell’esperienza di quest’ultima. In linea di massima, correnti di questo tipo non possono mantenersi stabilmente in quanto tali. La continua oscillazione fra le posizioni borghesi e quelle proletarie le conducono a schierarsi completamente sul fronte borghese o su quello rivoluzionario, o anche a spaccarsi su queste due tendenze. Un simile processo di decantazione viene normalmente stimolato ed accelerato da grandi avvenimenti che riguardano la classe operaia (nel XX secolo, si tratta in genere della guerra imperialista e della rivoluzione proletaria) ed il senso generale in cui la decantazione avviene dipende in buona parte dall’evoluzione generale dei rapporti di forza fra la borghesia ed il proletariato. Di fronte a simili correnti, la Sinistra del movimento operaio ha sempre avuto come atteggiamento quello di non considerarle perdute in blocco per la lotta proletaria ma di stimolare al loro interno una chiarificazione che permettesse agli elementi più sani di integrarsi pienamente in questa lotta, denunciando allo stesso tempo con la massima fermezza quelli che prendevano la via del nemico di classe.
17. All’interno dell’AIT, a fianco della corrente marxista che ne costituiva l’avanguardia, esistevano delle correnti che si potrebbero definire come appartenenti alla palude. Era il caso, ad esempio, delle correnti blanquiste e proudhoniane che, nella prima meta del 19° secolo avevano costituito una reale avanguardia del proletariato in Francia. Al momento della lotta contro il parassitismo dell’Alleanza, queste correnti avevano ormai cessato di rappresentare una avanguardia. Ciononostante, e malgrado tutte le loro confusioni, furono capaci di partecipare alla lotta in difesa dell’Internazionale, in particolare al Congresso dell'Aia. Nei loro confronti la corrente marxista aveva un atteggiamento completamente diverso da quello verso l’Alleanza. Non si parlava assolutamente di escluderle. Al contrario, era importante associarle alla lotta dell’AIT contro i suoi nemici, non solamente per il peso che esse ancora avevano all’interno dell’Internazionale, ma soprattutto perché questa lotta permetteva un processo di chiarificazione all’interno di queste correnti. Nei fatti, questa lotta ha permesso di verificare che esisteva una differenza fondamentale fra la palude ed il parassitismo: mentre la prima è attraversata dalla vita proletaria, il che può permettere a sue componenti o ai suoi migliori elementi di raggiungere la corrente rivoluzionaria, il secondo, la cui vocazione profonda è quella di distruggere l’organizzazione rivoluzionaria, non può per definizione evolvere nella stessa direzione, anche se possono riuscirci singoli elementi che siano stati per un certo tempo ingannati dal parassitismo.
Anche oggi è importante fare una simile differenza fra le correnti della palude (6) ed il parassitismo. Come i gruppi dell’ambiente politico proletario debbono tentare di fare evolvere le prime verso le posizioni marxiste, favorendo la chiarificazione politica al loro interno, così debbono mostrare la massima fermezza nei confronti del parassitismo, denunciando il ruolo sordido che gioca a favore della borghesia. E questo è particolarmente importante proprio di fronte alle correnti della palude che, a causa delle loro confusioni ( in particolare a causa delle loro reticenze verso l’organizzazione, come è il caso dei consiliaristi ) sono particolarmente vulnerabili agli attacchi del parassitismo.
18. Tutte le manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee all’interno delle organizzazioni proletarie fanno il gioco della classe nemica. Questo è particolarmente evidente per il parassitismo il cui scopo è la distruzione di queste organizzazioni (che lo si dichiari apertamente o no). Su questo punto, l’AIT è stata particolarmente chiara affermando che, pur non essendo un agente dello Stato capitalista, Bakunin serviva i suoi interessi molto meglio di quanto un tale agente avrebbe mai potuto fare. Questo non significa che il parassitismo rappresenti in sè un settore dell’apparato politico del capitale, come ad esempio certe correnti borghesi dell’ultrasinistra, vedi l’attuale trotzkismo. Nei fatti, Marx ed Engels non hanno mai considerato come dei rappresentanti politici della borghesia neppure i parassiti più celebri della loro epoca, come Bakunin o Lassalle. Questa analisi si basa sulla comprensione del fatto che il parassitismo non costituisce in sé una frazione della borghesia, non avendo né un programma o un orientamento specifico per i capitale nazionale, né un posto particolare negli apparati dello Stato incaricati di controllare la lotta della classe operaia. Ciò detto, in ragione dei servizi che il parassitismo rende alla classe capitalista, può beneficiare di un occhio di riguardo da parte sua. Questa benevolenza si manifesta essenzialmente in tre modi:
Bisogna a questo proposito notare che, anche se la maggior parte delle organizzazioni parassitarie si richiama a parole ad un programma proletario, quest’ultimo non è indispensabile perché un’organizzazione possa svolgere la sua funzione di parassitismo politico che non si contraddistingue per le posizioni che difende ma per la sua attività distruttrice contro le vere organizzazioni della classe operaia.
19. Nel periodo attuale, dato che le organizzazioni proletarie non hanno la notorietà che poteva avere l’AIT ai suoi tempi, la propaganda ufficiale borghese in linea di massima non si preoccupa di sostenere i gruppi e gli elementi parassitari (tanto più che questo li screditerebbe agli occhi degli elementi che si avvicinano alle posizioni comuniste). Va però notato che nelle campagne borghesi specificamente dirette contro la Sinistra Comunista, in particolare quelle riguardanti il “negazionismo” dell’Olocausto, si è dato uno spazio enorme a gruppi come l’ex-Mouvement Communiste, la Banquise, etc. che venivano presentati come rappresentanti della Sinistra Comunista, mentre avevano forti connotazioni parassitarie.
Per contro, è stato proprio un agente dell’apparato statale, Chenier (7), a giocare il ruolo centrale nella formazione nel 1981 all’interno della CCI di una “tendenza segreta” che, dopo aver provocato la perdita di metà della sezione inglese, ha dato vita ad uno dei gruppi parassitari più caratteristici, il CBG.
Infine, i tentativi delle correnti borghesi di infiltrarsi nell’ambiente proletario per assumervi una funzione parassitaria sono chiaramente presenti attraverso l’azione di gruppi extraparlamentari come lo spagnolo Hilo Rojo ( che ha tentato per anni di ingraziarsi il milieu proletario, prima di attaccarlo frontalmente ) o come l’OCI ( gruppo extraparlamentare italiano, alcuni dei cui membri sono passati per il bordighismo, e che oggi si presenta come il “vero erede” di questa corrente ).
20. La penetrazione di agenti dello Stato nell’area parassitaria è evidentemente facilitata dalla natura stessa di questa area la cui vocazione di fondo è quella di combattere le vere organizzazioni proletarie. Nei fatti, è il reclutamento stesso del parassitismo fra gli elementi che rigettano la disciplina di un’organizzazione di classe, che non hanno che disprezzo per il suo funzionamento statutario, che si compiacciono dell’informalità e dei legami personali, piuttosto che fortificarsi nella lealtà verso l’organizzazione, che rende facilissima l’infiltrazione in quest’ambiente. Altrettanto facile è l’adesione di quegli ausiliari involontari dello Stato che sono gli avventurieri, questi elementi declassati che tentano di mettere il movimento operaio al servizio delle loro ambizioni di notorietà e di potere che gli vengono rifiutati dalla società borghese. Nell’AIT, l’esempio di Bakunin è chiaramente il più conosciuto. Marx ed i suoi compagni non hanno mai sostenuto che si trattasse di un agente diretto dello Stato. Per contro, sono stati capaci non solo di identificare e denunciare i servizi che egli rendeva involontariamente alla classe dominante, ma anche l’atteggiamento e l’origine di classe degli avventurieri all’interno delle organizzazioni proletarie ed il ruolo da loro giocato come dirigenti del parassitismo. Così, a proposito dell’attività dell’Alleanza segreta di Bakunin nell’AIT, scrivevano che gli “elementi declassati” erano stati capaci di “infiltrarvisi (nell’AIT, N.d.R.) e radicarvi, nel suo centro stesso, delle organizzazioni segrete”. Questo stesso giudizio è ripreso da Bebel a proposito di Schweitzer, leader della corrente lassalliana (che, oltre che opportunista, aveva anche forti connotazioni parassitarie): “Si è unito al movimento quando ha visto che nella borghesia per lui non c’era avvenire, che per lui, declassato rapidamente dal suo stile di vita, la sola speranza stava nel giocare un ruolo nel movimento operaio, cui lo predestinavano le sue capacità e le sue ambizioni.” (A. Bebel , Autobiografia ).
21. Ciò detto, anche se le tendenze parassitarie sono spesso dirette da avventurieri declassati ( quando non si tratta direttamente di agenti dello Stato ), non è solo in questa categoria che pescano per il reclutamento. Sono anche capaci di attirare elementi inizialmente animati da volontà rivoluzionaria e che non pensano a distruggere l'organizzazione, ma che:
arrivano alla fine a sviluppare una ostilità di fondo contro l'organizzazione proletaria, anche se questa ostilità si ammanta di pretese "militanti".
Nell'AIT si è assistito ad un fenomeno simile da parte di un certo numero di membri del Consiglio Generale come Eccarius, Jung ed Hales.
Peraltro, il parassitismo è capace di reclutare elementi sinceri e militanti, che - per non essersi liberati degli influssi piccolo-borghesi o per mancanza di esperienza - si lasciano trascinare, ingannare, manipolare da elementi chiaramente anti-proletari. Nell'AIT, questo è tipicamente il caso della maggioranza degli operai che hanno fatto parte dell'Alleanza in Spagna.
22. Per quello che concerne la CCI, la maggior parte delle scissioni che hanno portato alla formazione di gruppi parassitari erano chiaramente costituite da elementi animati dall'atteggiamento piccolo-borghese sopra descritto. L'impulso dato da intellettuali smaniosi di "riconoscimento" e che erano frustrati per non ottenerlo, l'impazienza di fronte al fatto che non riuscivano a convincere gli altri militanti della "giustezza" delle loro posizioni o di fronte alla lentezza del processo di sviluppo della lotta di classe, le suscettibilità ferite dalla critica delle loro posizioni o dei loro comportamenti, il rifiuto di una centralizzazione che vivevano come "stalinismo" sono stati i motori della costituzione di "tendenze" che hanno portato alla formazione di gruppi parassitari più o meno effimeri ed alle diserzioni individuali che vanno ad alimentare l'area informale del parassitismo. Nel tempo, la "tendenza" del 1979 che portò alla formazione del Gruppo Comunista Internazionalista, la tendenza Chenier, uno dei cui frutti fu il defunto Communist Bulletin Group, la "tendenza" McIntosh-ML-JA ( costituita in gran parte di membri dell'organo centrale della CCI ) che ha dato vita alla FECCI ( divenuta in seguito Perspectives Internationalistes ) hanno costituito delle tipiche illustrazioni di questo fenomeno. In questi episodi è egualmente successo che elementi dalle intenzioni proletarie indiscutibili si siano fatti trascinare dalla fedeltà personale verso i capi di queste "tendenze", che non erano tendenze vere e proprie ma piuttosto dei "clan", nel senso più volte già definito dalla nostra organizzazione. Il fatto che tutte le scissioni parassitarie della nostra organizzazione siano apparse inizialmente sotto forma di clan interni non può evidentemente essere dovuto al caso. In realtà, esiste una grande similitudine tra i comportamenti organizzativi che sono alla base della formazione dei clan e quelli di cui si alimenta il parassitismo: individualismo, quadro statutario vissuto come una costrizione, frustrazione verso l'attività militante, lealtà verso singole persone a discapito della lealtà verso l'organizzazione, influenza dei "guru" ( personaggi alla ricerca di un'influenza personale verso altri militanti ). Nei fatti, quello che è già insito nella formazione di clan interni all'organizzazione, e cioé la distruzione del suo tessuto organizzativo, trova nel parassitismo la sua espressione più completa: la volontà di distruggere le organizzazioni proletarie stesse (8).
23. L'eterogeneità, che è una caratteristica del parassitismo, poiché nei suoi ranghi si trovano sia elementi relativamente sinceri, sia elementi animati dall'odio per le organizzazioni rivoluzionarie, o addirittura avventurieri politici e agenti dello Stato, fa di quest'ambiente il luogo privilegiato di politiche segrete che permettono agli elementi più ostili alle motivazioni proletarie di trascinare con se gli altri. La presenza di questi ultimi, degli elementi "sinceri", specie se si tratta di elementi che hanno effettivamente contribuito all'organizzazione, costituisce una delle condizioni del successo del parassitismo, perchè gli permette di mascherarsi e di accreditare la sua facciata "proletaria" (proprio come il sindacalismo ha bisogno di attivisti "sinceri e devoti" per mantenere il controllo della base). D'altra parte il parassitismo, ed i suoi elementi trainanti, non potrebbero mantenere il controllo su buona parte dei loro adepti se non nascondessero, dissimulassero i loro scopi reali. Cosi, l'Alleanza nell'AIT comprendeva diversi livelli attorno al "cittadino B.", nonché statuti segreti riservati agli "iniziati". "L'Alleanza divide i suoi membri in due caste, iniziati e non iniziati, aristocratici e plebei, con i secondi condannati ad essere diretti dai primi, attraverso un'organizzazione di cui ignorano l'esistenza." ( Engels, Rapporto sull'Alleanza ). Oggi, il parassitismo agisce allo stesso modo ed è raro che dei gruppi parassiti, ed in particolare gli avventurieri e gli intellettuali frustrati che li animano, mostrino chiaramente il loro programma. Da questo punto di vista, il Mouvement Communiste (9), che afferma a chiare lettere che bisogna distruggere l'ambiente della Sinistra Comunista, è contemporaneamente la caricatura ed il portavoce più chiaro della natura profonda del parassitismo.
24. I metodi utilizzati dalla Prima Internazionale e dagli Eisenachiani contro il parassitismo della loro epoca corrispondono perfettamente a quelli utilizzati oggi dalla CCI. Nei documenti pubblici dei Congressi, nella stampa, nelle riunioni operaie e perfino -allora- nel Parlamento, le manovre dei parassiti furono denunciate. Più e più volte fu dimostrato che dietro questi attacchi si celavano le classi dominanti e che il loro scopo era la distruzione del marxismo. I lavori del Congresso dell'Aja ed i celebri discorsi in cui Bebel denunciava la politica segreta di Bismarck e Schweitzer mostrano la capacità del movimento operaio di dare una spiegazione di tipo globale, pur denunciando le varie manovre in modo estremamente concreto. Tra le ragioni più importanti date dalla Prima Internazionale per la pubblicazione delle rivelazioni su Bakunin, troviamo in primo luogo le seguenti:
Infine, al centro di questa politica si trovava la necessità di smascherare gli avventurieri politici, come Bakunin e Schweitzer. Non si potrà mai sottolineare abbastanza il fatto che questo atteggiamento ha caratterizzato tutta la vita politica di Marx, come si vede dalla sua denuncia degli accoliti di Lord Palmerston o del Signor Vogt. Marx capiva perfettamente che mettere a tacere queste storie significava solo fare un favore alla classe dominante.
25. E' questa grande tradizione del movimento operaio che la CCI continua con gli articoli che relazionano sulla sua lotta interna, le sue polemiche contro il parassitismo, l'annuncio pubblico dell'esclusione unanime di uno dei suoi membri da parte dell'11° Congresso Internazionale, la pubblicazione di articoli sulla massoneria, ecc. In particolare, la difesa da parte della CCI dello strumento del Giurì d'Onore nel caso di elementi che abbiano perso la fiducia delle organizzazioni rivoluzionarie, in modo da difendere l'insieme dell'ambiente proletario, si iscrive nello stesso spirito del Congresso dell'Aja, e delle commissioni di inchiesta dei partiti operai russi su elementi che erano sospettati di essere dei provocatori.
La tempesta di proteste ed accuse della borghesia alla pubblicazione dei principali risultati dell'inchiesta sull'Alleanza dimostra che questo metodo rigoroso di denuncia pubblica è proprio quello che la borghesia non riesce a sopportare. Per contro, il modo in cui le direzioni opportuniste della II° Internazionale hanno sistematicamente ignorato, negli anni pre-1914, il famoso capitolo "Marx-Bakunin" nella storia del movimento operaio, mostra la paura per questo argomento da parte di tutti i difensori delle concezioni organizzative piccolo-borghesi.
26. La politica del movimento operaio verso l'infantilismo piccolo-borghese del parassitismo è stata sempre quella di spazzarlo via dalla scena politica. In questo, la denuncia delle assurdità delle posizioni e dell'attività politica dei parassiti gioca un ruolo importante. Così, Engels, nel suo celebre articolo "I bakunisti all'opera" ( durante la guerra civile in Spagna ) , ha continuato e completato le rivelazioni sul comportamento organizzativo dell'Alleanza.
Oggi la CCI adotta la stessa politica combattendo contro gli adepti dei differenti centri organizzati e "informali" dell’ambiente parassita.
Per quanto riguarda invece gli elementi più o meno proletari che si fanno più o meno ingannare dal parassitismo, la politica del marxismo è sempre stata quella di piantare un cuneo fra questi elementi e la direzione parassitaria ispirata o incoraggiata dalla borghesia, dimostrando che i primi vengono manipolati da quest'ultima. Lo scopo di questa politica è sempre quello di isolare la direzione parassitaria, allontanando le sue vittime dalla sua zona di influenza. Verso queste "vittime" l'impostazione marxista è sempre stata quella di denunciare con fermezza il loro atteggiamento e le loro attività, ed allo stesso tempo lottare per rianimare la loro fiducia verso l'organizzazione e l'insieme del milieu proletario. Il lavoro portato avanti da Lafargue ed Engels verso la sezione spagnola della Prima Internazionale è una perfetta concretizzazione di questo atteggiamento. La CCI si iscrive in questa grande tradizione organizzando confronti pubblici per recuperare gli elementi ingannati. L'intervento di Bebel e Liebknecht per denunciare Schweitzer come agente di Bismarck di fronte ad un meeting di massa del partito lassalliano a Wuppertal, è un esempio ben noto di questo atteggiamento.
27. La tradizione di lotta contro il parassitismo si è largamente perduta nel movimento operaio, dopo le grandi lotte nell'AIT, a causa:
Questo rappresenta un elemento di debolezza molto grave per il milieu proletario di fronte all'attuale offensiva del parassitismo. Questo pericolo è tanto più grave in quanto la pressione ideologica della decomposizione del capitalismo - pressione che facilita, come la CCI ha messo in evidenza, la penetrazione dell'ideologia piccolo borghese nelle sue caratterizzazioni più estreme (10) - crea in permanenza un terreno propizio allo sviluppo del parassitismo. Dunque il movimento rivoluzionario ha la grave responsabilità di impegnare una lotta a fondo contro questo flagello. In un certo senso, la capacità delle correnti rivoluzionarie nell'identificare e combattere il parassitismo sarà un indice della loro capacità nel combattere le altre minacce che pesano sulle organizzazioni del proletariato, ed in particolare la minaccia più permanente, quella dell'opportunismo.
Nei fatti, nella misura in cui opportunismo e parassitismo provengono entrambi dalla stessa fonte ( la penetrazione dell'ideologia piccolo borghese ) e rappresentano un attacco contro i principi dell'organizzazione proletaria ( principi programmatici nel caso del primo, organizzativi nel secondo ), è del tutto spontaneamente che finiscono per tollerarsi a vicenda e convergere. Così, non è assolutamente un paradosso se nell'AIT si siano ritrovati fianco a fianco i bakunisti "antistatalisti" ed i lassalliani "statalisti" ( che rappresentavano una variante dell'opportunismo ). Ne consegue che è toccato sempre alle correnti di sinistra all'interno delle organizzazioni proletarie farsi carico dell'essenziale della lotta contro il parassitismo. Nell'AIT, sono direttamente Marx, Engels e la loro tendenza che portano avanti la lotta contro l'Alleanza. Non è assolutamente un caso se i principali documenti redatti nel corso di questa lotta portino la loro firma ( la circolare del 5 Marzo 1872 "Le pretese scissioni nell'Internazionale" è redatta da Marx ed Engels, il rapporto del 1873 su "L'Alleanza della Democrazia Socialista e l'Associazione Internazionale dei lavoratori" è dovuto a Marx, Engels, Lafargue e Utin ).
Quello che era valido ai tempi dell'AIT, resta valido ancora oggi. La lotta contro il parassitismo costituisce una delle responsabilità essenziali della Sinistra Comunista, che si collega strettamente alla tradizione delle grandi lotte contro l'opportunismo. In questo momento, uno dei fronti fondamentali per la preparazione del partito di domani e, per questo stesso fatto, ha il suo peso nel determinare sia il momento in cui il partito sorgerà, sia la sua capacità di svolgere il suo ruolo nelle lotte decisive del proletariato.
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1. E' opportuno distinguere i due diversi sensi che la parola avventurismo può avere. Da un lato, esiste l'avventurismo di certi elementi declassati, gli avventurieri politici che, non potendo giocare un ruolo all'interno della classe dominante, ed avendo compreso che il proletariato è chiamato a occupare un posto di primo piano all'interno della vita sociale della storia, cercano di guadagnarsi, all'interno delle sue organizzazioni, un riconoscimento che gli permetta di giocare quel ruolo personale negatogli dalla borghesia. Avvicinandosi alla lotta della classe operaia, questi elementi non hanno l'intenzione di mettersi al suo servizio, bensì di metterla al servizio delle proprie ambizioni. Cercano la notorietà "andando al proletariato", come altri la cercano facendo il giro del mondo. D'altra parte, l'avventurismo indica anche l'atteggiamento politico consistente a lanciarsi in azioni sconsiderate, mentre le condizioni minime per il loro successo, la necessaria maturità della classe, non esistono. Un tale atteggiamento può essere proprio di avventurieri politici alla ricerca di emozioni forti, ma può perfettamente essere fatto proprio da operai e militanti totalmente sinceri, devoti e disinteressati, ma che mancano di capacità di giudizio politico o sono attanagliati dall'impazienza.
2. Marx ed Engels non furono i soli ad identificare ed a caratterizzare il parassitismo politico. Così, alla fine del 19° secolo, un grande teorico marxista, Antonio Labriola, riprendeva la stessa analisi del parassitismo: " Nel primo tipo dei nostri attuali partiti (si tratta della Lega dei Comunisti, ndr) in questa cellula primaria, per così dire, del nostro organismo complesso c’era non solo la coscienza della missione da compiere come precursore, ma c’era anche la forma e il metodo di associazione che erano adatti solo ai primi iniziatori della rivoluzione proletaria. Non si trattava più di una setta; questa forma era nei fatti superata. La dominazione immediata e fantastica dell’individuo era eliminata. Quello che predominava era una disciplina che aveva la sua fonte nell’esperienza della necessità, e nella dottrina che deve essere precisamente la coscienza riflessa di questa necessità. La stessa cosa fu per l’Internazionale, che poteva sembrare autoritaria solo a quelli che non potettero sottometterla alla loro propria autorità. Deve essere lo stesso e sarà così in tutti i partiti operai: e là dove questo carattere non sarà marcato o non potrà esserlo ancora, l’agitazione proletaria, ancora elementare e confusa, genererà solamente delle illusioni, e non sarà che un pretesto per degli intrighi. E quando non è così, allora si tratta di un cenacolo, in cui l’illuminato sta gomito a gomito con il pazzo e lo spione; sarà per esempio la Società dei Fratelli Internazionali che si attacca come un parassita all’Internazionale e la discredita; (…) o infine un raggruppamento di scontenti per lo più declassati e piccolo borghesi che si dedicano a speculare sul socialismo come su una qualsiasi altra moda politica" (Saggio sulla concezione materialistica della storia)
3. Questo fenomeno è evidentemente rinforzato dal peso del consiliarismo che costituisce, come la CCI ha sottolineato, uno dei prezzi che il movimento operaio rinascente ha pagato e pagherà a causa della dominazione stalinista durante tutta la fase controrivoluzionaria.
4. E' in base a questa speranza che durante il Congresso di Basilea gli amici di Bakunin avevano appoggiato la decisione di rafforzare al massimo i poteri del Consiglio Generale, mentre dopo il Congresso arriveranno ad esigere che il Consiglio venisse ridotto ad una semplice "cassetta per le lettere".
5. La storia del movimento operaio è ricca di lotte portate avanti dalla Sinistra. Fra le più importanti ricordiamo:
6. Ai giorni nostri, possono far parte della palude in particolare le correnti consiliariste (come quelle fatte sorgere dalla ripresa storica della lotta di classe alla fine degli anni 60 e che probabilmente riappariranno durante i futuri movimenti di classe); residuati del passato come i De Leonisti presenti nell’area anglosassone o elementi appena usciti dalle organizzazioni extraparlamentari.
7. Non ci sono prove certe del fatto che Chenier fosse un agente dei servizi di sicurezza dello Stato. In cambio, la sua rapida carriera, subito dopo la sua esclusione dalla CCI, all'interno dell'amministrazione e soprattutto all'interno dell'apparato del Partito Socialista (all'epoca al governo) dimostra che doveva già lavorare per questa parte dello Stato quando si presentava ancora come un 'rivoluzionario".
8. Alle analisi e preoccupazione della CCI concernenti il parassitismo si è spesso risposto che questo fenomeno riguarderebbe solo la nostra organizzazione, sia come suo bersaglio, sia come suo "disseminatore" attraverso le nostre varie scissioni.. E' vero che oggi la CCI è il principale bersaglio del parassitismo, il che si spiega facilmente per il fatto che è l'organizzazione più importante ed estesa dell'ambiente proletario. Per questo stesso fatto è quella che suscita più odio nei nemici di quest'ambiente, che non perdono occasione di tentare di suscitare contro di essa l'ostilità delle altre organizzazioni proletarie. Un'altra causa di questo "privilegio" da parte del parassitismo è per l’appunto il fatto che la CCI è l'organizzazione in cui si sono avute il maggior numero di scissioni che hanno portato alla nascita di gruppi parassiti.
A questo fenomeno si possono dare varie spiegazioni.
In primo luogo, fra le organizzazioni dell'ambiente politico proletario che si sono mantenute nei trent'anni che ci separano dal 1968, la CCI è l'unica di nuova fondazione, mentre le altre esistevano già all'epoca. Questo spiega il fatto che vi fosse nella nostra organizzazione un peso più forte di quello che Lenin chiama lo spirito di circolo e che è il terreno di coltura per il clan ed il parassitismo. Bisogna anche considerare che nelle altre organizzazioni c'era già stata - prima ancora della ripresa storica della lotta di classe - una "selezione naturale" che aveva eliminato gli elementi avventurieri e semi-avventurieri oltre che gli intellettuali alla ricerca di un pubblico che non avevano avuto la pazienza di portare avanti un lavoro oscuro in piccole organizzazioni in un momento in cui avevano un impatto trascurabile sulla classe, a causa del periodo controrivoluzionario. Al momento della ripresa proletaria, questo tipo di elementi può aver pensato che sarebbe stato più facile "accedere a dei posti" in un'organizzazione nuova, in via di costituzione, piuttosto che in un'organizzazione esistente da lungo tempo, dove "i posti erano già occupati".
In secondo luogo esiste una differenza fondamentale fra le scissioni, ugualmente numerose, che hanno colpito la corrente bordighista ( che negli anni '70 era la più sviluppata internazionalmente ) e quelle che hanno colpito la CCI. Nelle organizzazioni bordighiste, che rivendicano ufficialmente il monolitismo, le scissioni sono essenzialmente il risultato dell'impossibilità di discutere al loro interno le divergenze e dunque non sono necessariamente il frutto di una dinamica parassitaria. Per contro, le scissioni avvenute nella CCI non sono il risultato del monolitismo o del settarismo, poiché la nostra organizzazione ha sempre permesso, ed incoraggiato, i dibattiti ed i confronti al suo interno: le dimissioni collettive facevano necessariamente seguito ad un'impazienza, a delle frustrazioni individualiste, alla formazione di clan ed a una dinamica parassitaria.
Ciò detto, bisogna sottolineare che la CCI non è certamente il solo bersaglio del parassitismo. Per esempio, gli insulti di Hilo Rojo, come quelli del Mouvement Communiste, sono indirizzati a tutta la Sinistra Comunista. Analogamente, il bersaglio privilegiato dell'OCI è la corrente bordighista. Infine, anche quando i gruppi parassitari concentrano i loro attacchi contro la CCI, risparmiando o perfino adulando gli altri gruppi dell'ambiente proletario ( come era il caso per il Communist Bulletin Group o come fa sistematicamente Echanges et Mouvement) lo fanno in genere con l'obiettivo di accrescere le divisioni e la dispersione fra questi gruppi, debolezze che la CCI è sempre stata pronta a combattere.
9. Gruppo animato da ex-membri della CCI, appartenuti in seguito al GCI, e da vecchi transfughi della sinistra extraparlamentare. Non va confuso con il Mouvement communiste degli anni '70 che fu uno dei precursori della tendenza "modernista".
10. Vedi Rivista Internazionale n. 14: "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo", paragrafo 13.
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[8] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[9] https://en.internationalism.org/internationalreview/197701/9333/ambiguities-internationalist-communist-party-over-partisans-italy-19
[10] https://fr.internationalism.org/rinte8/partisan.htm
[11] https://en.internationalism.org/content/3122/origins-icpcommunist-programme-what-it-claims-be-and-what-it-really
[12] https://fr.internationalism.org/rint/32_PCInt
[13] https://en.internationalism.org/content/3171/50-years-ago-real-causes-second-world-war
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