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Rivoluzione Internazionale - 1970s

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Decade 1970-1979

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Rivoluzione Internazionale - 1974

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Annata 1974

Rivoluzione Internazionale n° 1

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Numero di dicembre 1974

Rivoluzione Internazionale - 1975

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Annata 1975

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Numero di maggio 1975

Rivoluzione Internazionale - 1976

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Annata 1976

Rivoluzione Internazionale n° 3

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Numero di gennaio 1976

Organizzazione ed intervento dei rivoluzionari

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Il testo che segue rappresenta le posizioni della Corrente Comunista Internazionale per ciò che riguarda il problema dell’organizzazione dei rivoluzionari. E’ stato redatto sulla base delle ‘“Tesi pubblicate nel n°3 di ACCION PROLETARIA, organo in lingua spagnola della CCI.

Ogni trasformazione sociale nella storia ha avuto per condizione fondamentale determinante lo sviluppo delle forze produttive diventate incompatibili con la struttura soffocante degli antichi rapporti di produzione. Così anche il capitalismo, nell’impossibilità di dominare più a lungo le forze produttive da esso stesso sviluppate, ha visto sorgere e rafforzarsi il fondamento storico del proprio superamento da parte del socialismo.

Ammessa questa condizione base, ci sono però delle differenze fondamentali tra la rivoluzione proletaria e le altre rivoluzioni anteriori, ivi compresa quella borghese. Tutte le classi che hanno svolto un ruolo rivoluzionario nella storia, infatti, hanno fondato il loro potere economico in seno all’antica società. Il proletariato invece, prima classe nella storia portatrice di una società che non sostituisce un tipo di sfruttamento con un altro, non dispone, né può costituirlo, in seno al capitalismo, di alcun potere economico che gli serva da base per una futura dominazione. L’unica forza materiale di cui esso dispone è la propria organizzazione; per questo motivo essa costituisce per il proletariato, ancor più che per le altre classi, un condizione decisiva e fondamentale per la propria lotta.

Il tipo di organizzazione che la classe operaia si dà è legato alle diverse tappe dello sviluppo capitalista e varia secondo gli obiettivi che queste tappe impongono alla lotta del proletariato. Così nel secolo scorso, quando il capitalismo aveva ancora un ruolo progressivo da svolgere, il proletariato non poteva fare altro che resistere nel migliore dei modi allo sfruttamento capitalista: il riformismo, come teoria della lotta di classe, era il prodotto di una situazione in cui la rivoluzione non era ancora all’ordine del giorno.

Con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza per il proletariato non è più possibile strappare una qualsiasi riforma ed affermarsi come classe all’interno del sistema capitalista ma si pone all’ordine del giorno la necessità di distruggere questa società e di instaurare una società senza classi. Per questo la forma di organizzazione sindacale diventa non solo caduca ma dannosa. Non è più sufficiente l’organizzazione di una parte della classe ma è l’insieme del proletariato che solo può intraprendere la trasformazione rivoluzionaria della società. Il tipo di organizzazione che esso si dà deve dunque raggruppare la totalità dei lavoratori allo stesso modo che esso deve unificare la lotta economica e la lotta politica, le lotte parziali e la lotta globale per il potere, il legislativo e l’esecutivo.

Questa organizzazione è quella dei Consigli operai, forma “finalmente trovata” - come dice Lenin - della dittatura del proletariato.

La formazione di questi organismi, così come il grado di coscienza della classe operaia, è funzione delle necessità della sua lotta. Questa è essa stessa determinata da circostanze economiche, sociali e storiche che non sono identiche nel tempo e nello spazio. Per questo motivo la formazione dei consigli non è mai un fenomeno simultaneo ed immediatamente generale, allo stesso modo che l’apparizione e lo sviluppo della coscienza non è un processo immediato ed uniforme.

I rivoluzionari sono gli elementi della classe che per primi si sollevano ad “una comprensione chiara delle condizioni dello sviluppo e dei fini generali del movimento proletario” (Manifesto).

Secrezione della classe, manifestazione del processo della sua presa di coscienza, i rivoluzionari non possono esistere conte tali che diventando fattore attivo di questo processo. Così come la classe di cui essa é una parte, la minoranza rivoluzionaria deve organizzarsi per svolgere la funzione per la quale storicamente si è formata.

I problemi che pone la questione dell’organizzazione dei rivoluzionari concentrano in realtà l’essenziale di tutto ciò che concerne l’attitudine e la funzione stessa dei rivoluzionari, La rivoluzione non é una questione di individui; è al contrario una azione collettiva, e dire azione collettiva significa parlare di organizzazione. Per questo motivo spesso le divergenze fra le correnti operaie si sono concretizzate in problemi di organizzazione.

Come organizzarsi per intervenire nella lotta che deve condurre la classe operaia per distruggere il sistema capitalista?

Qual è la funzione reale di questa organizzazione?

Cosa rappresenta questa organizzazione rispetto al resto della classe operaia?

Oggi come ieri tocca a noi rivoluzionari rispondere adeguatamente a tutte le questioni e concretizzarle nella nostra azione.

Dalla fine dell’ultima ondata rivoluzionaria che sconvolse il mondo (1917—27) e fino alla ripresa annunciata dalle grandi esplosioni operaie del Maggio ‘68 in Francia, dell’Autunno caldo del ‘69 in Italia, del dicembre ‘70 in Polonia, di Pamplona, del Ferrol, del Bajo Llobregat in Spagna, la classe operaia mondiale non aveva sollevata la testa se non in modo puramente sporadico. La controrivoluzione capitalista, incarnata principalmente dalla gigantesca e mostruosa mistificazione dello sta1inismo sovietico e di tutti i suoi derivati cinesi, terzo-mondisti e vari “socialismi” ufficiali, soffocò durante più di cinquant’anni in un bagno di sangue e di inganni tutta la vita del movimento operaio.

Così durante più di mezzo secolo le organizzazioni di rivoluzionari, quando esistettero, furono solo piccoli gruppi divisi e sottomessi al più grande isolamento dal trionfo della demoralizzazione e delle ideologie borghesi nel proletariato. Tutte le organizzazioni politiche che in un modo o in un altro acquistarono importanza numerica in seno alla classe operaia durante questo periodo furono strumenti che la controrivoluzione capitalista riuscì a sfruttare per il compito di disarmo fisico e politico della classe operaia.

I partiti “comunisti”, i partiti “socialisti”, le organizzazioni trotzkiste e, negli ultimi decenni, le organizzazioni “terzomondiste” sopravvissero nel mondo operaio unicamente perché in realtà non erano portavoce della soluzione proletaria rivoluzionaria, ma del compromesso con la controrivoluzione. In un modo o nell’altro, con ideologie e pretesti più o meno mistificatori, con una lucidità più o meno profonda rispetto da un lato alla situazione storica, dall’altro rispetto alla loro stessa natura, tutte queste organizzazioni assunsero la funzione di organi di inquadramento della classe operaia al servizio del capitale.

Dalla guerra di Spagna fino a quella del Vietnam, passando per la seconda guerra mondiale e per tutte quelle che le grandi potenze si sono fatte utilizzando i lavoratori come carne da cannone, con pretesti come quello delle “lotte di liberazione nazionale” o come il pseudo antagonismo tra fascismo e antifascismo, in tutti questi conflitti estranei agli interessi del proletariato, i lavoratori furono consegnati a1la carneficina interimperialista con l’aiuto di questi partiti “operai”.

In tempo di pace il loro compito fu di costruire apparati di gestione della merce forza lavoro, i sindacati. Nei paesi “democratici” le organizzazioni sindacali si trasformarono in immense macchine al servizio più o meno diretto dello Stato, utilizzate per il tramite dei “partiti di sinistra” per assicurare l’ordine sociale nelle fabbriche e per mantenere i lavoratori nel solco della legalità borghese e degli imperativi dell’“economia nazionale”. In paesi come la Spagna o il Portogallo, il compito che si assumono questi “partiti operai” è di “modernizzare” le forme politiche della nazione capitalista. Come dimostra la recente storia del Portogallo, il risultato reale del lavoro del Partito comunista portoghese durante la dittatura di Salazar—Caetano consiste nell’aver creato un apparato politico sufficientemente forte da poter servire oggi apertamente, partecipando al governo, come “polizia operaia”. Oggi sono le cellule del PCP che si incaricano di combattere con tutti i mezzi gli scioperi operai, con la collaborazione dei “compagni generali dalle forze armate” e dei “compagni ministri” … in nome dell’antifascismo.

La funzione crea l’organo. La funzione dell’organizzazione politica del proletariato è inevitabilmente e diametralmente opposta a quella di queste organizzazioni che in realtà non sono altro che la SINISTRA DELL’APPARATO POLITICO DEL CAPITALE. La funzione dei partiti borghesi infiltrati fra la classe operaia è prima di tutto di ingannarli e di dividerli. Il fine dell’organizzazione dei rivoluzionari è di contribuire a che la classe operaia prenda coscienza di se stessa, dei suoi reali interessi, della sua forza reale, di ciò che fu il suo passato e di ciò che deve essere il suo futuro. Nella nostra epoca, la meta dei rivoluzionari non può essere la “modernizzazione del capitalismo” o del suo Stato, ma la distruzione di entrambi. Per tutte queste ragioni fondamentali i rivoluzionari, per costruire la propria organizzazione, non possono ispirarsi ai modelli politici che hanno predominato nella classe operaia durante gli ultimi decenni.

A partire da questa constatazione alcuni hanno creduto che fosse sufficiente costruire l’organizzazione rivoluzionaria con criteri determinati da un’opposizione sistematica ad ogni principio organizzativo che somigliasse a quelli delle organizzazioni della “sinistra del capitale”. Così, per esempio, si è tentato di giustificare un certo “anticentralismo” puerile e anarchicheggiante, in nome dell’“antistalinismo”. Ma l’opposizione sistematica non è un criterio di classe. I tentativi di lasciarsi guidare da questo criterio per costruire l’organizzazione rivoluzionaria hanno portato solo a fallimenti totali o ad organizzazioni tanto simmetricamente opposte a quelle della sinistra del capitale che non sono state altro che l’altra faccia della stessa medaglia. E’ quello che è successo alla maggioranza delle organizzazioni anarchiche.

Si deve dunque inventare un nuovo tipo di organizzazione, senza schemi né modelli, lasciandosi guidare solo da un’analisi sommaria della realtà immediata?

Significherebbe cadere in un errore tanto grave quanto frequente.

Contrariamente a ciò che la maggioranza degli effimeri e numerosi gruppuscoli studenteschi sembrano credere, l’organizzazione politica dei rivoluzionari non è un giocattolo per gente che “abbia soltanto voglia di fare qualcosa”. Se di rivoluzione proletaria si parla – e solo in questo caso si può realmente parlare di rivoluzione - l’organizzazione rivoluzionaria può essere solo uno STRTUMENTO DEL PROLETARIATO.

L’incomprensione di questa realtà semplice ma fondamentale è alla base della maggioranza degli errori commessi in ciò che concerne l’analisi dell’organizzazione dei rivoluzionari. Non è a partire dalle necessità di un pugnetto di individui impregnati di idee rivoluzionarie e di una volontà di intervento attivo che può essere definita l’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia. E’, al contrario, a partire dalle necessità della lotta rivoluzionaria della classe operaia che debbono essere inquadrate le modalità dell’azione e organizzazione dei suoi elementi più avanzati.

L’unico modo di comprendere come uno strumento debba essere costruito è di sapere prima di tutto a chi e a cosa deve servire. In questo articolo, necessariamente corto ed incompleto, possiamo solo tentare di delineare le caratteristiche più importanti che l’organizzazione politica del proletariato deve assumere. Però se c’è una cosa che deve restare fissa ed immutabile nell’analisi di questo arduo problema della lotta rivoluzionaria è la necessità di tenere sempre in mente che non si tratta di inventare un talismano capace di soddisfare le preoccupazioni immediate di alcuni individui, per quanto grande sia la volontà rivoluzionaria che essi abbiano, ma di creare uno strumento della classe operaia per la sua lotta rivoluzionaria.

Questo implica che ogni problema che riguardi la lotta del proletariato deve essere inquadrato avendo come punto di riferimento permanente:

1) Gli interessi globali della classe operaia considerata come classe mondiale;

2) Il carattere storico della lotta della classe operaia; in altre parole significa dire che le lotte attuali costituiscono in realtà la continuazione di più di un secolo e mezzo di lotte e una tappa del processo generale che condurrà la classe allo scontro definitivo con il capitale mondiale.

In poche parole, collocandosi da un punto di vista MARXISTA.

“Il proletariato é rivoluzionario o non è niente” diceva Marx. Parlare della classe operaia senza tener conto del contenuto rivoluzionario delle sue lotte significa pronunciare parole vuote. Pretendere di intervenire nella lotta rivoluzionaria senza basarsi su tutta l’esperienza acquisita con più di un secolo di battaglie della classe operaia mondiale, con il pretesto del “realismo” e del fatto che “queste sono cose che appartengono al passato”, non significa legarsi alle lotte presenti ma disprezzarle. “Ogni rivoluzionario ha il diritto di sbagliarsi - diceva Lenin - ma un rivoluzionario che ripete un errore che nel passato fu commesso dalla classe è un criminale.”

I principi generali che qui esponiamo non sono ricette inventate alla leggera, ma frutto dell’esperienza pratica del proletariato. Non pretendiamo di aver risolto tutti i problemi né di aver assimilato tutti gli insegnamenti che si sviluppano dalla storia delle lotte operaie tanto per ciò che riguarda il problema dell’organizzazione che per gli altri problemi. Però ciò che affermiamo è fondato sull’unico terreno solido di cui dispone la classe rivoluzionaria: la propria esperienza analizzata alla luce della propria teoria, il marxismo.

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1. Tutta l’esperienza storica della classe operaia in lotta dimostra che, nei momenti di sviluppo di questa lotta, due tipi di organizzazione tendono ad apparire:

·         l’organizzazione unitaria della classe: questa raggruppa gli operai senza distinzioni politiche. Fanno parte di essa tutti gli operai per il semplice fatto di essere operai, quali che siano le loro posizioni politiche. Le assemblee di fabbrica, i consigli operai, o soviet, come venivano chiamati in Russia, assemblee di delegati delle assemblee di fabbrica e di quartiere, sono la forma principale di questo tipo di organizzazione. L’organizzazione unitaria è la classe operaia organizzata ed in azione. E’ la forma che si dà la classe per agire come un solo corpo unito ed autonomo.

·         l’organizzazione politica è quella che raggruppa gli elementi più coscienti della classe. Ad essa si aderisce secondo dei criteri politici, per il fatto di essere d’accordo con un certo numero di posizioni politiche e con una volontà di azione. Di essa possono far parte individui provenienti da altre classi sociali poiché ciò che la definisce non è l’origine sociale dei suoi membri ma le sue posizioni politiche. Né Marx, né Engels, né Rosa Luxemburg, né Lenin furono operai e pur tuttavia furono militanti esemplari della classe operaia all’interno delle sue organizzazioni politiche.

Nella società capitalista in cui “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” (Marx), l’organizzazione politica non può accogliere che una minoranza della classe. Quando per la maturità di evoluzione della situazione sociale si determina la possibilità di una coscienza e di una azione collettiva unitaria nel senso dell’interesse generale ed ultimo della classe operaia, l’influenza di questa minoranza sugli avvenimenti e nel proletariato tende a diventare significativa; si può allora parlare di partito per designare l’organizzazione di questa avanguardia.

Al contrario nei periodi di rinculo e di vuoto della lotta di classe, i rivoluzionari non hanno più un’influenza diretta sul corso immediato della storia. Allora possono sussistere soltanto delle organizzazioni la cui funzione non può più essere quella di influenzare il movimento immediato ma di resistergli, essendo tagliata fuori dalla vita di una classe paralizzata e coinvolta nella difesa degli interessi della borghesia (collaborazione di classe, union sacrée, resistenza, antifascismo, ecc.). Il compito essenziale dei rivoluzionari consiste allora, traendo le lezioni dall’esperienza precedente, nel preparare il quadro teorico e programmatico del futuro partito proletario che dovrà necessariamente riformarsi nella successiva fase ascendente della lotta della classe operaia. Questi gruppi e frazioni che, nel momento del rinculo e della sconfitta della lotta, si distaccano e sopravvivono al partito in degenerazione, costituiscono il ponte politico ed organizzativo fino alla prossima tappa dell’assalto del proletariato.

2. Questi due tipi di organizzazione tendono a formarsi in tutte le lotte perché corrispondono a due funzioni specifiche e imperative per lo sviluppo della lotta rivoluzionaria della classe. Lo sviluppo di ciascuna di esse può raggiungere un livello più o meno avanzato a seconda delle occasioni, la loro formazione può essere più o meno tardiva: così per esempio durante la Comune di Parigi del l871 è soltanto negli ultimi giorni della lotta che un vero partito politico del proletariato comincia a costituirsi, durante la rivoluzione tedesca del 1918-19 il partito fu fondato quindici giorni prima dell’insurrezione di Berlino, mentre nell’ottobre del ‘17, quando il proletariato russo distrugge lo Stato borghese, il suo partito rivoluzionario ha già quattordici anni di vita …

Ognuna di queste esperienze e tutto il corso della lotta del proletariato ci mostrano però che, quale che sia la radicalità espressa dalla classe operaia nella costituzione e nell’azione dei suoi organismi unitari (i soviet), il partito resta il fattore cosciente dell’azione della classe e che il ruolo che esso é chiamato a svolgere è decisivo.

Il partito è la forza motrice ideologica indispensabile all’azione rivoluzionaria del proletariato. La ricostruzione di questo organismo di classe è nello stesso tempo condizionata da una tendenza che prende corpo nella classe operaia di rottura con l’ideologia capitalista e di impegno pratico nella lotta contro il sistema esistente, così come la sua ricostruzione è una condizione di accelerazione e di approfondimento di questa lotta e una delle condizioni determinanti del suo trionfo.

Il giorno in cui la classe operaia nel suo insieme perviene ad un uguale grado di coscienza e di volontà rivo1uzionaria, l’organizzazione politica perde la sua ragione di essere. Questo però può essere soltanto il risultato finale di tutto un processo rivoluzionario. Prima di allora, non ci stancheremo mai di ripeterlo, perché questo processo possa essere portato a termine, l’esistenza dell’organizzazione politica è una necessità imperativa imposta dalle differenze di livello della coscienza rivoluzionaria che esistono nella classe.

3. Alcuni “spontaneisti” negano la necessità del partito con la scusa che “qui siamo tutti uguali” e che “formare un’organizzazione specifica che si consideri avanguardia della classe significa riprodurre e mantenere in essa le divisioni causate dalla società capitaìista.”. Dicendo ciò essi credono di convincersi che basta dirlo o desiderarlo perché tutti gli operai acquisiscano lo stesso livello di coscienza rivoluzionaria.

Le differenze esistono e sono immense. Chiudere gli occhi dinanzi a questa realtà e rifiutarsi di intraprendere in modo organizzato il compito di contribuire al processo di generalizzazione delle idee e della volontà rivoluzionarie in seno alla classe non significa “lottare contro le divisioni e le differenze che ci impone la società capitalista” bensì contribuire a perpetuarle. I rivoluzionari sono un prodotto della classe e della sua lotta. Come tali è loro dovere assumersi le loro responsabilità di fronte alla classe.

Dall’altro lato la concezione “leninista del partito secondo la quale solo il partito può acquistare la coscienza rivoluzionaria (la classe da sola può solo sviluppare una coscienza trade-unionista) si è rivelata totalmente errata ed estranea agli interessi del proletariato.

Secondo questa visione, invece di essere il partito strumento della classe, è la classe che viene considerata strumento del partito. Il soggetto reale della storia non è il proletariato ma il pugno di dirigenti del partito.

La storia della rivoluzione russa, soprattutto nel suo processo di degenerazione, mostrò in modo definitivo che questa concezione era contraria agli interessi storici del proletariato, non solo perché non corrisponde alla realtà, ma soprattutto perché:

a)       conduce ai pericoli politici dell’opportunismo: la prima preoccupazione della politica del partito - secondo questa concezione - non consiste nell’elevare il livello di coscienza della classe ma nel farsi riconoscere dalle masse come “dirigenti”, cosa che può condurre a fare alla classe tutta una serie di concessioni con il pretesto di doversi porre “al livello della classe”.

b)       conduce a preconizzare la dittatura del partito invece della dittatura della classe operaia, il che - per le ragioni addotte circa la necessità della acquisizione della coscienza del proprio compito rivoluzionario da parte della classe operaia - conduce, non alla distruzione del capitalismo ma alla costruzione di un capitalismo di Stato.

4. Ciò che queste due concezioni vogliono ignorare è il fatto che, lungi dall’essere in opposizione fra loro questi due elementi - la classe ed i rivoluzionari - sono complementari in un rapporto di tutto e di parte del tutto. Tra la prima ed i secondi non può instaurarsi un rapporto di forza poiché “i comunisti non hanno interessi diversi da quelli del proletariato in generale”(Manifesto).

Come parte della classe, il partito rivoluzionario (anche se sarà condotto, e dovrà farlo, a prendere delle decisioni vitali per il processo rivoluzionario indipendenti da ciò di cui ha coscienza il proletariato nel suo insieme, ma rispondenti alle esigenze oggettive e ai suoi bisogni istintivi - vedi ad esempio l’insurrezione decisa dalla sola frazione della classe organizzata nel partito bolscevico nell’ottobre del ‘17 e non decisa all’interno del congresso dei Soviet), non può nel processo di trasformazione rivoluzionaria sostituirsi al proletariato poiché il tipo di società che quest’ultimo è chiamato ad instaurare esige la partecipazione costante e l’attività creatrice di tutta la classe nel suo insieme. Per portare a termine la sua opera alla classe operaia non basta la coscienza di una minoranza, per quanto chiara essa possa essere, ma la sola garanzia di vittoria è la coscienza generalizzata e, poiché essa è essenzialmente frutto dell’esperienza, l’attività dell’insieme della classe è insostituibile; come pure è indispensabile l’esistenza e 1’azione del partito rivoluzionario.

5. La rivoluzione proletaria è l’unica rivoluzione della storia che è realmente un’azione cosciente degli uomini, nella quale, cioè, la coscienza precisa di ciò che si sta facendo, di ciò che si dovrà fare e dei mezzi per farlo, è una condizione indispensabile della vittoria. La borghesia poté distruggere il potere feudale senza avere una coscienza esatta di ciò che stava realizzando perché, in ogni caso, le basi economiche del suo potere esistevano già in seno alla vecchia società sotto la forma di fabbriche e di relazioni produttive capitaliste che si sviluppavano parallelamente alle relazioni feudali esistenti. La sua rivoluzione, la cui espressione più pura fu la rivoluzione francese del 1789, consisté soprattutto in un cambio della struttura politica. Inoltre, la trasformazione della società non consisté nella distruzione dello sfruttamento ma in una trasformazione del modo di sfruttare.

La rivoluzione proletaria è totalmente diversa. Classe sfruttata, il proletariato non può costruire le basi della nuova società all’interno della vecchia. Prima di tutto deve distruggere il potere politico del capitale, il suo Stato, a livello mondiale per poter cominciare a trasformare realmente il modo di produzione dell’umanità. Questo compito esige che la classe abbia affilato al massimo le sue due uniche armi reali:

·      la sua capacità di organizzarsi,

·      la sua coscienza.

Per questa ragione fondamentale, per poter portare a termine la sua missione storica la classe operaia deve profittare di tutti i mezzi a sua disposizione per acquistare una chiara coscienza della propria attività rivoluzionaria. E’ per questo che le organizzazioni politiche che sorgono nel suo seno e che si sforzano realmente e in modo permanente tanto di suscitare e di approfondire questa coscienza quanto di generalizzarla e di estenderla a tutta la classe, sono prima di tutto prodotti della classe e della sua azione rivoluzionaria. Costituire in modo permanente e continuo uno strumento per la presa di coscienza della classe operaia, elaborando ed approfondendo la teoria rivoluzionaria da un lato, intervenendo dall’altro in tutte le lotte affinché la classe faccia sua questa coscienza, questa è la funzione di un’autentica organizzazione politica del proletariato.

6. Sono molti, però, quelli che criticando la concezione leninista del partito e pur non opponendovi la classica concezione “spontaneista” de processo rivoluzionario, sono caduti in errori tanto pericolosi per la classe quanto quelli che avevano cercato di correggere.

Così debbono essere rigettate al pari della concezione leninista quelle teorie che hanno preconizzato:

·         la costituzione di organizzazioni che abbiano solo una concezione teorica puramente interpretativa e che non pongono in primo piano il compito di intervento attivo nella lotta, poiché, col “dimenticare” che la teoria rivoluzionaria può essere solo un momento della pratica globale dei rivoluzionari, finiscono da un lato col non fare un reale lavoro teorico, dall’altro non riescono ad avere alcun ruolo all’interno della lotta di classe;

·         quelle che preconizzano organizzazioni puramente attiviste, interventiste col pretesto che “nulla può sostituire la classe nel suo compito di elaborazione teorica”. Queste, “dimenticano” che contribuire allo sviluppo teorico della coscienza della classe non significa “sostituirsi ad essa” ma integrarsi realmente nella sua lotta e che, intervenire politicamente nelle lotte operaie senza possedere una teoria di classe coerente conduce soltanto, e a breve scadenza, a diffondere la propria confusione nella classe.

7. Il proletariato non è la sola classe ad esistere internazionalmente ma è la sola che possa organizzarsi ed agire collettivamente a livello internazionale, poiché è la sola che non possiede interessi nazionali. La sua emancipazione non è possibile che a condizione di essere mondiale. Per questo motivo la sua organizzazione unitaria, anche se non si estende di botto su questa scala, tende ad unificarsi e quindi a centralizzarsi a livello mondiale. I consigli operai perciò non sono, anzi non devono essere, degli organi federalisti di autogestione ma l’organizzazione centralizzata del potere politico proletario. E’ verso questa direzione che deve lavorare l’organizzazione politica che, raggruppando la frazione più cosciente della classe, tende inevitabilmente e per la sua stessa funzione ad essere centralizzata ed internazionale.

Il carattere internazionale dell’organizzazione politica proletaria si afferma lungo tutta la storia del movimento operaio. Fin dal 1847 la Lega dei Comunisti, con la sua parola d’ordine “Proletari di tutti i paesi, unitevi. I proletari non hanno patria”, proclama la propria natura di organizzazione internazionale. L’entrata effettiva del proletariato sulla scena delle lotte sociali nei principali paesi d’Europa porta alla formazione della prima Internazionale, che raggruppa così tutte le forze organizzate della classe operaia nelle sue tendenze ideologiche più diverse. Essa è al più alto livello l’organizzazione unitaria della classe. La Seconda Internazionale segna già una prima differenziazione ideologica in seno al proletariato mentre è un sensibile passo indietro sul terreno dell’internazionalismo. Il suo subitaneo fa1limento di fronte ad un grande compito internazionalista, quale l’opposizione alla guerra imperialista, segnano la necessità di un’energica riaffermazione dell’internazionalismo proletario; è ciò che fecero prima Zimmerwald e Kienthal; è ciò che impose in seguito la costituzione della Terza Internazionale. Quest’ultima segna il punto più alto raggiunto dal proletariato nella centralizzazione e nell’affermazione del carattere internazionale della propria lotta. La sconfitta della rivoluzione in Occidente causa la lenta morte per soffocamento della Rivoluzione russa e la decadenza dell’Internazionale comunista che diviene organo definitivamente irrecuperabi1e alla lotta del proletariato con l’affermazione della “teoria del socialismo in un solo paese”.

Oggi, ancor più di ieri, mentre cominciano a maturare le condizioni di uno scontro rivoluzionario, si impone la necessità, per i rivoluzionari, di agire in vista della costruzione del PARTITO MONDIALE DEL PROLETARIATO. Il carattere centralizzato e internazionale dell’organizzazione politica del proletariato non è il risu1tato di un’esigenza etica o un astratto ideale, ma una condiziono necessaria della sua efficacia e dunque della sua stessa esistenza.

8. Anche se basata su di un programma preciso e coerente, l’organizzazione dei rivoluzionari non è monolitica. Come riflesso dell’immaturità di una situazione o della coscienza della classe, possono apparire nel suo seno delle divergenze; sia che esse vengano riassorbite o che conducano ad una separazione organizzativa, queste divergenze debbono essere pienamente discusse sia all’interno dell’organizzazione che di fronte all’insieme della classe. Pur non essendo monolitica, l’organizzazione dei rivoluzionari non cessa di costituire un blocco basato su un quadro di posizioni politiche ben chiare e definite; una organizzazione che si trasforma in circolo di studio e di discussione, per quanto seri e “democratici” questi possano essere, è un organo morto per la classe poiché è in­capace di svolgere una funzione attiva di intervento nella lotta.

Per questo motivo, le divergenze che possono sorgere non debbono causare un indebolimento dell’organizzazione e perciò, finché esse non sono risolte, la posizione maggioritaria guida l’azione dell’insieme dell’organizzazione nel portare a termine i compiti per i quali essa è storicamente sorta.

9. I rapporti che si stabiliscono fra le diverse parti ed i vari militanti dell’organizzazione portano necessariamente le stimmate della società capitalista e dunque, contrariamente a ciò che pretendono alcune correnti neoutopiste, non possono costituire un’isola di rapporti comunisti in seno al capitalismo. Purtuttavia essi non possono essere in flagrante contraddizione con il fine perseguito dai rivoluzionari. In questo senso, essi debbono rifiutare ogni rapporto di coercizione, di divisione gerarchica del lavoro, di difesa di interessi particolari. Essi si appoggiano su una solidarietà ed una fiducia reciproca che sono una delle caratteristiche dell’appartenenza all’organizzazione della classe portatrice del comunismo.

10. L’organizzazione politica del proletariato vive per, a causa e dentro la lotta rivoluzionaria del proletariato. Ciò che caratterizza principalmente il contenuto del suo intervento è il fatto che:

·         In tutte le lotte locali - e quindi in tutte le assemblee, in tutte le organizzazioni unitarie della classe - difende il punto di vista della classe operaia come classe mondiale.

·         In ogni tappa della lotta, in ogni fase del processo di sviluppo della lotta fra operai e capitalisti, fra operai e Stato capitalista, operano in funzione della prospettiva del movimento generale e della meta finale: la dittatura del proletariato e la distruzione del capitalismo mondiale.

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Organizzazione rivoluzionaria [2]

Rivoluzione Internazionale n° 4

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Numero di aprile 1976

Rivoluzione Internazionale n° 5

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Numero di luglio 1976

Rivoluzione Internazionale n° 6

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Numero di ottobre 1976

Le lezioni di Kronstadt

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INTRODUZIONE

Una tragedia proletaria

Le posizioni anarchiche e leniniste su Kronstadt, nella loro apparente contrapposizione, si basano su un comune errore di fondo, il considerare la rivolta come uno scontro all’ultimo sangue tra due classi avverse: 1a reazione operaia contro 1a tirannide comunista e borghese per gli uni, la reazione contadina e piccolo-borghese contro 1a dittatura operaia per gli altri. Di fronte a quest’unanimità di fondo colpisce ancora di più l’innaturale silenzio in genere osservato sulla rivolta di Kronstadt dai gruppi di rivoluzionari distaccatisi dall’Internazionale passata al campo della controrivoluzione, nonostante 1a straordinaria attualità dei problemi da essa posti.

Tutto ciò non è casuale. In realtà Kronstadt è uno scontro interno al proletariato, reso possibile dalla mancata risoluzione di una delle peggiori eredità della II Internazionale, la visione sostituzionista del partito che rappresenta e fa le veci della classe. E’ proprio questa sua natura di scontro interno alla classe che rende impossibile un bilancio rivoluzionario su Kronstadt senza che contemporaneamente si facciano una volta per tutte i conti con gli. errori del passato.

Da questo punto di vista il rifiuto anarchico del partito proletario non è meno impotente del sostituzionismo leninista a comprendere 1a rivolta di Kronstadt come un episodio della rivoluzione proletaria di ottobre e non come una reazione contro di essa o un suo superamento.

Noi rigettiamo con disprezzo le lamentose ricerche della “responsabilità”. Quando il movimento operaio si sforza di capire 1a propria storia non lo fa come se leggesse un libro giallo, per il piacere di individuare il “colpevole” e l’“innocente ingiustamente accusato”. Lo fa per trarne tutte le lezioni per 1’avvenire, lo fa perché considera le proprie lotte passate, le vittorie e le sconfitte, come parte integrante della lotta presente e futura, in una sola continuità storica verso 1’instaurazione di una società senza classi.

La concezione “sostituzionista” del partito - lungi dall’essere una prerogativa dei bolscevichi - era allora una convinzione condivisa da tutto il movimento operaio. Ma “L’umanità non si pone che i compiti che è in grado di risolvere” (Marx). Solo con l’esperienza storica del potere proletario è stato possibile verificare come questa concezione fosse estranea agli interessi storici del proletariato e il suo rifiuto è diventato una frontiera di classe.

Questa frattura storica è stata ben compresa, in piena controrivoluzione, dalla Frazione all’estero della Sinistra Comunista Italiana. Nei primo numero della sua rivista essa collegava esplicitamente la disfatta operaia con 1a mancata risoluzione dei “nuovi problemi sorti con l’esercizio del potere proletario in Russia” (Bilan n°1, novembre 1933), e se ne assumeva il compito, gravoso ed oscuro.

Coerenza programmatica o monolitismo dogmatico?

Partendo dall’opera di Bilan negli anni ’30 e proseguita da Internationalisme negli anni ’40, 1a CCI ha potuto fissare un quadro di orientamento generale sui problemi posti da Kronstadt e in generale dalla esperienza storica del potere operaio.

Si può schematicamente dire che:

  1. La rivoluzione proletaria è, per sua natura storica, una rivoluzione internazionale. Se ristretta nel quadro angusto di uno o anche più paesi, si scontra con difficoltà insormontabili ed è destinata a più o meno rapida degenerazione.
  2. Contrariamente alle altre rivoluzioni della storia, la rivoluzione proletaria esige la partecipazione diretta, costante e attiva dell’insieme della classe. Ciò vuol dire che in nessun momento potrà accettare, pena l’immediata tendenza alla degenerazione, né la “delega” del potere a un partito, né 1a sostituzione di un corpo specializzato o di una frazione della classe, per quanto rivoluzionari siano, all’insieme della classe.
  3. La classe operaia è 1a sola classe rivoluzionaria, non solo nella società capitalista, ma anche nel periodo di transizione, cioè fino a quando esisteranno le classi nella società mondiale. E’ per questo che solo a condizione di garantirsi un’autonomia totale dalle altre classi il proletariato potrà assicurare 1a sua egemonia e la sua dittatura di classe in vista dell’instaurazione della società comunista.
  4. L’autonomia del proletariato significa che in nessun caso le organizzazioni unitarie e politiche della classe dovranno sottomettersi alle istituzioni statali; questo comporterebbe 1a loro dissoluzione e condurrebbe il proletariato ad abbandonare 1a realizzazione del comunismo, di cui esso è l’unico portatore.
  5. L’avanzata della rivoluzione proletaria non può essere garantita da questa o quella misura economica parziale, per quanto importante essa sia. La garanzia può stare solo nell’insieme del programma e dell’azione politica e complessiva del proletariato, nella cui globalità si collocano ed hanno un senso le misure economiche immediate che favoriscono la instaurazione del comunismo.
  6. La violenza rivoluzionaria è un’arma proletaria di fronte e contro le altre classi. In nessun caso 1a violenza potrà servire come metodo o strumento all’interno della classe, poiché essa non è un mezzo di presa di coscienza. Quest’ultima il proletariato non può acquisirla che con 1’esperienza e 1a riflessione autocritica su questa esperienza. E’ per questo che 1a violenza all’interno della classe, quale che sia la sua motivazione e la giustificazione che se ne dà nell’immediato, non può che impedire l’attività autonoma della classe e risolversi in un ostacolo insuperabile alia sua presa di coscienza, condizione indispensabile al trionfo del comunismo.

E’ all’interno di questo quadro the 1a CCI è oggi impegnata nel dibattito sul periodo di transizione che va dalla presa del potere politico all’instaurazione della società comunista E’ inutile sottolineare ai rivoluzionari l’importanza di questo dibattito e le necessità – dimostrata dall’esperienza russa - di sviluppare quelle “indicazioni di massima ed ancora di carattere essenzialmente negativo” (Luxemburg) con cui il movimento operaio si è presentato ai suo primo grande appuntamento storico. Tanto più che possiamo ancora leggere in pubblicazioni “estremiste” simili superficialità: “… in nessuna rivoluzione della storia si sapeva a priori quello che si sarebbe sostituito a quello che si stava abbattendo perché le modificazioni nel carattere delle persone (!), nei rapporti delle classi, sono così radicali nei periodi rivoluzionari da rendere impossibile ogni ipotesi storica” (Rosso n°10, 1973, pag 14).

Cosa possiamo rispondere a questi riesumatori dell’“indifferenza in materia teorica”?

“La socialdemocrazia ufficiale dominante elude la questione dei compiti concreti del proletariato durante la rivoluzione (la natura cioè del periodo di transizione, NdR) o con 1a risata filistea o, nel migliore dei casi, con la scappatoia verbale del: vedremo allora”. (Lenin, Stato e Rivoluzi.one).

La CCI, consapevole della sua responsabilità militante di fronte a1la classe operaia mondiale, vede attualmente al suo interno un ampio dibattito sul periodo di transizione ed in particolare sul problema dello stato in questo periodo. La discussione è stata portata all’esterno con la pubblicazione di quattro articoli sull’argomento nella Revue Internationale n°1 (aprile 1975) ed ultimamente altri tre nella Revue n°6 (luglio ‘76).

Nella misura in cui l’esperienza pratica della classe non ha ancora sciolto tutti i nodi relativi a tale questione, non è ancora possibile su di essi tracciare delle frontiere di classe, ma spetta ai rivoluzionari impegnarsi con massima serietà nella riflessione e nella discussione senza temere di portare. dinanzi all’intera classe i punti controversi e le proprie divergenze.

Questo nostro rifiuto dell’organizzazione rivoluzionaria come monoblocco militarmente disciplinato in cui non c’è posto per discussioni ed altre futilità è stato aspramente condannato da numerose. sette che, non a caso, vietando il dibattito all’interno della propria organizzazione, tendono a sfuggire anche il dibattito fra le organizzazioni rivoluzionarie. In particolare il P.C. Internazionale (Programma Comunista) costretto, dopo anni di silenzio, a parlare della nostra esistenza, ha ritenuto di doverci presentare ai suoi lettori come “Révolution Internationale ed suoi cugini, in perpetua disputa fra di loro” (Le Prolétaire n°203-204) e non come Corrente Comunista Internazionale.

La funzione di questo trucchetto è di mostrare l’impossibilità di ammettere il dibattito interno senza trasformarsi automaticamente in una federazione di club di discussione o in un’altra accolita di perditempo. In realtà se oggi 1a CCI esiste come organizzazione internazionale centralizzata, con una piattaforma unica che è valida come base di adesione per tutti i paesi, ciò è dovuto appunto a sette anni di dibattiti e di confronti approfonditi, in vista del raggruppamento dei rivoluzionari. Difatti: “I quadri per i nuovi partiti non possono uscire che dalla conoscenza profonda delle cause delle sconfitte. E questa conoscenza nessun divieto e nessuna limitazione.” (Bilan - 1933).

Il monolitismo non è che una cortina fumogena, una scappatoia per sostituire al confronto aperto delle posizioni di fronte alla classe, le espulsioni a catena e le scissioni a base di anatemi e questioni personali. Per noi anche le scissioni rese indispensabili da divergenze programmatiche sono positive, quando le loro motivazioni siano chiare per militanti e per i militanti e per l’intera classe, e questo è possibile solo se le divergenze sono state dibattute in modo aperto ed esauriente. Proprio perché 1a rivoluzione proletaria, a differenza di quelle borghesi, non può andare avanti che criticando e deridendo senza pietà i propri tentativi falliti (Marx), noi invitiamo tutti i rivoluzionari a intervenire nel dibattito sul periodo di transizione e su tutti i problemi che il movimento operaio si trova oggi ad affrontare. Sarà 1’allargarsi del confronto a dare le più solide basi al raggruppamento dei rivoluzionari per cui noi operiamo e senza il quale ogni dibattito è gioco o follia.

RIVOLUZIONE INTERNAZIONALE

LE LEZIONI DI KRONSTADT

L’insurrezione di Kronstadt nel 1921 è un banco di prova che separa quelli che, grazie alle loro posizioni di classe, sono in grado di capire il processo e l’evoluzione della rivoluzione proletaria da quelli per cui la rivoluzione resta un libro chiuso. Gli avvenimenti di Kronstadt evidenziano in modo tragico alcuni elementi della rivoluzione russa che costituiscono importanti lezioni per il proletariato, lezioni che esso non può permettersi di ignorare, nel momento in cui si prepara alla prossima grande ondata rivoluzionaria.

Un approccio marxista al problema di Kronstadt: non può che partire dall’affermazione che la rivoluzione dell’Ottobre 1917 in Russia è stata una rivoluzione proletaria, un momento della rivoluzione proletaria mondiale scoppiata come risposta della classe operaia internazionale alla guerra imperialista del 1914-18.

Questa guerra aveva segnato l’entrata definitiva del capitalismo mondiale nella sua era di declino storico irreversibile, era in cui 1a rivoluzione proletaria diventa una necessità materiale in tutti i paesi. Si deve anche affermare che il Partito bolscevico, che era alla testa dell’insurrezione di Ottobre, era un partico comunista proletario, una forza vitale della sinistra internazionale, dopo il tradimento della II Internazionale nel ‘14, e che esso ha continuato a difendere le posizioni di classe del proletariato durante la prima guerra mondiale ed il periodo successivo.

Contro coloro che descrivono l’insurrezione d’Ottobre come un semplice “colpo di stato”, un putsch realizzato da un élite di cospiratori, noi ripetiamo che l’insurrezione era il punto culminante di un lungo processo di lotta classe e di maturazione della coscienza della classe operaia; che essa rappresentava la cosciente presa del potere politico da parte della classe operaia organizzata nei suoi soviet, nei suoi comitati di fabbrica e nella sua guardia rossa. L’insurrezione era parte di un processo di distruzione dello stato barghese e d’instaurazione della dittatura del proletariato; il suo significato profondo era, come hanno appassionatamente affermato i bolscevichi, quello di segnare il primo momento decisivo della rivoluzione proletaria internazionale, della guerra civile mondiale contro la borghesia. L’idea che il fine dell’insurrezione fosse la costruzione “del socialismo nella sola Russia” era in quel momento ben lontano dallo spirito dei bolscevichi, nonostante i loro numerosi errori e confusioni per quanto concerneva il programma economico immediato del1a rivoluzione, errori che del resto essi condividevano allora con l’intero movimento operaio.

E’ soltanto in questo quadro che si può sperare di capire 1a successiva degenerazione della rivoluzione russa. Poiché questo problema è trattato in un altro testo delia CCI (“La degenerazione della Rivoluzione Russa”, Revue Internationale n°3), noi qui ci limiteremo ad alcune considerazioni generali. La rivoluzione, iniziata nel ‘17, non è riuscita ad estendersi a livello internazionale, nonostante i numerosi tentativi rivoluzionari della classe in tutta l’Europa. La Russia stessa era dilaniata da una lunga e sanguinosa guerra civile, che aveva devastato l’economia e frammentato la classe operaia industriale, colonna vertebrale del potere dei soviet. In questo contesto d’isolamento e di caos interno, quasi subito dopo che i bolscevichi ebbero preso il potere, i loro errori ideologici. cominciarono ad esercitare un peso reale contro l’egemonia politica della classe operaia. Si trattava tuttavia di un processo non lineare. I bolscevichi, che negli anni 18-20 all’interno della Russia ricorrevano a misure sempre più burocratiche, nel ‘19 potevano ancora contribuire alla fondazione dell’I.C., avendo come unico e chiaro scopo quello di accelerare 1a rivoluzione proletaria mondiale.

La delega del potere ad un partito, l’eliminazione dei comitati di fabbrica, 1a subordinazione progressiva dei soviet all’apparato statale, lo scioglimento delie milizie operaie, il modo “militarista” sempre più accentuato di far fronte alle difficoltà, tutti risultati delie tensioni del periodo di guerra civile, 1a creazione di commissioni burocratiche, erano altrettante manifestazioni estremamente significative del processo di degenerazione della rivoluzione in Russia.

Questi fatti non sono gli unici segni dell’indebolirsi del potere politico della classe operaia in Russia prima del 1921, ma sono sicuramente i più importanti. Benché alcuni ritengano che questo processo fosse stato già portato a termine prima del periodo del comunismo di guerra, è nel periodo di guerra civile che esso raggiunge il suo culmine Poiché 1a ribellione di Kronstadt è stata per molti aspetti una reazione ai rigori del comunismo di guerra, è necessario chiarire bene cos’ha veramente significato per il proletariato russo questo periodo.

La natura del comunismo di guerra

Come è sottolineato nell’articolo sulla “degenerazione della rivoluzione russa” (Revue Internationale n°3 ottobre ’75), noi ormai non possiamo più conservare le illusioni dei comunisti di sinistra di quest’epoca, 1a maggior parte dei quali vedevano nel comunismo di guerra una “vera” politica socialista, contro la “restaurazione del capitalismo” stabilita dalla NEP. La scomparsa quasi totale del denaro e dei salari, 1a requisizione dei cereali ai contadini non rappresentavano l’abolizione dei rapporti sociali capitalisti, ma erano semplicemente misure urgenti imposte dal blocco economico capitalista contro la repubblica dei Soviet e dalle necessità della guerra civile. Per quanto concerne il potere politico reale della classe operaia, abbiamo visto che questo periodo era caratterizzato da un progressivo indebolimento degli organi della dittatura del proletariato e dallo sviluppo di tendenze e di istituzioni burocratiche. La direzione del Partito-Stato portava avanti sempre più delle tesi che dimostravano che 1’organizzazione della classe era una cosa eccellente in linea di principio, ma ora tutto doveva essere subordinato alla lotta militare. La teoria dell’“efficienza” cominciava a scalzare i fondamenti della democrazia proletaria. Sotto 1a copertura di questa teoria Io Stato cominciò a istituire una militarizzazione del lavoro che sottometteva i lavoratori a metodi severissimi di sorveglianza e sfruttamento. “Nel Gennaio 1920, il consiglio dei Commissari del popolo, in gran parte per suggerimento di Trotsky, decretò 1’obbligo generale del lavoro per tutti gli adulti sani e contemporaneamente autorizzò l’impiego di personale militare sovrabbondante nei lavori civili.[1]”

Contemporaneamente nelle fabbriche veniva rafforzata la disciplina del lavoro mediante la presenza delle truppe dell’armata rossa. Una volta privati di ogni potere i comitati di fabbrica, le Stato aveva via libera per introdurre 1a direzione personalizzata ed il Sistema di “Taylor” di sfruttamento sui luoghi di produzione, sistema che lo stesso Lenin denunciava come “l’asservimento dell’uomo alla macchina”. Per Trotsky, la militarizzazione del lavoro è il metodo di base indispensabile per l’organizzazione della nostra manodopera”[2]. Il fatto che lo Stato fosse uno “Stato-operaio”, significava per lui che i lavoratori non potevano in nessun modo opporsi alla loro completa sottomissione allo Stato.

Le dure condizioni di lavoro nelle fabbriche non erano compensate da salari elevati o dalla possibilità di entrare facilmente in possesso dei “valori d’uso”. Al contrario, a causa della devastazione dell’economia operata dalla guerra e dal blocco, l’intero paese era ridotto alla fame e gli operai dovevano contentarsi delle razioni più magre, spesso distribuite molto irregolarmente. Molti settori dell’industria cessarono di funzionare e migliaia di operai furono costretti ad arrangiarsi per sopravvivere. La reazione naturale di molti di loro fu di abbandonare completamente le città e di cercare qualche mezzo di sussistenza in campagna; migliaia di loro cercarono di sopravvivere commerciando direttamente con i contadini, spesso barattando strumenti rubati nelle fabbriche con alimenti. Quando, col regime del comunismo di guerra, lo scambio individuale fu interdetto e lo Stato incaricato della requisizione e della distribuzione dei beni essenziali, molte persone riuscirono a sopravvivere solo grazie al mercato nero che fioriva dappertutto. Per lottare contro questo il governo stabilì dei blocchi armati sulle strade per controllare tutti i viaggiatori che entravano o uscivano dalle città, mentre 1a Ceka, per rendere più efficaci i decreti del governo, agiva sempre più energicamente. Questa “Commissione Straordinaria”, formata nel ‘18 per combattere la controrivoluzione, si comportò in modo più o meno incontrollato, usando metodi spietati che le valsero l’odio generale di tutti i settori della popolazione.

Il trattamento sommario inflitto ai contadini non riscosse l’approvazione generale degli operai. Gli stretti rapporti familiari e personali tra molti settori della classe operaia russa e gli strati contadini rendevano gli operai sensibili alle lamentele dei contadini per i metodi spesso utilizzati dai distaccamenti armati mandati a requisire i cereali, soprattutto quando il distaccamento prendeva più dell’eccedente e lasciava i contadini privi di mezzi per soddisfare i loro bisogni. Come reazione a questi metodi, i contadini nascondevano o spesso distruggevano il loro raccolto, aggravando così 1a povertà e la penuria di tutto il paese. L’impopolarità generale di queste misure di coercizione economica sarà, come vedremo, chiaramente espressa nel programma degli insorti di Kronstadt.

Se alcuni rivoluzionari, come Trotsky, tendevano a fare delle necessità (imposte dal periodo) virtù, ed a glorificare 1a militarizzazione della vita economica e sociale, altri, e tra di loro lo stesso Lenin, erano più prudenti. Lenin non nascondeva il fatto che i soviet non funzionavano più come veri organi del potere proletario, e durante il dibattito con Trotsky nel 1921 sulla questione dei sindacati, difese 1’idea che i lavoratori devono difendersi contro il “loro” Stato, soprattutto da quando 1a repubblica dei soviet, secondo Lenin, non era più soltanto uno “Stato proletario”, ma uno “Stato di operai e contadini” con profonde “deformazioni burocratiche”. L’Opposizione Operaia e, sicuramente, altri gruppi di sinistra andarono più lontano nella denuncia delle deformazioni burocratiche che lo Stato aveva subito nel periodo ’18-21. Ma la maggior parte dei bolscevichi credeva fermamente e sinceramente che finché l’apparato statale fosse stato controllato da loro (il partito del proletariato), la dittatura del proletariato sarebbe ancora esistita, anche se le classi lavoratrici sembravano temporaneamente assenti dalla scena politica. Queste posizioni, fondamentalmente false, dovevano provocare inevitabilmente conseguenze disastrose.

La crisi del 1921

Finché durò la guerra civile, lo Stato dei soviet conservò l’appoggio della maggioranza della popolazione, poiché veniva identificato con la lotta contro le antiche classi possidenti e capitaliste. Le durissime privazioni della guerra civile erano state sopportate con relativa buona volontà dai lavoratori e dai piccoli contadini. Ma dopo 1a sconfitta degli eserciti imperialisti, molti cominciarono a sperare che le condizioni di vita sarebbero diventate meno dure e che il regime avrebbe un po’ allentato il suo dominio sulla vita economica e sociale.

La direzione bolscevica, tuttavia, di fronte ai danni subiti dalla produzione a causa della guerra, era molto restia a permettere un benché minimo rilassamento nel controllo statale centralizzato. Alcuni bolscevichi di sinistra, come Ossinsky, sostenevano il mantenimento ed anche il rafforzamento del comunismo di guerra, soprattutto nelle campagne. Egli propose un piano per “l’organizzazione obbligatoria delle masse per la produzione”[3], sotto la direzione del governo; per la formazione di “comitati di semina” locali, allo scopo di allargare la produzione collettivizzata; e per 1a costituzione di depositi comuni di sementi, in cui i contadini sarebbero stati obbligati a raccogliere il loro grano; il governo si sarebbe incaricato della distribuzione di questo grano. Secondo lui tutte queste misure avrebbero portato naturalmente all’economia socialista in Russia.

Gli altri bolscevichi, come Lenin, cominciavano a vedere la necessità di un addolcimento, specialmente per i contadini, ma, nell’insieme, il partito difendeva violentemente i metodi del comunismo di guerra. Il risultato fu che la pazienza dei contadini cominciò a esaurirsi. Durante l’inverno ‘20-21 nel paese si ebbe tutta una serie d’insurrezioni contadine. Nella provincia di Tambow, 1a regione del medio Volga, l’Ucraina, 1a Siberia occidentale e molte altre regioni, i contadini si organizzarono in bande sommariamente armate, per lottare contro i reparti di approvvigionamento e la Ceka. Molto spesso le loro fila erano ingrossate da soldati dell’armata rossa, congedati da poco, che portavano alcune nozioni militari. In certe regioni si formarono enormi eserciti ribelli, a mezza strada tra bande di guerriglieri e orde di banditi. A Tambow, per esempio, 1’esercito di guerriglia di A.S. Antonov contava fino a cinquantamila uomini. Queste forze avevano poche motivazioni ideologiche, erano spinte soprattutto dal loro tradizionale risentimento di contadini verso 1a città e verso il governo accentratore e dai tradizionali sogni d’indipendenza e di autosufficienza della piccola borghesia rurale. Avendo già dovuto affrontare gli eserciti contadini di Makhno in Ucraina, i bolscevichi erano spaventati dalla possibilità di una rivolta contadina generalizzata contro il potere dei soviet. E’ per questo che non c’è da sorprendersi se essi assimilarono la rivolta di Kronstadt a questa minaccia che veniva dai contadini. Ed è sicuramente questa una delle ragioni della ferocia con cui venne repressa l’insurrezione di Kronstadt.

Quasi subito dopo a Pietrogrado scoppiarono scioperi selvaggi d’importanza molto maggiore. Lo sciopero, iniziato nella fabbrica metallurgica Truboc’ni, si estese rapidamente a molte delle industrie più grandi della città. Nelle assemblee di fabbrica e nelle manifestazioni venivano adottate risoluzioni che reclamavano un aumento delle razioni di alimenti e di vestiario, perché 1a maggior parte degli operai aveva fame e freddo. Di pari passo con queste rivendicazioni economiche, ne apparivano anche altre più politiche; gli operai volevano 1a fine delle restrizioni sui trasferimenti al di fuori della città, liberazione dei prigionieri appartenenti alla classe operaia, la libertà di espressione, ecc. Le autorità sovietiche della città, con Zinoviev alla loro testa, risposero denunciando gli scioperi come provocazioni controrivoluzionarie e decretando lo stato d’assedio in città, vietando le assemblee nelle strade e imponendo il coprifuoco alle ‘23. Senza dubbio alcuni elementi controrivoluzionari, come i Menscevichi o i Socialrivoluzionari, ebbero un certo ruolo in questi avvenimenti con il loro opportunistico estremismo “d’occasione”, ma il movimento di sciopero di Pietrogrado fu essenzialmente una risposta proletaria spontanea alle intollerabili condizioni di vita. Le autorità bolsceviche, tuttavia, non potevano ammettere che gli operai potessero scioperare contro lo “Stato Operaio”, e accusarono gli scioperanti di essere provocatori, parassiti ed individualisti. Essi cercarono anche di porre fine allo sciopero serrando le fabbriche, privando gli operai delle loro razioni, facendo arrestare dalla Ceka i capi e i portavoce più conosciuti degli operai. Queste misure repressive venivano accompagnate da concessioni: Zinoviev annunciò 1a fine dei blocchi stradali attorno alla città, l’acquisto di carbone all’estero per far fronte alla mancanza di combustibile e propose di metter fine alla requisizione dei cereali. Questa mescolanza di misure repressive e conciliatrici indusse la maggior parte dei lavoratori già sfiniti ad abbandonare 1a loro lotta nella speranza di un futuro migliore.

Ma 1a conseguenza più importante dell’ondata di scioperi di Pietrogrado fu 1a risonanza che essa ebbe nella vicina fortezza di Kronstadt. Già prima degli scioperi di Pietrogrado, 1a guarnigione di Kronstadt aveva intrapreso una lotta contro 1a burocratizzazione. Durante gli anni ‘20 e ‘21 i marinai della flotta rossa nel Baltico avevano combattuto le tendenze al rafforzamento della disciplina degli ufficiali e le deviazioni burocratiche del PUBALT (sezione politica della flotta del Baltico – l’organo del partito che dominava 1a struttura sovietica nella marina). Nel febbraio del ’21, in alcune assemblee di marinai, erano state votate delle mozioni che dichiaravano che “il PUBALT si è staccato non solo dalle masse, ma anche dai funzionari attivi e si è trasformato in organo burocratico che non gode più di alcuna autorità tra i marinai”[4].

Così quando giunsero le notizie degli scioperi di Pietrogrado e della dichiarazione di legge marziale da parte delle autorità, è probabile che già vi fosse del fermento tra i marinai. Il 28 febbraio essi mandarono una delegazione alle fabbriche di Pietrogrado per sapere che stava succedendo. Lo stesso giorno l’equipaggio dell’incrociatore Petropavlovsk si riunì per discutere della situazione ed adottò la seguente risoluzione:

“Dopo aver ascoltato il rapporto dei rappresentanti degli equipaggi inviati a Pietrogrado dall’assemblea generale dei marinai della flotta per esaminare 1a situazione, è stato deciso quanto segue:

1. di procedere immediatamente alla rielezione a scrutinio segreto dei soviet, dato che i soviet attuali non esprimono la volontà degli operai e dei contadini. A questo scopo dovrà svolgersi prima una libera propaganda elettorale affinché le masse operaie e contadine possano essere onestamente informate;

2. di esigere 1a libertà di parola e di stampa per gli operai e i contadini, per gli anarchici e per i socialisti di sinistra;

3. di esigere libertà di riunione per i sindacati operai e per le organizzazioni contadine;

4. di convocate entro il 10 marzo 1921 una conferenza degli operai senza partito, dei soldati e marinai di Pietrogrado, di Kronstadt e del dipartimento di Pietrogrado;

5. di liberare tutti i prigionieri politici dei partiti socialisti, tutti gli operai e contadini, soldati rossi e marinai arrestati in diverse agitazioni popolari;

6. di eleggere una commissione incaricata di esaminare i casi di tutti i detenuti trattenuti nelle prigioni e nei campi di concentramento;

7. di abolire tutte le “sezioni politiche” perché d’ora in poi nessun partito deve avere dei privilegi per 1a propaganda delle sue idee, né ricevere 1a minima sovvenzione dallo Stato per tale scopo. Al loro posto, noi proponiamo che siano elette in ogni città delle commissioni di cultura e di educazione finanziate dallo Stato;

8. di abolire immediatamente tutti gli sbarramenti militari;

9. di uniformare le razioni alimentari per tutti i lavoratori, salvo per coloro che esercitano mestieri particolarmente insalubri e pericolosi;

10. di abolire tutti i reparti speciali comunisti nelle unità dell’esercito, e 1a guardia comunista nelle fabbriche e nelle miniere. In caso di necessità questi corpi di difesa potranno essere designati dalle compagnie dell’esercito e dagli operai stessi nelle fabbriche;

11. di dare ai contadini la piena libertà di azione per ciò che concerne le loro terre, e il diritto di allevare del bestiame, a condizione che compiano da soli il loro lavoro, senza l’impiego di lavoratori salariati;

12. di chiedere a tutte le unità dell’esercito e ai compagni delle scuole di cadetti di solidarizzare con noi;

13. di esigere che questa risoluzione sia largamente diffusa dalla stampa;

14. di designare una commissione mobile incaricata di controllare questa diffusione;

15. di autorizzare la produzione artigianale libera purché non impegni il lavoro salariato.

Risoluzione adottata all’unanimità (meno due astensioni) dall’assemblea generale della prima e seconda squadra marittima[5].

Questa risoluzione divenne rapidamente il programma della rivolta di Kronstadt. Il primo marzo si tenne nella guarnigione un’assemblea di massa di 16.000 persone, ufficialmente prevista come un’assemblea della prima e seconda sezione d’incrociatore, ed a cui assistevano Kalinin, presidente dell’esecutivo dei soviet di tutte le Russie e Kouzmin, commissario politico della flotta del Baltico. Benché Kalinin fosse stato accolto con musica e bandiere, ben presto lui e Kouzmin si ritrovarono completamente isolati nell’assemblea. L’intera assemblea adottò la risoluzione del Petropavlovsk, ad eccezione di Kalinin e Kouzmin che intervennero in tono violentemente provocatorio per denunciare le iniziative di quelli di Kronstadt e si fecero odiare.

Il giorno seguente, il 2 marzo, ere il giorno in cui il Soviet di Kronstadt doveva essere rieletto. Di conseguenza 1’assemblea del primo marzo convocò una riunione dei delegati delle navi, delle unità dell’armata rossa, delle fabbriche e altri, per discutere della ricostituzione del soviet. Trecento delegati si incontrarono dunque il 2 marzo alla Casa della Cultura. Fu nuovamente adottata la risoluzione del Petropavlovsk ed in una mozione incentrata su “una riorganizzazione pacifica del regime dei soviet”[6] furono presentate delle proposte per le elezioni del nuovo soviet. In questa stessa occasione i delegati formarono un comitato rivoluzionario provvisorio (CRP) incaricato dell’amministrazione delle città e della difesa contro ogni intervento del Governo. Quest’ultimo compito era ritenuto urgentissimo poiché correva voce che ci sarebbe stato un attacco immediato da parte di distaccamenti bolscevichi ed a causa delle violente minacce di Kalimine Kouzmin. Questi ultimi si mostrarono così intrattabili che furono arrestati insieme con altri due personaggi ufficiali. Questo atto segnava una tappa decisiva verso l’ammutinamento dichiarato e come tale fu interpretato dal governo.

Il CRP assunse rapidamente. i suoi compiti. Cominciò a pubblicare i suoi Izvestia, il cui primo numero dichiarava: “Il partito comunista, che governa questo Stato, si è separato dalle masse. Si è dimostrato incapace di tirare fuori il paese dal caos. A Mosca ed a Pietrogrado si sono avuti recentemente innumerevoli incidenti che mostrano chiaramente che il Partito ha perso la fiducia delle masse operaie. Il partito trascura i bisogni della classe operaia perché crede che queste rivendicazioni siano frutto di attività controrivoluzionaria. In questo il Partito commette un grosso errore”. Izvestia del CRP, 3 marzo 1921[7].

La natura di classe della rivolta di Kronstadt

La risposta immediata del governo bolscevico alla ribellione è stata di denunciarla come una parte della cospirazione controrivoluzionaria contro il potere dei Soviet. Radio Mosca 1a definiva “complotto della Guardia bianca” e proclamava di avere prove che tutto era stato organizzato dal circolo degli emigrati a Parigi e dalle spie dell’Intesa. Benché queste falsificazioni siano utilizzate ancora oggi, quest’interpretazione degli avvenimenti non gode più di alcun credito, nemmeno presso storici semi trotskisti, come Deutscher, che è costretto ad ammettere che queste accuse non hanno alcun fondamento reale. Certamente tutte le carogne controrivoluzionarie, dalle Guardie bianche fino ai Social-rivoluzionari, tentarono di recuperare 1a ribellione e le offrirono il loro appoggio. Ma, se si eccettua l’aiuto “umanitario” della Croce Rossa russa, controllata dagli emigrati, il CRP respinse tutti gli approcci tentati dalle forze della reazione, proclamando che esso non lottava per il ritorno dell’Autocrazia o dell’Assemblea Costituente, ma per la rigenerazione del potere dei soviet e 1a sua liberazione dal dominio burocratico: “Sono i soviet il baluardo dei lavoratori, non l’assemblea costituente”[8], dichiarava l’Izvestia di Kronstadt. “A Kronstadt il potere è interamente nelle mani dei marinai, dei soldati rossi e degli operai rivoluzionari. Non appartiene alle guardie bianche comandate dal generale Kozlovsky[9], come afferma menzogneramente radio Mosca”[10].

Quando l’idea di un semplice complotto si rivelò essere una finzione, coloro che si identificano in modo non critico con la degenerazione del Bolscevismo pensarono a scuse più elaborate per giustificare 1a repressione che seguì alla rivolta di Kronstadt. In “Hue and Cry over Kronstadt” (New International, aprile 1938) questa è l’argomentazione di Trotsky: “E’ vero, Kronstadt nel ’17 è stato uno dei bastioni della rivoluzione proletaria. Ma durante 1a guerra civile gli elementi proletari rivoluzionari della guarnigione sono stati dispersi e sostituiti da elementi contadini imbevuti d’ideologia piccolo-borghese reazionaria. Questi elementi non potevano assolutamente adeguarsi ai rigori della Dittatura del Proletariato e della guerra civile, per questo motivo si ribellarono per indebolire la dittatura ed accaparrarsi delle razioni privilegiate (…). L’insurrezione di Kronstadt non era niente di più che una reazione armata della piccola-borghesia contro i sacrifici imposti dalla rivoluzione sociale e 1’austerità della Dittatura del Proletariato”. Egli prosegue dicendo che i lavoratori di Pietrogrado, che contrariamente ai Dandy di Kronstadt sopportavano questi sacrifici senza lamentarsi, erano stati “disgustati” dalla ribellione, sentendo che gli “ammutinati di Kronstadt erano dall’altra parte della barricata” e per questo “essi hanno dato il loro appoggio al potere dei Soviet”.

Noi non vogliamo passare troppo tempo ad esaminare questi argomenti: sono sufficienti i fatti già citati per discreditarli. L’affermazione che gli insorti di Kronstadt reclamassero razioni privilegiate per se stessi può essere smentita semplicemente ricordando il punto 9 della risoluzione del Pétropavlovsk che chiedeva razioni uguali per tutti. Analogamente, questa visione degli operai di Pietrogrado che docilmente danno il loro appoggio alla repressione è completamente smentita nella realtà dalle ondate di scioperi che hanno preceduto la rivolta. Nel momento in cui è scoppiata 1a rivolta di Kronstadt, questo movimento era già in gran parte rifluito ma, nonostante ciò, importanti frazioni del proletariato di Pietrogrado continuarono a sostenere attivamente gli insorti. Il 7 marzo, giorno in cui iniziò il bombardamento, i lavoratori dell’Arsenale tennero una riunione in cui fu eletta una commissione incaricata di lanciare uno sciopero generale per sostenere 1a ribellione. Gli scioperi intanto continuavano a Pouhlov, Battisky, Obukov e nelle altre principali industrie.

D’altra parte, noi non negheremo 1a presenza di elementi piccolo-borghesi nel programma e nell’ideologia degli insorti così come nel personale della flotta e dell’esercito. Ma tutte le insurrezioni operaie trascinano con loro una quantità di elementi piccolo-borghesi e reazionari, il che non cambia in nulla il carattere fondamentalmente operaio del movimento. E’ stato sicuramente il caso della stessa insurrezione di Ottobre, che godette del sostegno e della partecipazione attiva di elementi contadini, e nelle forze armate e nelle campagne. Il fatto che gli insorti di Kronstadt avessero una larga base operaia può essere provato dalla composizione dell’assemblea di delegati del 2 marzo, i quali erano, in gran parte, proletari delle fabbriche e delle unità navali della guarnigione, e dalla composizione dell’insieme del CRP eletto da questa assemblea, che era costituito da lavoratori e marinai di lunga data, che avevano preso parte al movimento rivoluzionario almeno dal ‘17[11]. Ma questi fatti sono meno importanti del contesto generale della rivolta; questa è nata nel corso di un movimento di lotta della classe operaia contro 1a burocratizzazione del regime, essa s'identificava con questa lotta e si considerava un momento della sua generalizzazione.

“I lavoratori del mondo intero sappiano che noi, i difensori del potere dei soviet, difendiamo le conquiste della rivoluzione sociale. Noi vinceremo o periremo nelle rovine di Kronstadt, battendoci per 1a giusta causa delle masse proletarie”[12].

Benché gli ideologi della piccola-borghesia, gli anarchici parlino di Kronstadt come della loro rivolta, nonostante che il programma degli insorti e 1a loro fraseologia abbia indubbiamente risentito di influenze anarchiche, le rivendicazioni degli insorti non possono essere considerate semplicemente anarchiche. Essi non reclamavano un’abolizione astratta dello Stato, ma 1a rigenerazione del potere dei soviet. Essi non volevano affatto abolire i “partiti” in quanto tali. Benché molti insorti abbiano durante la rivolta abbandonato il partito bolscevico e benché essi abbiano pubblicato molte confuse risoluzioni sulla “tirannia comunista”, essi non hanno reclamato, come è stato molto spesso affermato, “i Soviet senza i Comunisti”. Il loro slogan era “libertà d’agitazione per i differenti gruppi della classe operaia” e “il potere ai soviet, non ai Partiti”. Malgrado tutte le ambiguità presenti in queste parole d’ordine, esse esprimevano un rigetto istintivo dell’idea del partito che si sostituisce alla classe, idea che è stata uno dei fattori principali che hanno contribuito alla degenerazione del bolscevismo.

E’ questo uno dei tratti caratteristici della ribellione. Essa non era sostenuta da un’analisi politica chiara e coerente della degenerazione della rivoluzione[13]. Tali analisi coerenti dovrebbero trovare la loro espressione in seno alle minoranze comuniste, anche se in certe specifiche occasioni, queste minoranze possono trovarsi indietro rispetto alla coscienza spontanea della classe nel suo insieme. Nel caso della Rivoluzione Russa, ci sono voluti decenni di ardua riflessione all’interno della Sinistra Comunista Internazionale, per arrivare ad una comprensione coerente di che cosa era 1a degenerazione. Il significato della rivolta di Kronstadt è quello di una reazione elementare del proletariato a questa degenerazione, una delle ultime manifestazioni di massa delia classe operaia russa di quell’epoca. A Mosca, Pietrogrado e Kronstadt, i lavoratori hanno mandato un disperato SOS per salvare 1a rivoluzione russa che si avviava verso il suo declino.

Kronstadt e la NEP

Si è discusso molto a proposito del rapporto tra le rivendicazioni degli insorti e 1a NEP (Nuova Politica Economica). Per gli stalinisti impenitenti dell’Organizzazione Comunista Inglese ed Irlandese, B&ICO[14], la ribellione ha dovuto essere schiacciata perché il suo programma economico di baratto e libero scambio era una reazione piccolo-borghese al processo di “costruzione del socialismo” in Russia – “Socialismo naturalmente significa 1a centralizzazione più completa possibile del Capitalismo di Stato. Ma nello stesso tempo B&ICO difende 1a NEP come una tappa verso il socialismo! All’altra estremità del ventaglio, l’anarchico Murray Bookchin, nella sua introduzione all’edizione canadese de “La Comune di Kronstadt”[15] descrive il paradiso libertario che sarebbe potuto esistere se soltanto il programma economico dei ribelli fosse stato applicato:

“Una vittoria dei marinai di Kronstadt avrebbe potuto aprire nuove prospettive alla Russia: una forma ibrida di sviluppo sociale in cui avrebbero potuto coesistere il controllo operaio sulle fabbriche ed il libero commercio dei prodotti agricoli, fondato su un'economia contadina su piccola scala e delle comunità agricole volontarie”.

Bookchin aggiunge in seguito, misteriosamente, una tale società sarebbe potuta sopravvivere soltanto se contemporaneamente in occidente ci fosse stato un movimento rivoluzionario vittorioso. Ma ci si può giustamente chiedere come questi sogni autogestionistici da piccoli bottegai avrebbero potuto rappresentare una minaccia per il Capitale mondiale!

In ogni modo, tutta questa controversia ha poco interesse per dei comunisti. Una volta sconfitta l’ondata rivoluzionaria mondiale, nessun tipo di politica economica, comunismo di guerra, tentativi d’autarchia, NEP o programma di Kronstadt avrebbe potuto salvare 1a Rivoluzione. D’altronde molte delle rivendicazioni puramente economiche presentate dai ribelli erano, più e meno, incluse nella NEP. Come programmi economici, sono entrambi inadeguati, e sarebbe assurdo per i rivoluzionari di oggi rivendicare il baratto o il libero scambio come misure economiche adeguate per una roccaforte proletaria, anche se, in situazioni critiche, può essere impossibile eliminarli. La differenza fondamentale tra il programma di Kronstadt e 1a NEP era la seguente: mentre quest’ultima doveva essere instaurata dall’alto, dalla burocrazia di Stato nascente in collaborazione con le direzioni private ed i capitalisti rimasti, senza alcuna restaurazione della democrazia proletaria, gli insorti di Kronstadt ponevano come condizione preliminare allo sviluppo ulteriore della rivoluzione, 1a restaurazione dell’autentico potere dei Soviet e 1a fine della Dittatura Statale del Partito bolscevico.

Questo è il nodo del problema. E’ inutile oggi discutere per capire quale politica economica era la più “socialista” in quel momento. Il socialismo non poteva essere costruito soltanto in Russia. I ribelli di Kronstadt lo capivano forse meno dei bolscevichi più illuminati. Gli insorti, per esempio, parlavano dell’instaurazione di un “socialismo libero” (indipendente) in Russia, senza mettere l’accento sulla necessità dell’estensione della rivoluzione su scala mondiale, prima che il socialismo possa essere costruito.

“Kronstadt rivoluzionaria combatte per un socialismo di tipo diverso, per una repubblica sovietica dei lavoratori, in cui il produttore sia padrone di se stesso e possa disporre del prodotto come gli sembra meglio”[16].

La valutazione prudente di Lenin sulle possibilità di progressi “socialisti” in Russia in quel momento, benché l’abbia portato a conclusioni reazionarie, era nei fatti più conforme alla realtà delle speranze degli insorti di Kronstadt con 1a loro comune autogestita all’interno della Russia.

Ma Lenin e 1a direzione bolscevica, prigionieri dell’apparato statale, non riuscirono a capire il vero messaggio che veniva da Kronstadt, nonostante 1a confusione e le idee mal formulate degli insorti: 1a rivoluzione non può avanzare se non sono i lavoratori a dirigerla. La condizione preliminare fondamentale per la difesa e l’estensione della rivoluzione in Russia era tutto il potere ai Soviet, in altri termini, la riconquista dell’egemonia politica da parte delle masse operaie. Come è sottolineato nel testo “Degenerazione della Rivoluzione Russa”, 1a questione del potere politico è di gran lunga la più importante. Il proletariato al potere può fare progressi economici notevoli, o essere obbligato a sopportare arretramenti economici, senza che 1a Rivoluzione sia persa. Ma una volta sgretolatosi il potere politico della classe, nessuna misura economica, qualunque essa sia, può salvare la Rivoluzione. E’ perché gli insorti di Kronstadt lottavano per la conquista di questo indispensabile potere politico del proletariato che i rivoluzionari di oggi devono riconoscere nella lotta di Kronstadt una difesa delle posizioni di classe fondamentali.

L’annientamento della rivolta

La direzione bolscevi.ca reagì con estrema ostilità alla ribellione di Kronstadt. Abbiamo già ricordato il comportamento provocatorio di Kuzmin e Kalinin all’interno della stessa guarnigione, le menzogne diffuse da radio Mosca che diceva trattarsi di un tentativo controrivoluzionario della Guardia bianca. L’atteggiamento intransigente del governo bolscevico eliminò radicalmente ogni possibilità di compromesso o di discussione. L’ultimatum perentorio indirizzato da Trotsky alla guarnigione chiedeva unicamente la resa incondizionata e non faceva nessuna offerta di concessioni alle rivendicazioni degli insorti. L’appello a Kronstadt emesso da Zinoviev e dal comitato di difesa di Pietrogrado (l’organo che aveva imposto la legge marziale nella città dopo l’ondata di scioperi) è ben noto per 1a sua crudeltà: “Se vi ostinate, sarete infilzati come pernici”. Zinoviev fece anche prendere in ostaggio le famiglie degli insorti, col pretesto che degli ufficiali bolscevichi erano stati arrestati dal CRP (nessuno di questi aveva subito torto). Queste azioni furono denunciate come vergognose dagli insorti, che rifiutarono di abbassarsi a questo livello. Durante l’assedio della fortezza, le unità dell’amata rossa mandate a domare 1a ribellione erano costantemente sull’orlo della demoralizzazione. Ci furono anche casi di fraternizzazione con gli insorti. Per “assicurarsi” 1a lealtà dell’esercito, eminenti dirigenti bolscevichi, e tra di loro alcuni membri dell’opposizione operaia, che tenevano a prendere le distanze dall’insurrezione, furono mandati dal X Congresso del partito, allora in corso, a condurre l’assedio. Contemporaneamente la CEKA teneva i fucili puntati sulla schiena dei soldati per essere maggiormente sicuri che nessun accenno di demoralizzazione potesse propagarsi.

Quando alla fine la fortezza cadde, centinaia di insorti furono massacrati, giustiziati in modo sommario o condannati rapidamente a morte dalla CEKA. Gli altri furono mandati in campo di concentramento. La repressione fu sistematicamente spietata. Per cancellare ogni traccia della rivolta, la guarnigione fu sottomessa al controllo militare. Il Soviet fu disciolto e fu fatta una purga di tutti gli elementi dissidenti. Anche i soldati che avevano partecipato alla repressione dell’insurrezione furono rapidamente dispersi in varie unità per impedire che i “microbi di Kronstadt” potessero propagarsi. Misure analoghe furono prese in marina per le unità “soggette a cauzione”.

Lo sviluppo degli avvenimenti in Russia negli anni successivi alla rivolta rende assurde le dichiarazioni secondo cui la repressione dell’insurrezione fosse una “necessità tragica” per la difesa della rivoluzione. I bolscevichi credevano, su questo strategico porto di frontiera, di difendere la rivoluzione contro 1a minaccia della reazione, rappresentata dalla Guardia bianca. Ma quali che fossero le intenzioni dei bolscevichi, nei fatti, attaccando i ribelli, essi attaccavano la sola reale difesa che la rivoluzione potesse avere: l’autonomia della classe operaia ed il potere diretto del proletariato. Facendo ciò, si sono comportati essi stessi come agenti della controrivoluzione ed hanno contribuito a sgombrare la strada per il trionfo finale della controrivoluzione borghese sotto la forma dello stalinismo.

La ferocia estrema con cui il governo ha represso l’insurrezione ha condotto alcuni rivoluzionari alla conclusione che nel 1921 il Partito Bolscevico fosse chiaramente ed apertamente capitalista, esattamente come lo sono oggi gli Stalinisti ed i Trotskysti. Noi non vogliamo iniziare una lunga discussione sul momento preciso in cui il partito è passato irrimediabilmente dalla parte della borghesia e, in ogni caso, respingiamo il metodo che tenta di chiudere in un rigido schema di date 1a comprensione del processo storico.

Ma dire che nel 1921 il Partito Bolscevico era “capitalista e basta”, significa che, nei fatti, dagli avvenimenti di Kronstadt non abbiamo nulla da imparare, tranne la data della morte della rivoluzione. Dopo tutto le insurrezioni operaie sono sempre represse dai capitalisti e non è che dobbiamo “impararlo” continuamente. Kronstadt può insegnarci qualcosa di nuovo soltanto se riconosciamo che si tratta di un capitolo della storia dei Proletariato, di una tragedia nel campo proletario. Il problema reale con cui si confrontano i rivoluzionari oggi è com’è potuto accadere che un partito proletario sia arrivato ad agire come hanno agito i Bolscevichi a Kronstadt nel 1921, ed in che modo ci si può assicurare che cose di questo tipo non avvengano mai più. Insomma quali sono le lezioni di Kronstadt?

Le lezioni di Kronstadt

La rivolta di Kronstadt chiarisce in modo drammatico quelle che sono le lezioni fondamentali di tutta 1a rivoluzione russa, le sole "conquiste" della rivoluzione d’ottobre che rimangono oggi in possesso della classe operaia.

I - La rivoluzione proletaria o è internazionale o non è

La rivoluzione proletaria può essere vittoriosa soltanto su scala mondiale. E’ impossibile abolire il capitalismo o costruire il socialismo “in un solo paese”. La rivoluzione non sarà salvata da programmi di riorganizzazione economica in un paese, ma soltanto dalla estensione del potere politico del proletariato su tutta la terra. Senza tal estensione la degenerazione della rivoluzione è inevitabile, quale che sia il numero di cambiamenti apportati all’economia. Se 1a rivoluzione rimane isolata, il potere politico del proletariato sarà abbattuto o da un’invasione dall’esterno o dalla violenza interna, come è accaduto a Kronstadt.

II – La dittatura del proletariato non è quella di un partito

Ciò che ha fatto della rivoluzione russa e, in particolare, del massacro di Kronstadt una tragedia, è stato che il partito del proletariato, il partito Bolscevico, ha ritenuto che fosse suo compito impossessarsi del potere Statale e difenderlo contro 1a stessa classe operaia nel suo insieme. Per questo motivo, quando lo Stato si è separato dalla classe e si è mosso contro di esso, come a Kronstadt, i Bolscevichi hanno considerato che il loro posto fosse nello Stato che si batteva contro la classe e non con 1a classe che si batteva contro 1a burocratizzazione delle Stato.

Oggi i rivoluzionari devono affermare come un principio fondamentale che il ruolo del partito non è quello di prendere il potere in nome della classe. Solo la classe operaia nel suo insieme, organizzata nei suoi comitati di fabbrica, le sue milizie ed i suoi consigli operai, può prendere il potere politico e dar luogo alla trasformazione comunista della società. Il partito deve essere un fattore attivo nello sviluppo della coscienza proletaria, ma non può creare il comunismo “in nome” della classe. Una tale pretesa può soltanto portare, com’è accaduto in Russia, alla dittatura del partito sulla classe, alla soppressione dell’attività autonoma del proletariato, sotto il pretesto che “il partito è meglio”.

Contemporaneamente, l’identificazione del partito con lo Stato, cosa naturale per un partito borghese, può solo trascinare i partiti proletari nella corruzione e nel tradimento. Un partito del proletariato deve costituire la frazione più radicale e più avanzata della classe, che è essa stessa 1a classe più dinamica della storia. Caricare il partito del fardello dell’amministrazione degli affari dello Stato, che, per sua definizione, può solo avere una funzione conservatrice, significa negare ogni ruolo del partito e strangolare 1a sua creatività rivoluzionaria. La burocratizzazione progressiva del partito bolscevico, 1a sua incapacità crescente di separare gli interessi della classe rivoluzionaria da quelli dello Stato dei soviet, la sua degenerazione in macchina amministrativa, tutto ciò è il prezzo pagato dagli stessi bolscevichi per le loro concezioni sul “partito che esercita il potere dello Stato”.

III – Nessun rapporto di forza all’interno della classe operaia

Il principio che nessuna minoranza, per quanto illuminata essa sia, possa prendere il potere al posto e sulla classe operaia, va di pari passo con quello che non può esserci nessun rapporto di forza o di violenza all’interno della stessa classe operaia. La democrazia proletaria non è un lusso di cui si possa fare a meno in nome dell’“efficacia”, ma è 1a sola garanzia della buona riuscita della rivoluzione e della possibilità per 1a classe di trarre insegnamenti dalle proprie esperienze. Anche se delle frazioni della classe hanno manifestamente torto, la linea “giusta” non può essere loro imposta da un’altra frazione, che questa sia maggioritaria o no. Solo una totale libertà di dibattito all’interno degli organi autonomi della classe (assemblee, consigli, partito, …) può risolvere i conflitti ed i problemi della classe. Ciò implica anche che tutta 1a classe abbia libero accesso ai mezzi di comunicazione (stampa, radio, TV, etc...) conservi il diritto di sciopero e possa rimettere in questione le direttive degli organi Statali.

Anche se i marinai di Kronstadt hanno avuto torto, 1a durezza delle misure prese dal governo bolscevico è stata totalmente ingiustificata. Tali azioni possono solo distruggere la solidarietà e la coesione all’interno della classe e generare demoralizzazione e dispersione. La violenza rivoluzionarla è un’arma che il proletariato è costretto a utilizzare nella sua lotta contro la classe capitalista. Il suo uso contro le altre classi non sfruttatrici deve essere, finché è possibile, ridotto al minimo, ma all’interno del proletariato, essa non deve ave alcun posto.

IV La dittatura del proletariato non è lo Stato

All’epoca della rivoluzione russa c’era una grossa confusione all’interno del movimento operaio, che identificava 1a dittatura del proletariato con lo Stato sorto dopo il rovesciamento del regime zarista, cioè il Congresso dei delegati operai, soldati e contadini dei Soviet di tutte le Russie.

Ma 1a dittatura del proletariato, che funziona attraverso gli organi specifici della classe operaia, cioè le assemblee di fabbrica ed i consigli operai, non è un’istituzione, ma uni stato di fatto, un movimento reale dell’intera classe. Il fine cui tende la dittatura del proletariato non è lo stesso cui tende uno Stato come esso è inteso dai marxisti. Lo Stato è l’organo sovrastrutturale prodotto dalla società di classe, la cui funzione è di mantenere i rapporti sociali dominanti, lo statu quo tra le classi. La dittatura del proletariato, al contrario, ha come unico fine la trasformazione dei rapporti sociali e l’abolizione delle classi. Sello stesso tempo, i marxisti hanno sempre affermato la necessità dello Stato in un periodo di transizione al comunismo, dopo l’abolizione del potere politico borghese. E’ per questo che lo Stato russo sovietico, come 1a Comune di Parigi, è stato un prodotto inevitabile della società di classe che esisteva in Russia dopo il ‘17.

Alcuni rivoluzionari difendono l’idea che il solo Stato che possa esistere, dopo la distruzione del potere politico borghese, sono gli stessi consigli operai. E’ vero che i consigli operai devono assicurare 1a funzione che ha sempre costituito una delle principali caratteristiche dello Stato: l’esercizio del monopolio della violenza. Ma chiamare, per questo motivo, Stato i consigli operai significa ridurre il ruolo dello Stato a quello di un semplice organo di violenza e nient’altro. Allora, secondo tali concezioni, lo Stato borghese oggi sarebbe soltanto composto dalla polizia e dall’esercito e non dal parlamento, dalle municipalità, dai sindacati e da innumerevoli altre istituzioni che mantengono l’ordine capitalista, senza l’uso immediato della repressione. Queste istituzioni sono organi dello Stato poiché servono a difendere l’ordine sociale esistente, a mantenere gli antagonismi di classe in un quadro accettabile. I consigli operai, al contrario, rappresentano 1a negazione attiva di questa funzione dello Stato, perché essi sono prima e soprattutto organi di trasformazione sociale radicale e non organi di statu quo.

Ma il fatto fondamentale è che aspettarsi che le sole istituzioni che esisteranno nel periodo di transizione siano i consigli operai è solo un pio desiderio. Una rivoluzione non segue le previsioni semplicistiche di certi rivoluzionari. L’immenso sconvolgimento sociale, rappresentato dalla rivoluzione, genera ogni specie d’istituzioni, non solo quelle della classe operaia sui luoghi di produzione, ma quelle di tutta 1a popolazione che era oppressa dalla classe capitalista. In Russia, i soviet e gli altri organi popolari apparvero non solo nelle fabbriche ma dappertutto, nell’esercito, nella marina, nei paesi, nei quartieri delle città. Non si tratta solo del fatto che “i bolscevichi cominciavano a costruire uno Stato, che aveva un’esistenza separata dall’organizzazione di massa della classe” (Workers Voice, n°14). E’ vero che i Bolscevichi banno contribuito attivamente alla burocratizzazione dello Stato, abbandonando il principio delle elezioni e istituendo innumerevoli commissioni al di fuori dei Soviet, ma non furono i Bolscevichi a creare lo “Stato sovietico”. Si tratta di qualcosa che è nato dal terreno stesso della società russa dopo Ottobre, ed è accaduto perché 1a società doveva dar vita ad un’ istituzione capace di contenere i suoi antagonismi di classe profondi. Dire che possono esistere solo i consigli operai significa predicare 1a guerra civile permanente, non solo tra classe operaia e borghesia (il che è ovviamente necessario) ma anche tra la classe operaia tutti gli altri strati sociali e categorie. In Russia ciò avrebbe significato una guerra tra i soviet operai e quelli di soldati e contadini. Ci sarebbe stata una terribile perdita di energia ed una deviazione in rapporto al compito primitivo della rivoluzione: l’estensione al mondo intero della rivoluzione contro 1a classe capitalista[17].

Ma se, da un certo punto di vista, questo Stato dei soviet era il prodotto inevitabile della società post-insurrezionale, c’è un gran numero di gravi pecche nelle sue strutture e nel suo funzionamento, dopo l’insurrezione d’Ottobre, che possono essere messe in evidenza, tenendo completamente al di fuori il fatto più grave che esso fosse controllato dal Partito.

a) Nel funzionamento reale dello Stato, erano continuamente abbandonati i principi fondamentali stabiliti dall’esperienza della Comune nel 1871 e riaffermati da Lenin in “Stato e Rivoluzione” nel 1917: tutti i funzionari eletti e revocabili in ogni momento, remunerazione dei funzionari dello Stato uguale a quella degli operai, armamento permanente del proletariato. Sempre più sorgevano commissioni ed uffici su cui 1a classe operaia non aveva alcun controllo (consigli economici, CEKA, etc.). Le elezioni erano costantemente rimandate, ritardate, o truccate. I privilegi goduti dai personaggi ufficiali dello Stato erano, con l’andare del tempo, diventati un luogo comune. Le milizie operaie furono dissolte nell’armata rossa, che non era sotto il controllo né dei consigli operai, né dei soldati di leva.

b) I consigli operai, i comitati di fabbrica e gli altri organi del proletariato, rappresentavano solo una parte tra le altre dell’apparato Statale (benché i lavoratori avessero diritto di voto preferenziale). Invece di avere la garanzia dell’autonomia e dell’egemonia su tutte le altre istituzioni sociali, questi organi tendevano sempre più non solo ad essere integrati nell’apparato generale dello Stato, ma anche ad essergli subordinati. Il potere proletario, invece di manifestarsi attraverso il canale degli organi specifici della classe, è stato identificato con l’apparato statale. Ancora di più, il postulato specioso che si trattava di uno Stato “proletario”, “socialista”, ha condotto i bolscevichi a sostenere che i lavoratori non potevano avere alcun diritto o interesse diverso da quelli dello Stato. In conseguenza di ciò, ogni resistenza allo Stato da parte dei lavoratori non poteva essere che controrivoluzionaria. Questa concezione profondamente errata è stata alla base della reazione dei Bolscevichi di fronte agli scioperi di Pietrogrado e all’insurrezione di Kronstadt.

In futuro, i principi della Comune, dell’autonomia della classe operaia non devono solo essere messi sulla carta, ma difesi come condizione fondamentale del potere proletario sullo Stato. La vigilanza del proletariato di fronte all’apparato Statale non deve mai allentarsi, perché l’esperienza russa e, soprattutto, si fatti di Kronstadt hanno dimostrato che la controrivoluzione può benissimo manifestarsi attraverso il canale dello Stato post-insurrezionale e non solo attraverso quello di un’aggressione borghese dall’“esterno”.

Di conseguenza, per avere la sicurezza che lo Stato-comune rimanga uno strumento del potere proletario, 1a classe operaia non può identificare la sua dittatura con questo apparato ambiguo e soggetto a cauzione, ma soltanto con i suoi organi di classe autonomi. Questi organi devono controllare, senza tregua, il lavoro dello Stato a tutti i livelli, esigendo la massima rappresentanza dei delegati dei consigli operai nel congresso generale dei soviet, l’unificazione autonoma permanente della classe operaia all’interno di questi consigli, il potere decisionale dei consigli operai su ogni proposta dello Stato. I lavoratori devono, soprattutto, impedire allo Stato di interferire politicamente o militarmente con i suoi propri organi di classe; d’altra parte la classe operaia deve mantenere la sua capacità di esercitare la propria dittatura su e contro lo Stato, se ce n’è bisogno, con 1a violenza. Questo significa che la classe operaia deve garantire 1a propria autonomia di classe grazie all’armamento generale del proletariato. Se durante la guerra civile diventa necessario creare un’“armata rossa” regolare, questa forza deve essere completamente subordinata politicamente ai Consigli operai e sciolta dopo che 1a borghesia è stata militarmente vinta. E, in nessun momento, possono essere sciolte le milizie proletarie nelle fabbriche.

L’identificazione del partito con lo Stato, dello Stato con la classe ha trovato la sua conclusione logica a Kronstadt, dove il partito si è messo dalla parte dello Stato contro 1a classe. Quando nel 1921 la rivoluzione russa è rimasta isolata, lo Stato, pe sua definizione guardiano dello statu quo, è diventato il guardiano della stabilizzazione del capitale e dell’asservimento dei lavoratori. Malgrado tutte le sue buone intenzioni, la direzione bolscevica, che per molti anni ancora ha continuato a sperare nell’alba salvatrice della rivoluzione mondiale, è stata costretta ad agire, per il suo coinvolgimento nella macchina statale, come un ostacolo alla Rivoluzione mondiale ed è stata trascinata verso il trionfo finale della controrivoluzione stalinista. Alcuni Bolscevichi cominciarono ad accorgersi che non era il partito che controllava lo Stato, ma lo Stato che controllava il partito. Come lo stesso Lenin diceva:

“La macchina sfugge dalle mani di chi 1a guida; si direbbe che qualcuno sia seduto al volante e guidi questa macchina, che però non va nella direzione voluta, quasi fosse guidata da una mano segreta, illegale, Dio solo sa da chi, forse da uno speculatore o da un capitalista privato o da tutti e due insieme. II fatto è che la macchina va non nella direzione che crede chi siede al volante, anzi talvolta va nella direzione opposta”[18].

Gli ultimi anni della vita di Lenin videro la sua lotta senza speranza contro 1a burocrazia nascente, a base di progetti futili come quello dell’“Ispezione dei lavoratori e contadini” secondo cui 1a burocrazia si sarebbe venuta a trovare sotto 1a sorveglianza di una nuova commissione burocratica! Ciò che egli non poteva ammettere, ciò che non poteva vedere, era che il sedicente Stato proletario era diventato una pura e semplice macchina borghese, un apparato di regolamentazione dei rapporti sociali capitalisti e, di conseguenza, non poteva che essere del tutto inaccessibile ai bisogni della classe operaia. Il trionfo dello stalinismo non è stato altro che il riconoscimento cinico di questo fatto, l’adattamento finale e definitivo del partito al suo ruolo di capomastro dello Stato capitalista. Questo è stato il significato reale della dichiarazione del “Socialismo in un solo paese” del 1924.

L’insurrezione di Kronstadt ha messo il partito davanti ad una scelta storica estremamente grave: o continuare a dirigere questa macchina borghese ed in tal modo finire come un partito del capitale, o separarsi dallo Stato ed essere a fianco dell’intera classe operaia nella sua lotta contro questa macchina, questa personificazione del capitale. Scegliendo 1a prima via, i Bolsceviche hanno firmato 1a loro condanna a morte come partito del proletariato ed hanno dato il via al processo controrivoluzionario che si è manifestato apertamente nel 1924. Dopo il ‘21, solo le frazioni bolsceviche, che avevano iniziato a capire 1a necessità di identificarsi direttamente con 1a lotta della classe operaia contro lo Stato, potevano restare rivoluzionarie e capaci di partecipare alla battaglia internazionale dei comunisti di sinistra contro la degenerazione della III Internazionale. Così, per esempio, il “Gruppo operaio” di Miasnikov ha avuto un ruolo attivo nello sciopero selvaggio che scoppiò in Russia nell’agosto e settembre 1923. Ciò al contrario dell’opposizione di sinistra diretta da Trotsky, la cui lotta contro la frazione stalinista si è situata sempre all’interno della burocrazia e non ha mai fatto alcun tentativo di collegarsi alla lotta operaia contro ciò che i trotskisti definiscono uno Stato “operaio” ed un’“economia operaia”. La loro incapacità iniziale di staccarsi dalla macchina Stato-Partito lasciava già prevedere l’evoluzione ulteriore del trotskismo in appendice “critica” della controrivoluzione stalinista.

Ma raramente le scelte “storiche” sono chiare nel momento in cui devono essere fatte. Gli uomini fanno 1a loro storia in condizioni oggettive definite, e le tradizioni delle generazioni passate pesano “come un incubo sul cervello dei viventi” (Marx). Questo peso d’incubo del passato schiacciava i Bolsceviche e solo il trionfo rivoluzionario del proletariato occidentale avrebbe potuto sopprimere questo peso e permettere ai bolscevichi o almeno ad una notevole frazione del partito di capire quali erano i loro errori e di essere rigenerati dalla creatività inesauribile del Movimento Proletario Internazionale.

Le tradizioni della socialdemocrazia, l’arretratezza della Russia, più tutti i fardelli del potere Statale nel contesto di un’ondata rivoluzionaria in riflusso, tutti questi fattori contribuirono a determinare 1a posizione che i bolscevichi presero a Kronstadt. Come abbiamo visto, l’Opposizione operaia nel partito si era affrettata a prendere le distanze dall’insurrezione ed a partecipare all’assalto della guarnigione. Anche quando l’Ultrasinistra russa andò al di là delle timide proteste dell’Opposizione operaia e rientrò nella clandestinità, non riuscì a tirare le dovute lezioni dall’insurrezione e fece pochi riferimenti ad essa nelle sue critiche al regime.

Il KAPD ha criticato 1a repressione dell’insurrezione in modo incompleto e non ha cercato di sostenere la ribellione stessa. In breve, furono pochi i comunisti che compresero allora il significato profondo dell’insurrezione e ne trassero le lezioni essenziali. Tutto ciò testimonia del fatto che il proletariato non impara le lezioni fondamentali della lotta di classe di colpo, ma soltanto attraverso l’accumulazione di esperienze dolorose, lotte sanguinose ed un’intensa riflessione teorica. Il compito dei rivoluzionari oggi non è quello di emettere giudizi morali astratti sul passato movimento operaio, ma di concepire se stessi come un prodotto di questo movimento capace di fare una critica spietata di tutti gli errori del movimento, ma pur sempre un suo prodotto. Altrimenti 1a critica del passato da parte dei rivoluzionari non avrebbe alcun posto nella lotta reale della classe operaia. E’ solo vedendo i protagonisti che si affrontavano a Kronstadt come gli attori tragici della nostra classe, della nostra propria storia, che noi comunisti possiamo oggi pretendere con diritto di denunciare l’azione dei Bolscevichi e dichiarare la nostra solidarietà con gli insorti. E’ soltanto vedendo gli avvenimenti di Kronstadt come un momento del movimento storico della classe che si può sperare di capire gli insegnamenti di questa esperienza affinché essi siano applicati nella pratica presente e futura. Solo così potremo essere sicuri che non vi sarà mai più un’altra Kronstadt.

C.D. Ward, agosto 1975

 


[1] Averich, Kronstadt 1921. Oscar Mondadori 1971, pag. 28.

[2] Rapporto del III Congresso dei Sindacati di tutte le Russie. Mosca 1920.

[3] N. Ossinsky Gosudarstvemica regulizovenie Krest’iankogo Khoziastva. Mosca 1920, pag. 8 e 9.

[4] Ida Mett, La Rivolta di Kronstadt, Partisan Edizioni, pag. 32.

[5] Le Izvestija di Kronstadt. Piccola serie Jaca Book, Milano 1972, pag. 24-25.

[6] Ibidem, pag. 23.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem, pag. 88.

[9] Koslowsky era un ex-ufficiale zarista che aveva aderito come “tecnico” alla rivoluzione bolscevica ed era stato nominato dai comunisti comandante dell’artiglieria di Kronstadt. Continuò a prestare servizio durante la rivolta senza esercitare alcuna autorità sul movimento. Al contrario “ufficiali” ex-zaristi ebbero un ruolo assai maggiore tra gli attaccanti che non tra i difensori. I comandanti dei settori Nord e Sud, Kosansky e Sedianin, nonché i loro superiori Tukacevsky e S. Kamenev, (omonimo del noto bolscevico) erano stati tutti ufficiali dell’esercito imperiale. (Avrich, op. cit., pag. 191).

[10] Appello del C.R.P, ne Le Izvestija di Kronstadt, op. cit., pag. 39).

[11] Vedere l’elenco dei membri di questo comitato ne Le Izvestija …, op.cit., pag. 31,39 e 88.

[12] Ibidem, pag. 52.

[13] L’inconsistenza programmatica della rivolta - ciò che conferma il suo carattere spontaneo - è confermato dal fatto che alcuni degli scampati al massacro accettarono in seguito di collaborare con emigrati bianchi in Finlandia. (Avrich, op.cit., pag. 120). E’ però sintomatico che ciò avvenga solo dopo la caduta di Kronstadt e 1a sanguinosa repressione che ne seguì, nel clima di completa demoralizzazione dei superstiti, privi di ogni via di uscita.

[14] Problemi del comunismo n°3.

[15] Black Rose Book. Montreal 1971.

[16] Le Izvestija di Kronstadt, op.cit., page 116.

[17] Ciò non implica che noi condividiamo 1a visione del “potere degli operai e dei contadini” che è propria sia dei bolscevichi che degli insorti di Kronstadt. Alla prossima ondata rivoluzionaria la classe operaia dovrà affermare che essa è la sola classe rivoluzionaria. E’ per questo che essa deve garantirsi di essere l’unica ad organizzarsi come classe durante il periodo di transizione, sciogliendo tutte le istituzioni che pretendono di difendere gli interessi specifici di una qualsiasi altra classe. Il resto della popolazione non sfruttatrice avrà il diritto di organizzarsi nei limiti della dittatura del proletariato e sarà rappresentata nello Stato soltanto come “cittadini” attraverso il canale dei soviet territoriali. La concessione dei diritti civili e del voto a questi strati non attribuisce loro maggior potere politico come classi di quanto la borghesia ne attribuisca al proletariato permettendogli di votare alle elezioni amministrative e politiche.

[18] Rapporto Politico del Comitato Centrale al Partito 1922.

Storia del movimento operaio: 

  • 1917 - Rivoluzione Russa [3]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • Rivoluzione proletaria [4]

Rubric: 

Rivoluzione Internazionale n° 6

Rivoluzione Internazionale - 1977

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Annata 1977

Rivoluzione Internazionale n° 7

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Numero di gennaio 1977

Rivoluzione Internazionale n° 8

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Numero di aprile 1977

L'Area della Autonomia: la confusione contro la classe operaia (I)

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Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno visto, da una parte, l’accendersi dei riflettori della pubblicità sulla Autonomia Operaia, nuova incarnazione del Maligno per i giornali borghesi, dall’altra la chiarificazione di quanto questa Area abbia perso ogni motivo di richiamarsi alla classe operaia. Nei fatti, più che di Area dell’Autonomia Operaia, si parla ornai di Area dell’Autonomia, schiumosa sommatoria di ogni tipo di frange piccolo-borghesi, dagli studenti agli attori di strada, dalle femministe ai docenti precari, tutte unite nell’esaltare il proprio “specifico” e nel rifiutare inorridite l’unicità della classe operaia in quanto classe rivoluzionaria della nostra epoca. In questo pantano gli “autonomi operai” si distinguono dalla “autonomia” grazie alla loro maggiore “durezza” nello grandi questioni politiche del momento: le molotov si usano in senso offensivo o difensivo? La P-38, questo mitico passe-par-tout per il comunismo, va puntata alle gambe dei carabinieri o più in alto?

In questo quadro di degenerazione totale si collocano, come reazione, alcuni tentativi di critica delle concezioni confusioniste ed interclassiste da parte di settori rimasti legati ad una concezione più “classista”. Per quanto questi tentativi vadano incoraggiati al massimo, bisogna denunciare il grave pericolo cui vanno incontro di considerare queste deviazioni come “incidenti di percorso” e pensare quindi che basti “ricominciare da capo”.

In questo nostro contributo alla discussione abbiamo al contrario analizzato le basi teoriche stesse dell’Autonomia Operaia, mostrando come esse si basino in fondo sul rigetto del materialismo marxista e lascino la porta aperta a tutte le degenerazioni poi manifestatesi. Per fare questo siamo partiti dalle posizioni espresse negli anni ‘50 dal gruppo “Socialisme ou Barbarie” fino a quelle proprie in Italia di “Potere Operaio”, che sono poi passate in eredità all’Area dell’Autonomia.

Abbiamo poi analizzato le conseguenze di questi errori di fondo, con particolare riferimento alla teoria delle multinazionali, al marginalismo e terrorismo, e cercheremo di fare il bilancio dei tentativi di riflessione autocritica che in alcuni settori sembrano manifestarsi.

Ascesa e caduta dell’Autonomia Operaia

“Il secondo pericolo, il ‘modernismo’, il gusto del ‘nuovo’, molto spesso non è che l’altra faccia dell’attivismo; si sviluppa quindi nei periodi di riflusso della lotta e porta al ripiego su se stessi, alla teorizzazione della demoralizzazione, fino all’abbandono della concezione del proletariato come classe rivoluzionaria. Illuminante a questo proposito è la traiettoria dei resti dell’Area dell’Autonomia Operaia in Italia, partiti dall’esaltazione della lotta per la lotta, della guerriglia di fabbrica, del picchetto duro, questi nuclei si sono presto trovati col sedere per terra, di fronte a un riflusso che non sapevano né prevedere, né capire. Invece di trarre le dovute conseguenze sull’impossibilità per la lotta operaia di crescere in maniera lineare in questa fase, si sono quindi limitati ad adeguarsi alla moda del giorno e ad individuare nella lotta per l’aborto, per la musica dei giovani, negli atti di terrorismo disperato ... il ‘nuovo livello’ della lotta operaia! Tutto questo gran parlare del nuovo modo di fare politica, del rifiuto dei ruoli, della ‘pratica del comunismo’ in breve di tutta la vecchia schiuma piccolo-borghese, sollevata dal ‘68, non esprime altro che la fuga di fronte alla rea1tà storica della lotta operaia.” (Introduzione alla Piattaforma della C.C.I., maggio 1976).

Con l’ingresso del capitalismo nella sua fase di decadenza anche il manifestarsi delle lotte operaie risulta profondamente modificato, poiché le lunghe battaglie durate a volte anni, per ottenere miglioramenti come la giornata di otto ore, etc., non hanno più senso, data l’impossibilità di ottenere qualunque miglioramento di fondo in un sistema che non ha più niente da offrire. Le lotte operaie nel periodo della decadenza sono invece caratterizzate da esplosioni imprevedibili e spesso altissime, seguite da lunghi periodi di. apparente calma, mentre si preparano nuove esplosioni.

In Italia è stato particolarmente difficile comprendere questa natura discontinua della risposta operaia alla crisi, per la straordinaria continuità del processo di lotte apertosi nel ‘69 con l’Autunno Caldo, continuate nel 70-71 con l’Autunno strisciante e terminante con l’ultimo colpo di coda dell’Autunno ’72 - marzo ‘73 (occupazione di Mirafiori). In questa ultima impennata di lotte i gruppi extra-parlamentari si sono chiaramente caratterizzati come cani da guardia dei cani da guardia (sindacati) del capitale, perdendo” buona parte dell’influenza acquistata nel ‘69 sugli strati operai più combattivi.

“I contratti del ’72-73 sono da questo punto di vista l’estremo limite oltre il quale i gruppi semplicemente sopravvivono a se stessi”. (Potere Operaio, n. 50, Novembre ‘73).

I gruppi autonomi di fabbrica hanno origine da questo senso di sfiducia nei confronti dei gruppetti, che non arriva però a farsi contrapposizione nei contenuti politici. Per quanto varie siano le motivazioni dei gruppi e degli individui che si sono riconosciuti nell’Area dell’Autonomia, c’è un punto che accomuna tutti, la spinta a rimettere al centro il punto di vista operaio.

Ed è proprio da questo punto di vista, dal punto di vista del richiamo ad una concezione classista della lotta politica che l’Area della Autonomia deve registrare il suo fallimento più clamoroso. Alla scomparsa o peggio alla trasformazione in vuote sigle della schiacciante maggioranza dei gruppi autonomi operai ha corrisposto la proliferazione incredibile di una Autonomia che, lungi dall’essere operaia, trova il suo unico momento unificante nella negazione della centralità della classe operaia.

Femministe ed omosessuali, studenti in ansia per lo sfumare del miraggio di un posticino tranquillo alla Regione o nell’insegnamento ed artisti alternativi in crisi per mancanza di acquirenti, sono un solo fronte compatto nel rivendicare la centralità del proprio “specifico” e la propria preziosa autonomia dal soffocante predominio operaio all’interno di gruppi extraparlamentari (?!!). Contrariamente a quanto scrivono i giornali borghesi, Lotta Continua in testa, questi movimenti marginali non sono i cento fiori della primavera rivoluzionaria, ma alcune delle cento e cento piaghe purulente di questa società in degenerazione.

I militanti operai che hanno partecipato all’esperienza dell’Autonomia operaia e che ancora conservano la testa sulle spalle non a caso si sentono spaesati e fuori posto in questa armata Brancaleone: la loro estraneità è l’estraneità storica di una classe che non ha più neanche un metro di strada da percorrere con l’interclassismo piccolo-borghese.

Nell’ultimo anno il processo degenerativo ha raggiunto livelli tali da costringere alcuni settori più “classisti” a prendere per certi versi le distanze dall’insieme dell’Area ed iniziare un processo di critica delle esperienze passate. Se questi tentativi sono in ogni caso positivi, essi hanno in sé un limite profondo: quello di andare a rintracciare e denunciare il filone più facilmente criticabile, perché marginalista in partenza (Rosso, etc.), per contrapporgli il filone “classista” come filone di classe. In una parola per non mettere in discussione nessuno dei presupposti su cui l’Area fu costruita e rimanere pronti a ripartire, sulla onda della prossima spallata operaia, con lo stesso ciclo di coordinamenti, volantoni, ecc..

Scopo di questo articolo è quindi fare i conti con i presupposti teorici dell’Autonomia e mostrare come il marginalismo anche operaio non ne sia un figlio bastardo e degenere, ma la sua conclusione legittima ed inevitabile. Per questo analizzeremo la teoria della “crisi del comando” che è alla base di tutte le posizioni politiche dell’Area.

Alle origini della “crisi del comando”: il rigetto del catastrofismo economico marxista

Se il lungo periodo di prosperità durato dalla fine del 1800 ai primi del ‘900 aveva potuto dare fiato a tutta una serie di teorie sul passaggio graduale dal capitalismo al socialismo, grazie all’elevazione cosciente dei lavoratori, l’entrata del sistema nella sua fase decadente con la prima guerra mondiale segna la conferma storica delle vecchie formulazioni “catastrofiche” di Marx sul crollo inevitabile dell’economia mercantile. Fu allora chiaro che una sola alternativa si poneva all’umanità: rivoluzione o reazione e la prima non era “ciò che questo o quel proletario o anche l’intero proletariato ritiene in un certo momento di dover fare, ma ciò che sarà storicamente costretto a fare” (Marx).

Anche dopo la sconfitta dell’ondata degli anni ‘20 ed il conseguente passaggio alla controrivoluzione dell’Internazionale Comunista, i gruppi rivoluzionari superstiti tennero fede al principio marxista che “una nuova ondata rivoluzionaria potrà aversi solo in seguito ad una nuova crisi” (Marx). Ma la mancata ripresa proletaria nel secondo dopoguerra - secondo il previsto schema dell’Ottobre rosso - ed il. periodo di benessere legato alla ricostruzione, ebbero ragione anche di queste minuscole frazioni, condannandole alla scomparsa o alla degenerazione in sterili sette. Contemporaneamente si ha, sulle rovine del movimento rivoluzionario, il risorgere di “nuove” teorie per far fronte alla analisi dei problemi di un preteso neo-capitalismo ignorato da Marx, teorie che in campo “marxista” vengono elaborate principalmente dal gruppo francese Socialisme ou Barbarie ([1]), nato nel 1945 da una scissione nella IV Internazionale Trotskysta.

Le posizioni caratteristiche che questo raggruppamento è andato elaborando sono fondamentalmente tre:

1) Invece di partire dalla rottura organizzativa con la controrivoluzione trotskysta per riallacciarsi all’esperienza storica della classe, salvaguardata ed approfondita dalle frazioni di sinistra comunista, Socialisme ou Barbarie proclama il suo alto disprezzo per tutti questi “souvenirs storici” e si rifugia nel culto della propria “originalità” ed unicità come “continuazione vivente del marxismo”.

2) Pur rigettando il mito trotskysta dello stato operaio degenerato, Socialisme ou Barbarie non arriva a caratterizzare l’URSS come capitalismo di stato, e si toglie dall’imbarazzo inventando un terzo sistema sociale, il capitalismo burocratico moderno, che se non è socialismo, non è neanche più capitalismo, e che tende ad affermarsi in tutto il mondo. E’ un capitalismo in cui “le crisi economiche classiche di sovrapproduzione corrispondono ormai ad una fase storicamente sorpassata di disorganizzazione della classe capitalista”; infatti:

“Non c’è nessuna impossibilità per il capitalismo “privato” o totalmente burocratizzato di continuare a sviluppate le forze produttive, né alcuna contraddizione economica insormontabile nel suo funzionamento. Più in generale, non ci sono contraddizioni tra lo sviluppo delle forze produttive e le forme economiche capitalistiche o i rapporti di produzione capitalistici.” (Socialisme ou Barbarie, n. 35).

Come si vede è bastata la temporanea ripresa legata ai fenomeni di ricostruzione del II dopoguerra perché i continuatori viventi del marxismo iniziassero a farneticare sulla “società senza crisi

3) Una volta negata l’insanabilità delle contraddizioni economiche, non si capisce perché mai dovrebbe essere proprio la classe operaia, che è definita dalla sua collocazione nella sfera economica, l’unico soggetto rivoluzionario della nostra epoca. Difatti:

“Il concetto tradizionale di classe corrispondeva alla relazione di individui e gruppi sociali con la proprietà dei mezzi di produzione, e noi l’abbiamo a giusto titolo sorpassato in questa forma, insistendo sulla situazione di individui e gruppi nei rapporti reali della produzione ed introducendo i concetti di dirigenti e diretti.”

Per cui:

“… l’unica distinzione che abbia un valore pratico valido è quella che esiste a quasi tutti i livelli della piramide, salvo evidentemente i vertici, tra quelli che accettano il sistema e quelli che, nella realtà quotidiana della produzione, lo combattono.” (Socialisme ou Barbarie n. 35)

Il risultato di queste tre grandi scoperte non poteva che essere uno: nel 1964 esce una specie di piattaforma del gruppo, da cui sono prese le precedenti citazioni, in cui il marxismo viene esplicitamente rigettato come vecchia fesseria superata. Due anni dopo, nel 1966, Socialisme ou Barbarie, portata a termine la sua storica opera, si dissolve in quanto gruppo.

Ma “le idee dominanti sono quelle della classe dominante” e le conclusioni anti-marxiste di Socialisme ou Barbarie si sono propagate attraverso una miriade di gruppi fra cui il più noto è l’Internationale Situationiste, che alla frittata socialbarbara aggiunse, negli anni precedenti al ‘68, dei piccanti contorni sulla critica della vita quotidiana. E’ sintomatico del mutare della situazione e del volgere alla fine del periodo di prosperità che l’Internationale Situationiste non sia mai arrivata a liquidare apertamente il marxismo, rifugiandosi dietro i giochi di parole tipo “come diceva Marx, noi non siamo marxisti”, ecc..

Maggio ‘68 è stato il canto del cigno di queste posizioni: il riaffacciarsi del movimento operaio sulle scena della storia, quando la crisi economica non si era ancora mostrata in tutta la sua ampiezza, ha potuto far credere a questi sciagurati che il movimento non avesse basi economiche, ma partisse. dal rifiuto della “noia di vivere”:

“L’eruzione rivoluzionaria non è sorta da una crisi economica, ma AL CONTRARIO HA CONTRIBUITO A CREARE UNA SITUAZIONE DI CRISI NELL’ECONOMIA.., quella che è stata attaccata frontalmente in Maggio è stata l’economia capitalista FUNZIONANTE BENE”.([2])

“Quanto ai resti della vecchia ultrasinistra non trotskysta..., avendo riconosciuto in Maggio una crisi rivoluzionaria, dovevano quindi provare l’esistenza nella primavera ‘68 di questa crisi economica “invisibile”. Essi si prodigano senza tema di ridicolo, nel produrre schemi sull’aumento della disoccupazione e dei prezzi.”([3])

Effettivamente per i teorici della “società dello spettacolo” solo una crisi spettacolare poteva essere visibile. I marxisti, invece, non hanno bisogno di aspettare che l’evidenza delle cose si imponga sulle copertine dell’Espresso o arrivi a penetrare il cervello di Guido Carli, per riconoscere e salutare l’imminenza e la portata della nuova crisi. Nonostante la loro lontananza dai centri del mondo capitalista, un pugno di compagni venezuelani, “ultrasinistri” potevano scrivere nel gennaio 1968 sulla loro rivista, Internacionalismo:

“L’anno ‘67 ci ha lasciato la caduta della sterlina ed il ‘68 ci porta le misure di Johnson... Noi non siamo dei profeti e non pretendiamo di sapere quando e come avranno luogo gli avvenimenti futuri. Noi siamo certi, per contro, che sia impossibile arrestare il processo che il capitalismo subisce attualmente con riforme e svalutazioni ed altre misure economiche capitalistiche e che inevitabilmente questo processo lo porta verso la crisi. Attraverso ciò, il processo inverso che si sviluppa attualmente, quello delle crescita delle combattività di classe, porterà il proletariato alla lotta sanguinosa e diretta in vista della distruzione degli Stati borghesi.”

L’irruzione sulla scena storica della classe operaia a partire dal ‘68 toglie ai fautori dalla “festa rivoluzionaria” ogni possibilità di parlare in suo nome: nel corso del 1970 l’Internationale Situationiste si dissolve in un’orgia di esclusioni reciproche; da allora le cicliche esplosioni di ribellismo che esprimono lo sfacelo della piccola-borghesia non sono mai arrivate neanche a costituire un’Internationale Situationiste.

Per quanto si pitturino la faccia e si mettano penne fra i capelli, gli indiani metropolitani non possono nascondere né le rughe né la calvizie: il proletariato “giovanile”, prima ancora di nascere, era già un cadavere che ancora cammina.

Il volontarismo in versione operaia e la crisi del comando

L’entrata in campo della classe, oltre alla liquidazione dei situazionisti e contestatari vari, impone un riaggiustamento delle teorie sul controllo della crisi che tenga conto della nuove realtà. Invece di negare semplicemente la possibilità della crisi (come si fa, ora?) si rivaluta il lato attivo della tesi: dato per scontato che il capitalismo controlla la crisi economica, è la crisi di questo controllo in seguito all’iniziativa operaia che apre la via alla crisi economica vera e propria.([4])

Questo tema che già iniziava ad affacciarsi negli ultimi testi situazionisti, in mezzo alle pastorali sulla “critica della vita quotidiana”, diventa il centro delle posizioni dei nuovi social-barbari, che saranno quindi “marxisti” ed “operai”. E’ significativo che in Francia il tentativo abortito di creazione su questa base di una Gauche Marxiste pour le pouvoir des conseils des travailleurs nel 1971, sia partito dal gruppo Pouvoir 0uvriere, discendente “marxista” di Socialisme ou Barbarie.

In Italia queste posizioni vengono espresse fondamentalmente dal gruppo Potere Operaio, e quindi analizzeremo in particolare le sue concezioni.([5])

Si parte dal riconoscimento dell’onnipotenza del “cervello teorico del capitale” manipolatore esperto di una società senza crisi:

“Dopo il ‘29, il capitale impara a controllare il ciclo, a impadronirsi dei meccanismi della crisi, a non restarne stritolato ed a usarli in modo tutto politico contro la classe operaia”. ([6])

Per proporre l’antidoto:

“L’obiettivo strategico della lotta operaia - più soldi e meno lavoro - martellato contro lo sviluppo, ha verificato il teorema dal quale eravamo partiti dieci anni fa: introdurre un concetto nuovo di crisi dello stato del capitale, non più crisi economica spontanea, per le sue contraddizioni interne, ma crisi politica, determinata dai movimenti soggettivi della classe operaia, dalle sue lotte economiche d’attacco”.([7])

Una volta negato che “una nuova ondata rivoluzionaria potrà aversi solo in seguito ad una nuova crisi”, bisogna ancora spiegare perché mai questa soggettività operaia abbia deciso di risvegliarsi nel 1968-69 e non, mettiamo, nel ‘54 o nell’82. Le spiegazioni sulle origini del ciclo di lotte rivelano tutta l’incomprensione, o meglio l’ignoranza, da parte di Potere Operaio, della storie del movimento operaio.

Mentre gli anni ‘20 furono la risposta operaia all’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, il che rendeva impossibile la lotta per le riforme ed esigeva la presa del potere politico, Potere Operaio la identifica con “l’organizzazione comunista basata sulle professionalità… si pensi alle velleità autogestionali contenute nell’esperienza ordinovista” di. Gramsci e Togliatti (!), prestando fede cieca alle ricostruzioni “a posteriori” degli storici stalinisti.

La sconfitta dei primi anni ‘20, l’espulsione e poi lo sterminio dei compagni da parte dell’Internazionale passata alla controrivoluzione, tutto ciò non esiste per Potere Operaio, dato che esce dai limiti della fabbrica. Per loro il fatto centrale è l’introduzione della catena di montaggio che “dequalificò tutti gli operai, respingendo indietro l’ondata rivoluzionaria” ed è solo negli anni ‘30, per non aver compreso la ristrutturazione dell’apparato produttivo avvenuta sulle base delle teorie economiche di Keynes, che le organizzazioni storiche della classe operaia si sarebbero trovate “dentro il progetto capitalistico”. Niente di strano poi, che la Cina capitalista e stalinista sia accettata come “faro ideale”, “limite oltre il quale la espressione capitalistica non è riuscita a pianificare il proprio intervento”:

“Siamo anzi certi che l’irriducibilità del movimento rivoluzionario cinese (sarebbero i burocrati maoisti, NdR) al comando capitalistico al livello mondiale possa dare un grande impulso all’opera di unificazione operaia e proletaria sul piano internazionale.” ([8])

Messa così la questione, rigettata l’esperienza storica della classe, non vale la pena di chiedersi perché mai solo nel ‘68 “gli operai hanno appreso... che una nuova società ed una nuova vita sono possibili, che un nuovo libero mondo è alla portata della lotta”. Basterà rispondere:

“E dove sono queste “circostanze obiettive” se non nella volontà politica soggettiva, organizzata, di percorrere fino in fondo la via rivoluzionaria?” ([9])

Su questa base la proposta organizzativa che Potere Operaio rivolge a tutte le avanguardie non potrà che fondarsi sul disprezzo più assoluto sull’autonomia reale della classe operaia, considerata molle cera nelle mani del partito che, a gran consolazione, “è dentro le classe”:

“Abbiamo sempre combattuto la feccia opportunista che chiamava “spontaneismo” la spontaneità invece di chiamare impotenza la propria incapacità di dirigerla e di piegarla ad un progetto organizzativo, ad una direzione di partito” (sottolineatura nostra, NdR) ([10]).

Le lotte operaie diventano una sorta di saliva del cane di Pavlov, che è possibile suscitare suonando un campanello:

“Quello a cui miriamo è la costruzione organizzata, soggettiva, di un nuovo ciclo di lotta di classe...”. ([11])

“Un nuovo ciclo di lotte operaie va messo in piedi perché l’organizzazione in esso forzi il suo programma politico, verso il programma di potere.” ([12])

Il nodo centrale delle contraddizioni di Potere Operaio è che quando parla del partito come frazione della classe, non intende parlare dell’organizzazione che raggruppa intorno a un chiaro programma, quindi su base politica, gli elementi più coscienti che si vanno formando nelle lotte operaie, quale che sia la loro origine sociale; vuole parlare di uno strato, di una percentuale della classe che viene addirittura sociologicamente additato nell’“operaio-massa, l’avanguardia di massa della lotta contro il lavoro”. Il menscevico Martov difendeva contro il bolscevico Lenin la tesi che “membro del partito è ogni scioperante”. I “bolscevichi” di Potere Operaio hanno rimesso a nuovo Martov: “membro del partito è ogni scioperante duro”.

Il programma comunista non ha bisogno di fronzoli tipo sintetizzare l’esperienza storica della classe, denunciare il capitalismo di stato in Russia e Cina, le lotte di liberazione nazionale come momenti di lotta interimperialista ecc., basta che proclami: “più soldi e meno lavoro”. Il partito non è che un grande comitato di base e l’unico problema è quello di piegare all’egemonia dell’operaio massa “la vischiosità e la resistenza di certi strati della classe”.

Per smuovere questa gente bisogna servirgli il piatto organizzativo già bello e pronto:

“Perché... il sindacato ha ancora in mano la gestione delle lotte? Solo in ragione della sua superiorità organizzativa. E’ dunque un problema di gestione quello che abbiamo di fronte. Un problema di superamento di una soglia minima di organizzazione, oltre la quale è credibile, materialmente accettabile, una possibilità di gestione dello scontro.” ([13])

In una parola i compagni di Potere Operaio non fanno quello che dovrebbero (chiarificazione politica ed intervento internazionale sulla base di un programma coerente) e si rimbecilliscono nel tentativo di fare ciò che non possono (scatenare cicli di lotte operaie, accelerare i tempi dello scontro, etc.). Il noto episodio del giornale di base operaio che - per garantire un livello da partito - venne alla fine scritto da due dirigenti della sezione romana di Potere Operaio non può essere spiegato con la follia di due persone; quando si sovrappone il partite agli strati “incazzati” della classe, è inevitabile che di fronte al riflusso progressivo dell’incazzatura sia il partito a doversi sempre più sostituire non solo alla classe ma anche ai suoi strati più combattivi, in una spirale “tutta soggettiva” di ascetismo e “militarizzazione”.

Il formarsi dell’Area dell’Autonomia e lo scioglimento di Potere Operaio

L’impennata di lotte operaie dell’autunno ‘72 conclusasi con l’occupazione alla Fiat Mirafiori nel marzo ‘73 precipitano, da una parte, la credibilità dei gruppetti extra-parlamentari nei confronti della classe (ciò che porta al proliferare degli organismi autonomi), dall’altra la crisi interna di Potere Operaio.

Viene messa in questione la linea ipervolontarista e militarizzata espressa in particolare dai dirigenti di Roma, i quali:

“teorizzano la struttura militare come sola capace di svolgere un ruolo rivoluzionario, negando la lotta di classe ed il ruolo politico dei comitati operai e proletari”.([14])

Purtroppo questa denuncia non arriva ad individuare le basi teoriche di questa degenerazione, e si presenta più come una riaffermazione delle tesi di Potere Operaio che una sua critica. Non si arriva a stabilire una relazione tra l’affacciarsi della crisi economica del capitalismo e la ripresa delle lotte operaie, che resta affidata all’intervento soggettivo delle avanguardie:

“Poche decine di operai, negli anni sessanta, legati alle masse,..., erano riusciti... ad imporre un salto in avanti qualitativo, fondamentale ed irreversibile, ai comportamenti ed alle Lotte operaie”. ([15])

Nei fatti si assiste ad un semplice riaggiustamento della vecchia tesi, per spiegare in qualche modo come facesse ad aggravarsi la crisi in tutti i paesi, anche in assenza di lotte operaie: se prima si insisteva sulla crisi provocata dalle avanguardie ora inizia a prendere il sopravvento la tesi complementare - destinata a larga fortuna - della crisi provocata ad arte dai padroni:

“Certi fenomeni come la crisi, l’inflazione, il marasma monetario, la decomposizione del sistema politico esistente e via di questo passo, non possono che spiegarsi che in termini di attacco al salario relativo”([16]).

“La crisi economica i padroni la creano e la eliminano quando lo ritengono opportuno, sempre con l’obiettivo di battere la classe operaia” ([17])

Ancora una volta si rifiuta un bilancio della esperienza storica del proletariato, limitandosi ad “irridere giustamente la forma terzinternazionalista del partito”. Ora, quando la classe riflette sul proprio passato, non lo fa per farsi quattro risate o due singhiozzi, ma per comprendere gli errori fatti e, sulla base dell’esperienza, tracciare una linea che sia di classe e di demarcazione dal nemico di classe. Il proletariato rivoluzionario non “irride” al superato marxismo-leninismo di Stalin per meglio esaltare quello messo a nuovo da Mao-tse-tung, ma li denuncia entrambi come armi della controrivoluzione. Proprio quello che i nostri neo-autonomisti non hanno intenzione di fare:

“Da questo punto di vista respingiamo ogni dogmatica (?!) distinzione tra leninismo ed anarchia: il nostro leninismo è quello di “Stato e Rivoluzione”, il nostro marxismo-leninismo è quello della rivoluzione culturale cinese” ([18]).

Questa ammirevole capacità di evitare il dogmatismo porterà, come è noto, l’Autonomia Operaia ad esaltare contemporaneamente la guerriglia di fabbrica in Italia e la militarizzazione degli scioperanti da parte dei marxisti-leninisti di Pechino e Luanda.

Qual è in conclusione il ruolo dei rivoluzionari?

“Dobbiamo essere capaci di raccogliere e di organizzare la forza operaia, non di sostituirci ad essa”([19]).

Questa frase condensa il limite invalicabile oltre il quale l’Autonomia non è mai riuscita ad andare, quello di considerare sostituzioniste solo le concezioni per cui la rivoluzione la fanno i deputati con le riforme o gli studenti “militarizzati” con le molotov.

Sostituzionista è invece chiunque neghi la natura rivoluzionaria della classe operaia, con tutto ciò che questo comporta e quando si viene a dire che compito dei rivoluzionari è organizzare la classe si nega appunto la capacità della classe di auto-organizzarsi in contrapposizione a tutte le altre classi della società. I Consigli Operai della prima ondata. rivoluzionaria furono creati spontaneamente dalle masse proletarie, merito di Lenin nel 1905 non è stato quello di organizzarli, ma quello di riconoscerli e di difendere al loro interno le posizioni rivoluzionarie del partito.

Quando “l’organizzazione, il partito oggi è tutt’uno con lo scontro, con la lotta”, una volta finita la lotta, come si può mai giustificare la permanenza di questo partito senza cadere nel sostituzionismo? Quella che effettivamente si identifica con la lotta è l’organizzazione unitaria del proletariato, cioè l’assemblea generale degli scioperanti (di tutti, e non delle sole avanguardie) cui rende conto il comitato di sciopero. Ma questo comitato, quando sia finito lo sciopero e si sia sciolta l’assemblea, si scioglie anch’esso e non pretende di trasformarsi in Assemblea Autonoma. Solo l’entrata della lotta in una fase di permanenza e generalizzazione, cioè l’entrata in un periodo rivoluzionario, permette alla classe di creare e tenere sotto controllo un comitato di sciopero permanente, cui tutte le fabbriche inviano delegati, di organizzarsi cioè in Consiglio Operaio.

Le avanguardie, i rivoluzionari, non si raggruppano intorno alla lotta, ma intorno ad un programma politico, ed è sulla base di questo che, prodotti dalle lotte, divengono a loro volta un fattore attivo al loro interno, senza né dipendere dagli alti e bassi del movimento, né volerli colmare con la propria volenterosa opera ‘organizzativa’ ”.

L’incapacità di vedere che classe ed organizzazione rivoluzionaria sono due realtà distinte, ma non contrapposte, è alla base delle concezioni sostituzioniste che, tutte, identificano partito e classe: se i leninisti identificano la classe nel partito, gli autonomi (nipoti inconsapevoli del consiliarismo degenerato) si limitano a rivoltare la frittata, identificando il partito nella classe.

Questa incapacità è il sintomo della mancata rottura con gli errori di fondo di Potere Operaio, che si manifesta nella ricorrente affermazione della utilità avuta dai gruppi extra-parlamentari:

“Ognuno di noi era incapace di fare un giornale prima di entrare in un gruppo, ognuno di noi era incapace di raccogliere soldi prima di entrare in un gruppo”.([20])

Non si può che rimanere stupefatti di fronte alla scelta dell’efficienza di addestramento tecnico come criterio di valutazione di un gruppo politico. Per cui invece di denunciare il carattere controrivoluzionario del programma politico di questi gruppi, gli ex-aderenti di Potere Operaio ci annunciano pudicamente che i gruppi sono una forma “superata”, così come è “superato” il terzinternazionalismo di Stalin. Solo Dio (o il suo equivalente moderno, il “cervello complessivo del capitale”) può vedere una qualche differenza dal “giustificazionismo storico” alla Togliatti-Berlinguer.

La mancata rottura reale, cioè nei contenuti, con i gruppi extraparlamentari è espressa in termini plateali dall’Assemblea Autonoma del l’Alfa, che teorizza addirittura una specie di spartizione dei compiti, per cui i gruppi politici fanno le lotte politiche (cioè libertà politiche, diritti civili, antifascismo, in una parola tutto l’arsenale di mistificazione anti-operaia) mentre gli organismi autonomi ripartono dalle lotte di fabbrica, anzi di reparto. Concezione logica per chi pensa; che:

“la capacità di togliere Valpreda dal carcere con il voto diventava un momento di lotta vittoriosa contro lo Stato borghese (!). L’incapacità di unirsi su questo obiettivo ha provocato confusione e sfiducia in una forza alternativa al sistema capitalistico.” ([21])

Come si vede l’Autonomia Operaia partiva con delle basi un po’ più confuse di quelle con cui era partito Potere 0peraio, quando la mutata situazione ne avrebbe richiesto di cento volte più chiare. In questo quadro risultano destinate a girare a vuoto ed a perdersi tutte quelle spinte proletarie che pure si esprimevano in questo tentativo, come confusa e sana reazione alla miserabile pratica gruppettara.

L’Area è dunque stata il calderone in cui le componenti proletarie sono state prima amalgamate nel minestrone confusionista, quindi diluite con il brodo dell’interclassismo. Non riconoscerlo significa schierarsi fra i “cucinieri”, come vedremo nella parte successiva dell’articolo.

BEYLE



[1] Per una valutazione più approfondita delle sue posizioni, vedi “Un tentative de dépassement du marxisme: Socialisme ou Barbarie”, in Bulletin d’étude et discussion n° 11, suppl. a Révolution Internationale, organo della C.C.I. in Francia.

[2] René Vienet, Situationnistes et enragés dans le mouvement des occupations, ed. Gallimard.

[3] Internationale Situationniste, n° 12, dicembre 1969.

[4] Questo non significa che noi neghiamo la lotta operaia come fattore aggravante della crisi. Nella misura in cui ogni intervento di sollievo temporaneo della crisi non può che essere una misura antioperaia, è chiaro che la resistenza operaia alla degradazione delle proprie condizioni di vita, rende problematica anche l’attuazione dei patetici piani di rilancio degli economisti borghesi.

[5] Noi non vogliamo assolutamente sostenere che ci sia una discendenza diretta fra Socialisme ou Barbarie e Potere Operaio; è noto che le sue ascendenza specifiche vanno variamente cercate nei Quaderni Rossi e in riviste come la Classe Operaia, La Classe, ecc. Ci interessa invece sottolineare come le posizioni che i militanti e i seguaci di Potere Operaio hanno sempre ritenuto frutto della nuova ripresa delle classe altro non siano che versioni operaiste di vecchie degenerazioni fiorite sulla sconfitta operaia. Va d’altra parte ricordato che Potere Operaio è stato l’unico gruppo italiano ad esprimere, nel modo più confuso possibile, questa ripresa di classe e che la sua fine miserevole non deve far dimenticare che gli altri, come era giusto, sono finiti al Parlamento.

[6] Le citazioni sono dall’opuscolo “Alle avanguardie per il Partito” elaborato dalla Segreteria Nazionale di Potere Operaio, dicembre 1970.

[7] ibidem, pag. 30.

[8] Ibidem, pag. 46.

[9] Potere Operaio n° 38-39, maggio 1971, pag. 3.

[10] Potere Operaio n° 38-39, maggio 1971, pag. 4.

[11] Alle Avanguardie per il partito, pag. 28.

[12] Ibidem, pag. 76.

[13] Ibidem, pag. 34.

[14] Potere Operaio, n° 50, novembre 1973, p. 69. Si tratta dei materiali del seminario tenuto a Padova nel maggio ‘73 dal gruppo che faceva capo a Toni Negri e che vi decise la confluenza negli organismi di base dell’Autonomia operaia. Date le partecipazioni ai lavori dell’Assemblea Autonoma dell’Alfa, dei Comitati Autonomi di Roma, ecc., questo può essere considerato il Congresso di fondazione dell’Area, o quanto meno dei filone “classista” che ci interessa seguire. Le citazioni non meglio specificate sono prese da questo documento.

[15] Ibidem p. 2.

[16] Ibidem, pag. 101.

[17] “Dalle lotte allo sviluppo dell’organizzazione autonoma operaia” delle Assemblee Autonome Alfa Romeo e Pirelli e C.d.L. Sit-Siemens, maggio 1973.

[18] Potere Operaio n° 50, pag. 3.

[19] Ibidem, pag. 102.

[20] Ibidem, pag. 1O5.

[21] Alfa Romeo “Diario operaio della lotta 1972-73”, a cura dell’Assemblea Autonoma, Ottobre ‘73, p. 11.

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Operaismo [5]

Rivoluzione Internazionale n° 9

  • letto 13 volte
Numero di giugno-agosto 1977

Rivoluzione Internazionale n° 10

  • letto 14 volte
Numero di settembre-novembre 1977

L'Area dell'Autonomia: la confusione contro la classe operaia (II)

  • letto 65 volte

Nella prima parte di questo articolo abbiamo cercato di analizzare le basi teoriche dell’Autonomia Operaia, partendo da gruppi come Socialisme ou Barbarie che - negli anni di profonda demoralizzazione dovuti all’apparente stabilizzazione del capitalismo nel secondo dopoguerra – giunsero a rigettare il catastrofismo economico marxista. Si sviluppa così la teoria dei capitalismo burocratico che non conosce crisi e che sarà vulnerabile colo alla rivolta degli “oppressi” dalla noia della vita quotidiana.

Il Maggio ‘68 è il canto del cigno di queste concezioni come concezioni “rivoluzionarie”; la realtà della crisi e della lotta operaia lasciano spazio solo alla loro versione, operaista.

In Italia è Potere Operaio che riconosce la crisi, ma la attribuisce alla lotta operaia e non alle contraddizioni insanabili del sistema capitalista. Si tratta della nota teoria della crisi del comando, la cui conseguenza è l’illusione che le lotte operaie possono essere scatenate a piacimento dalle avanguardie opportunamente organizzate. Di qui un volontarismo sempre più disperato fino alle farneticazioni sulla militarizzazione del movimento.

Lo scioglimento di P.O. e la formazione dell’Area dell’Autonomia Operaia nel ‘73 si basano su una messa in discussione solo degli aspetti più criticabili di queste teorie, ma non arrivano a rigettarne l’essenziale. Per cui l’Area rimane completamente disorientata di fronte al riflusso dopo il Marzo ‘73 e vede la sua progressiva degradazione in quanto espressione sia pure confusa della classe.

In questa seconda parte (ricordiamo che la prima parte è stata pubblicata su Rivoluzione Internazionale n° 8) abbiamo cercato di seguire le grandi linee di questa decadenza, tra i pantani del marginalismo e le trappole del terrorismo.

Il testo è lungo e ce ne scusiamo con i compagni, ma non era possibile altrimenti. Con tutto questo sono molti gli avvenimenti e le posizioni degne di nota che ne sono rimasti fuori, ma di questo non dobbiamo scusarci. Le “Storie” le scrivono i compagni sopravvissuti alle sconfitte, nei lunghi anni della pace sociale e dell’annientamento del proletariato. Questi, non sono gli anni della sconfitta, ma quelli della forza e della lotta. E’ giusto che già da oggi i nostri articoli, le nostre “armi dei la critica” siano sempre più ad immagine dei giorni futuri, in cui si passerà alla “critica delle armi”.

A conti fatti: bilancio di una sconfitta

“In Italia le giornate del Marzo ‘73 a Mirafiori sono la sanzione ufficiale del passaggio alla seconda fase del movimento, così come le giornate di Piazza Statuto lo erano state per la prima fase. La lotta armata, gestita dall’avanguardia operaia dentro al movimento di massa costituisce la forma superiore della lotta operaia... Il compito del partito che va costituendosi è quello di sviluppare in forma molecolare, generalizzata e centralizzata, questa nuova esperienza di attacco.” ([1])

Con queste parole, piene di beate illusioni sulla “formidabile continuità del movimento italiano”, Potere Operaio annunciava il proprio scioglimento nell’Area dell’Autonomia e l’imminente centralizzazione di quest’Area in quanto:

“fusione di volontà soggettiva, capacità di battere la ciclicità delle lotte dominate dal padrone e dal sindacato, per imporre invece l’iniziativa dell’attacco”, (sottolineatura nostra, NdR).([2])

Come si vede cambia la sigla ma le vecchie illusioni di “mettere in piedi” a piacimento cicli di lotte operaie, sono dure a morire.

Purtroppo per gli illusi, Mirafiori ‘73 non è stato il trampolino verso la massificazione di un nuovo livello di lotte armate, ma l’ultima spallata del movimento prima di entrare nel periodo di riflusso più lungo e drammatico dopo il ‘68. La classe operaia invece di iniziare la “transizione al comunismo” ha visto aggravarsi progressivamente le proprie condizioni di vita ed ha assistito impotente ed apparentemente apatica alla messa in atto di tutta una serie di misure antiproletarie, che negli anni precedenti avrebbero provocato reazioni semi-insurrezionali. Come spiegare questa interruzione nella formidabile continuità del movimento italiano? Ricordando che essa è una caratteristica tipica delle lotte operaie odierne, che si svolgono nel quadro di un capitalismo decadente, incapace di migliorare in generale le condizioni di vita dei lavoratori. In più, finiti anche gli sgoccioli del boom della “ricostruzione” dopo il II macello imperialista, la crisi economica è tornata dal ‘68 in poi ad esasperare la situazione:

“In questo contesto la borghesia non può permettersi, persino sotto una pressione delle lotte operaie, di dare soddisfazione alle rivendicazioni del proletariato. Malgrado le promesse del capitale, le firme apposte su accordi solenni, le allusioni “umanitarie” che potrebbero essere alimentate da questa o quella frazione riformista o “progressista” della borghesia, malgrado il timore di importanti movimenti sociali, la realtà del capitalismo decadente è implacabile: il capitale non può più accordare delle vere riforme al proletariato.

E’ diventato banale ormai constatare che, dopo cinquant’anni, tutte le lotte per rivendicazioni salariali non hanno portato a niente... La situazione normale, quella che caratterizza il capitalismo attuale, non è l’aumento dei prezzi che segue l’aumento dei salari, ma esattamente l’inverso. Non è il capitale che cerca di recuperare in permanenza ciò che i lavoratori gli strappano, ma sono i lavoratori che cercano di resistere all’intensificazione del loro sfruttamento.” ([3])

Con il primo vero e proprio collasso della economia italiana, che si verifica appunto nel ‘73 ([4]), i già angusti margini di manovra dei sindacati per chiedere aumenti salariali si restringono drasticamente, e sempre più nelle piattaforme rivendicative la parte del leone tocca alle “grandi battaglie” per gli investimenti al sud, le riforme ([5]). Sempre più spesso scioperi anche lunghi e violenti terminano senza che nessuna delle richieste operaie sia stata accolta; in una parola gli operai scoprono, sconfitta dopo sconfitta, che per difendere le proprie condizioni di vita bisogna ormai scontrarsi direttamente con lo Stato, di cui i sindacati non sono che un ingranaggio.

In una situazione del genere, se gli elementi più politicizzati sono portati dall’attivismo e dalla disperazione ad “alzare il livello dello scontro”, la maggioranza della classe arretra, per non dissanguarsi in scioperi senza storia e senza significato. Per caratterizzare questa fase, che con particolari differenti si è presentata in tutti i paesi industrializzati, noi abbiamo spesso detto che è come se la classe operaia arretrasse di fronte ad un nuovo ostacolo per poter meglio prendere una rincorsa adeguata al salto. Questi anni di apparente passività sono stati anni di sotterranea maturazione e chi sperava che il riflusso sarebbe stato eterno sta già avendo qualche delusione. Nei fatti, la difficoltà di difendere vittoriosamente le proprie condizioni di vita, può disorientare e demoralizzare gli operai, ma alla lunga non potrà che rigettarli di nuovo nella lotta, con una rabbia e una determinazione cento volte moltiplicata.

Tutto ciò era ed è inevitabile. Ma come poteva capirlo chi, rifiutando la teoria marxista della crisi economica, considerava come ormai “automatiche” le conquiste sul salario e sull’orario, e si preoccupava di cercare “nuovi piani di lotta”:

“E ciò che diventerà sempre più pesante con lo sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali non sarà tanto il raggiungimento di obiettivi di tipo quantitativo come nel passato (occupazione, salario, etc.). Certo il padrone non smetterà di combatterci anche su questo piano, ma questi obiettivi saranno comunque assicurati alla classe operaia dell’occidente avanzato.

Diventerà invece sempre più pesante garantirsi obiettivi di tipo qualitativo per cambiare la vita in fabbrica, fuori, nei rapporti personali, a letto.” ([6])

La realtà ha poi svelato a questi entusiasti del capitalismo occidentale che per i proletari di assicurato non c’è neanche lo sfruttamento (vedi i milioni di disoccupati nell’area CEE). La parola magica delle 35 ore pagate 40 che doveva coagulare tutta la classe operaia più le donne, i giovani, i disoccupati, etc., non ha coagulato che qualche miserabile spezzone di sinistra sindacale, Lotta Continua in testa, ed é quindi andata al macero assieme a tutte le altre brillanti “trovate” dei suscitatori di lotte operaie.

Di fronte agli insuccessi le risposte dell’Autonomia sono essenzialmente di due tipi:

1) il tentativo volontaristico di controbilanciare il riflusso, grazie ad un attivismo sempre più frenetico e sempre più “sostituzionista” nei confronti della classe; 2) il graduale spostamento della lotta di fabbrica a nuovi piani di scontro, ovviamente “superiori”. Su questa progressiva divaricazione fra “duri” ed “alternativi” inciampa e si frantuma il progetto di centralizzazione dell’Area ambiziosamente emerso al momento della confluenza di Potete Operaio nel costituendo Coordinamento Nazionale. Queste due linee sono state, grosso modo, il terreno di sviluppo delle due deviazioni simmetriche dell’Autonomia, terrorismo e marginalismo, che tornano continuamente ad intrecciarsi fra di loro.

Senta avere la pretesa di analizzare a fondo questi due filoni, su cui dovremo sicuramente ritornare, vale qui la pena di mostrare come entrambi siano non la negazione, ma il logico sviluppo dell’originario classismo operaista.

Dalla guerriglia di fabbrica al “Partito Combattente”

“Quando la lotta operaia spinge il capitale alla crisi, sulla difensiva, l’organizzazione operaia deve avere già allestiti strumenti tecnicamente (sottolineatura nostra, NdR) validi con i quali prolungare, rafforzare ed armare la volontà di attacco della classe... Suscitare, organizzare la rivoluzione ininterrotta contro il lavoro, determinare fin da subito momenti di liberazione ... questi sono i compiti dell’avanguardia operaia come dittatura.” ([7])

Come si vede già in Potere Operaio sono espresse chiaramente le posizioni di fondo che stanno alla base della scelta terrorista: 1) da una parte la visione della crisi come imposta dalla lotta di classe; 2) dall’altra la concezione dei rivoluzionari come organizzatori tecnici di questa lotta di classe, per cui bisogna superare “una soglia minima di organizzazione” oltre la quale si è “credibili” di fronte alla classe e si può concorrere nella “gestione” delle lotte con il sindacato.

Mano a mano che l’ondata del ‘68 si affievolisce, aumentano i “trucchi” che un buon tecnico della guerriglia di fabbrica deve conoscere per condurre i suoi compagni di lavoro verso la terra promessa. Nasce e si sviluppa così la mistica della “inchiesta operaia”, cioè dello studio da parte delle avanguardie della struttura della fabbrica e del ciclo produttivo, per individuarne i “punti deboli”: basterà colpire questi per bloccare l’intero ciclo e fottere i padroni. Ma, come al solito, quello che c’è di buono non è nuovo, e quello che è nuovo non è buono. L’idea di colpire senza preavviso dove e quando è massimo il danno per i padroni e minima la perdita per gli operai, non è un’idea, ma una scoperta pratica della classe ed ha un nome preciso: sciopero selvaggio. Quello che c’è di nuovo è l’idea (e questa sì che è una “idea”) che lo sciopero selvaggio possa essere programmato dalle avanguardie, ciò che è una contraddizione in termini.

Ci si potrebbe rispondere che tutto questo è vero ma che se non si conosce la fabbrica, non si possono unire le lotte dei vari reparti, ci si perde, etc. Giustissimo, ma non è certo con gli studi notturni di qualche militante che gli operai, mettiamo, della Verniciatura imparano ad orientarsi nelle Carrozzerie o alle Presse. E’ con i cortei interni di massa che la classe risolve praticamente il problema dei cancelli: sfondandoli.

Questa storia, che potrebbe sembrare secondaria, fa vedere chiaramente come ogni visione tecnico-militarista guardi alla lotta di classe con un’ottica completamente rovesciata: non è il fatto di avere in ogni reparto dei compagni con la pianta della fabbrica stampata in mente che permette l’unificazione delle lotte; è l’esigenza di unificare le lotte, per uscire dai vicoli ciechi delle lotte settoriali, che spinge la classe a superare gli ostacoli che si frappongono a questa unificazione (ed a stamparsi in mente i vicoli ciechi dei corridoi). Per andare in corteo a chiamare gli operai delle altre fabbriche, la cosa fondamentale non è sapere dov’è l’uscita ma aver compreso che solo la generalizzazione della lotta può renderla vincente. In realtà gli ostacoli più temibili non sono i cancelli, ma coloro che all’interno della classe si oppongono con la loro demagogia alla maturazione della sua coscienza. Il vero muro da abbattere è quello fabbricato giorno dopo giorno dai delegati sindacali, dagli attivisti dei partiti e partitini “operai”, é il muro invisibile ma tenace che chiude il proletariato all’interno del “popolo italiano” e lo separa dai suoi fratelli di classe di tutto il mondo, è la catena vischiosa che lo lega alle sorti dell’economia nazionale in difficoltà. Spogliare questi ostacoli dei loro travestimenti demagogici ed “estremisti”, denunciarne la natura controrivoluzionaria, ecco il ruolo specifico dei rivoluzionari in fabbrica e fuori, ecco il loro contributo indispensabile nel. forgiare quella coscienza e quell’unità di classe che abbatteranno ben altre porte che quelle della Fiat ([8]).

Credendo di “dare un contenuto offensivo alle lotte degli operai delle grandi fabbriche” ([9]), ci si pone su di un piano inclinato che è sempre più difficile da rimontare. Dai processi di massa ai capi del Marzo ‘73 si passa agli “incidenti” in fabbrica ai dirigenti e capi più amati, quindi al sequestro, anzi all’“arresto ed interrogatorio” in una “prigione del popolo” (!) del capo del personale FIAT, Amerio (dicembre 1973). E’ ormai tempo di “portare l’attacco al cuore dello Stato” con il sequestro Sossi (maggio ‘74), per finire nel giugno ‘75 con il rapimento a scopo di estorsione dell’industriale Gancia. Come si vede la linea di tendenza, indicata con questi esempi, è quella dell’autonomia, sì, ma dell’autonomia dalla lotta di classe, che si allontana sempre più sullo sfondo.

E’ diventato ormai un luogo comune, sulle pubblicazioni dell’Autonomia, la critica delle Brigate Rosse perché “esagerano” col militarismo, perché si staccano dalle masse, etc. Le BR hanno semplicemente percorso fino in fondo il piano inclinato del volontarismo nel tentativo impossibile di rispondere con un “salto di qualità” delle avanguardie alle nuove difficoltà del movimento di classe:

“... le lotte più recenti ci costringono a riflettere seriamente su due fenomeni divenuti ormai evidenti: il deteriorarsi delle forme di lotta tradizionali e la crisi dell’ipotesi del sindacalismo di sinistra. E’ inutile piagnucolare sulla contraddizione che esiste tra la tensione creata fra gli operai dal problema dei licenziamenti, per esempio, e l’incapacità a trovare delle forme di lotta appropriata... Bisogna agire simultaneamente per approfondire la crisi di regime, che è, sopra di tutto, crisi di potere della borghesia sul proletariato; bisogna trasformarle in primi momenti di potere del proletariato armato, di lotta armata per il comunismo.” ([10])

Il fatto che tutte le critiche dell’Autonomia Operaia alle BR non siano mai andate oltre le solite lamentele opportuniste sul carattere prematuro di certe azioni etc., senza mai arrivare all’essenziale, non è certo casuale, ma trova le sue radici nelle teorizzazioni stesse dell’Autonomia Operaia:

“Oggi nelle metropoli capitaliste, e particolarmente in Italia, le lotte operaie hanno imposto un’altra forma di crisi al capitalismo. Non si tratta più di una crisi spontanea, dovuta alle contraddizioni interne del meccanismo economico, o più globalmente del sistema; si tratta né più né meno di una crisi politica che i movimenti soggettivi delle lotte operaie hanno imposto con la loro offensiva sui salari, contro il lavoro, con la loro capacità di rompere sistematicamente ed a tutti i livelli con il comando capitalista. Una teoria insurrezionale classica non è più applicabile alle metropoli capitaliste; essa si rivela sorpassata, come è sorpassata l’interpretazione della crisi in termini di crollo… la lotta armata corrisponde alla nuova forma della crisi imposta dall’autonomia operaia, così come l’insurrezione era la conclusione logica della vecchia teoria della crisi come crollo economico.” ([11])

Non si può rigettare il marxismo in nome della volontà soggettiva delle masse e poi essere in grado di criticare seriamente chi, autoproclamatosi “partito combattente”, cerca di accelerare i tempi della storia, portando alle masse un po’ della propria “volontà”. Il militarismo delle Brigate Rosse non è che lo sviluppo coerente e logico dell’attivismo operaista delle famigerate “inchieste operaie” ([12]).

Rimane da constatare che negli ultimi mesi tanta coerenza e preveggenza non ha impedito alle BR di dover rincorrere a colpi di comunicati ed appelli le giovani leve del “partito della P 38” che, per passare alla lotta armata, non hanno ritenuto di dover passare per le BR. Qualcuno potrebbe parlare di apprendisti stregoni incapaci di controllare le forze imprudentemente evocate. Nulla di più falso: questa incapacità ad inquadrare i pistoleri metropolitani è la prova schiacciante che non è stata la “azione esemplare” delle BR ad evocarli, ma il procedere inesorabile della crisi economica, che getta nella disperazione ampi strati di piccola borghesia, specie intellettuale.

Nuclei d’acciaio del partito armato, “cani sciolti” della P38 non possono imporre niente, nel bene o nel male. E’ stata la logica dei fatti ad imporli, sarà le logica dei fatti a spazzarli via. ([13])

Il marginalismo: “oltre” la lotta di classe, fuori dalla storia

Mentre i “duri” si militarizzano per sostituire il movimento in riflusso nelle fabbriche, la maggioranza dell’Area è alla ricerca di più praticabili scorciatoie al comunismo. Detto fatto: il movimento non è in riflusso, ma sta attaccando da un’altra parte per disorientare i padroni. E’ il momento magico del territorio, come “nuova dimensione dell’autonomia operaia”.

“Da Forcella a S. Basilio l’insubordinazione proletaria si qualifica come iniziativa politica per il comunismo: il terreno di lotta per l’appropriazione come terreno strategico di attacco alla crisi... Alla luce di questi fatti il territorio va visto non solo come “area di ricomposizione” dell’autonomia operaia, ma come un nodo centrale dello scontro di classe in atto.” ([14])

Accanto all’esaltazione pura e semplice della “svolta” non manca la speranza di “appoggiarsi” a queste lotte per rilanciare l’offensiva in fabbrica, per cui lo sviluppo della insubordinazione sul territorio: “si misura su tutto il terreno della crisi in stretto rapporto con la ripresa generalizzata delle lotte aziendali.”([15])

In realtà lo spostarsi della lotta sul “sociale” non facilita assolutamente il “dilagare dell’iniziativa operaia dalla fabbrica nel territorio”. La lotta contro l’aumento dei prezzi, degli affitti, in genere la lotta di quartiere non può che basarsi su tutta la popolazione del quartiere stesso. Sarebbe infatti assurda e destinata a fine rapida un’autoriduzione della luce portata avanti solo dalle famiglie operaie o solo dalle famiglie impiegatizie. Questo significa che l’autonomia operaia lungi dal dilagare, viene allagata da fiumi di piccola borghesia e da torrente in piena si trasforma in palude stagnante e popolare. La tanto vantata generalizzazione della lotta si rivela essere il passaggio dalla corporativa difesa delle proprie condizioni di vita in quanto operai alla generale lotta per i propri diritti in quanto cittadini.

Ben altra è la realtà storica delle esplosioni operaie: non per suggestione di comitati popolari ed interclassisti, ma per dinamica interna di classe, il proletariato di fabbrica, ai momenti cruciali della lotta, trova in sé la forza di dilagare oltre i soffocanti limiti dell’officina, a preannunciare ai padroni e ai loro servi quel dilagare futuro cui non seguirà mai più “ritorno alla calma”. Pietroburgo ’17, Polonia ‘70, Inghilterra ‘72, Spagna ‘76, Egitto ‘77, è stato ogni volta dietro alle grandi concentrazioni operaie che si è realizzata l’unificazione dell’intero corpo collettivo del proletariato e la spaccatura del “popolo unito” in due campi distinti e contrapposti.

Così la logica stessa dei vari movimenti “riappropriatori” é stata quella di una progressiva diluizione del “rapporto con le lotte aziendali” a favore delle componenti piccolo-borghesi e marginali. Questo è stato particolarmente evidente nel movimento di occupazione delle case:

“Le case non vengono più occupate per avere un tetto decente sotto cui dormire, solamente per alloggiare la famiglia... Le occupazioni di centri del proletariato sono un salto in avanti rispetto alle esperienze del Festival del Parco Lambro e di Umbria Jazz: il proletariato giovanile si salda con il movimento delle occupazioni.” ([16])

Dal territorio come “area di ricomposizione della autonomia operaia” ai circoli del proletariato giovanile, dal potere operaio al potere dromedario degli indiani metropolitani, la traiettoria è nota. Ogni strato di piccola borghesia sbalestrato dalla crisi si promuove a “frazione della classe” ed inalbera la bandiera della propria “autonomia”. Per brevità (e per carità verso i nostri lettori) accenneremo brevemente solo al movimento femminista. Il suo sviluppo di massa, come quello di tutti i movimenti marginalisti, è legato appunto alla “crisi dei gruppi”, alla delusione seguita al Marzo ‘73, quando il comunismo “tutto e subito” non è sceso a posarsi tipo Spirito santo sulle volitive fronti degli operai di Mirafiori. Questo “fallimento” è stato un vero e proprio trauma per tutti i piccolo-borghesi che si erano già mentalmente riservati un posto in Paradiso, in virtù dei sacrifici fatti al servizio delle masse popolari. “Abbiamo lavorato per niente a favore del proletariato!” è stato il grido di rimorso di tanti esponenti di uno strato sociale storicamente abituato a non lavorare per niente, alle spalle del proletariato. Tornati rapidamente all’ovile (da cui non erano mai usciti) tutti questi strati si sono dedicati con entusiasmo rinnovato al vecchio sogno della loro classe: aprire un commercio in proprio. D’ora in poi invece di lottare per il socialismo “degli operai” (?), ognuno lotterà per il “suo” socialismo, per un socialismo tagliato su misura di tutte le varianti della sociologia borghese.

Come tutte le concezioni idealistiche, il femminismo crede che siano le ideologie, i “ruoli” imposti dal capitalismo a determinare l’esistenza, e non il contrario. Per cui basterà negare, rifiutare i ruoli impostici per mettere in crisi la società borghese. Quello che applicato alla lotta di classe era semplicemente una interpretazione sbagliata (è il rifiuto del lavoro che determina la crisi economica, etc.) diventa pura ideologia reazionaria: sarà l’affermazione della propria autonomia da parte di ogni strato oppresso della società a mettere in crisi il “comando” capitalista.

Non è quindi casuale che il “nuovo modo di fare politica” scoperto dalle femministe sia stato principalmente quello dei piccoli gruppi di autocoscienza. E’ il destino di ogni “categoria” della società borghese (neri, donne, giovani, omosessuali, etc.) totalmente impotenti di fronte alla storia e quindi incapaci di forgiarsi una coscienza storica: quello di finire a crogiolarsi nell’autocoscienza della propria miseria. Se il proletariato è la classe rivoluzionaria della nostra epoca, non è perché si è fatto convincere dai socialisti nell’800 e poi si è abituato a questa idea, ma per la sua collocazione pratica al centro della produzione capitalista.

“Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico mondiale, non è, come pretende di credere la Critica Critica, perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario... Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato, si immagina di volta in volta come suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.” ([17])

L’unica componente del movimento femminista che si è in qualche modo resa conto di quanto fosse campata in aria una lotta basata sull’auto-coscienza è stata Lotta Femminista ([18]). Ma per quanto rifiuti con orrore questa idea, tutto quello che ha saputo fare è coniugare al femminile le idee di Potere Operaio, da cui d’altra parte proviene. Rendendosi conto che la capacità del proletariato di porsi come classe rivoluzionaria si basa sulla sua lotta in difesa delle proprie condizioni di esistenza, e non su una ideologia, si cava dagli impicci “scoprendo” che la casalinghe sono operaie della casa, che il loro lavoro è produttivo e deve essere pagato. Per cui:

“Da oggi apriamo (?) la lotta perché (il Salario al lavoro domestico) sia pagato” ([19]). E con ciò Lotta Femminista si è assicurato il premio Nobel del Volontarismo per gli anni ‘70. Se Potere Operaio si illudeva di poter risvegliare a piacimento la lotta operaia, Lotta Femminista è arrivata a far nascere per decisione politica una lotta di “classe” che non è mai esistita. Le loro illusioni tardo-leniniste sulla organizzazione cosciente portata dall’esterno è tale che sono arrivate a prendersela con i socialisti che non hanno organizzato le donne perché disperse mentre hanno organizzato i braccianti ed i contadini, ugualmente dispersi. Come se i contadini avessero aspettato il nascere del movimento socialista per iniziare a lottare e a rivoltarsi. (La Guerra dei Contadini in Germania è del 1525!).

Il fatto quindi che le donne non siano state capaci di condurre una lotta di classe contro il capitale non dipende dal fatto che Marx “questa centralità del lavoro domestico avrebbe pur dovuto vederla” ed invece non l’ha vista. Dipende dal fatto che non sono né una classe, né una frazione di classe, ma una delle tante categorie che il capitale contrappone fra di loro (divisioni di razza, sesso, nazione, religione, ecc.) per cercare di diluire la contraddizione centrale, quella risolutiva per tutte. Perché il proletariato:

“Non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione.” ([20])

Che questo o quell’individuo “si immagini” di aver visto quello che Marx non aveva visto, non può cambiare di una virgola questa realtà.

Quello di L.F. è stato l’unico tentativo di andare controcorrente alla naturale tendenza del movimento femminista di tornare sotto l’ala protettrice e Referendaria dei partiti di Sinistra. Si può già fare un bilancio di questo tentativo di organizzazione autonoma delle donne su una propria strategia? Forse sì. La prima a saltare è stata la struttura di gruppo di Lotta Femminista, scioltasi nell’ottobre ‘74 per la presenza al suo interno di “differenti analisi e pratiche politiche”. La sostituisce il Coordinamento Nazionale dei Comitati per il Salario al Lavoro Domestico, struttura federativa dove ogni sede pensa quello che vuole e Padova fa per tutte (compreso il giornale). Ma i guai interni al Coordinamento non sono che il riflesso di una mutata situazione generale: nel recente movimento di occupazioni universitarie le leaders “storiche” sono state violentemente attaccate nelle loro stesse roccaforti (Padova, etc.) dalle nuove 1eve del femminismo, dalle autonome smaniose di imitare la compagna Mara o Maria Pia Vianale. Come risposta nel n° 4 de “Le operaie della casa” dedicato alla critica dell’Autonomia, i Comitati per il SLD accusano le “nuove” femministe di rinunciare al lavoro di costruzione di un’organizzazione autonoma femminista e di agire come semplice colonna di appoggio del costruendo partito combattente. Ed hanno perfettamente ragione. Ma per un’amara ironia, quella che loro vedono come debolezza delle nuove femministe, si impone invece come forza delle cose: il femminismo non è capace di organizzarsi come forza autonoma.

Proprio perché si rivolge alle donne, cioè ad uno strato che di fronte alla crisi si spacca inesorabilmente in due, lungo una frontiera di classe, il femminismo si rivela per il capitale una mistificazione di seconda categoria, incapace di distogliere una porzione considerevole di proletarie dalla linea di combattimento della loro classe. Perché abbia una qualche utilità deve essere una semplice carta ben mescolata con le altre nel miglior mazzo truccato del capitale, “l’alternativa popolare e di sinistra”, la sola capace di deviare ancora il proletariato, sfruttando le sue stesse tradizioni.

La forza della storia si impone a tutti, indipendentemente dalla loro volontà o coscienza. Le stesse militanti dei Collettivi per il SLD - che per le loro origini politiche avevano una confusa coscienza della necessità di distruggere i sindacati - si sono rapidamente adattate all’ipotesi che le lotte delle donne passino per questi organi padronali:

“A questo punto la casa non sarà di vitale importanza. Se noi le aiutiamo a muoversi sui loro obiettivi, anche quello che possono ottenere dai sindacati sarà più grande.” ([21])

Si può quindi arrivare a presentare come grande vittoria rivoluzionaria i tentativi sindacali di rendere più efficienti i Consigli di Fabbrica, questi luridi comitati d’affari della borghesia in fabbrica:

“Sull’onda di questa vittoria era nata una commissione salute donne nell’ambito del Consiglio di fabbrica che aveva proposto un’indagine ambientale tramite il Servizio di Medicina Preventiva.” ([22])

La sorte di tutti i movimenti marginali è già segnata. Durante il 1° macello mondiale, le suffragette inglesi sospesero ogni agitazione ed accorsero all’appello dello stato borghese, tutte tese nella salvaguardia del supremo intesse della patria, per sostituire come volontarie gli uomini mandati al fronte.

Alle moderne suffragette del capitale non sarà riservato compito meno ripugnante.

Capire subito, ricominciare! Ricominciare che?

Introducendo la prima parte di quest’articolo, scrivevamo:

“In questo quadro di degenerazione totale si collocano, come reazione, alcuni tentativi di critica delle concezioni confusioniste ed interclassiste da parte di settori rimasti legati ad una concezione più ‘classista’. Per quanto questi tentativi vadano incoraggiati al massimo, bisogna denunciare il grave pericolo cui vanno incontro di considerare queste deviazioni come “incidenti di percorso” e pensare quindi che basti “ricominciare da capo”.” ([23])

Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno dimostrato che sia la reazione sia il pericolo di non andare a fondo nella critica non erano nostre invenzioni. Nel volantone ([24]) distribuito a Milano dopo la morte dell’agente Clustrà e significativamente intitolato “Capire subito, ricominciare!” si scrive:

“Se qualcuno si faceva illusioni sul carattere “contemporaneo” ed “orizzontale” dello scontro, ora gli sono passate.” Molti settori del movimento hanno “affrontato lo scontro di classe con un taglio ed una illusione insurrezionalista, con forme di lotta tanto repentine e “spontanee” quanto incapaci di porsi e porre problemi reali nello scontro. Lo Stato, la sua ristrutturazione e la sua riorganizzazione non si cacciano come fantasmi con qualche colpo a fuoco. (…) Le masse - compagni! - non si mobilitano nello spazio di un mattino con la bacchetta magica, nemmeno con la bacchetta magica del “salario” e dell’“orario”.” (sottolineatura nostra, NdR

I fatti sono testardi - diceva Marx - e certe evidenze - come la natura di “cani da guardia” della “legalità democratica” dei gruppi - iniziano ad imporsi all’interno del movimento. Ma il pericolo sta appunto qui, nell’illusione che si possa capire subito e ricominciare la mattina dopo. “Il peso dei morti ossessiona a lungo il cervello dei vivi”; non è riconoscendo che certi errori ci sono stati, e via, ma facendone una critica radicale, che ciò che è vivo nell’Aut. Op. si strapperà dalla mente e dal cuore l’ossessivo fantasma dell’operaismo.

Sempre, nelle discussioni con militanti dell’Aut. Op., si arriva al punto obbligato: “Va bene, avrete pure ragione, ma allora che si fa?”. Compagni, si smette innanzitutto di giocare sull’equivoco e come elementi di avanguardia ci si prende tutte le proprie responsabilità di fronte alla propria classe. E questo si può fare solo se ci si dà un programma preciso ed un’organizzazione militante. Ma un programma non è una piattaforma sindacale alternativa per i contratti di quest’anno, é una Piattaforma Politica che delinei chiaramente le frontiere di classe stabilite dall’esperienza storica del proletariato. Capire subito? Ma se per anni l’Aut. Op. ci ha rotto le scatole sulla Cina Rossa, la lotta dei popoli antimperialisti, etc. Ed oggi che la Cina non riesce più a mascherarsi, che nella Cambogia “liberata” regna il terrore, che i “rivoluzionari” etiopici e somali si scannano tra di loro, come reagisce l’Aut. Op.? Semplicemente non ne parla più. Ci sono già tanti problemi in Italia, mettere in discussione tutto il Vangelo su cui si è tanto giurato potrebbe far perde re tempo, bisogna ricostituire subito un qualche Coordinamento Metropolitano. Compagni, se non si capisce tutto questo, se non si arriva ad inquadrare questi fatti “misteriosi” grazie ad un insieme coerente di posizioni di classe sul capitalismo di stato, le lotte di liberazione nazionale, i “paesi socialisti”, etc., si costruisce sulla sabbia e si inganna il proletariato.

Noi non siamo qui per sparare sentenze o cazzate sul movimento, ma per lavorare con tenacia a quello che è oggi il compito fondamentale dei rivoluzionari: il raggruppamento internazionale in vista delle battaglie future e decisive. Svolgere questo ruolo per noi non significa dare la caccia a qualche compagno per rinfoltire le nostre fila, significa dare in maniera organizzata e militante il proprio contributo e stimolo attivo all’ancora confuso e discontinuo processo di chiarificazione che è in corso nel movimento di classe. Sarà questa chiarificazione ad allargare le fila dei rivoluzionari. Scorciatoie orizzontali non abbiamo da offrirne: non esistono. Se qualcuno ha ancora illusioni sulla possibilità di contrabbandare un qualche coordinamento di comitati di base come partito rivoluzionario, ora se le faccia passare e presto: di tempo ne ha già perso, e parecchio.

BEYLE



[1] “Atti del Convegno di scioglimento” in Potere Operaio n° 50, Novembre ‘73, pag. 3.

[2] Ibidem, pag. 3.

[3] “I sindacati contro la classe operaia”, in Rivoluzione Internazionale n° 1, Dicembre ‘74.

[4] Senza scendere in dettagli, ricordiamo che il debito con l’estero passa da 71 e 61 milioni di dollari del ‘71 e ‘72 a 465 milioni nel ‘73 e 890 milioni nel ‘74.

[5] Avviene qui il crollo delle ultime illusioni su un sindacalismo combattivo, autonomo dai partiti, e sul ruolo dei Consigli di Fabbrica.

[6] Rosso n° 11, giugno 1974, pag. 33.

[7] “Alle Avanguardie per il Partito” in Potere Operaio 1970, pp. 70-71.

[8] E’ chiaro che questo non ha niente a vedere con la concezione dei rivoluzionari come “consiglieri” della classe, poiché è possibile svolgere un tale ruolo solo se ha una funzione attiva all’interno del movimento proletario.

[9] Potere Operaio, luglio ‘73.

[10] Da un documento BR che, non a caso, fu scritto all’epoca del sequestro Amerio.

[11] Potere Operaio, marzo ‘73.

[12] Vedi Controinformazione n° 3-4 pag. 70 “Brigate Rosse, stile di lavoro, teoria e pratica”.

[13] La nostra caratterizzazione delle BR come gruppo controrivoluzionario non è in contraddizione con la presenza al loro interno di numerose avanguardie di fabbrica. E’ il programma che un gruppo difende che ne caratterizza la natura di classe, non la sua composizione sociale. Sulle posizioni controrivoluzionarie delle BR (battere la DC!) torneremo presto.

[14] Rosso n° 11, ottobre ‘74, pag. 10.

[15] Rosso n° 13, dicembre ‘74, pag. 9.

[16] Rosso, novembre ‘75, pag. 10.

[17] Marx-Engels, La Sacra Famiglia.

[18] Lotta Femminista, poi Comitati per il Salario al Lavoro Domestico, è il componente principale del Collettivo Internazionale Femminista, fondato a Padova nel ‘72, cui appartengono pure Power of Women di Selma James in Inghilterra ed analoghi gruppi a New York ed in Canada.

[19] Dal libro “Le Operaie della casa”, ed. Marsilio 1975, pag. 23.

[20] Marx-Engels, “La Sacra Famiglia”.

[21] Selma James, marzo 1972, ora in “Sottosopra” 1973, pag. 10.

[22] “Le operaie della casa” n°1 giugno-luglio ‘76, pag. 10.

[23] Rivoluzione Internazionale n° 8, Aprile ‘77, pag. 7.

[24] Rosso n° 19-20, giugno ‘77, pag. 3. Il Volantone è firmato da Comitati Proletari Comunisti - Comitati Comunisti per il Potete Operaio - Collettivi Politici Operai - Comitato Comunista (ml) di Unità e di Lotta - Partito Comunista (m-l) Italiano.

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Operaismo [5]

Rivoluzione Internazionale - 1978

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Annata 1978

Rivoluzione Internazionale n° 11

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Numero di dicembre 1977 - febbraio 1978

Rivoluzione Internazionale n° 12

  • letto 35 volte
Numero di aprile-giugno 1978

Rivoluzione Internazionale n° 13

  • letto 10 volte
Numero di luglio-settembre 1978

Rivoluzione Internazionale n° 14

  • letto 7 volte
Numero di ottobre-dicembre 1978

Coordinamento di Sesto S. Giovanni : un chiaro segno del processo di maturazione nella classe dal ’68 ad oggi

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Segnaliamo e raccomandiamo ai compagni la lettura e la discussione dei due documenti pubblicati dal Coordinamento degli operai delle fabbriche Breda, Falck e Magneti Marelli di Sesto San Giovanni[1]. Il primo, “La svolta sindacale gli interessi degli operai” costituisce una critica del documento economico del direttivo delle confederazioni CGIL-CISL-UIL del gennaio 1978 in cui si analizza il ruolo di sostegno e di difesa del capitale svolto oggigiorno dai sindacati, l’irreversibilità della crisi e la prospettiva di guerra cui già si prepara la borghesia. Il secondo, il “Manifesto politico del Coordinamento degli operai di Sesto San Giovanni”, oltre ad una breve presentazione sulla formazione del coordinamento, costituisce tanto una sorta di piattaforma politica e programmatica, quanto un appello “per l’unificazione dell’avanguardia di fabbrica, per la lotta politica indipendente degli operai”.

Noi, in quanto rivoluzionari, accogliamo con il massimo favore e piena soddisfazione l’apertura del confronto e del dibattito con questi compagni, condividendo con essi la preoccupazione che l’isolamento in cui molti altri gruppi operai si trovano è uno dei motivi chiave della lentezza della loro evoluzione, se non addirittura della loro sparizione. Infatti noi siamo convinti, ed alcuni importanti sintomi lo confermano, cha si stia sviluppando in diverse città italiane una serie di iniziative operaie di discussione che solo a volte riescono a raggiungere la forza e la maturità per farsi conoscere a livello nazionale, ma che spesso, viceversa, rimangono inviluppate nell’angusto confine cittadino se non di fabbrica. Noi salutiamo calorosamente 1’emergere di questo processo e lo valutiamo come un sintomo di “buona salute politica” della classe operaia, in quanto essa segna il fatto che, nonostante le varie battute d’arresto subite in questi ultimi dieci anni, gli operai non sono sconfitti e si sono messi al lavoro, ripartendo non da zero, ma da un mucchio di esperienze maturate proprio in questi anni. Se perciò questo articolo fa riferimento preciso ad un particolare Coordinamento di operai[2] pervenuto peraltro ad un notevolissimo livello di maturità politica, d’altra parte con esso intendiamo rivolgerci a tutto lo sforzo sotterraneo che sta svolgendo in questa fase la classe operaia, per dare il nostro contributo alla sua ripresa e al suo riproporsi come protagonista sulla scena storica mondiale, per poter finalmente ripetere: “Ben scavato, vecchia talpa!”

La classe alla ricerca della sua unità e della sua coscienza

II periodo che va dal ‘68 ad oggi segna per noi la fine del periodo di controrivoluzione, che si era prodotto a ridosso della sconfitta degli anni 20, e l’inizio della ripresa della lotta di classe.

Questa ripresa, favorita dalla crisi mondiale del capitalismo, è anch’essa mondiale e si va manifestando, anche se con fasi alterne, sia nei centri ad alta concentrazione industriale, che nel Terzo Mondo, all’Est così come in occidente.

Lungo questi anni, di fronte a fasi di riflusso della lotta, molti hanno gridato all’apatia se non alla integrazione della classe operaia nella società borghese, e che si sarebbe dovuto contare, per il futuro, sui nuovi strati sociali emergenti di “proletariato giovanile”, dei “non garantiti”, ecc. Lasciando da parte un nostro giudizio di merito su questi discorsi[3], ci interessa qui sottolineare l’impazienza ribellistica, spesso di natura piccolo-borghese, che è alla base di queste posizioni. La delusione di questi compagni verso la classe operaia è determinata dal fatto che la sue lotte attuali non si sviluppano secondo un crescendo continuo e unico fino alla rivoluzione, ma conoscono anche delle pause, a volte lunghe, di apparente stagnazione. Ma se il cosiddetto “compagno di movimento” si sente compagno solo se c’è movimento e ripiega sul primo strato incazzato, anche se non proletario, purché faccia casino, i rivoluzionari devono essere meno miopi e comprendere e favorire le fasi di maturazione della classe, anche al di fuori della lotta aperta di piazza per poter prevedere e preparare il terreno della futura ripresa della lotta. Dicevamo un anno fa che “gli operai scoprono, sconfitta dopo sconfitta, che per difendere le proprie conditioni di vita bisogna ormai scontrarsi direttamente con lo Stato, di cui i sindacati non sono che un ingranaggio. In una situazione del genere (…) la maggioranza della classe arretra, per non dissanguarsi in scioperi senza storia e senza significato; (…) è come se la classe operaia arretrasse di fronte ad un nuovo ostacolo per poter meglio prendere una rincorsa adeguata al salto”[4] Oggi possiamo aggiungere che questa preparazione al grande salto comincia a venire alla luce ed il moltiplicarsi di iniziative di aggregazioni di compagni operai sotto le più svariate forme e sigle ne è un’evidente conferma. La spinta che è alla base della costituzione di questi vari nuclei operai è comune ed è una tendenza generale nella classe oggi: riappropriarsi degli strumenti della sua emancipazione, cioè la sua unità e la sua coscienza. Poco importa se, in dipendenza delle difficoltà locali, dell’eterogeneità esistente tra vari settori della classe, questa spinta si concretizza in maniera più o meno matura. Quello che conta è che la classe nel suo complesso, anche se spesso in maniera non del tutto cosciente, sta cercando di far fronte agli stessi problemi.

Ma questi nuclei operai che si vanno costituendo non hanno vita facile e, proprio perché sorgono dall’esigenza di unire la classe e di costituirne al tempo stesso dei punti di riferimento politici, sono spesso lacerati dal dilemma se operare o no una chiusura orizzontale, se ammettere qualsiasi operaio oppure sottoporre l’adesione all’accettazione di alcune discriminanti politiche. E’ per questo che assistiamo a tutta una gamma di strutture operaie diverse ed anche ad una notevole fragilità di queste. Ma, qualunque sia il loro grado di evoluzione, i rivoluzionari lavorano tenacemente per favorire tutti i tentativi della classe di pervenire coscientemente alla determinazione dei suoi fini storici e di costruire gli strumenti per il suo raggiungimento.

Benché l’attuale apparire di nuclei operai esprima la vitalità della classe, esso manifesta anche dei limiti. In effetti, una delle ragioni per le quali i lavoratori alla ricerca di una chiarezza politica sono condotti a raggrupparsi, indipendentemente da ogni partito, è l’assenza di una vera organizzazione politica della classe che sia riconosciuta come tale in larghe frange del proletariato o almeno tra quelli che sono animati da una tale volontà di ricerca, e che possa costituire una sorta di punto di raccolta e di propulsione delle discussioni e dello sforzo di chiarificazione. Man mano che, con l’estensione della lotta, si svilupperà la forza e l’impatto di una tale organizzazione, sarà sempre più intorno a questa che si ritroveranno i lavoratori in rottura con l’ideologia e le organizzazioni borghesi. D’altra parte nel periodo rivoluzionario, l’istanza portata avanti dagli attuali nuclei operai sarà fatta propria da tutta la classe che sarà impegnata nel suo insieme in una discussione permanente nelle assemblee generali e nei consigli e sarà influenzata in maniera diretta dalle analisi e dalle prese di posizione del partito proletario.

Coordinamento di Sesto S. Giovanni: elementi di forza e di debolezza dopo 10 anni di ripresa della lotta di classe

Se facciamo riferimento al Coordinamento di Sesto S. Giovanni è perché esso rappresenta una delle espressioni più mature di questo processo di riflessione in atto nella classe. Certo, esso rappresenta una punta per coerenza e lucidità, ma ciò che è alla sua base è lo stesso travaglio o lo stesso sforzo in cui si è ingaggiata la classe in questi dieci anni. Diciamo questo per sottolineare la nostra convinzione che la storia non passi invano, soprattutto per la classe operaia, e che un Coordinamento come quello di Sesto poteva nascere oggi e non nel ‘69. Infatti si può riscontrare, dalla lettura dei documenti di questi compagni, tutta la forza dell’esperienza di questi anni, tutte le scottature e disillusioni del passato, tutta la tensione ad evitare vicoli ciechi per il futuro. In questo senso il sorgere di questi gruppi operai é esso stesso una manifestazione della ripresa della lotta di classe, come risultato ultimo di un lungo processo attraversato dalle giovani generazioni operaie dal ‘69 ad oggi: passando attraverso cento comitati di sciopero ed altrettanti coordinamenti, dispersi ed a volte atomizzati dal rifluire delle lotte, attraverso e nonostante l’esperienza all’interno dei gruppi extraparlamentari, gli operai imparano a farsi le ossa, a riconoscere i propri nemici, a comprendere le strade sbagliate.

All’interno dell’impostazione dei due documenti, complessivamente ottimi, si possono sottolineare alcuni elementi di particolare importanza, primo fra tutti lo stesso modo di concepirsi. Infatti quando questi compagni affermano:

“Il Coordinamento degli operai non risolve tutti i problemi. In esso viene necessariamente mediata sia l’esigenza di organizzazione comunista sia l’esigenza dell'organizzazione sindacale di classe”[5]

dimostrano di essere consapevoli della intima contraddittorietà presente generalmente in questo tipo di strutture. Ed aggiungono:

“Ci rendiamo conto che i compiti politici ed organizzativi sono ben più vasti, ma questo strumento ci é necessario come un “luogo” dove le avanguardie possono misurarsi e misurare la possibilità di sviluppare fra gli operai un movimento politico indipendente (…). Un luogo dove mettere sotto verifica le proposte politiche che vengono riversate sugli operai (…). Non siamo il partito e non vogliamo neppure esserne un surrogato (…). Conosciamo i nostri limiti, i limiti di un’organizzazione ibrida, una forma transitoria, primitiva ma necessaria. Quanto questa forma di organizzazione potrà sopravvivere, quanto possa funzionare non possiamo stabilirlo ora. Ciò che ci é chiaro è che essa serve per confrontarci e per riunire gli operai di avanguardia dispersi nelle fabbriche attorno alla definizione del progetto comunista (…).”[6]

Quello dei compagni di Sesto S. Giovanni non è fatalismo, scetticismo, ma è sana coscienza della difficoltà del lavoro militante. Noi crediamo che sarà loro preziosa per reggere nel futuro, quale che sia la sorte dell’attuale Coordinamento.

Ma più che continuare ad enumerare i punti di accordo con questi compagni, crediamo sia fondamentale battere su quelle che consideriamo loro debolezze e che, non a caso, sono il contrappeso ai loro elementi di forza. Se dieci anni di ricerca, di esperienze sono stati sufficienti a fargli raggiungere l’attuale grado di maturità, costituiscono nello stesso tempo un retroterra troppo angusto per piantare solide radici nel movimento rivoluzionario e per mettere in chiaro ogni problema. Non che manchi in questi compagni la tensione a riallacciarsi alla tradizione del marxismo e del movimento operaio, assolutamente. Ma è certo arduo per chiunque, soprattutto dopo mezzo secolo di controrivoluzione, comprendere fino in fondo la lotta degli operai della Comune di Parigi, degli operai di Pietroburgo, di Berlino, di Kronstadt ed ancora far sì che nessuna di queste esperienze sia passata invano[7]. In questo senso riteniamo fondamentale la collaborazione nel dibattito ed il confronto fra tutte le organizzazioni e tendenze proletarie per riannodare il filo storico del movimento operaio ed è in questo senso che cerchiamo di dare il nostro contributo.

La prima questione riguarda i sindacati. Se i compagni di Sesto ne individuano chiaramente la netta funzione antioperaia e di appoggio al capitale nazionale, si sbagliano però di grosso nel darne la responsabilità ai “vertici sindacali”. Certo, i Lama, i Benvenuto sono gli abili manovratori della politica padronale, ma quante volte, compagni, vi siete trovati contro nei momenti critici un semplice “delegato di base”, uno del Consiglio di Fabbrica, un “compagno” della sinistra sindacale? Sono forse questi i vertici del sindacato? Eppure sono proprio questi elementi che, coscienti o meno, costituiscono a volte le pedine più pericolose in mano al nemico. A meno che non si voglia intendere per base la massa degli operai che hanno la tessera del sindacato e che notoriamente non hanno niente a che fare con la vita del sindacato se non subirne i soprusi (si tenga presente che in molte nazioni il tesseramento é obbligatorio, in altre é “fortemente consigliato”).

Sarebbe come dire che l’esercito é una istituzione cattiva perché ha dei pessimi capi, ma la base può rovesciare le cose ed utilizzarlo in maniera diversa. Qui non è questione di capi, ma di funzione oggettiva svolta da un organo. Come l’esercito é la forza armata della borghesia nazionale, così il sindacato é lo strumento di divisione e di incanalamento del malcontento operaio, qualunque sia la sua sigla e chiunque siano i suoi dirigenti.[8] I compagni che non. fossero d’accordo su questo ci indichino un solo sindacato di classe, e noi cambieremo la nostra posizione.

A parte queste note vogliamo rilevare un altro aspetto che salta agli occhi nel confronto fra i due documenti del Coordinamento. Mentre nella critica alla piattaforma confederale abbondavano i discorsi sui “vertici sindacali” e sulle possibilità future di una “ricostituzione” del sindacato oppure dell’“espulsione di tutte le componenti piccolo-borghesi che oggi lo dirigono”, nel successivo Manifesto scompare ogni riferimento esplicito a queste posizioni:

“Le organizzazioni sindacali, gestite dai partiti governativi, e principalmente dal PCI, si configurano oggi come un pilastro del sistema capitalistico. Il fatto che il sindacato conti milioni di operai tra i suoi iscritti non lo caratterizza come organizzazione di classe (…). L’unione in un’unica organizzazione che difenda sul mercato e nel consumo la forza-lavoro è una necessità sempre presente fra gli operai. Ma qui sorge il problema: si può contrattare la forza-lavoro, dando per scontata la continuità del modo di produzione capitalistico, per cui il compratore va assicurato in ogni modo. Ciò non esclude le lotte fra venditori e compratori, ma la politica di una simile organizzazione sindacale non può che seguire l’andamento degli affari dei padroni, ed “ottenere quello che si può”. Nei moment di espansione degli affari si possono rivendicare anche aumenti salariali, miglioramenti normativi; ma nella crisi, siccome bisogna salvare il compratore, tutti debbono sacrificarsi e lavorare di più perché, superata la crisi, il compratore torni a comprare la merce che gli operai hanno da vendere. (…) L’attuale sindacato non è l’organizzazione nella quale gli operai possano sviluppare le lotte per i loro interessi.”[9]

Ora, se si fa piazza pulita di alcune posizioni chiaramente insostenibili, è anche vero che il discorso rimane ambiguo, a mezza strada. Si parla ancora dell’attuale sindacato, ma il problema a cui bisogna dare una risposta é se sia mai possibile avere un sindacato diverso da quello attuale. Fermarsi alle soglie del problema, limitarsi a lasciar cadere le formulazioni più stridenti e poi tirarsi su dicendo: “crediamo che basti nella situazione attuale”, significa lasciare a metà il lavoro di “chiarezza e scontro sui programmi” che ci si é dati come obbiettivo.[10] E non basta neanche contrapporre una scelta concreta di lotta agli aut-aut della borghesia:

“Al ricatto posto dalla domanda “operare all’interno o fuori”, che nascondeva sempre una mistificazione sul giudizio da dare su questo sindacato, rispondiamo cercando di definire un programma ed un giudizio su cui impostare un’azione di difesa degli interessi materiali degli operai.”[11]

perché é nel concreto stesso dalla lotta che gli operai si ritrovano puntualmente di fronte non solo “questo” sindacato, ma tutte le varianti possibili della trappola sindacale (dai sindacati autonomi, ai mini-sindacatini “rivoluzionari”, all’indipendentismo “apolitico”, etc.) come le attuali lotte degli ospedalieri stanno a dimostrare. E’nella lotta che l’aver lasciato una porta aperta alla possibilità di un sindacato di classe si paga su tutti i piani, compreso quello della difesa degli interessi immediati dei lavoratori.

Un secondo punto su cui vogliamo intervenire é la tendenza dei compagni del Coordinamento a delimitare e definire il più nitidamente possibile il concetto di classe operaia, in contrapposizione ed in giusta polemica con i concetti di “operaio-sociale”, “sfruttamento sociale”, “nuovo proletariato”, etc. Si tratta di una sana reazione alle “ultime trovate” degli inventori di professione, ma è proprio il permanente pericolo dell’influenza della ideologia piccolo-borghese che spinge questi compagni a forzare un po’ la mano su questo punto. Si approda così ad una analisi che tende ad assumere come base di valutazione politica di un gruppo l’estrazione sociale dei suoi aderenti e non le sue posizioni politiche. Per cui si ottengono due errori opposti a simmetrici. Da una parte non si é abbastanza risoluti con i gruppi extraparlamentari limitandosi a definirli un’espressione della piccola borghesia e non come gruppi esplicitamente controrivoluzionari, dall’altra si fa tabula rasa di altri gruppi come i Comitati Comunisti Rivoluzionari che, secondo noi, non possono essere certo considerati alla stessa stregua di L.C. e P.dU.P.[12]

In qualche modo questa delimitazione dei confini politici della classa operaia coincidente con i suoi confini sociali è ingannevole e può alimentare un certo localismo fabbrichista e/o geografico. Infatti, pure se i compagni esprimono in maniera ineccepibile la posizione sull’internazionalismo proletario, non fanno alcun cenno ad episodi specifici di lotta a livello internazionale (vedi Polonia, Spagna, Germania, etc.); d’altra parte, oltre alla diffusione nazionale del “Manifesto”, che ci è sembrata un’iniziativa molto felice, par il resto vi può essere la tendenza a rinchiudersi nell’ambiente strettamente di fabbrica, scartando a priori la ricerca di altri contatti politici, in Italia o all’estero, con altri gruppi di discussione o con gruppi politici costituiti. Certo i compagni di Sesto non escludono il dibattito con altri compagni che siano su un minimo di posizioni di classe e sono ben chiari sul fatto che non intendono fermarsi al coordinamento e che questo è al tempo stesso uno strumento “per cominciare a lavorare”. Ma la loro esperienza e la loro iniziativa sono di una tale importanza per il movimento proletario che non ci facciamo scrupolo di segnalare e di metterli in guardia da tutti i pericoli, presenti o futuri, che possono bloccare o svilire questo lavoro e impedirgli di divenire patrimonio di tutta la classe.

L.



[1] I compagni che vogliono entrare in contatto con il coordinamento possono scrivere a: Luciano Doldi, Casella Postale 147, Cordusio, 20100 Milano.

E’ interessante notare che a questo “Coordinamento” è stato già dedicato un articolo da “Battaglia Comunista” sul n°10-11 del 1-30 luglio 1978.

[2] E’ interessante notare che a questo “Coordinamento” è stato già dedicato un articolo da “Battaglia Comunista” sul n°10-11 del 1-30 luglio 1978.

[3] Vedi “L’area dell’autonomia: la confusione contro la classe operaia” pubblicato sui n°8 e 10 di Rivoluzione Internazionale.

[4] Rivoluzione Internazionale n°10, pag. 22.

[5] Dal Manifesto di Sesto S. Giovanni, pag. 3.

[6] Idem.

[7] Su questo tema, che contiamo di approfondire in un ulteriore incontro con i compagni del Coordinamento, vedi anche su questo stesso numero la nostra risposta alla lettera della redazione di Collegamenti.

[8] Una esposizione più articolata delle nostre posizioni sulla natura controrivoluzionaria dei sindacati si trova nel n°1 di Rivoluzione Internazionale, nell’articolo “I sindacati contro la classe operaia”. Segnaliamo la prossima ripubblicazione di questo scritto in un opuscolo che conterrà anche un testo introduttivo sulla esperienza maturata dalla classe dal ‘68 ad oggi.

[9] Dal Manifesto di Sesto S. Giovanni, pag. 11-12.

[10] Una questione analoga riguarda i compagni di “Operai e Teoria”, che partecipano attivamente al Coordinamento. Nel numero unico del loro giornale si trovava, in stridente contrasto con l’insieme dalle posizioni espresse, un fugace accenno alla natura proletaria o ex-proletaria di Cina ed Albania. Nel Manifesto si afferma invece chiaramente: “Noi non ci poniamo a fianco di qualcun altro nella lotta alle due superpotenze; ci poniamo a fianco degli operai di tutti i paesi per lottare ognuno contro il proprio governo imperialista”. E’ chiaro che da parte di questi compagni si impone una definitiva chiarificazione a questo proposito.

[11] Dal Manifesto di Sesto S. Giovanni, pag. 13.

[12] Nei confronti di formazioni come questa che, pur segnata da pesanti errori e da rilevanti lacune, ha mostrato di sapersi distinguere in più occasioni dalla palude della Autonomia, i rivoluzionari devono avere un atteggiamento di critica ferma e spietata se occorre, ma non di condanna senza appello. Contiamo infatti di dedicare un prossimo articolo all’analisi delle posizioni dei C.C.R.

Vita della CCI: 

  • Corrispondenza con altri gruppi [6]

Geografiche: 

  • Italia [7]

Rivoluzione Internazionale - 1979

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Annata 1979

Rivoluzione Internazionale n° 15-16

  • letto 14 volte
Numero di gennaio-marzo 1979

Rivoluzione Internazionale n° 17

  • letto 13 volte
Numero di aprile-giugno 1979

Rivoluzione Internazionale n° 18

  • letto 11 volte
Numero di novembre 1979

URL Sorgente:https://it.internationalism.org/rivoluzioneinternazionale/200711/493/rivoluzione-internazionale-1970s

Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/1/23/rivoluzione-internazionale [2] https://it.internationalism.org/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria [3] https://it.internationalism.org/tag/storia-del-movimento-operaio/1917-rivoluzione-russa [4] https://it.internationalism.org/tag/2/26/rivoluzione-proletaria [5] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/operaismo [6] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi [7] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia