giugno-agosto
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Grecia, Turchia, Portogallo, Spagna, Italia, Inghilterra, Irlanda, Francia, Germania, Romania, Stati Uniti, Giappone, Cina …
Alle misure di austerità rispondiamo con la lotta!
In Grecia si è sviluppata una rabbia immensa e la situazione sociale è esplosiva. In questo momento lo Stato greco sta sferrando dei colpi terribili al proletariato. Tutte le fasce di età e tutti i settori proletari sono fortemente colpiti. I lavoratori del settore privato, gli impiegati statali, i disoccupati, i pensionati, gli studenti, i precari, … nessuno viene risparmiato. Tutta la classe operaia rischia di sprofondare nella miseria.
Di fronte a questi attacchi, il proletariato non resta senza reagire. Scende per strada e si batte, mostrando così di non essere disposto ad accettare i sacrifici imposti dal capitale senza batter ciglio.
Ma, per il momento, questa lotta non riesce a svilupparsi, a diventare di massa. Gli operai della Grecia stanno vivendo delle ore difficili. Che fare quando tutti i mass-media e tutti i responsabili politici affermano che non c’è altra soluzione se non stringere la cinghia per salvare il paese dal fallimento? Come resistere a questo mostro divoratore che è lo Stato? Quali metodi di lotta mettere in opera per costruire un rapporto di forza favorevole agli sfruttati?
Tutte queste questioni non riguardano solo gli operai che vivono in Grecia, ma i proletari del mondo intero. Non possiamo farci nessuna illusione, la “tragedia greca” è solo un anticipo di quello che toccherà a tutti gli operai in tutto il mondo. Ed infatti, delle “misure di austerità alla greca” sono state già annunciate ufficialmente in Portogallo, in Romania, in Giappone ed in Spagna (dove il governo ha appena abbassato del 5% il salario dei dipendenti statali!). In Italia si stanno preparando a fare la stessa cosa. Tutti questi attacchi portati avanti simultaneamente dimostrano ancora una volta che gli operai, indipendentemente dalla loro nazionalità, formano una sola ed unica classe che ha ovunque gli stessi interessi e gli stessi nemici. La borghesia fa portare al proletariato le pesanti catene del lavoro salariato, ma gli anelli di queste catene legano tra loro gli operai di tutti i paesi, al di là delle frontiere.
Quelli che vengono attaccati oggi in Grecia e che hanno iniziato, faticosamente, a provare a battersi sono dunque i nostri fratelli di classe. La loro lotta è anche la nostra lotta.
Solidarietà con gli operai della Grecia!
Una sola classe, una stessa lotta!
Rifiutiamo tutte le divisioni che tenta di imporci la borghesia. Al vecchio principio delle classi dominanti “dividere per meglio regnare”, contrapponiamo il grido di unità degli sfruttati “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”
In Europa, le diverse borghesie nazionali cercano di far credere agli operai che dovranno stringere la cinghia a causa della Grecia. La disonestà dei responsabili greci, che hanno lasciato che il paese vivesse a credito per decenni truccando i conti pubblici, sarebbe secondo loro la causa principale di una “crisi di fiducia internazionale” verso l’euro. Tutti i governi stanno usando questo pretesto per giustificare, uno dopo l’altro, la necessità di ridurre i deficit statali e l’adozione di piani di austerità draconiani.
In Grecia tutti i partiti ufficiali, Partito Comunista in testa, attizzano i sentimenti nazionalisti, indicando le “forze straniere” come responsabili degli attacchi. “Abbasso il FMI e l’Unione europea”, “Abbasso la Germania”, questi sono gli slogan che la sinistra e l’estrema sinistra mettono avanti nelle manifestazioni per salvare, volutamente, il capitale nazionale greco.
Negli Stati Uniti, se le Borse cadono, la colpa sarebbe dell’instabilità dell’Unione europea; se le imprese chiudono, la colpa sarebbe della debolezza dell’euro che ostacolerebbe il dollaro e le esportazioni …
Insomma, ogni borghesia nazionale accusa il vicino ed esercita sul proprio proletariato questo infame ricatto: “accettate i sacrifici altrimenti il paese si indebolirà ed i concorrenti ne approfitteranno”. La classe dominante cerca così di iniettare nelle vene operaie il nazionalismo, vero veleno per le lotte.
Questo mondo diviso in nazioni concorrenti non è il nostro. I proletari non hanno niente da guadagnare a legare la propria sorte a quella del capitale del paese in cui vivono. Accettare dei sacrifici oggi in nome della “difesa dell’economia nazionale”, significa preparare altri sacrifici, ancora più duri, per domani.
Se la Grecia è “sull’orlo del baratro”, se la Spagna, l’Italia, l’Irlanda, il Portogallo stanno per seguirla, se il Regno Unito, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti sono nella tempesta, è perché il capitalismo è un sistema moribondo. Tutti i paesi sono condannati a sprofondare irrimediabilmente in questo marasma. L’economia mondiale è in crisi da 40 anni. Le recessioni si susseguono una dopo l’altra. Solo una disperata fuga in avanti nell’indebitamento ha permesso al capitalismo di avere, finora, un po’ di crescita. Risultato, oggi le famiglie, le imprese, le banche, gli Stati sono tutti super indebitati. Il fallimento della Grecia non è che una delle espressioni più eclatanti del fallimento generale e storico di questo sistema di sfruttamento.
La borghesia vuole dividerci. Opponiamo la nostra solidarietà!
La forza della classe operaia è la sua unità!
I piani di austerità annunciati costituiscono un attacco frontale e generalizzato alle nostre condizioni di vita. La sola risposta possibile è quindi un movimento di massa dei lavoratori. È impossibile portare avanti questa lotta rimanendo chiusi nella propria impresa, nella propria scuola o nel proprio settore, da soli, isolati, in piccoli gruppi. Lottare in massa è una necessità, se non vogliamo essere tutti schiacciati e ridotti alla miseria.
Ora, che fanno i sindacati, queste organizzazioni che sulla carta sarebbero gli “specialisti ufficiali della lotta”? Organizzano sì scioperi in diverse fabbriche … ma senza mai cercare di unificarli. Essi lavorano attivamente per rafforzare il corporativismo, mettendo in particolare in contrapposizione i lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato. Sfiancano i lavoratori portandoli a spasso in sterili “giornate di mobilitazione”. In realtà sono proprio degli “specialisti della divisione operaia”! E non sono da meno nel distillare il nazionalismo. Un solo esempio: lo slogan più scandito nelle manifestazioni dalla GSEE (la CGIL greca) dalla metà di marzo è … “comperare greco”!
Seguire i sindacati significa andare sempre verso la divisione e la sconfitta. Gli operai invece devono prendere l’iniziativa della lotta, organizzando in prima persona le assemblee generali, decidendo collettivamente le parole d’ordine e le rivendicazioni, eleggendo delegati revocabili in ogni momento e formando delegazioni di massa per andare a discutere con i lavoratori più vicini, nelle fabbriche, gli uffici, le scuole, gli ospedali vicini … per incoraggiarli a raggiungere il movimento.
Fare a meno dei sindacati, osare prendere le redini della propria lotta, fare il passo di andare incontro ai propri fratelli di classe … tutto ciò può sembrare difficile. Ed infatti è proprio questo oggi uno dei maggiori freni allo sviluppo della lotta: il proletariato manca di fiducia in sé stesso, non ha ancora coscienza della forza che rappresentano le sue formidabili capacità. Per il momento, la violenza degli attacchi del capitale, la brutalità della crisi economica, la mancanza di fiducia del proletariato in sé stesso, agiscono come dei fattori paralizzanti. Le risposte operaie, anche in Grecia, sono ben lontane da quello che richiederebbe la gravità della situazione. Eppure, il futuro appartiene alla lotta di classe. Di fronte agli attacchi, la prospettiva è quella dello sviluppo di movimenti sempre più di massa.
Alcuni ci chiederanno: “Perché fare queste lotte? A cosa ci portano? Poiché il capitalismo è in fallimento, nessuna riforma è realmente possibile. Quindi non c’è via d’uscita.” Effettivamente, all’interno di questo sistema di sfruttamento, non c’è alcuna via d’uscita. Ma rifiutare di essere trattati da cani e lottare collettivamente vuol dire battersi per la nostra dignità, vuol dire prendere coscienza che in questo mondo di sfruttamento la solidarietà esiste e che la classe operaia è capace di far vivere questo inestimabile sentimento umano. Allora, la possibilità che un altro mondo possa esistere comincia ad apparire, un mondo senza frontiere né patrie, senza sfruttamento né miseria, un mondo fatto per gli uomini e non più per il profitto. La classe operaia può e deve avere fiducia in sé. Essa sola è capace di costruire questa nuova società e riconciliare l’umanità con sé stessa passando “dal regno della necessità a quello della libertà” (Marx)!
Il capitalismo è un sistema in fallimento.
Ma un altro mondo è possibile: il comunismo!
Corrente Comunista Internazionale, 30 maggio 2010
Se vuoi discutere con altre persone dei contenuti di questo volantino internazionale, partecipa alle riunioni pubbliche che la nostra organizzazione promuove regolarmente nei luoghi e nelle date riportate sul nostro sito: it.internationalism.org [2]. Le prossime sono previste a:
Napoli, sabato 5 giugno 2010, alle ore 17,00, presso Libreria JAMM, via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, n°32 e a Milano, sabato 26 giugno 2010, alle ore 16,30, presso la Libreria Calusca, via Conchetta n°18.
Per contatti scrivi a: [email protected] [3] o alla casella di posta RI, C.P. 469, 80100 Napoli.
I tempi che viviamo sono senz’altro inediti e pieni di elementi di riflessione, tempi di una maturazione della storia che, e ci sono tanti elementi a farlo pensare, non può sboccare che in grandi sconvolgimenti.
In effetti nella storia del capitalismo, pur ricca di tanti orrori e vergogne, non si era mai visto uno spettacolo così indecoroso da parte dell’insieme della borghesia, padroni e loro rappresentanti politici (che nel caso italiano si trovano a coincidere ai massimi livelli dello Stato).
Da un lato, nonostante la crisi e i sacrifici che vengono richiesti alla stragrande maggioranza dei lavoratori, lor signori non si fanno scrupolo di ostentare la loro ricchezza, con le ville, gli yacht e le feste faraoniche al Billionaire del re dei cafoni arricchiti, Briatore. E anche in questo il presidente del consiglio è il primo nell’ostentazione della sua ricchezza. Se poi si pensa a come questa ricchezza è stata acquisita, il senso di schifo non può che aumentare a dismisura. Ma non è solo questo. La corruzione, che ha sempre contraddistinto il sistema capitalista, un sistema che mette la ricchezza al di sopra di ogni morale, ha raggiunto livelli incredibili: non c’è politico, di destra come di sinistra, che non sia sospettato, se non indagato, per aver ricevuto, in cambio di favoritismi, regali sotto forma di escort, regali (e che regali), mazzette. E, come è stato fatto notare, se ai tempi di Tangentopoli le mazzette servivano in prima istanza a “pagare i costi della politica”, oggi servono solo a pagare l’insaziabile sete di questi fedeli servitori del capitale. E sono questi corrotti patentati che, non solo non sono chiamati a pagare anche quando vengono scoperti , ma restano al loro posto a prendere quelle misure di austerità che stanno riducendo alla miseria un gran numero di lavoratori.
Altrettanto indecoroso è lo spettacolo che la classe dominante offre quando “discute”. Non ci riferiamo tanto alle risse verbali delle trasmissioni “politiche” televisive (Ballarò, Porta a Porta, AnnoZero, ecc.), che sono messe su proprio per evitare che al pubblico sia offerto un dibattito vero, su cui potersi fare una opinione, ma alle vere divisioni che emergono non solo fra maggioranza ed opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza (vedi lo scontro fra Fini e Berlusconi alla direzione del PDL)[1], o anche le bordate che si tirano politici e industriali[2] .
Queste divisioni sono normali visto che parliamo di cricche di briganti che difendono ognuno i propri interessi, personali o politici che siano.
Ma queste divisioni scompaiono quando si tratta di attaccare i livelli di vita dei lavoratori. Ed anche questo è normale: quando si tratta di difendere gli interessi del capitale la borghesia ritrova tutta la sua unità, perché sa che si trova di fronte al suo nemico mortale: il proletariato.
Ed il livello di questi attacchi è anch’esso un elemento di portata storica, proporzionale alla gravità della crisi del sistema capitalista. Quello che sta avvenendo è ormai un ritorno alle condizioni di decenni fa, cioè la perdita di tutta una serie di acquisizioni (non ci piace parlare di “diritti”, dal momento che nel sistema capitalista i lavoratori non hanno veri e propri diritti, ma solo conquiste che bisogna difendere a denti stretti) sia sul piano economico che normativo.
E questi attacchi colpiscono tutti i lavoratori:
- con i licenziamenti che toccano gli operai, ma anche i lavoratori del pubblico impiego (sono decine di migliaia i precari che hanno perso il posto di lavoro sia nella scuola che negli altri settori);
- con la cassa integrazione che taglia drasticamente i redditi dei lavoratori (lo scorso anno si è avuto il record delle ore di cassa integrazione)
- con la nuova finanziaria che blocca i salari dei dipendenti pubblici (con la conseguente perdita di centinaia di euro al mese per due anni), taglia i fondi agli enti locali e conseguentemente i servizi sociali che questi possono offrire, rimanda i pensionamenti di un anno (e per le donne di 4 anni), chiudendo ancora di più la porta in faccia ai giovani in cerca di lavoro.
Altrettanto impressionante è il piano che la FIAT ha preparato, e presentato come un piano di rilancio della sua attività in Italia:
- chiusura di Termini Imerese
- mantenimento dello stabilimento di Pomigliano solo a patto di un nuovo accordo che fa tornare le condizioni di lavoro di decenni indietro (18 turni settimanali su sei giorni, sanzioni in caso di sciopero il sabato, pause ridotte da 40 a 30 minuti, 80 ore di straordinario obbligatorio all’anno, messa in ferie d’ufficio nel caso di chiusura della fabbrica per causa di forza maggiore, punibilità dei lavoratori nel caso in cui le assenze superino l’andamento medio di assenteismo); non si può aver alcun dubbio che se passa questo accordo su Pomigliano, le stesse norme la FIAT pretenderà di applicarle a tutti i suoi stabilimenti e, una volta aperta questa falla, sarà l’intera industria manifatturiera ad adeguarsi (Tremonti lo ha già dichiarato: “Pomigliano è il modello da seguire”). E, purtroppo, il piano rischia fortemente di passare, visto il ricatto con cui è accompagnato (o l’accordo o la chiusura di Pomigliano) e la complicità dei sindacati ufficiali.
Ci dicono che tutto questo è colpa della crisi, come se la crisi fosse un cataclisma naturale e non un male legato a questo tipo di sistema di produzione, che non è né eterno, né insuperabile, ma che anzi, proprio perché sta riducendo l’umanità[3] alla miseria, facendole fare passi indietro di decenni, se non di secoli, merita di essere spazzato via, visto che costituisce un ostacolo alla sopravvivenza della specie umana e del pianeta stesso.
Un esempio di quanto questo sia vero ci viene fornito dagli stessi esponenti ufficiali della borghesia, come il governatore della Banca d’Italia, che nella sua recente relazione generale sullo stato dell’economia ha ricordato che l’evasione fiscale è arrivata a 120 miliardi di euro: se questo è vero, significa che basterebbe recuperare il 20% di questa evasione in due anni per racimolare la stessa cifra del piano di austerità di Tremonti. Naturalmente non lo faranno. Draghi dice questo solo per fare demagogia, perché gli autori di questa evasione sono quegli stessi borghesi che sono responsabili dell’aumento dello sfruttamento e che possiedono il potere politico oltre che economico; se abbiamo citato questo dato non è per unirci alle ipocrite e flebili proteste della cosiddetta sinistra, ma per dire che di ricchezza in giro ce n’è tanta, solo che questa ricchezza sta in poche mani, ed è per mantenerla in queste mani che si riducono alla fame milioni di persone (e si chiudono fabbriche, scuole ospedali, cioè si impedisce la produzione di ulteriore ricchezza in termini di merci e di servizi).
Questa crisi non l’hanno prodotta i lavoratori, ma sono loro a pagarla. Servisse almeno a qualcosa! Sono decenni che in nome della crisi ci vengono chiesti sacrifici, e il risultato qual è? Che la crisi è diventata ancora più grave, al punto che adesso ci sono interi Stati sull’orlo del fallimento.
E che sacra unione c’è a difesa di questo sistema: il governo e la sua maggioranza naturalmente, che sulla manovra finanziaria o sul piano FIAT è assolutamente compatta (a conferma che le sue divisioni interne sono solo una questione di potere), ma anche la cosiddetta sinistra parlamentare che sulla finanziaria fa finta di essere in disaccordo (ma è comunque d’accordo sul fatto che bisogna fare i sacrifici) e nulla dice sul piano FIAT. E Rifondazione? Chi l’ha vista? Proprio ora che sarebbe libera dall’imbarazzo di un ruolo istituzionale (al governo o comunque al Parlamento) chi ancora si illude sulla natura di questa forza si sarebbe aspettata di vederla in piazza in difesa dei lavoratori. Appunto, pura illusione.
Ci restano i sindacati. E tutti possono vedere cosa fanno: cercano di demoralizzare i lavoratori, di dividerli, di farli stancare in inutili e rituali scioperi (quasi)generali, che costituiscono allo stesso tempo l’apertura e la chiusura della “lotta”. E questa non è la conclusione di noi estremisti, ma la realtà che sta sotto i nostri occhi: la CISL e la UIL ormai accettano aprioristicamente ogni decisione del governo, sperando così di demoralizzare i lavoratori, o comunque di dividerli tra quelli che vorrebbero lottare e quelli che esitano per rispetto della loro tessera. La CGIL fa finta di dire no ad ogni misura, ma poi boicotta le lotte spontanee dei lavoratori[4] contro la finanziaria e i tagli, proponendo uno sciopero generale per il 25 giugno (il più lontano possibile insomma), nella speranza che quale che sia l’adesione a questo sciopero si possa poi far cadere tutto, visto che lo sciopero è anche a ridosso delle ferie.
Se lasciamo fare a questi signori possiamo essere sicuri che passeranno tutti gli attacchi. Ma i lavoratori possono fare a meno di loro e lanciarsi nella lotta, senza la quale non c’è prospettiva possibile.
Helios, 15/6/2010
[1] Sui motivi di questo scontro vedi il nostro articolo “I perché dello scontro Fini-Berlusconi [5]”.
[2] Ultima in ordine di tempo l’attacco di Luca di Montezemolo, che ha accusato la politica di scarsa serietà, e la risposta di Cicchitto del PDL, che ha letteralmente detto che “non è la cricca della FIAT, che può dare lezioni di morale”. Peccato che con questo giudizio lo stesso deputato del PDL non chieda di intervenire sulla FIAT per farle attenuare i piani di ristrutturazione dei suoi stabilimenti in Italia.
[3] Diciamo l’umanità perché quello che sta succedendo in Italia succede anche negli altri paesi, anche quelli che sono l’avanguardia del capitalismo, come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna, volendo volutamente non citare la Cina che non ha mai superato le condizioni di sfruttamento proprie dell’ottocento. In merito alle misure di austerità vedi il nostro volantino “Alle misure di austerità rispondiamo con la lotta!”, in questo stesso numero ed il volantino per il 1° Maggio “Adesso arriva il conto della crisi, ma noi non lo paghiamo! [6]”.
[4] Vedi l’articolo “Italia: la difficile ma inesorabile crescita della lotta di classe” in questo stesso numero.
Una delle questioni su cui, tra proletari, ci si ritrova più frequentemente a discutere è la prospettiva della lotta di classe. Tale discussione non è stata mai così importante ma anche così difficile. Così importante perché ci troviamo oggi sul bordo di un baratro dalle dimensioni inesplorabili. I disastri sul piano dell’economia – il cui riscontro sono il recente crollo della Grecia e le misure di austerità prese di conseguenza a livello mondiale – sul piano ecologico – vedi l’attuale sversamento di petrolio dal fondo oceanico nel golfo del Messico – e le rinnovate minacce di guerra – vedi la Corea, ma anche l’Iran, l’Afghanistan, la Cina, … stanno a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, che un mondo migliore è indispensabile per garantire, perlomeno, la stessa sopravvivenza dell’umanità. Ma una discussione sulla prospettiva è anche difficile perché, stranamente ma non troppo, proprio adesso che ce n’è bisogno, la classe operaia esita, manca di fiducia in sé stessa e della spinta necessaria. Le ragioni che determinano questo atteggiamento le abbiamo suggerite numerose volte negli ultimi tempi e le ricordiamo solo per cenni: il clima creato dalla caduta del muro di Berlino, su cui si sono innestate le campagne borghesi sul presunto fallimento del comunismo e l’estinzione della classe operaia; l’azione del sindacalismo, che spinge ogni lotta verso il localismo ed il settorialismo; una certa influenza della democrazia e dell’antifascismo, che spinge a pensare che, se c’è un problema, questo deriva necessariamente dal “cattivo di turno” (il governo “neofascista” di Berlusconi, i padroni “sempre più esosi”, …), insomma una questione di uomini cambiando i quali si possono cambiare le sorti della società e non una questione di sistema sociale in quanto tale che non funziona più[1]; un certo stordimento di fronte a degli attacchi - come i licenziamenti - di fronte ai quali è difficile organizzare una lotta adeguata nel singolo settore. Così, le discussioni che si svolgono tra proletari sulle prospettive di lotta della nostra classe sono spesso infarcite di dubbi, di se. Ed anche quando si riconosce l’esistenza di qualche lotta importante, questa è sempre la lotta di un altro paese. Il dubbio che viene espresso da compagni pur generosi e combattivi è spesso del tipo: sì, ci vorrebbe una bella lotta, un grande sciopero, un’enorme manifestazione, ma chi ci seguirebbe; la gente se ne sta a casa sua e non ha intenzione di implicarsi.
Questa sensazione viene naturalmente alimentata dal terribile boicottaggio delle informazioni (come avviene del resto in tutti i paesi del mondo) che nasconde le diecine e diecine di lotte che si stanno sviluppando contemporaneamente in tutto il paese. E’ perciò che con questo articolo vogliamo dimostrare che non c’è motivo di scoraggiarsi, che esiste in Italia, come nel mondo intero, una grande carica di combattività e che bisogna uscire dal proprio settore e unirsi ai lavoratori del mondo intero perché i problemi con cui ci troviamo a che fare oggi sono esattamente gli stessi dappertutto.
Se si dà un’occhiata al forum https://napolioltre.forumfree.net [10], messo su dal gruppo di discussione di Napoli da circa sei mesi e al quale partecipano anche dei nostri militanti, si può rimanere sbalorditi non tanto e non solo dal numero di episodi di lotta e di testimonianze riportati, ma soprattutto dalla loro qualità.
Un primo aspetto che emerge con forza dagli interventi riportati su questo forum, ma non solo, è la rivendicazione della dignità da parte dei lavoratori. Quella stessa dignità che, quando viene fortemente calpestata, può causare addirittura il suicidio degli elementi più sensibili[2], ha portato ad esempio i lavoratori di un call-center di Firenze a denunciare le condizioni umilianti in cui erano costretti a lavorare[3]. Un commento all’interno di questa pagina su Napolioltre ricordava peraltro come sia abitudine dei proprietari dei call-center manipolare la coscienza dei lavoratori puntando a fare assumere loro degli atteggiamenti poco etici nei confronti dei potenziali acquirenti. Nello stesso senso va la denuncia di una lavoratrice della Fiat di Pomigliano, Napoli, che grida il proprio dolore in una lettera aperta al suo terzo figlio, per non poter svolgere il suo ruolo naturale di madre passando del tempo a giocare con i propri figli perché il lavoro sfiancante della fabbrica glielo impedisce. In questa lettera di risposta allo spot “Fabbrica Italia”, realizzato dall’azienda e in onda sulle reti nazionali, l’operaia contesta lo spot e le condizioni di lavoro chieste dall’azienda per la produzione della Panda nello stabilimento locale”[4].
Abbiamo poi fenomeni come i no-workers che fanno della dignità negata di diventare dei lavoratori (da cui il nome no workers), un tema centrale della loro propaganda:
“Siamo disoccupati, lavoratori a nero, lavoratori migranti in schiavitù, viviamo senza reddito o con reddito insufficiente, reclamiamo lavoro e/o reddito, ma soprattutto diritti.
Siamo il popolo cui è stata negata la dignità di esistere, quella primaria di “campare”.
Siamo “no-workers” sotto il continuo ricatto del licenziamento ed il rischio di morire sul posto di lavoro. Nelle “fabbriche diffuse” del nostro territorio veniamo sfruttati e sottopagati.
Siamo precari, regaliamo per pochi spiccioli tutto il nostro tempo a speculatori e affaristi in call center e centri commerciali, lavoriamo senza essere pagati per stages universitari o come operatori sociali nei vari luoghi dello sfruttamento della conoscenza.
Siamo “no workers” perché questo non è lavoro. Si chiama ricatto.
Ci dicono che il lavoro significa dignità, ma queste nuove forme di sfruttamento la negano ogni giorno. Chiedetelo agli operai della FIAT. Ci dicono che c’è la crisi e con questo condannano all’insicurezza una generazione di uomini e donne che non possono pensare, programmare e sognare un “domani”, troppo impegnati ad affrontare un “oggi” fatto di fame, sfruttamento, di precarizzazione dei rapporti umani, temporali e sociali! (…)[5]”
Un secondo aspetto fondamentale che emerge è la tendenza di vari settori di lavoratori ad organizzarsi e a prendere in mano la propria lotta, a volte denunciando esplicitamente il ruolo dei sindacati, almeno di quelli maggiori, altre volte ignorandoli semplicemente, con tendenze pronunciate a creare dei coordinamenti tra settori diversi. Da questo punto di vista ci sono vari episodi particolarmente significativi, come la richiesta ufficiale rivolta alla CGIL da parte del Coordinamento dei lavoratori della Cultura in Lotta di “ritirare la firma dall’accordo capestro firmato con Cisl, Uil e Fondazione la Biennale di Venezia in data 24 maggio 2010 (…) (che) sancisce una drastica riduzione del personale stagionale e del monte ore complessivo. Molti lavoratori non matureranno i requisiti minimi per ricevere il sussidio di disoccupazione. Inoltre, che fine faranno quelli in esubero?”[6]
Con la significativa precisazione che “La firma dell’accordo all’insaputa dei lavoratori stagionali (metodo), i suoi contenuti (merito), la rete di interessi che lega sindacati e aziende sono indice di una pericolosa deriva che va a totale discapito degli operatori della Cultura, sempre più sfruttati e precarizzati.”[7]
Ancora abbiamo “I lavoratori dei magazzini Unicoop (che) hanno votato all’unanimità un documento in cui diffidano i sindacati dal prendere iniziative inerenti ai magazzini senza previa e vincolante consultazione del personale interessato” precisando che “la sfiducia nei confronti delle OO.SS. di rappresentanza (?) viene da lontano nei magazzini Unicoop.”[8]
Ancora importante è l’azione di sciopero degli scrutini organizzata dal Coordinamento precari della scuola di Modena. Nella “Lettera aperta ai 500 lavoratori della scuola di Modena” il Coordinamento esprime una disillusione per i sindacati (nella fattispecie per CGIL, CISL, UIL e SNALS):
“Riteniamo vergognosa la risposta data dalle direzioni provinciali della Flc Cgil, della Cisl, della Uil e dello Snals alla nostra richiesta. Non solo hanno ignorato le 500 firme dichiarandosi indisponibili a proclamare lo sciopero stesso ma, soprattutto, stanno in queste settimane operando un boicottaggio attivo dello sciopero stesso, mandando circolari nelle scuole in cui esplicitano la loro contrarietà allo sciopero (per la gioia dei presidi), in questo dimostrando di ritrovare una perfetta unità sindacale.”[9]
Per finire in bellezza, citiamo uno dei casi più significativi in questo momento, l’iniziativa di un coordinamento operaio nato intorno alla lotta della MAFLOW di Trezzano sul Naviglio, Milano, che ha raccolto una ventina di realtà lavorative diverse e che ha organizzato un’assemblea autoconvocata per venerdì 18 giugno alle ore 18.00 alla Maflow in via Boccaccio 1 a Trezzano sul Naviglio per decidere come costruire unitariamente la mobilitazione del 25 giugno:
“Migliaia di lavoratori e lavoratrici in lotta in provincia di Milano e in Lombardia si stanno opponendo alle ristrutturazioni, ai licenziamenti e ai tagli alla scuola e ai pubblici servizi in generale cercando di unire le forze per resistere meglio. Non si può rispondere a un attacco così pesante in ordine sparso come tentano di imporci le numerose sigle sindacali. (…) Il 25 giugno sono stati proclamati due scioperi e due manifestazioni, sia Cgil che sindacalismo di base: non possiamo permetterci di restare divisi in piazza. Uniamoci tutti”[10].
Per chiudere dunque con i quesiti da cui siamo partiti, il problema non è la mancanza della volontà di lotta, né una certa coscienza di chi sono i nostri nemici (il padronato, i sindacati, lo Stato …), ma la difficoltà ad immaginare di poter fare a meno di qualcuno che ti rappresenti, di qualcuno che ti organizzi la lotta, la difficoltà a pensare che si abbia la forza di potercela fare da soli. E’ perciò che questa maturazione avverrà principalmente a partire dalla lotta stessa, attraverso dei primi tentativi anche locali e limitati di presa in mano della lotta stessa che mostreranno all’insieme della classe che ce la possiamo fare.
Ezechiele 13 giugno 2010
[1] Su questo piano é particolarmente efficace come elemento di freno tutta la propaganda condotta da giornali come La Repubblica e più recentemente il Fatto Quotidiano o trasmissioni come Anno Zero.
[2] Vedi l’articolo pubbicato sul nostro sito web: "Riunioni Pubbliche della CCI: Al suicidio e alla sofferenza sul posto di lavoro, una sola risposta: la solidarietà di classe [11]".
[7] Idem.
Pubblichiamo qui di seguito la testimonianza di lotta, datata 18 maggio 2010 e presa dal blog di un compagno della CNT/AIT della regione di Goias in Brasile[1]. Questo tipo di testimonianza è particolarmente importante perché la nostra classe prenda coscienza che dappertutto sta lottando contro gli stessi attacchi e per gli stessi interessi. Gli autisti di autobus della città di Goiânia e della sua regione hanno paralizzato i servizi martedì mattina 18 maggio senza preavviso, lasciando migliaia di passeggeri senza trasporti. Lo sciopero, illimitato, ha toccato la popolazione del capoluogo e degli 11 municipi vicini che sono serviti dallo stesso sistema di trasporto.
Gli autisti protestano contro la mancanza di dialogo con il sindacato che rappresenta i proprietari dei trasporti pubblici. Oltre a denunciare salari troppo bassi, gli autisti evocano quelle che loro chiamano condizioni di lavoro umilianti, con giornate molto pesanti a volte di 12 ore e cinque viaggi in più di due ore senza pause di riposo.
Inoltre, secondo gli autisti, il blocco è stato iniziato dagli autisti stessi e non dai due sindacati che esistono nella capitale. Ecco anche perché, secondo quanto ascoltato attraverso i mass media dalla bocca degli stessi autisti, le condizioni legali per lo sciopero con un servizio minimo del 30% di funzionamento non sono state rispettate!
Questi borghesi sembrano stupefatti che i lavoratori sono entrati in sciopero senza l’avallo dei sindacati legali. Questa è l’azione diretta! Finché non agiremo in prima persona, non avremo mai quello che esigiamo, e gli altri lavoratori, molto calmi in questo momento, devono capire che stiamo dalla stessa parte, che dobbiamo anche essere solidali con la lotta dei nostri compagni salariati! Quindi, per quanto sia difficile questa situazione precaria senza autobus, non considerate questi autisti come dei nemici. Alla loro comparsa allo stazionamento “Giardino Veiga” degli autobus sono stati attaccati da parte della popolazione, credo che questa non sia la migliore reazione! Proporremo uno sciopero di solidarietà con la lotta dei nostri compagni salariati dei trasporti.
Contro il patronato, azione diretta sindacale![2]
Viva la solidarietà tra i lavoratori!
CNT AIT di Goias, Brasile
[1] fogocob.blogspot.com.
[2] A questa formulazione noi preferiamo “presa in mano delle lotte da parte dei lavoratori stessi” perché, a parer nostro, “azione diretta sindacale” rinvia inevitabilmente all’ideologia sindacale che si basa, al contrario, sul fatto che i lavoratori vengono rappresentati in maniera permanente da “specialisti della lotta” (che nei fatti, come è denunciato in questa testimonianza, sono specialisti nel sabotaggio delle lotte operaie).
- il rigetto del riformismo e di ogni alleanza con qualsiasi forza borghese, anche con quelle cosiddette “progressiste” o di “sinistra”;
- la difesa della presa in mano delle lotte da parte degli operai stessi e non da parte di presunti “specialisti” quali le organizzazioni sindacali;
- e soprattutto l’internazionalismo!
Vogliamo qui in particolare salutare e sostenere la riflessione di questi compagni sul ruolo ed il posto che ha la violenza nelle lotte.
Il 5 maggio, in Grecia, tre lavoratori sono morti asfissiati in una banca in fiamme. Di fronte a questo tragico avvenimento il TPTG afferma nel suo testo: “La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria”.
Darsi ad una violenza cieca sarebbe infatti cadere nella trappola tesa dalla borghesia, sarebbe un segno di disperazione, d’impotenza, di “nichilismo” come scrive il TPTG.
Come affermano questi compagni, lo Stato esercita su di noi un vero e proprio terrore. Gli operai ergendosi di fronte a questo moloch devono necessariamente utilizzare anche loro una certa violenza. Lottare, fare sciopero, manifestare è già in sé un’espressione di violenza contro l’ordine del capitale.
Ma la classe operaia non può utilizzare qualsiasi tipo di violenza: l’omicidio, il linciaggio la vendetta cruenta, ad esempio, non appartengono alla lotta proletaria. Sono al contrario le stimmate di questa società barbara che è il capitalismo; appartengono alla borghesia, questa classe dominante pronta a tutto pur di difendere i suoi privilegi.
La violenza proletaria è tutt’altra cosa. Questa è frutto della riflessione collettiva, è organizzata; ha lo scopo di rovesciare questo sistema di sfruttamento e sostituirlo con una società senza classi né miseria. È comparabile all’atto apparentemente “violento” dell’ostetrica che libera il bambino durante il parto. La violenza proletaria deve anch’essa servire al parto di un nuovo mondo[2].
Tempi critici e soffocanti
Quello che segue è il resoconto della manifestazione del 5 maggio e di quanto avvenuto nei giorni seguenti, accompagnato da alcune riflessioni di carattere generale sulla situazione critica che il movimento greco sta attraversando. Malgrado si collochi all’interno di una fase parossistica di terrorismo finanziario, che cresce in ampiezza di giorno in giorno attraverso la minaccia costante della bancarotta dello Stato e i reiterati appelli a “fare sacrifici”, la risposta del proletariato, alla vigilia del voto delle nuove misure di austerità in Parlamento, è stata impressionante. Si è trattato, probabilmente, della più grande manifestazione di lavoratori dai tempi della fine della dittatura (più imponente persino di quella del 2001 che portò al ritiro del progetto di riforma delle pensioni).
Stimiamo che vi fossero almeno 200.000 manifestanti nelle strade del centro di Atene, e circa 50.000 di più nel resto del paese.
Vi sono stati scioperi pressoché in tutti i settori (…) del processo di (ri)produzione. È riapparsa sulla scena una moltitudine proletaria simile a quella che aveva preso possesso delle strade nel dicembre 2008 (anche in questa occasione i media della propaganda ufficiale hanno parlato, in termini peggiorativi, di “giovani incappucciati”), ugualmente armata di asce, mazze, martelli, bottiglie molotov, pietre, bastoni, maschere e occhialini anti-gas. Nonostante in alcuni casi i manifestanti mascherati siano stati accolti con grida di disapprovazione, allorché cercavano, talvolta con successo, di attaccare degli edifici, in generale si sono trovati in sintonia con questa marea variopinta, colorata di manifestanti inferociti. Gli slogan andavano dal rifiuto del sistema politico nel suo insieme – “Bruciamo il bordello parlamentare!” – alle parole d’ordine patriottiche – “Fuori dal FMI!” – o populiste – “Ladri!”, o anche “La gente esige che gli imbroglioni vadano in prigione”. (…) Gli slogan aggressivi contro i politici in generale, nel corso della giornata, sono diventati via via preponderanti.
Alla manifestazione indetta dalla GSEE-ADEDY (confederazione sindacale che include sia il settore pubblico che quello privato), i partecipanti hanno riempito la piazza a migliaia. Il presidente della GSEE è stato accolto da fischi e ululati, quando ha iniziato a parlare. (…) E quando la direzione del sindacato ha voluto ripetere la manovra che aveva già tentato una prima volta l'11 marzo scorso, per aggirare il grosso della manifestazione e prenderne la testa, solo in pochi l'hanno seguita...
La manifestazione convocata dal PAME (il “Fronte operaio” del KKE, il Partito comunista greco), è stata a sua volta imponente (oltre 20.000 persone) ed è arrivata in piazza Syntagma per prima. L’intenzione era quella di restarvi soltanto qualche istante, e di andarsene prima dell’arrivo del grosso del corteo. Tuttavia, i partecipanti alla manifestazione si sono fermati per lo più nella piazza, gridando slogan rabbiosi contro i politici. (…) Secondo il leader del KKE, si sarebbe trattato di provocatori fascisti (di fatto egli ha accusato il LAOS, partito che raccoglie un mix di militanti dell'ultra-destra e di nostalgici della Giunta dei colonnelli) che, brandendo le bandiere del PAME, avrebbero incitato i militanti del KKE a entrare di forza nel palazzo del Parlamento, screditando in tal modo la lealtà costituzionale del partito! Malgrado questa accusa possieda un qualche fondamento, poiché alcuni fascisti sono stati effettivamente visti sul posto, la verità – secondo alcune testimonianze – è che i dirigenti del KKE hanno avuto non poche difficoltà a convincere i propri militanti ad abbandonare rapidamente la piazza, e a non gridare slogan contro il Parlamento.
È forse troppo azzardato vedere in questo episodio un segno della disobbedienza montante verso le regole d’acciaio di questo partito monolitico; ma in tempi così incerti, nessun può davvero saperlo...
La settantina di fascisti che fronteggiavano le forze anti-sommossa insultavano i politici (“Politici, figli di puttana!”), cantavano l’inno nazionale e lanciavano pietre contro il palazzo del Parlamento, probabilmente con l’intenzione, rivelatasi vana, di evitare un’escalation di violenza.
Tuttavia, sono stati rapidamente riassorbiti dall’enorme ondata di manifestanti che nel frattempo aveva raggiunto la piazza.
Ben presto, una moltitudine di lavoratori (elettrici, postali, impiegati municipali etc,) ha cercato in tutti i modi di entrare nel palazzo del Parlamento, ma le migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa schierati sul piazzale antistante l’entrata glielo hanno impedito. Un altro gruppo di lavoratori, uomini e donne dall’età più disparate, ha preso a insultare e minacciare i poliziotti che si trovavano davanti alla Tomba del Milite Ignoto. Per quanto la polizia sia riuscita, grazie a un massiccio contrattacco con tanto di lancio di gas lacrimogeni, a disperdere la folla, altri gruppi di manifestanti continuavano ad affluire davanti al Parlamento, mentre i primi gruppi che erano stati costretti a battere in ritirata, si riorganizzavano in via Panepistimiou e in corso Syngrou. Qui, questi gruppi hanno iniziato a distruggere ogni cosa e hanno attaccato le forze anti-sommossa che si trovavano nelle strade adiacenti.
Nonostante la maggior parte dei grandi edifici del centro fossero stati protetti con imposte metalliche, i manifestanti sono riusciti ad attaccare alcune banche ed edifici pubblici. Si è potuto assistere a una vasta distruzione di proprietà, soprattutto in corso Syngrou. Qui, infatti, le forze di polizia non avevano sufficienti effettivi per reagire tempestivamente a questo gruppo di manifestanti poiché avevano ricevuto l’ordine di dare priorità alla protezione del Parlamento e all’evacuazione delle vie Panepistimiou e Stadiou, lungo le quali i manifestanti riconfluivano senza sosta verso il Parlamento stesso. Alcune automobili di lusso, un ufficio del Ministero delle Finanze e uno della Prefettura di Atene sono stati incendiati. Qualche ora più tardi, questa parte della città sembrava ancora una zona di guerra. Gli scontri si sono susseguiti per quasi tre ore. (…)È impossibile raccontare tutto quello che è accaduto per le strade. Riportiamo un solo episodio: alcuni insegnanti, insieme ad altri lavoratori, sono riusciti a circondare degli agenti del gruppo Delta – un nuovo corpo anti-sommossa che si sposta in moto – e hanno dato loro una buona dose di legnate, mentre i poliziotti gridavano: “Per favore, no! Siamo lavoratori anche noi!”.
I manifestanti che erano stati respinti verso via Panepestimiou, intanto, tornavano a gruppi verso il Parlamento, dove hanno a lungo fronteggiato la polizia. (…) Qui si sono nuovamente mescolati e si sono fermati. Un impiegato municipale di mezza età, che teneva delle pietre tra le mani, ci ha raccontato, commosso, come la situazione gli ricordasse i primi anni dopo la fine della dittatura, e la manifestazione del 1980 – alla quale partecipò – che commemorava gli avvenimenti del Politecnico e nel corso della quale la polizia uccise una donna di 20 anni, la lavoratrice Kanellopoulou.
Di lì a poco sono arrivate, tramite i telefoni cellulari, le terribili notizie battute dalle agenzie di stampa estere: 3 o 4 persone morte nell’incendio di una banca. C’era stato in effetti qualche tentativo di dar fuoco a delle banche, ma nella maggior parte dei casi, i manifestanti si erano fermati, poiché vi erano dei crumiri barricati all’interno. Solo lo stabile della Marfin Bank è stato dato effettivamente alle fiamme. Nondimeno, soltanto pochi minuti prima della tragedia, non erano affatto degli “hooligan mascherati” che gridavano “crumiri!” all’indirizzo degli impiegati della banca, ma dei gruppi organizzati di scioperanti, che li apostrofavano e li insultavano affinché lasciassero l’edificio. (…)
Date le dimensioni e la densità della manifestazione, il fracasso, i canti, evidentemente una certa confusione – naturale in situazioni come questa – rende difficile riferire con precisione ciò che è accaduto in quel tragico frangente. L’ipotesi che appare più plausibile (mettendo insieme i frammenti d’informazione raccolti da alcuni testimoni), è quella che in questa banca posta nel cuore della città, il giorno dello sciopero generale, circa 20 impiegati siano stati costretti dal loro padrone a lavorare, chiusi a chiave nell’edificio “per garantire la loro sicurezza”, e che tre di essi siano morti per asfissia. Inizialmente è stata lanciata una bottiglia molotov attraverso un buco fatto nel vetro di una finestra al pianterreno. Quando alcuni impiegati sono usciti sul balcone, dei manifestanti hanno gridato loro di uscire e hanno cercato di spegnere l’incendio. Non sappiamo dire cosa è accaduto a quel punto e come in un istante l’edificio sia andato a fuoco.
La macabra serie di fatti che sono seguiti all’incendio è stata probabilmente già riportata a sufficienza: i manifestanti che cercano di soccorrere le persone rimaste intrappolate all’interno, i pompieri che ci mettono troppo tempo a fare uscire alcuni impiegati, il sorridente banchiere miliardario inseguito da una folla inferocita.
(In seguito, il Primo ministro ha riferito in Parlamento sull’accaduto, denunciando “l’irresponsabilità politica” di chi si oppone alle misure di austerità e provoca morte, mentre i “provvedimenti salutari” del governo “difendono la vita”).
Il ribaltamento della situazione ha avuto successo. Ne è immediatamente seguita un’imponente operazione delle forze anti-sommossa: la folla è stata dispersa e inseguita e l’intero centro della città è rimasto accerchiato fino a tarda notte. L’enclave libertaria di Exarchia è stata posta in stato d’assedio; uno squat anarchico è stato sgomberato e diversi occupanti sono stati arrestati; un locale frequentato da immigrati è stato devastato. Una nube di fumo persistente ha continuato a incombere sulla città, lasciando un misto di amarezza e di inebetimento.
Le conseguenze dell’accaduto sono diventate visibili l’indomani: gli avvoltoi dei media hanno strumentalizzato la tragica morte dei 3 impiegati, (…)presentandola come una “tragedia personale”, separata dal suo contesto reale (meri corpi umani astratti dalle loro relazioni sociali); alcuni si sono spinti a chiedere la criminalizzazione della resistenza e della protesta in quanto tali. Nel frattempo, il governo ha preso tempo spostando l’attenzione su altre questioni e i sindacati si sono sentiti sollevati da ogni obbligo di indire uno sciopero, il giorno stesso in cui le misure del governo venivano approvate.
In questo clima di paura e di delusione, nel pomeriggio alcune migliaia di persone si sono ugualmente riunite davanti al Parlamento, nel corso di una manifestazione organizzata dai sindacati e dalle organizzazioni di sinistra. La rabbia era ancora palpabile. Alcuni pugni si sono levati, sono stati lanciati bottiglie d’acqua e petardi contro le forze antisommossa, si sono gridati slogan contro la polizia e il Parlamento. Una donna anziana ha chiesto agli altri manifestanti di cantare: “Che se ne vadano!” (i politici); un giovane, dopo avere pisciato in una bottiglia, l’ha lanciata contro la polizia. Era presente anche qualche anti-autoritario e quando è scesa la notte, e i sindacati e la maggior parte delle organizzazioni di sinistra hanno abbandonato il campo, alcune persone, del tutto ordinarie, a mani nude, hanno deciso di rimanere. Caricati con violenza dalla polizia in assetto anti-sommossa, inseguiti e calpestati dagli squadroni di piazza Syntagma, giovani e vecchi, spaventati ma furiosi, si sono dispersi nelle vie adiacenti.
L’ordine era finalmente ristabilito. Tuttavia, nei loro occhi si poteva leggere non soltanto paura ma anche odio. Non c’è dubbio, torneranno...
Passiamo ora a qualche riflessione di carattere più generale:
1) Severe misure contro gli anarchici e gli anti-autoritari sono già state prese, e si profila un loro ulteriore inasprimento. La criminalizzazione di un intero movimento politico-sociale, che coinvolge anche le organizzazioni dell’estrema sinistra, è sempre stata utilizzata dallo Stato come strategia di diversione, e a maggior ragione sarà utilizzata oggi, nel momento in cui i tre morti della Marfin Bank hanno creato un clima favorevole alla manovra[3]. (…)
2 e 3 (…)
Tuttavia, la demonizzazione degli anarchici non indurrà le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato in corteo, né coloro che sono rimasti a casa – ma che sono comunque coinvolti – a dimenticare il FMI e il “pacchetto di salvataggio” che il governo ha imposto. La persecuzione del nostro movimento non aiuterà le persone a pagare le fatture, né garantirà loro un avvenire che rimane incerto. Il governo sarà presto costretto a criminalizzare la resistenza tout court; anzi si può dire che abbia già cominciato a farlo, come testimoniano gli avvenimenti del 6 maggio.
2) Lo Stato farà un piccolo sforzo, tirando le orecchie a qualche uomo politico per placare “l’emozione popolare” ed evitare che si trasformi in “sete di sangue”. Alcuni casi flagranti di “corruzione” saranno forse puniti, e alcuni uomini politici sacrificati, per confondere le acque.
3) Vi è un costante riferimento a una “deriva costituzionale”, che viene tanto dal LAOS (estrema destra) quanto dal KKE, in uno spettacolo di recriminazioni che rivela i crescenti timori, da parte della classe dirigente, di un aggravarsi della crisi politica e della crisi di legittimità delle istituzioni. Vengono riciclati diversi scenari (un “partito di uomini d’affari”, un regime sul modello della Giunta dei colonnelli), che riflettono le paure profonde di un sollevamento proletario, ma che in realtà sono utilizzate per spostare la questione della “crisi del debito” dalle strade all’arena politica – sotto forma della domanda banale: “chi è la soluzione?” anziché “qual è la soluzione?”.
4) (…) Ciò detto, è tempo di approcciare le questioni più cruciali. È ormai chiaro che il giochetto rivoltante che consiste nel trasformare la paura/colpa del debito nella paura/colpa della resistenza e del sollevamento (violento) contro il terrorismo del debito, è già cominciato. Se la lotta di classe si intensifica, le condizioni potranno assomigliare sempre di più a quelle di un’autentica guerra civile.
La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria: il movimento deve affrontare il problema della legittimazione della violenza e del suo contenuto in termini pratici.
Per quel che riguarda il movimento anarchico e anti-autoritario, e la sua tendenza insurrezionalista che è preponderante, la tradizionale glorificazione “machista” e feticizzata della violenza sussiste da troppo tempo ed è stata troppo importante, perché oggi ce la si possa lasciare alle spalle. La violenza fine a sé stessa, in tutte le sue varianti (inclusa la lotta armata propriamente detta) non ha smesso di diffondersi negli ultimi anni, soprattutto dopo la rivolta del dicembre 2008, allorché un certo grado di decomposizione nichilista ha fatto la sua apparizione (…) (vi abbiamo fatto riferimento nel nostro testo Le passage rebelle d’une minorité prolétarienne...), estendendosi al movimento stesso. Alla periferia di questo movimento, ai suoi margini, sono apparsi in numero crescente dei giovanissimi, portatori di una violenza nichilista senza limiti (il “nichilismo di dicembre”) e propugnatori di una “distruzione” che può coinvolgere anche il “capitale variabile” (i crumiri, gli “elementi piccolo-borghesi, i “cittadini rispettosi della legge”). Che una tale degenerazione nasca dalla rivolta e dai suoi limiti, piuttosto che dalla crisi in quanto tale, è di un’evidenza palmare.
Alcune condanne di questi atteggiamenti avevano già allora iniziato a farsi sentire, e così pure una certa auto-critica (alcuni gruppi anarchici arrivarono a designare gli autori di quegli atti con l’epiteto di “canaglie para-statali”), ed è molto probabile che gli anarchici e gli anti-autoritari organizzati (gruppi o squat) cercheranno di isolare, sia politicamente che operativamente, queste tendenze. (…) Tuttavia, la situazione è molto più complessa, e va oltre la capacità di (auto)critica teorica e pratica del movimento. A posteriori, si può sostenere che i tragici avvenimenti di cui abbiamo riferito, con tutte le loro conseguenze, si sarebbero potuti verificare già all’epoca della rivolta del dicembre 2008. Se ciò non è accaduto non è stato solamente frutto del caso (la stazione di servizio che si trovava accanto a un palazzo in fiamme e che non è esplosa, il fatto che gli scontri più violenti, quelli di sabato 7 dicembre, si siano svolti di notte, quando la maggior parte degli edifici erano vuoti); ma è stato anche in virtù della creazione di una sfera pubblica proletaria (per quanto limitata) e di diverse comunità di lotta impegnate a costruire un proprio percorso, non soltanto per mezzo della violenza, ma anche attraverso i propri contenuti e discorsi, e con altri mezzi di comunicazione.
Sono state queste comunità preesistenti (studenti, tifosi di calcio, immigrati, anarchici) a trasformarsi in comunità di lotta, talvolta attorno a delle tematiche di rivolta che hanno potuto dare alla violenza un ruolo significativo. Emergeranno ancora comunità come quelle, adesso che non è più soltanto una minoranza di proletari a essere coinvolta? Emergeranno delle forme pratiche di auto-organizzazione nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nelle strade in misura tale da determinare la forma e il contenuto della lotta, e collocare di conseguenza la violenza in una prospettiva di liberazione?
Si tratta di questioni complesse e urgenti, alle quali potremo trovare una risposta soltanto nella lotta.
TPTG, 9.5.2010
[1] Ta Paidia Tis Galarias (I ragazzi della galleria), è un gruppo-rivista greco di area comunista radicale, attento ai conflitti di classe internazionali e alla critica serrata alle ideologie. Il suo sito è www.tapaidiatisgalarias.org/ [22], dove è disponibile la versione integrale di questo articolo in diverse lingue.
[2] Per conoscere più a fondo la posizione della CCI sulla questione della violenza vedi “Terrore, terrorismo e violenza di classe” che può essere richiesto al nostro indirizzo.
[3] Questa tendenza a criminalizzare alcuni gruppi anarchici, così come alcuni gruppi marxisti definiti di “ultra sinistra”, è presente anche a livello internazionale (ndr)
Gli scioperi della Tekel sono scarsamente conosciuti a livello internazionale in seguito al black-out mediatico promosso dalla borghesia. La classe dominante preferisce ovviamente puntare i proiettori su tutte le espressioni di nazionalismo (che in genere alimenta essa stessa) e passare sotto silenzio le manifestazioni di solidarietà operaia tra lavoratori di diverse origini etniche, culturali, religiose … Chiediamo perciò a tutti i nostri lettori di far circolare tra di loro tutte le informazioni disponibili su questa lotta.
Il 2 marzo, malgrado tutte le nostre obiezioni, i capi del sindacato ci hanno fatto smontare le tende e la strada di fronte al quartier generale della Turk-Is[1] è stata sgombrata mentre a noi veniva detto di tornare a casa. 70-80 di noi sono rimasti ad Ankara per valutare assieme cosa si poteva fare nei tre giorni seguenti. Dopo questi tre giorni, 60 di noi sono tornati nelle loro città d’origine, mentre gli altri 20, tra cui io stesso, sono rimasti ancora per due giorni. Così, benché la lotta di Ankara sia durata 78 giorni, noi siamo rimasti 83 giorni. Abbiamo convenuto che avremmo dovuto lavorare duro per far progredire la lotta, ed anch’io alla fine sono tornato ad Adiyaman. Fin dal mio ritorno da Ankara, 40 di noi sono andati a far visita ai nostri fratelli e sorelle di classe implicati nello sciopero di Cemen Tekstil a Gaziantep. La lotta della Tekel era un esempio per la classe. Come lavoratore della Tekel ero fiero e pensavo anche che avremmo potuto fare di più per la nostra classe e che dovevo contribuire a questa lotta. Benché la mia situazione economica non me lo permettesse e nonostante l’esaurimento prodotto dagli 83 giorni di lotta e da altri problemi, dovevo fare l’impossibile per spingere il processo il più avanti possibile. Quello che dovevamo fare era costituire un comitato ufficiale e prendere la lotta nelle nostre mani. Anche se non avessimo potuto formalizzarlo, dovevamo comunque crearlo prendendo contatto con i lavoratori di tutte le città poiché dovevamo tornare ad Ankara il 1° aprile.
Dobbiamo andare dovunque possibile per raccontare alla gente la lotta della Tekel nei minimi particolari. Per questo dobbiamo formare un comitato ed unirci alla classe. Il nostro compito è più difficile di quello che sembra! Da una parte abbiamo a che fare con il capitale, dall’altra sia con il governo che con i leader sindacali. Dobbiamo lottare tutti nel miglior modo possibile. Anche se la nostra situazione economica non è buona, anche se siamo fisicamente affaticati, se vogliamo la vittoria, dobbiamo lottare, lottare, lottare!!!
Benché fossi stato lontano dalla mia famiglia per 83 giorni, sono rimasto a casa soltanto per una settimana. Sono andato ad Istanbul per parlare con la gente della resistenza della Tekel, senza neanche poter vedere mia moglie ed i miei figli. Abbiamo fatto parecchie riunioni del comitato informale dei lavoratori della Tekel, specialmente a Diyarbakir, Izmir, Hatay, ed io ho partecipato a numerose riunioni con compagni della commissione informale ad Istanbul. Abbiamo avuto riunioni all’Università Mimar Sinan, una nella scuola alberghiera di Sirinevler, una nell’edificio del sindacato dell’Industria, abbiamo avuto discussioni con dei piloti ed altri lavoratori dell’aeronautica del movimento dissidente Rainbow dell’Hava-Is (un sindacato), ed abbiamo incontrato dei salariati del tribunale. Abbiamo anche incontrato il presidente del Partito della pace e della democrazia (PDP) di Istanbul e gli abbiamo chiesto che i lavoratori della Tekel potessero prendere la parola in occasione della festa di Newroz. Le riunioni sono state tutte molto calorose. La nostra richiesta al PDP è stata accettata e mi hanno chiesto di partecipare alle manifestazioni di Newroz come oratore. Poiché dovevo ritornare ad Adiyaman, ho suggerito che un compagno operaio di Istambul parlasse al posto mio. Mentre ero ad Istanbul ho fatto visita ai vigili del fuoco in lotta, agli operai della Sinter Metal, ai lavoratori comunali d’Esenyurt, agli scioperanti del giornale Sabah e dell’ATV, l’ultimo giorno, ai lavoratori in lotta del Servizio delle Acque e delle Fogne di Istanbul (ISKI). Con questi operai abbiamo discusso per una mezza giornata su come potevamo far crescere la lotta ed abbiamo anche fornito loro informazioni sulla lotta alla Tekel. Gli operai della ISKI mi hanno detto che hanno cominciato la lotta grazie al coraggio dato loro dai lavoratori della Tekel. Durante la settimana che ho trascorso ad Istanbul, ovunque andassi, alle manifestazioni o a visitare i posti dove si lottava, sentivo dire sempre: “Abbiamo preso coraggio grazie alla Tekel”, cosa che mi rendeva molto felice. Il tempo trascorso ad Istanbul ha arricchito molto anche me stesso. Ci sono state purtroppo anche delle cose negative: uno dei miei parenti è purtroppo morto, ma ho deciso di non partire e di restare tutta la settimana come previsto.
Per parlare delle cose più nere di questo periodo, 24 studenti, fratelli e sorelle di classe, sono stati espulsi dalla loro università (Mehemetcik High School) per avere sostenuto la lotta della Tekel. Inoltre ad Ankara, una delle nostre sorelle di classe del Consiglio della Ricerca Scientifica e Tecnologica della Turchia (TUBITAK), Aynur Camalan, è stata uccisa. Quando il capitale ci attacca in questo modo, noi, operai, senza alcuna pietà, ci dobbiamo unire contro di lui. Così, abbiamo fatto due comunicati sulla stampa ad Adiyaman mostrando che i nostri amici non erano soli. Ci siamo anche preparati per la manifestazione del 1° aprile. I capi sindacali volevano andare ad Ankara con 50 persone da ogni città, per un totale di un migliaio di persone. Come comitato informale abbiamo aumentato questo numero da 50 a 180 soltanto a Adiyaman ed io stesso sono arrivato ad Ankara con altri dieci operai il 31 marzo. Nonostante tutte le dichiarazioni dei sindacati per limitare il numero a 50, siamo riusciti a permettere che venissero 180 lavoratori (siamo stati noi e non i sindacati a coprire le spese), perché sapevamo come i sindacati volevano manipolare, come avevano già fatto prima. Abbiamo avuto riunioni con molte organizzazioni di massa, associazioni e sindacati. Siamo andati a trovare Aynur Camalan, l’operaia di TUBITAK, che aveva perso il lavoro.
Il 1° aprile ci siamo riuniti a Kizilay (il centro di Ankara, la capitale della Turchia, NDT), ma abbiamo dovuto fare molti sforzi per arrivare fino alla strada di fronte alla Turk-Is, perché 15.000 poliziotti stavano in difesa dell’edificio. Cosa facevano tutti questi poliziotti tra noi e il sindacato? Ora, dobbiamo chiedere a quelli che si ergono contro di noi anche quando parliamo dei dirigenti sindacali, anche quando diciamo che i sindacati dovrebbero essere messi in discussione: se c’è un potente sbarramento di 15.000 poliziotti tra noi ed il sindacato, perché esistono i sindacati? Se voi pensate che sia del tutto naturale che la polizia protegga il sindacato ed i dirigenti sindacali, questo non significa forse che il sindacato ed i sindacalisti proteggono il governo ed il capitale? I sindacati non esistono forse solo per mantenere sotto controllo i lavoratori per conto del capitale?
Il 1° aprile, malgrado tutto, 35-40 di noi sono riusciti a superare la sbarramento, uno dopo l’atro, per ritrovarsi nella via di fronte alla Turk-Is. Il nostro scopo era avere una certa maggioranza e fare in modo che nostri altri amici ci raggiungessero, ma purtroppo abbiamo fallito: la nostra maggioranza non poteva negoziare con 15.000 poliziotti. Il sindacato aveva precedentemente dichiarato che soltanto 1.000 di noi dovevano venire ad Ankara. Con il comitato informale siamo riusciti ad aumentarne il numero a 2.300. 15.000 poliziotti bloccavano la strada a 2.300 persone! Ci siamo riuniti in via Sakarya. Eravamo pronti a passarvi almeno la notte, con tutti coloro che erano venuti ad incoraggiarci. Durante la giornata, siamo stati attaccati due volte dalla polizia con gas irritanti e manganelli. Il nostro obiettivo era trascorrere la notte per strada di fronte al quartier generale della Turk-Is, ma quando ci siamo scontrati con la polizia siamo rimasti in via Sakarya. Ma durante la notte i sindacalisti hanno silenziosamente e sornionamente invitato i nostri compagni operai a lasciare la regione. Ci siamo ritrovati in una minoranza. I sindacalisti ci hanno chiesto due volte di lasciare la zona, ma non abbiamo ascoltato l’appello dei dirigenti sindacali ed una minoranza di noi è restata. Quando i simpatizzanti sono andati via verso le 23.00, anche noi siamo dovuti andar via.
Ci doveva essere un comunicato stampa il 2 aprile. Quando siamo stati sul punto di entrare in via Sakarya, verso le 9 di mattina, siamo stati attaccati dalla polizia che ha di nuovo utilizzato gas al pepe e manganelli. Un’ora dopo un centinaio di noi è riuscito a superare la sbarramento e fare un sit-in. La polizia non la smetteva di minacciarci. Noi abbiamo continuato a resistere. La polizia ha dovuto alla fine aprire lo sbarramento e siamo riusciti ad unirci all’altro gruppo che era restato fuori. Abbiamo iniziato ad andare verso la Turk-Is, ma i dirigenti sindacali hanno fatto il loro comunicato alla stampa a 100 metri dal quartier generale della Turk-Is. Senza tener conto della nostra insistenza i dirigenti sindacali non sono scesi in strada davanti alla Turk-Is. Il sindacato e la polizia si sono trovati mano nella mano e così alcuni di noi non hanno potuto alla fine andare dove volevano andare. C’era un punto interessante tra le cose dette dai sindacalisti. Avevano detto che saremmo ritornati il 3 giugno e saremmo rimasti di fronte alla Turk-Is per tre notti. Sarebbe interessante sapere come saremmo riusciti a restarvi 3 notti, quando noi non eravamo riusciti a restarci neanche una sola notte. La polizia doveva prima di tutto proteggere i sindacalisti da noi ed aiutarli a scappare ed allora noi ci siamo ritrovati da soli con la polizia. Nonostante le minacce e le pressioni della polizia non ci siamo dispersi e siamo stati nuovamente attaccati con gas al pepe e manganelli ed alla fine abbiamo dovuto disperderci. Nel pomeriggio abbiamo ricevuto una corona funebre, fatta da alcuni fiorai per condannare la Turk-Is ed il governo, che abbiamo lasciato sulla facciata della Turk-Is.
Cari fratelli e sorelle di classe, la questione che abbiamo di fronte è: se ci sono 15.000 poliziotti che formano uno sbarramento tra il sindacato e gli operai, perché esistono i sindacati? Dichiaro a tutti i miei fratelli e sorelle di classe che se vogliamo la vittoria dobbiamo lottare insieme. Noi operai della Tekel abbiamo acceso una scintilla e tutti insieme ne faremo un’enorme palla di fuoco. In questo senso, per esprimere il mio rispetto per tutti voi, ci tengo a finire il mio testo con una poesia[2]:
Il vapore del the s’invola mentre le nostre vite sono ancora fresche
Gli abiti formano una catena lunga come strade, e non c’è che il dispiacere che ritorna
Una ciotola di riso, dicono che il nostro cibo è atterrato sulle nostre case
I desideri diventano strade, strade, da dove viene il lavoro
La fame è per noi, il freddo è per noi, la povertà è per noi
Hanno invocato il destino, vivere con lui è per noi
Noi che produciamo, noi che abbiamo fame, noi che siamo nudi di nuovo
Non abbiamo scritto noi questo destino, siamo noi che lo spezzeremo di nuovo
Noi, lavoratori della Tekel diciamo che, anche se la nostra testa tocca il suolo, lasceremo sempre un futuro onorevole per i nostri figli.
Un lavoratore della Tekel di Adiyaman
La maggior parte delle camicie rosse è composta da thailandesi poveri ed espropriati. Molti di essi provengono dalle zone agricole del nord e del nord-ovest del paese, ma sembra che ricevano il sostegno dei poveri della città. Secondo un articolo della rivista Time, citato sul sito World Socialist (“Dieci morti nell’assedio ai manifestanti dei militari thailandesi”, 15/5/10), durante gli scontri “i soldati sono stati sotto l’attacco di centinaia di abitanti dei bassifondi del porto Klong Toey, che si sono riversati nelle strade per dar fuoco a dei razzi e lanciare colpi di fionda contro le truppe … Quando la folla di Klong Toey ha continuato ad avanzare, i soldati hanno aperto il fuoco con pallottole di gomma. Centinaia di persone prese dal panico sono tornate indietro, rifugiandosi nelle stradine adiacenti. Almeno tre persone sono state ferite”.
Non c’è dubbio riguardo al coraggio dei manifestanti, né sul fatto che ciò che li ha spinti nelle strade è stato l’impoverimento che si è riversato su di loro non solo con l’attuale crisi mondiale, ma anche a causa dell’impatto del crollo delle “Tigri” e dei “Dragoni” dell’Estremo Oriente nel 1997 e ancora di decenni di sottosviluppo precedenti. Ma il movimento delle Camicie Rosse non è un movimento di sfruttati ed oppressi che lottano per i loro propri interessi. Piuttosto è un esempio del profondo malcontento popolare incanalato in una falsa direzione: la lotta per sostituire l’attuale cricca di militari e milionari che governano in Thailandia con un’altra fazione borghese. La principale richiesta delle Camice Rosse è di indire nuove elezioni più giuste e il ristabilimento dell’ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra, che ha guadagnato molta popolarità fra i poveri della campagna dopo la sua ascesa al potere nel 2001 offrendo ai coltivatori crediti e sovvenzioni facili e mantenendo alti i prezzi del raccolto; ci sono state anche delle “riforme” rivolte alle masse urbane per facilitare l’accesso alle cure sanitarie.
Questi cambiamenti hanno generato una reazione violenta da parte di settori benestanti della classe dirigente e settori della classe media (che a volte sfilano con il “Movimento delle Camicie Gialle”) ed in particolare dei militari che hanno spodestato Thaksin nel 2006. Ma la principale obiezione che questi facevano a Thaksin non era tanto il suo “sostegno” ai contadini o ai proletari quanto il fatto che stava cominciando a dirigere la Thailandia come se fosse una sua proprietà personale. Thaksin era un “nuovo ricco”, il miliardario dei media ed il suo modello di governo rompeva i tradizionali settori di influenza e di privilegio che uniscono la burocrazia e l’esercito.
Ci sono state dichiarazioni da parte di elementi del movimento delle Camicie Rosse che invitavano a “sbarazzarsi dell’elite” e appelli ai soldati per unirsi a loro. Tutto ciò indica che un domani potrebbe emergere in Thailandia un movimento con vere rivendicazioni di classe. Ma la campagna delle Camicie Rosse – il cui nome ufficiale è “Fronte nazionale unificato per la democrazia contro la dittatura” – è un ostacolo allo sviluppo di un tale movimento perché è orientato verso l’instaurazione di una democrazia borghese “pulita” in Thailandia. Un tale obiettivo ha smesso da molto tempo di avere la benché minima utilità per la classe operaia in tutti i paesi del mondo. Come abbiamo scritto nelle conclusioni di un nostro recente articolo[2], il movimento delle Camicie Rosse è fondamentalmente un movimento di poveri delle città e delle campagne, mobilitati dietro la nuova borghesia che si oppone alle “vecchie” fazioni militari e monarchiche. Non è un movimento della classe operaia, né controllato da essa. L’unica azione operaia di questo periodo, uno sciopero di 8.000 operai nella fabbrica di macchine fotografiche della Nikon, è apparso in modo completamente indipendente dal movimento delle Camicie Rosse. E qui si trova il punto centrale della nostra argomentazione. Queste sedicenti “rivoluzioni”, come il recente “Movimento verde” in Iran, non sono dei movimenti della classe operaia. È vero che ci sono molti operai implicati, e nel caso del Kirghizistan la maggioranza dei partecipanti erano probabilmente operai, ma essi partecipano a queste azioni come individui e non come operai. Il movimento della classe operaia è un movimento che può basarsi solo sulla lotta di classe dei lavoratori per i loro propri interessi, non è né un movimento “interclassista” né un movimento populista. Solo all’interno di un movimento di massa la classe operaia può sviluppare i suoi propri organi, delle riunioni di massa, dei comitati di sciopero e infine i consigli operai, che possono assicurare il controllo della classe operaia sul movimento e permettere lo sviluppo di una lotta per gli interessi di classe dei lavoratori. Al di fuori di questa prospettiva, gli operai non possono che essere utilizzati come carne da cannone per le differenti fazioni politiche. In Grecia, forse, possiamo vedere l’inizio di un lungo sviluppo verso questo processo. Nel Kirghizistan e in Thailandia non vediamo altro che operai uccisi nelle strade per conto di quelli che vogliono essere i nuovi padroni.
Amos
[1] Il riferimento è dell’articolo originale pubblicato sulla pagina inglese il 18 maggio scorso.
https://en.internationalism.org/wr/334/thailand-kyrgyzstan [24]
Sono inziati i mondiali di calcio in Sud Africa. Ora, il calcio serve spesso alla classe dominante per incoraggiare i sentimenti nazionalistici e dividere la classe operaia.
In Turchia quando la squadra di Instambul Galatasary vinse la coppa EUFA, nel 2000, ci furono due morti durante la semi-finale e tre nella finale.
Le partite di qualificazione per questa Coppa del Mondo tra l’Egitto e l’Algeria, dello scorso anno, hanno fatto esplodere l’odio nazionalista. Al Cairo sono stati ammazzati sei tifosi algerini e ne sono stati feriti 21. A Khartoum, in Sudan, sono stati feriti 23 egiziani e uccisi 14 algerini. Ci sono stati anche centinaia di feriti in Algeria durante i festeggiamenti dopo la partita! Molti dei 15.000 operai egiziani che vivevano in Algeria sono stati attaccati e costretti a partire. Migliaia di tifosi egiziani si sono scontrati in vere e proprie battaglie campali contro la polizia nel centro del Cairo, con 11 feriti tra i poliziotti e 24 tra i tifosi. Alcuni tifosi, non potendo raggiungere i supporter algerini, si sono scagliati contro la vicina ambasciata indiana.
Nel maggio 1990 la partita Dynamo di Zagabria/Red Star di Belgrado ha avuto un ruolo importante nella marcia alla guerra nell’ex - Jugoslavia. Certo, le guerre non sono prodotte dalle partite di calcio. Tuttavia tali dimostrazioni pubbliche di odio nazionalista servono a mobilitare la classe operaia verso la guerra. Questa partita si concluse infatti con una battaglia campale tra bande nazionaliste croate e serbe (i serbi erano guidati da Arkan, un nazionalista che sarebbe stato poi ricercato dall’ONU per crimini contro l’umanità!). La polizia fu rapidamente sopraffatta dal gran numero di gente, ma ritornò con rinforzi, autocarri blindati e cannoni ad acqua per aggiungere del suo al clima di violenza generale. Un’ora dopo, con centinaia di feriti e svariati morti per pallottole, armi bianche o avvelenati dai gas lacrimogeni, la battaglia continuava ancora. La guerra degli anni 1990-2001, nella quale più di 60.000 persone avrebbero trovato la morte, era pronta a partire. Le Tigri di Arkan, milizia nella quale sono stati arruolati molti dei tifosi del Red Star, hanno svolto un ruolo non trascurabile in alcuni dei peggiori episodi di pulizia etnica. Zvonimir Boban, che ha avuto più tardi una grande notorietà nella A. C. Milan, si vantò di avere attaccato un poliziotto durante la sommossa. Afferma contiuamente che lui ama la Croazia più di ogni altra cosa e che morirebbe per il suo paese. Lui non ha certo sacrificato la sua vita sull’altare della nazione ma decine di migliaia di sventurati operai, loro, l’hanno fatto!
Nel 1969, la corsa alla qualificazione per la Coppa del Mondo del 1970 tra il Salvador e l’Honduras fu la scintilla che infiammò quella che già era una situazione di tensione di guerra. Dopo l’incontro di ritorno, i mass media dei due paesi fecero servizi giornalistici che inasprivano l’odio nazionalistico verso l’altro e incitavano gli operai di ciascuno dei due paesi ad uccidersi l’un l’altro. La guerra, che effettivamente scoppiò, fece 4.000 morti in quattro giorni.
Sabrì
Le tensioni militari tra le due sorelle nemiche della penisola coreana non datano da oggi. Alla fine della Seconda guerra mondiale e nell’insieme degli accordi di Yalta che delimitavano le loro zone di influenza nel mondo, l’URSS e gli Stati Uniti hanno deciso nel 1948 la spartizione della Corea sulla linea del 38° parallelo. Ma, con lo stesso pretesto di “liberare” la Corea dal giogo giapponese, le due teste di blocco russo ed americano si sono avventate su questo piccolo paese per difendere i loro interessi imperialistici importanti per il controllo di questa regione del mondo, l’Asia del Sud-Est. Ciò ha portato molto rapidamente ad un conflitto diretto e mortale e ad alimentare le relazioni conflittuali tra lo Stato del Nord, filosovietico, e quello del Sud, filoamericano.
La guerra di Corea, triste prefigurazione di quella del Vietnam, fu un episodio tanto chiaro quanto feroce di ciò che significava “la liberazione” della Corea per le due teste di blocco che pensavano di avere diritto di vita e di morte sulle popolazioni sottoposte alla loro “protezione”. Dal 1950 al 1953, gli Stati Uniti sganciarono ogni mese quasi 13.000 tonnellate di bombe sul Nord[1], quattro volte in più che sul Giappone. Dall’altra parte, gli eserciti russi e cinesi si impegnarono in maniera massiccia in questa guerra dove il solo risultato prodotto, dato che le frontiere tra il nord ed il sud non cambiarono di un pollice, fu l’affermazione della superiorità militare dell’America e la sua volontà manifesta di controllare il Giappone.
Il tutto al prezzo di 2 milioni di morti, di cui i tre quarti nella Corea del Nord. Questa entrata in scena nella storia del dopoguerra è particolarmente significativa del posto che occupa la Corea sulla scacchiera mondiale e delle sfide strategiche alle quali è sottoposta da oltre 50 anni. Già prima del crollo dell’URSS, la Cina, dopo essere stata il giocattolo dell’URSS, potenza in crescita nell’interminabile e sadico gioco internazionale tra superpotenze, aveva preso le inevitabili distanze da Mosca dopo l’integrazione di Pechino nel blocco americano. Integrazione ratificata dalla fine della guerra del Vietnam. Ma questo non è andato a vantaggio degli Stati Uniti, perché la Cina si è riservata da sempre la Corea del Nord come riserva di caccia e mezzo di pressione contro il suo nuovo mentore della Casa Bianca.
D’altronde, è soprattutto per mantenere una pressione indiretta sulla Cina che Washington ha dichiarato fin dagli anni 1990 la Corea del Nord come facente parte degli Stati canaglia che “la democrazia” doveva tenere sott'occhio. Dal 2001 è passata allo statuto di potenza inevitabilmente terroristica per definizione.
Anche gli ultimi avvenimenti della primavera, in questo “Paese del fresco mattino” sempre tagliato in due, non sono che un episodio in più nel larvato scontro tra gli Stati Uniti e la Cina dove si sa che quest’ultima controlla oggi il regime di Pyongyang. Dopo le minacce di ricorso all’armamento nucleare del Nord verso il Sud, è stato orchestrato un braccio di ferro “diplomatico” tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord per calmare il gioco. Ma queste manovre erano una risposta all’affondamento d’una corvetta della Corea del Sud, con 46 morti, colpita da un siluro lanciato il 26 marzo scorso sicuramente da un sottomarino della Corea del Nord.
Quest’episodio “anodino” (secondo la formula di Hillary Clinton), che è lungi dall’essere il primo “relazioni” tese tra le due Coree mostra un aggravarsi delle tensioni militari ed imperialiste tra questi due paesi, e, dietro loro, dei paesi che li sostengono. Ma né la Cina né gli Stati Uniti hanno interesse a che la situazione in Corea si deteriori oltre una certa soglia. La Cina non ha i mezzi per condurre un’offensiva militare di fronte ad un nemico che sarebbero in realtà gli Stati Uniti. E nonostante le minacce ripetute contro il suo alleato di Seul, gli Stati Uniti non hanno alcun interesse nel provocare un paese alleato della Cina e causare una certa e irreparabile destabilizzazione di questa regione. Tuttavia, se i grandi padrini cercano di controllare la situazione, le pressioni crescenti che esercitano su ogni governo locale rischiano al contrario di fare scivolare quest’ultimi nell’ingranaggio irrazionale “del ciascuno per sé” ed in una fuga militare in davanti, in particolare attraverso l’isolamento della Corea del Nord, come illustrato dalla minaccia dell’impiego del suo arsenale nucleare. La situazione attuale rafforza ed illustra fin d’ora il clima di terrore che si esercita come una spada di Damocle sospesa in permanenza sulla sorte delle popolazioni locali e su tutta l’umanità.
Inoltre, sotto la pressione permanente delle loro rispettive potenze tutelari, l’equilibrio delle forze strategiche in questa penisola resta sempre molto precario e fragile. Questo implica che la presenza permanente di forze armate e la quasi militarizzazione della società fanno subire, da 60 anni, al Nord come al Sud della Corea, una pressione costante ed insopportabile sul proletariato di questi due paesi, proletariato le cui lotte sono in un tale contesto sempre esemplari per il coraggio.
Mulan
L’attuale marea nera nel Golfo del Messico getta una luce cruda sull’assenza di scrupoli e sulla pericolosità dei metodi che il capitalismo utilizza per sfruttare le risorse naturali.
Dall’affondamento della piattaforma petrolifera della BP “Deepwater Horizon”, il 22 aprile scorso, durante il quale sono morti undici operai, almeno 800.000 litri di petrolio greggio si versano ogni giorno nel golfo del Messico contaminando le coste per centinaia di chilometri e formando uno strato enorme di petrolio nel golfo stesso. Nessuno può stabilire esattamente quale quantità di petrolio sia stata già versata[1]. “Un mese dopo l’affondamento della piattaforma di perforazione Deepwater Horizon, la maggior parte del petrolio che è sfuggito finora è restata sotto l’acqua[2]. Queste enormi masse d’acqua contaminate dal petrolio che fluttuano sotto la superficie del golfo del Messico possono avere delle dimensioni di circa sedici chilometri di lunghezza, sei chilometri di larghezza ed un centinaio di metri di spessore.” Con l’aiuto di opportuni mezzi disperdenti si è evitato finora “che una parte del petrolio raggiunga la terra. È là che aspetta la maggior parte dei giornalisti”. (cioè il grande pubblico)[3].
Le prime indagini hanno mostrato che “il Minerals Management Service (MMS), il servizio amministrativo americano per la gestione dei minerali, responsabile della sorveglianza della produzione petrolifera, ha rilasciato le sue autorizzazioni senza avere effettuato controlli al piano di sicurezza e di compatibilità con l’ambiente (…). In questo caso concreto, l’MMS ha omesso di verificare la capacità del Blowout Preventer (la valvola centrale di sicurezza destinata a prevenire le fughe, nota) prima della sua messa in servizio. (…) Nel sistema idraulico-chiave di quest’elemento di molte tonnellate, si è avuta manifestamente una fuga. Inoltre, un test di sicurezza effettuato poche ore prima dell’esplosione sarebbe fallito”[4].
Altre indagini hanno mostrato che la BP non disponeva neppure di attrezzature adeguate per aspirare dai fondali marini il petrolio suscettibile di sfuggire e di depositarvisi. Così come non esistono mezzi per realizzare perforazioni di alleggerimento in tali casi di emergenza. Cosa rivela quest’atteggiamento consistente nello sfruttare a grandi profondità marine giacimenti petroliferi senza disporre di alcuna possibilità di captazione di soccorso del petrolio e di dispositivi d’interruzione del pompaggio in stato di funzionamento?
“La piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di un costo di 560 milioni di dollari, era una delle piattaforme di perforazione più moderne del mondo. Era capace di resistere ad onde di dodici metri ed agli uragani”[5]. Da una parte, costi di produzione astronomici per la costruzione di tale piattaforma (più di un mezzo miliardo di dollari!), delle spese di sfruttamento di 100 milioni di euro per la perforazione e, allo stesso tempo, nessun sistema di sicurezza esistente o in stato di funzionamento per le situazioni di emergenza. Come spiegare questa contraddizione?
La corsa al profitto a spese della natura
Quando la perforazione sistematica del petrolio è cominciata un centinaio di anni fa, c’era bisogno soltanto di modesti investimenti finanziari e tecnici per sfruttare le fonti petrolifere. Tuttavia, un secolo più tardi, le compagnie petrolifere devono far fronte ad una situazione nuova. “Una grande parte del petrolio del mondo viene estratta da campi che sono stati scoperti più di 60 anni fa senza grandi investimenti tecnologici. Oggi, invece, gli esploratori di giacimenti minerari devono utilizzare metodi costosi per ricercare campi petrolifèri che, inoltre, si trovano in posti sempre più difficilmente accessibili della terra - e forniscono delle quantità di petrolio considerate finora soltanto come marginali. (…) Soprattutto, le imprese occidentali non possono più accedere come prima alle fonti facili, economiche e ricche di utili dell’Asia e dell’America latina. Queste fonti si trovano infatti nelle mani di società petrolifere nazionali, come la Saudi Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia), NIOC (Iran) o PDVSA (Venezuela) e sono sotto il controllo di uno Stato nazionale. Questi sono i veri giganti in quest’affare e controllano più dei tre quarti delle riserve globali”.
I “Big Oil” (i grandi petrolieri), come si chiamano ancora le vecchie multinazionali private, controllano ancora appena il dieci per cento delle riserve di gas e di petrolio globali. Non resta più a BP & Co. che dei progetti costosi, onerosi e pericolosi. È dunque per necessità che queste società sono spinte ai limiti estremi per raggiungere questi giacimenti che nessun altro vorrebbe esplorare. (…).”
Spese sempre più elevate, rischi sempre più grandi
“E’ da tempo ormai che le società petrolifere hanno abbandonato le piattaforme fermamente ancorate ai fondali marini. Mostri fluttuanti, detti semi-sommergibili, nuotano sugli oceani con chilometri d’acqua sotto di loro. Dei tubi verticali d’acciaio speciale o di materiali compositi estremamente saldi si spingono nell’oscurità degli abissi. Dei normali tubi si romperebbero sotto il loro stesso peso. A 1500 metri di profondità, la temperatura dell'acqua scende a cinque gradi centigradi - tuttavia il petrolio scaturisce quasi all’ebollizione. Ciò comporta non pochi problemi nella gestione dell’impianto. I rischi sono considerevoli. Con la profondità, le esigenze tecniche in materia di perforazione sono enormemente più grandi. La tecnica è pericolosa: indurendo, appaiono delle fessure nel cemento attraverso le quali il petrolio ed il gas possono sfuggire con una violenza inaudita. Basta allora una scintilla per provocare l’esplosione”[6] … come è poi accaduto!
Febbrilmente decine di migliaia di persone hanno combattuto, invano fino ad oggi, per tenere il petrolio lontano dalle spiagge. Aerei tipo Lockheed C-130 hanno polverizzato tonnellate di Corexit, prodotto sparso per sciogliere lo strato di petrolio - benché si sospetti che questo miscuglio chimico possa contribuire a danneggiare esso stesso l’ambiente acquatico. In futuro, c’è da temere che queste misure di salvataggio chimico possano produrre danni ancora più grandi e più imprevedibili a lungo termine sulla natura[7]. Per il momento, le conseguenze economiche per la popolazione del posto sono già catastrofiche poiché molti pescatori sono spinti alla rovina.
Mentre la corsa allo sfruttamento di nuove fonti petrolifere esige investimenti sempre più elevati, si assumono rischi tecnici sempre più grandi. Le condizioni della concorrenza capitalista trascinano gli imprenditori concorrenti ad assumersi dei rischi sempre più elevati e a rispettare sempre meno le necessità di protezione della natura. La fusione delle calotte glaciali dei poli che apre il passaggio marittimo a Nord-ovest, il disgelo del permafrost, hanno già da tempo acuito l’appetito delle compagnie petrolifere e provocano tensioni tra paesi che rivendicano territori in queste regioni.
Mentre l’utilizzo senza freni delle fonti di energia non rinnovabili e fossili, come il petrolio, costituisce in realtà un puro spreco, e la ricerca di fonti petrolifere sempre nuove una pura assurdità, la crisi economica - e la concorrenza che le è legata – spingono le imprese a investire sempre meno denaro nei sistemi di sicurezza possibili e necessari. Il capitalismo saccheggia in maniera sempre più predatoria le risorse del pianeta. In passato, la politica “della terra bruciata”, messa in pratica ed utilizzata ad esempio dagli Stati Uniti nel corso della prima guerra del golfo nel 1991, dove gli impianti petroliferi nel Golfo Persico sono stati attaccati, provocando incendi enormi e la fuga di quantità ingenti di petrolio, era stato un metodo corrente della guerra. Ora, è la pressione quotidiana della crisi che comporta la pratica della “terra bruciata” e la contaminazione dei mari, per potere imporre i propri interessi economici.
La marea nera attuale era prevedibile – così come lo era la catastrofe del 2005, quando l’uragano Katrina ha sommerso la città di New Orleans, provocando la morte di 1800 persone, l’evacuazione dell’intera città e lo spostamento di centinaia di migliaia di abitanti. L’attuale marea nera è del tutto simile alla catastrofe di New Orleans, il risultato dell’incapacità del capitalismo di offrire una protezione sufficiente contro i pericoli della natura. È il prodotto della ricerca del massimo profitto da parte del capitalismo.
Dv
[1] Sui luoghi dell'incidente, secondo le prime stime, circa 1000 barili (160.000 litri) di petrolio greggio al giorno si versavano nel mare. Alcuni giorni più tardi, in seguito alla scoperta di una terza fuga, sono state rivalutate a circa a 5000 barili (circa 800.000 litri) al giorno. Recenti calcoli di diversi ricercatori, basati su riprese video sottomarine delle fuoriuscite del petrolio, ritengono che la perdita sia di almeno 50.000 barili (circa 8 milioni di litri) al giorno.
[2] A grandi profondità si trovano grandi volumi d’acqua inquinata da particelle di petrolio. La concentrazione in petrolio è meno di un litro per metro cubo d’acqua, ma l’estensione di questa contaminazione è importante (Wikipedia).
[3] Da “Prodotti chimici contro catastrofe petrolifera. Operazione camuffamento e ritardo”, Spiegelonline, 18 maggio 2010
[4] https://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,694602,00.html [27] et https://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,694271,00.html [28]
[5] Idem.
[6] Idem.
[7] 1,8 milioni di litri di liquido speciale Corexit sono stati utilizzati finora nel golfo del Messico … Esiste il pericolo che una parte di queste nuvole di petrolio sotto la superficie si sposti in direzione dell’Oceano Atlantico.
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/files/it/Alle%20misure%20di%20austerit%C3%A0....pdf
[2] https://it.internationalism.org
[3] mailto:[email protected]
[4] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/interventi
[5] https://it.internationalism.org/content/i-perche-dello-scontro-fini-berlusconi
[6] https://it.internationalism.org/content/adesso-arriva-il-conto-della-crisi-ma-noi-non-lo-paghiamo
[7] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[8] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/economia-italiana
[9] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[10] https://napolioltre.forumfree.it/
[11] https://it.internationalism.org/content/riunioni-pubbliche-della-cci-al-suicidio-e-alla-sofferenza-sul-posto-di-lavoro-una-sola
[12] https://napolioltre.forumfree.it/?t=48193629
[13] http://www.controlacrisi.org/joomla/index....id=36&Itemid=68
[14] https://www.facebook.com/pages/NO-WORKERS/114173721946296
[15] http://www.culturainlotta.altervista.org/i...id=47&Itemid=72
[16] https://lavoratori-unicoop.blogspot.com/2010/05/i-lavoratori-dei-magazzini-unicoop.html
[17] https://precariscuolamodena.wordpress.com/
[18] https://vogliamocontinuarealavorareallamaflow.blogspot.com/2010/06/sciopero-generale-costruiamolo-dal.html
[19] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[20] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[21] https://it.internationalism.org/tag/4/94/sud-e-centro-america
[22] https://www.tapaidiatisgalarias.org/
[23] https://it.internationalism.org/tag/4/73/grecia
[24] https://en.internationalism.org/wr/334/thailand-kyrgyzstan
[25] https://it.internationalism.org/tag/4/60/asia
[26] https://it.internationalism.org/tag/3/49/imperialismo
[27] https://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,694602,00.html
[28] https://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,694271,00.html
[29] https://it.internationalism.org/tag/3/42/ambiente