1.1 Quadro internazionale della crisi e situazione economica dell’Italia
La fase attuale della crisi economica si è ormai installata nel cuore del capitalismo e sta minando alle basi quella che era stata la culla dello stesso capitalismo, l’Europa. In questo quadro l’Italia si trova in una posizione particolarmente fragile e, nonostante le misure draconiane che sono state finora prese, si registra un debito consolidato di quasi 2000 miliardi di euro, con una tendenza continua a crescere![1] D’altra parte la politica imposta all’Italia (come alla Spagna, alla Grecia, ed in genere alle popolazione europee) di tagliare su spese e salari, porta necessariamente a una riduzione della domanda e ben difficilmente, ammesso che ce ne possano essere i margini, la situazione che ne consegue può portare ad una ripresa dell’economia. Questo anche per la perdita di competitività avutasi negli anni, legata a un minore aumento di produttività[2]. L’andamento impazzito dei mercati finanziari strozza sempre più la cosiddetta economia reale[3] e gli impianti che chiudono in giro per l’Italia non si contano, con incremento di disoccupazione, povertà, precarietà, …. Certo, le difficoltà non sono solo dell’Italia. Sappiamo ad esempio che da dicembre 2007 a giugno 2009 sono stati persi negli Usa 8,4 milioni di posti di lavoro.[4] Nella stessa Europa, “a maggio sono circa 48 milioni i disoccupati nell'area dell'Ocse: quasi 15 milioni in più rispetto all'inizio della crisi finanziaria iniziata alla fine del 2007.”[5] Ma la cosa non è certo consolante visto che: “La disoccupazione in Italia dovrebbe salire dall'8,4% del 2010 e del 2011 al 9,4% nel 2012 e al 9,9% nel 2013. (…) Tra il 2010 e il 2011 è cresciuta in Italia la disoccupazione di lunga durata. L'anno scorso il 51,9% dei disoccupati lo era da più di 12 mesi contro 48,5% nel 2010.”[6] O ancora che: “Con il tasso record del 35,9% segnato a marzo, l'Italia è al quarto posto tra i 33 Paesi aderenti all'Ocse nella poco invidiabile classifica della disoccupazione giovanile ed è nella stessa, difficile posizione per i 'Neet', i giovani totalmente inattivi cioè “né a scuola, né al lavoro”. Nella Penisola la disoccupazione nella fascia d'età tra 15-16 e 24 anni è aumentata durante la crisi di 16,5 punti percentuali rispetto al 19,4% del maggio 2007.”[7]
1.2 Attacchi economici e processo di pauperizzazione della popolazione
Come evidenziato in precedenza, il punto su cui si scarica tutto il peso della crisi è, sistematicamente, la classe dei lavoratori che, essendo l’unica a produrre ricchezza, è anche quella più tartassata della società. Anche se può risultare scontato, vale la pena ricordare che gli attacchi più brutali e devastanti sono stati portati avanti proprio dall’ultimo governo in carica, che si è distinto per cinismo e ferocia delle manovre. Anzi va ribadito che si è puntato proprio sulla figura del serio professionista Monti per far passare delle misure assolutamente antipopolari che avrebbero potuto far saltare in poco tempo governi non ben ancorati da un rapporto di fiducia con la popolazione, come il precedente governo Berlusconi. Ecco l’elenco degli attacchi economici più importanti:
Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato che, con questa manovra, le ricadute saranno, nel 2014, pari a 1.129 euro per ogni famiglia. Tali ricadute, sommate alle misure per il 2011 volute dal governo Berlusconi, raggiungono la cifra di 3.160 €. L’impatto sulla capacità di consumo è pari al 7,6% all’anno.
Tra le varie storie di ordinaria follia con cui procede ormai questo governo nella sua azione di bonifica delle pubbliche finanze, (si intende, solo a carico dei lavoratori!), la storia degli esodati è una storia tutta italiana con 390 mila lavoratori che, in un primo momento, erano stati incoraggiati a lasciare, prima dei tempi, il proprio posto di lavoro per permettere all’azienda di appartenenza una ristrutturazione o l’uscita dalla crisi, e lo avevano fatto sulla base di accordi con lo Stato che aveva promesso un accompagnamento economico fino a raggiungere l’età della pensione. Sennonché, con l’ultima riforma sulle pensioni dell’autunno scorso (l’ennesima!) che ha innalzato l’età pensionabile a 66 anni, l’insieme di queste persone si è trovata con le “regole del gioco” cambiate dopo aver fatto l’accordo e concretamente con degli anni in più di attesa per raggiungere la pensione, senza alcuna garanzia di ricevere né uno stipendio o pensione né alcun sussidio dallo Stato. Questa situazione ignobile, che ha mostrato l’incapacità di questo governo di “professori” di fare le giuste proiezioni sull’effetto di una legge, ha avuto in più l’aggravante dello stupido gioco dello stesso governo (e del ministro Fornero in particolare) a minimizzare il problema, emanando un decreto che recupera la situazione solo per 65 mila esodati per riconoscere solo a distanza di tempo che il problema è più ampio, affermando che per gli altri … «si vedrà».”[9]
C’è ora da chiedersi: cosa ha prodotto questa serie di attacchi nella popolazione? Siamo più poveri di prima, questo è ovvio, ma di quanto siamo tornati indietro? A tale scopo facciamo un piccolo passo indietro cercando di confrontare la situazione attuale con quella degli anni del dopoguerra.
1.2.1 Dal dopoguerra agli anni ‘60
La situazione che si presenta in Italia nel secondo dopoguerra è qualcosa di assolutamente drammatico. Dopo tutte le distruzioni del conflitto, che aveva provocato nella sola Italia quasi mezzo milione di morti, si sviluppa un’inflazione galoppante che fa aumentare i prezzi delle merci di 20 volte! Tra l’altro, nei negozi non era possibile trovare molto e bisognava ricorrere al mercato nero, sempre fornitissimo di ogni tipo di merce (un po’ come succedeva nell’ex regime stalinista in Russia). Ma poteva comprare al mercato nero solo chi aveva soldi per farlo, mentre per la parte più povera della popolazione la situazione era decisamente nera.
«In Italia nel 1951 c’erano 869 mila famiglie (3 milioni e mezzo) in cui non si mangiava ne’ carne ne zucchero. Anche nelle famiglie più adagiate lo zucchero e la carne non comparivano molto spesso e quelle poche volte che comparivano erano l’unica portata. (…). Anche i cereali come la pasta e il pane che era solitamente il cibo dei poveri in Italia non si faceva largo uso. (…) Gli appartamenti degli italiani (avevano): per il 76% avevano la cucina; il 52% l’acqua corrente; e solo il 27% l’energia elettrica. (…). C’era quasi in tutti gli appartamenti la radio: era un oggetto di uso comune e quasi tutti potevano permettersela, era servita a portare nelle famiglie la voce del duce e dei suoi discorsi e verso la fine della guerra (solo nelle case dei più coraggiosi) la voce di Radio Londra. La radio a quei tempi trasmetteva i giornali radio e anche le canzoni, era nato infatti nel 1951 il festival di San Remo.»[10]
E’ interessante notare, come sopra riportato, che nell’immediato dopoguerra praticamente tutte le famiglie possedevano la radio. Anzi, come viene precisato, la radio era diffusa anche prima della guerra con il preciso motivo che era servita a portare nelle famiglie la voce del duce e dei suoi discorsi. Un po’ come si è prodotto successivamente con la televisione che, oltre ad essere uno strumento ludico, è anzitutto uno strumento di indottrinamento e quindi di controllo politico di tutta la popolazione.
«Negli anni ’50 e ’60, in Italia, l’industria divenne l’attività principale, quella con il maggior numero di addetti. (…) Nel Nord il livello di vita salì molto rapidamente e si ebbe una forte richiesta di manodopera. Nel Sud agricolo vi fu una riduzione di posti di lavoro e la povertà rimase diffusissima. Negli anni ’50 meno del 10% della popolazione dell’Italia settentrionale aveva un’alimentazione scarsa, mentre nell’Italia meridionale più del 50% si trovava in questa situazione. (…) Fino all’inizio degli anni ’60, i salari degli operai rimasero molto bassi e molti si trovarono a lavorare in ambienti nocivi o a svolgere lavori pericolosi. Si verificarono perciò moltissimi incidenti mortali e casi di danni permanenti. Alcune industrie chimiche divennero vere e proprie fabbriche della morte: fu il caso dell’IPCA di Torino, una fabbrica di coloranti, dove 140 operai morirono per carcinoma alla vescica.»[11]
1.2.2 La situazione degli anni 2000
Sulla base degli elementi riportati ci si può chiedere quale delle due epoche, quella del dopoguerra e quella attuale, offre di più alla popolazione. Naturalmente, nel fare il confronto, dobbiamo tener conto del fatto che la situazione del dopoguerra risentiva di tutte le distruzioni della guerra e delle difficoltà a ripartire con un’economia a pezzi. Inoltre parliamo di 70 anni fa, quando anche la tecnologia non era ancora quella dei nostri tempi. Il che significa che non avere la luce elettrica o l’acqua corrente o i servizi igienici all’epoca era come non avere oggi, poniamo, un sistema di riscaldamento in casa, il che può essere duro, ma non drammatico. Per quanto riguarda le morti bianche per lavoro, nonostante tutto il grande can can che fa la politica su questo piano e le misure prese (più per non dover pagare gli indennizzi e le cure agli operai che per convinzione), si lamentano in Italia in media 3 vittime al giorno per incidenti, oltre all’incremento dell’incidenza di malattie tumorali per la crescente dispersione di rifiuti tossici sul territorio. Ma soprattutto il problema è di prospettiva. Negli anni ’50 la gente soffriva tanto ed ha affrontato dei sacrifici inenarrabili. Ma quella generazione ha affrontato tutto questo perché vedeva davanti a sé una prospettiva, vedeva che, anche se lentamente, si spostavano degli equilibri. I genitori tutti di quel periodo hanno fatto di tutto per mandare avanti i propri figli e far conquistare loro un posto nella vita, e in generale ci sono riusciti. Oggi la situazione è totalmente rovesciata. A partire da tutto questo, che futuro ci possiamo immaginare? Certo, di difficoltà ne hanno affrontate e superate anche le generazioni precedenti, particolarmente quelle che sono venute immediatamente dopo la guerra e che hanno sofferto i patimenti di un periodo di povertà e di ristrettezze. Ma quella generazione, anche se ha avuto un cammino tutto in salita per un lungo periodo, è poi riuscita a ottenere delle condizioni di vita complessivamente migliori. Il tenore di vita è globalmente migliorato. Molti dei figli di quella generazione hanno fatto un salto sociale, diventando dottori, professionisti, vivendo una vita più agiata e meno di stenti. Oggi la prospettiva è del tutto invertita. Se prima l’operaio voleva ed otteneva di fare il figlio dottore, adesso il professionista fa il figlio operaio, e l’operaio fa il figlio … disoccupato. In altri termini le generazioni precedenti hanno sofferto anche per qualche decennio, ma poi hanno conosciuto nuove prospettive; attualmente invece quello che spaventa di più è proprio che non si vede nessuna prospettiva, anzi che all’orizzonte si vede solo un peggioramento di quello che già viviamo adesso (si pensi in primo luogo alla crisi economica di cui nessuno, nemmeno fra i difensori del sistema capitalista, riesce ad immaginare un superamento vero e duraturo).
D’altra parte è in atto, come ragionevolmente ognuno di noi può constatare, un processo di impoverimento collettivo. E la situazione di degrado è tale che lo Stato si vede costretto a truccare le carte per nascondere il disastro:
«Non è vero che siamo meno poveri, come gli ultimi dati ufficiali sulla povertà (luglio 2010) farebbero pensare. Secondo l’Istat lo scorso anno l’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie con un reddito al di sotto di una cosiddetta linea di povertà relativa, ndr) è stata pari al 10,8% (era 11,3% nel 2008), mentre quella della povertà assoluta risulta del 4,7%. Secondo l’Istat si tratta di dati “stabili” rispetto al 2008. In realtà, si tratta di un’illusione «ottica»: succede che, visto che tutti stanno peggio, la linea della povertà relativa si è abbassata, passando da 999,67 euro del 2008 a 983,01 euro del 2009 per un nucleo di due persone. Se però aggiornassimo la linea di povertà del 2008 sulla base della variazione dei prezzi tra il 2008 e il 2009, il valore di riferimento non calerebbe, ma al contrario salirebbe a 1.007,67 euro. Con questa operazione di ricalcolo, alzando la linea di povertà relativa di soli 25 euro mensili, circa 223 mila famiglie ridiventano povere relative: sono circa 560 mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (cioè 7 milioni e 810 mila poveri) con un risultato ben più amaro rispetto ai dati ufficiali: sarebbero 8 milioni e 370 mila i poveri nel 2009 (+3,7%).»[12]
Fig.1: La povertà assoluta: percentuale di persone povere in Italia, 1861-2011, (Fonte: Amendola, Salsano e Vecchi (2011), p. 297.)
Solo di recente, una ricerca condotta nell’ambito del 150° anniversario dell’Unità di Italia ha prodotto una prima stima dell’incidenza nazionale della povertà assoluta in Italia dal 1861 al 2008. Come si vede dal grafico di fig.1, lungo i 150 anni di storia unitaria l’incidenza della povertà passa dal 45 per cento di fine Ottocento all’attuale 4,4 per cento, ma è anche vero che il “miracolo” della sconfitta della povertà si osserva soprattutto negli anni Settanta del Novecento: in poco più di un decennio (1970-1981) l’incidenza passa dal 20 per cento a meno del 5 per cento. I decenni più recenti registrano invece un sostanziale ristagno dell’indicatore.[13]
La borghesia italiana usa meno gli indicatori che, a differenza della povertà relativa (come visto visibilmente ingannevole), danno indicazioni più precise sul presente e, soprattutto, sul futuro, come la vulnerabilità alla povertà che non misura la povertà di oggi, ma quella di domani.
«Sono infatti vulnerabili le famiglie che hanno una probabilità superiore alla media nazionale di sperimentare, nel futuro (tipicamente nei dodici mesi successivi all’intervista), un episodio di povertà. Si tratta tanto di famiglie povere oggi, e che hanno bassa probabilità di uscire domani da questa condizione (si parla in tal caso di povertà cronica), quanto di famiglie non ancora povere, ma che non hanno strumenti idonei per fronteggiare eventuali shock negativi di reddito. Alcune stime preliminari hanno prodotto risultati molto netti che, se confermati, suggeriscono dimensioni insospettate del fenomeno. Dal 1985 al 2001 si stima che circa la metà della popolazione abbia un rischio elevato di cadere in povertà (Tab.1). Sorprendentemente, il gruppo dei vulnerabili, è composto non solo da famiglie povere, ma soprattutto da famiglie non povere. Il 40 per cento circa delle famiglie non povere è vulnerabile. Accanto a una povertà assoluta stabile, se non in leggera flessione, emerge dunque una latente fragilità delle famiglie italiane.»[14]
Tab.1: La vulnerabilità alla povertà in Italia, 1985-2011 (Fonte: Rossi e Vecchi,2011).[15]
D’altra parte l’impoverimento non procede in maniera uniforme su tutta la popolazione e su tutto il territorio, ma aggredisce soprattutto le aree storicamente più deboli, e particolarmente il sud:
«Il Rapporto annuale dell’Istat descrive un paese in cui coesistono regioni (nel Nord) con livelli di benessere o inclusione sociale analoghi a quelli della Svezia e regioni (nel Sud) con rischi di povertà o esclusione prossimi a quelli della Romania. (…) Le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale sono in Italia 15 milioni, una persona su quattro (il 24,7 per cento): una percentuale più elevata non solo della media dei 17 paesi dell'area euro (21,2 per cento) ma anche della media dei 27 paesi dell'Unione Europea (23,1 per cento).»[16]
1.3 Prospettive a breve e medio termine
Come si vede la situazione che si profila davanti a noi in Italia - ma è l’identica situazione in altri paesi con una sfasatura temporale in avanti o un po’ all’indietro - è di una catastrofe crescente e di una pauperizzazione generalizzata di tutta la classe lavoratrice. La miseria degli anni del II dopoguerra non sta dietro di noi, ma è la situazione verso la quale stiamo andando. Con l’aggravante che adesso non c’è nessun piano Marshall che ci possa venir a tirare fuori, non c’è nessuna capacità di recupero del capitalismo che ha ormai, e da tempo, esaurito tutte le sue risorse.
2.1 Perdita di credibilità dei partiti ed accentuazione del populismo di sinistra (e di destra): quali prospettive per le politiche del 2013?
Come abbiamo ricordato più volte, la formazione del governo Monti a metà novembre dello scorso anno, se è stato un atto indispensabile da parte della borghesia per recuperare una situazione economica e politica che rischiava di andare sempre più fuori controllo, ha comportato per i vari partiti politici rappresentati in parlamento un sacrificio importante ma soprattutto ha creato per loro una situazione molto difficile per il futuro. Se si parte dalla constatazione che l’insieme della “rappresentanza politica” della borghesia ha perso da parecchio lo smalto di una volta e che la gente ripone sempre meno speranze e quindi fiducia in questo o quel partito, accettare la formazione del governo Monti come unica possibile soluzione per poter uscire dai guai, significa in qualche modo riconoscere la propria incompetenza a fare altrettanto. D’altra parte questa unione coatta all’interno dell’attuale governo di forze destinate a combattersi già da oggi in vista delle elezioni di aprile prossimo crea necessariamente fibrillazioni continue nella maggioranza e porta alla erosione dei due principali partiti che vi appartengono, PDL e PD.
Il primo, dopo la recente sconfitta elettorale alle amministrative[1], è alla ricerca di una identità perduta. Infatti, il ritiro forzato di Berlusconi dalla scena politica per qualche tempo ha tolto al PDL la sua quasi unica attrattiva, cioè il populismo berlusconiano, rendendolo un partito arido e privo di ogni attrattiva. Non è un caso che, dopo le amministrative, assorbita un po’ la botta della sconfitta, sia tornato in grande stile la figura di Berlusconi che ha ricominciato a buttare giù una serie di gragnole politiche per destare l’attenzione: vedi la proposta di abbandonare l’euro e di tornare alla lira, o quella di tornare a candidarsi come segretario del partito e premier per la prossima legislazione, o ancora quella di cambiare di nuovo nome al partito e tornare a quello di Forza Italia, salvo che fare marcia indietro dopo la minaccia degli ex AN di non aderire al nuovo partito, ecc. ecc. Ma è chiaro che, per quanto cerchi di creare attenzione intorno a sé, gli argomenti dell’ultimo Berlusconi sono ormai triti e ritriti e non attecchiscono più come una volta; inoltre, il consenso che il Berlusconi imprenditore poteva avere in tutta una serie di settori forti dell’Italia che conta (confindustria, chiesa, …) è stato irrimediabilmente bruciato. La prospettiva del PDL è dunque quella di sopravvivere a sé stesso, con o senza Berlusconi, con un credito elettorale che difficilmente potrà anche solo accostarsi agli exploit di una volta.
Per quanto riguarda il PD, si fa veramente fatica a capire cosa sia questo oggetto politico statico e inerme per antonomasia, espressione di una sinistra borghese ormai praticamente inesistente in Italia. Il PD ha permesso a Berlusconi di governare indisturbato per 8 dei 10 lunghi anni dal giugno 2001 al novembre 2011, consentendogli di portare avanti, tra le altre cose e senza la benché minima opposizione: la macelleria del G-8 a Genova, le più spregiudicate leggi ad personam, la completa lottizzazione della RAI, oltre naturalmente che avallare tutte le manovre economiche e gli interventi militari in varie parti del mondo. Il PD in realtà si caratterizza più per quello che non ha fatto che per il quasi niente che ha fatto. Per cui esso stesso, se in qualche modo risulta ufficialmente vincitore delle amministrative di quest’anno e candidato a vincere le prossime politiche, è in preda ad una perdita di credibilità che trova un limite giusto nella mancanza di alternative.
La deriva dei due principali partiti trova una spiegazione nella fase di crisi profonda che affronta l’economia mondiale e quella italiana in particolare, e nell’obbligatorietà di prendere, da parte di qualunque sia il partito al governo, le misure le più impopolari. La destra di Berlusconi, il centro di Casini e la “sinistra” di Bersani si sono inchinati alle criminali misure economiche che ha preso e che continua a prendere Monti, e questo non è certo un elemento di vanto per un partito, particolarmente per il PD che dovrebbe esprimere gli interessi delle classi più umili. In più, il carattere del tutto inedito della situazione, l’incomprensione di quali possano essere le vie di uscita dalla crisi, l’assenza di un qualunque programma che caratterizzi una componente politica per i valori storici difesi, non fa che accentuare quel fenomeno di decomposizione politica che caratterizza i partiti politici nella fase attuale.
La conseguenza è lo sviluppo del populismo, ovvero di politiche orientate a far presa sugli istinti più viscerali della popolazione per raccogliere consensi elettorali e illudere i cittadini che ci possa essere una politica diversa in modo da tenerli legati al sistema. Ma il populismo, non essendo un programma politico ma solo un atteggiamento propagandistico, è in generale legato alla figura carismatica di un leader e alla sua capacità di reggere il gioco sul teatro della politica. Questo è il motivo delle difficoltà del PDL la cui grande risorsa è stata la sfrontatezza della politica di Berlusconi ma che adesso non trova carte di riserva. Lo stesso si può dire per la Lega Nord, che dopo lo scandalo che ha praticamente bruciato la figura di Bossi, ha le più grandi difficoltà a ritrovare una propria identità. Ma il fatto che i vecchi partiti populisti entrino in crisi non significa che sia il populismo a entrare in crisi. Viceversa questo diventa sempre più la maniera di fare politica, a destra e a sinistra, come mostrato non solo dal partito 5 stelle di Grillo, ma anche da una deriva sempre più estremista portata avanti da Di Pietro con i suoi attacchi continui al governo Monti e soprattutto al presidente della Repubblica.
La prospettiva delle prossime elezioni politiche dell’aprile 2013 costituisce dunque un elemento di grande angoscia per la borghesia italiana nella misura in cui questa è consapevole che il suo apparato politico è visibilmente impreparato e inadeguato a sostenere, con la compattezza e determinazione necessarie in questi frangenti, le tempeste economiche e politiche mondiali. Il ruolo di supplenza svolto da Monti e dalla sua banda nei confronti dei partiti esistenti aveva peraltro la funzione di permettere a tali partiti di riacquistare una credibilità che finora, a 8 mesi dalle prossime elezioni, non è stata recuperata. Non a caso ogni tanto torna in campo l’ipotesi che Monti possa continuare a reggere un futuro governo con una maggioranza non dissimile a quella attuale. Ma questo, per i partiti della borghesia italiana, sarebbe un suicidio. Più funzionale per i giochi politici borghesi potrebbe essere invece l’alleanza di uno dei due grandi partiti, PDL o PD, con un neo partito formato da Monti o al quale Monti aderisse. Lo scenario dell’alleanza elettorale tra PD e Casini da una parte e il recente e insolito attacco di Monti a Berlusconi (“con lui lo spread arriverebbe a 1500”), potrebbe suggerire una soluzione di questo tipo con un governo di centro sinistra a guida Monti, cioè con un’azione non meno devastante per le nostre tasche ma con la giustificazione che lo facciamo tutti per la nostra Patria!
2.2 Politica imperialista ai tempi della crisi economica
Terminata la guerra in Libia che ci è costatata ufficialmente 202 milioni di euro, l’Italia ha deciso di rimanere sul posto con una missione di addestramento a Tripoli dal costo di 10 milioni. In Libano, a distanza ormai di qualche decennio, rimane un contingente di 1.115 unità. Ed ancora circa 600 militari assegnati stabilmente alle forze Nato in Kosovo. In Afghanistan c’è il grosso delle truppe italiane con 4 mila uomini. Queste sono solo alcune delle 20 missioni di peace-keeping cui partecipa l’Italia e con cui questo paese cerca di condurre la sua tradizionale politica di stare dentro le cose per poter, al momento opportuno, cogliere le opportunità del momento.
Nonostante la crisi, non viene meno l’impegno militare ed imperialistico dell’Italia nel mondo, particolarmente nei punti caldi come l’Afghanistan di oggi o l’Iraq di ieri. “Stando al sito ufficiale dell'Esercito Italiano, “la media di personale costantemente schierato all'estero si aggira sulle settemila unità”, ma ciò ovviamente non toglie che il numero possa variare, a seconda delle situazioni che si vengono a creare; attualmente si può parlare di circa ottomila.”[2] Come dice giustamente (dal punto di vista degli interessi della borghesia), il ministro della Difesa ammiraglio Giampaolo Di Paola, “La crisi non fa venire meno funzioni fondamentali come la Difesa”.[3]
Ma questa necessità, soprattutto in tempi di crisi, di mantenere sempre aggiornato il proprio arsenale di armi per poter esibire la propria arroganza imperialista nei confronti delle altre iene capitaliste non elimina, al tempo stesso, la necessità di eludere nei confronti della popolazione il continuo trend all’ammodernamento del proprio armamentario. Così abbiamo assistito all’esibizione, da parte del governo Monti dopo i suoi primi 100 giorni di governo, della bufala secondo cui “la spesa per la Difesa in Italia, in rapporto al PIL, è la più bassa d’Europa. (…) nel documento si afferma (…) che le spese militari in Italia sarebbero solo lo 0,90 per cento del PIL contro una media Ue del 1,61 per cento. (…) Peccato che sia proprio la NATO (e non Anonymous) a smentire quel numero. (…) (Dai dati NATO risulta che) la spesa militare in Italia in rapporto al PIL (a prezzi correnti) non è la più bassa dell’Unione Europea, come scritto nel documento ufficiale della Presidenza del Consiglio, (…). Non solo è maggiore del “magico” 0,9%, ma è superiore al dato di Germania e Spagna (per restare ai paesi territorialmente comparabili al nostro). (…) Nella sua pubblicazione “The World Factbook”, c’è l’elenco della spesa militare di ciascun paese (non solo NATO) in rapporto al proprio PIL. L’Italia - secondo la CIA - spende l’1,8% del proprio PIL. (…) Dello stesso parere è il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute [10]) - il prestigioso istituto svedese indipendente - che nel monitorare le spese militari nel mondo, secondo una metodologia corretta, che stabilisce di includere ed escludere le stesse cose nei dati di ciascun paese, certifica che l’Italia spende in media nel periodo 2005-2009 l‘1,8% del PIL. E’ solo lo 0,2% in più dei dati NATO ma un valore doppio rispetto a quello dichiarato dal Governo italiano. Com’è possibile un divario così ampio? La ragione è semplice. Lo 0,9% è il risultato di una manipolazione contabile che sottrae dal calcolo delle spese militari, le voci del bilancio del Ministero della Difesa destinate alle pensioni e accantonamenti obbligatori, alle funzioni esterne (es. l’impiego dei militari in interventi di protezione civile) e all’Arma dei Carabinieri (in totale più di un terzo del budget). Nello stesso tempo non computa né il fondo per le missioni internazionali (1,640 miliardi di euro nel 2011), ascritte in bilancio al Ministero dell’Economia e Finanze, né i fondi ascritti al Ministero dello Sviluppo Economico per finanziare programmi di nuovi sistemi d’arma (2,248 miliardi di euro nel 2011). Lo 0,9% corrisponde, quindi, solo alle spese di personale, esercizio e investimento a bilancio del Ministero della Difesa, mentre le spese - pur espressamente militari - sostenute da altri dicasteri non sono calcolate.”[4]
Il grafico riportato in fig.2[5] mostra le spese militari, sostenute nell’arco dell’ultima ventina d’anni, da alcuni dei principali paesi europei sottoforma di percentuale del PIL del rispettivo paese. Come si vede, le spese militari stanno calando di continuo dopo il crollo del blocco dell’est, ma questa è una tendenza mondiale (tranne che per gli USA che hanno ripreso alla grande alla svolta del millennio) già messa in evidenza dalla nostra organizzazione e che corrisponde più ad una razionalizzazione che ad una riduzione dell’interesse per il settore militare. In più, osservando il grafico di fig.2, si possono notare due cose interessanti: anzitutto che l’Italia impegna una percentuale di PIL più alta di Germania e Spagna per il settore militare, il che è quanto dire. Ma ancora che, fra i vari paesi considerati, l’Italia è uno dei paesi europei che meno hanno ridotto il peso delle spese militari in rapporto al PIL nell’arco di venti anni: in Francia questo rapporto si è ridotto del 30%, in Germania del 38%, in Grecia del 28%, nel Regno Unito del 32%, in Spagna del 25%, mentre in Italia solo del 20%.[6]
Quello che fa rabbia naturalmente è il fatto che, mentre si portano le famiglie sull’orlo della fame, si programma la spesa di 131 caccia bombardieri F35 nell'ambito del programma Joint Strike Fighter che costeranno all'Italia almeno 15 miliardi di euro[7]. E non è neanche vero, come sostenuto ancora di recente dal Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, che il prezzo delle penali, in caso di mancato acquisto, sarebbe maggiore della fattura di acquisto, come dimostrato nello stesso articolo già citato del sito www.disarmo.org [11].
[1] Per un commento sulle amministrative del 2012 vedi Dopo sei mesi di governo Monti, quale futuro ci prepara la borghesia italiana? [12], su Rivoluzione Internazionale n°176.
[2] Missioni di pace: l’esercito italiano nel mondo , (18 Gennaio 2010 su www.levanteonline.net/ [13]).
[3] "Caccia a tutti i costi", (1/01/2012 su www.disarmo.org/ [14]).
[4] Gianni Alioti, Sulle spese militari, il Ministro dà i numeri [15], (27 febbraio 2012 su www.disarmo.org/ [14]).
[5] Questo grafico, o altri relativi ad altri indicatori nazionali rilevanti, si possono facilmente ottenere utilizzando il link www.google.it/publicdata/explore?ds=d5bncppjof8f9_&met_y=ms_mil_xpnd_gd_zs&idim=country:ITA&dl=it&hl=it&q=spese+militari [16].
[6] Gianni Alioti, Sulle spese militari, il Ministro dà i numeri [15], (27 febbraio 2012 su www.disarmo.org/ [14]).
[7] Francesco Vignarca, "Caccia a tutti i costi", (01 gennaio 2012 su www.disarmo.org/ [14]).
La dinamica della lotta di classe è una dinamica internazionale, per cui gli elementi che caratterizzano la situazione italiana non devono essere visti in sé, ma come articolazione del processo di scontro di classe in corso a livello internazionale che vede, in questo momento, la Spagna e il movimento degli indignati come l’espressione la più elevata della lotta di classe. Ciò detto, la nostra attenzione si soffermerà non solo sugli aspetti che confermano l’appartenenza dell’Italia a questa dinamica internazionale, ma anche su quelli che ne caratterizzano le differenze. In particolare occorre rispondere ad un quesito: perché in Italia, nonostante degli attacchi economici giunti ormai ad un livello decisamente sostenuto, la risposta resta ancora così debole e dispersa?
Le risposte, anch’esse non esclusive per la situazione italiana, possono essere varie e cercheremo di analizzarle nei paragrafi che seguono cercando alla fine di tirare delle conclusioni.
3.1 Livelli espressi dalle lotte e azione della borghesia
Dall’autunno 2010 ad oggi l’Italia è stata attraversata da una serie di lotte che hanno investito un po’ tutte le categorie e tutti i settori:
“(…) i precari della scuola, di fronte ad un vero e proprio licenziamento di massa che non ha dato luogo a nessuna protesta sindacale, a nessun intervento di quelle forze politiche che si dicono progressiste e di sinistra, si sono organizzati da soli, promuovendo la loro lotta con i mezzi che potevano utilizzare visto che a loro, senza posto di lavoro, non è concesso nemmeno scioperare. Sono state le manifestazioni di piazza che questi lavoratori hanno scelto per portare avanti la lotta: presidii davanti agli uffici scolastici provinciali o davanti al ministero, occupazione di questi uffici, manifestazioni di strada. Collegati fra loro tramite internet e le assemblee cittadine, i precari hanno cercato innanzitutto di far conoscere la loro situazione e le loro rivendicazioni, con manifestazioni anche clamorose, come lo sciopero della fame, effettuato in diverse città, o il blocco dello stretto di Messina, che ha visto la partecipazione di migliaia di lavoratori sulle due sponde dello stretto. Accanto a questo, i precari hanno cercato la solidarietà degli altri lavoratori della scuola, e quella dei genitori degli alunni, chiamati a manifestare con i precari in difesa di una scuola dove i loro figli possano vivere in condizioni più decenti e non stipati in 35 in aule che non li possono contenere.”[1]
“Le lotte degli studenti universitari, con un’interessante eco nel mondo dei ricercatori e dei precari nonché delle scuole superiori, sono tornate ancora una volta, fragorose e vivissime come sempre, a riempire le cronache delle ultime settimane, innescate dalla discussione in parlamento sul cosiddetto decreto Gelmini, ma alimentate nel profondo dalla ricerca di un futuro che è stato negato a tutta l’attuale generazione di giovani.”[2]
Ed ancora la miriade di lotte nelle singole fabbriche e aziende, come quella di Pioltello, Milano, le Ceramiche Ricchetti di Mordano/Bologna, la ditta di trasporti CEVA di Cortemaggiore/Piacenza, le Cooperative di trasporto di Bergamo, la Elnagh di Trivolzio, Pavia, l’ex-ILA di Porto Vesme, Carbonia Iglesias, le Ferrovie dello Stato, l’Iribus di Valle Ufita, Avellino, la FIAT di Termini Imerese, l’Innova Service, la Jabil, ex Siemens Nokia, Cassina de’ Pecchi, Milano, i precari della ricerca dell’Ospedale Gaslini di Genova, la petroliera Marettimo Mednav, a Trapani, le 29 operaie in cassa integrazione della Tacconi, Latina, i Magazzini del “Gigante” di Basiano ecc. ecc.
Come si vede esiste un potenziale di lotta incredibile, con lotte a volte commoventi e sempre di grande valore. Ci sono decine di migliaia di proletari che sono riscaldati al colore rosso vivo sul piano della lotta, ma che esprimono la loro combattività nel chiuso del loro posto di lavoro. Infatti il minimo comune denominatore di tutte le lotte citate, e di tante altre non citate ma che esistono sul territorio, è la presenza di:
Anche se tutto questo esprime certamente un grande potenziale di lotta, il fatto che tutto ciò non vada oltre la dimensione della propria fabbrica - cosa favorita particolarmente dalla logica sindacale - diventa a lungo andare una trappola. Non è un caso se in tanti casi i lavoratori, intenti a fare settimane e mesi di lotte estenuanti ai cancelli delle proprie fabbriche o sui tetti o le ciminiere di una fabbrica, lamentino il fatto di rimanere inascoltati da altri proletari. Per evitare questo occorre ribaltare la logica della lotta, bisogna uscire dalla propria fabbrica mandando delle delegazioni in altre fabbriche, in altri posti di lavoro. La solidarietà è un’arma essenziale della lotta di classe, ma non è qualcosa che funziona a senso unico. La solidarietà significa un mutuo sostegno tra diversi settori della classe in lotta e tra gli stessi proletari.
Per spiegare perché la risposta proletaria resta ancora così debole e dispersa, come prima cosa possiamo ricordare la forza e la profondità degli attacchi contro le condizioni di vita dei lavoratori. Come è stato ricordato poco prima, l’attuale governo è quello che sta portando avanti l’attacco più profondo contro le condizioni di vita della gran parte della popolazione in Italia. Questo attacco sta già portando centinaia di migliaia di famiglie sul baratro della povertà assoluta (vedi storia degli esodati, dei licenziati, la crescente precarietà del lavoro, ecc. ecc.). Un elemento già ricordato in passato e che continua ad avere un’influenza oggi è probabilmente l’ambiguità con cui l’attuale governo Monti è entrato in scena. In realtà questo governo è stato presentato come quello che rompeva con il berlusconismo, quello che toglieva dalle leve del potere gli irresponsabili che avevano fatto arrivare lo spread ad oltre 400 e che nel frattempo si davano alla pazza gioia nei festini notturni. Bisogna anche dire che al cambio della guardia c’è stato chi ha festeggiato, tra i proletari, al nuovo governo, segno di quanto male abbia fatto non solo Berlusconi, ma soprattutto l’antiberlusconismo come campagna mediatica tendente ad attribuire ad un solo uomo, ad un solo partito o ad una sola parte politica, tutte le responsabilità della situazione attuale!
Un altro aspetto da tenere in conto è la politica condotta dalla borghesia nei confronti delle aziende in crisi o destinate a fallire. Per evitare di doversi confrontare con l’insieme dei dipendenti di quell’azienda si è adottata, tutte le volte che era possibile e che tornava utile al capitale, la politica dello “spezzatino, cioè lo smembramento in più aziende diverse tra cui una viene caricata di tutti i debiti e di tutti gli esuberi di manodopera, mentre le altre, alleggerite da questi problemi, vengono rilanciate sul mercato. E’ questo ad esempio il caso dell’Agile srl ex Eutelia dove, come viene giustamente denunciato dagli stessi lavoratori implicati, si è trovata la maniera di «licenziare 9000 persone senza che nessuno se ne accorga!!!»”[3]
All’interno di questo discorso un’annotazione particolare va fatta sul caso FIAT, la più grossa industria italiana ormai anch’essa di molto alleggerita in Italia in seguito alla politica dal pugno di ferro adottata dall’a.d. Marchionne. La FIAT sta infatti spostando gli interessi economici e produttivi dell’azienda sempre più al di fuori dell’Italia liberandosi dei pesi morti, come la fabbrica di Termini Imerese in Sicilia, la FIAT CNH di Imola e la Irisbus di Avellino. Il caso Fiat è emblematico perché questa industria, in Italia, è un simbolo sia per la borghesia che per le lotte proletarie e vincere o perdere su questo piano ha delle ripercussioni importanti per il resto dello scontro di classe. E’ perciò che le vicende che sono accadute in questa grossa azienda che dava lavoro in Italia a quasi 120.000 persone contro le 24.000[4] di oggi, sono così importanti. L’attacco di Marchionne ha teso essenzialmente a far passare, con le buone o con le cattive, le esigenze dell’azienda, imponendo una serie di aut aut ai lavoratori senza precedenti, come nel caso di Arese, dove ha imposto con la forza del ricatto un contratto di fame ai lavoratori, pena lo smantellamento dello stabilimento, o la sua decisione di uscire da Confindustria per avere le mani più libere per fare quello che più gli piaceva. In questo, va detto, ha avuto una buona sponda da parte del sindacato che ha portato i lavoratori a scontrarsi contro le manovre padronali con uno strumento del tutto inadeguato per la lotta di classe come il referendum. In più con la solita divisione delle parti con CISL; UIL e CGIL nazionale a favore della firma dell’accordo e la FIOM con tutti i sindacatini “alternativi” a votare contro. L’epilogo della sconfitta non poteva essere più bruciante![5]
A parte gli elementi sopra riportati, esistono ancora due elementi usati dalla borghesia in Italia per controllare la lotta di classe che sono piuttosto specifici di questo paese. Questi elementi sono l’uso della violenza e del terrorismo come surrogato della lotta di classe e quello del sindacalismo di base.
3.2 L’uso della violenza come surrogato della lotta di classe
Questo primo elemento ha radici molto lontane che affondano nella storia di quello che fu il partito stalinista più forte di tutto l’occidente, il cosiddetto Partito “Comunista” (sic) Italiano. Questo partito, fondato nel 1921 a Livorno con Bordiga alla guida, subì, come tutti gli altri partiti dell’epoca, un’involuzione che lo portò a tradire completamente gli interessi della classe operaia e a passare dalla parte della borghesia. Così il partito ormai stalinizzato del secondo dopoguerra non aveva nulla a che fare con quello rivoluzionario fondato da Bordiga. Ma l’intermezzo della guerra ed il periodo controrivoluzionario non permisero al proletariato di riconoscere il tradimento in questo partito che mantenne ancora a lungo l’illusione su una sua natura rivoluzionaria anche grazie all’ambiguità con cui mostrava un’immagine democratica da una parte e, dall’altra, l’immagine di una organizzazione comunque pronta alla rivoluzione. Il ruolo del democratico e del responsabile fu assunto da Togliatti, reduce dalla Mosca di Stalin, mentre quella del rivoluzionario che nascondeva le armi per l’ora X era Pietro Secchia di cui ricordiamo queste parole:
“Un partito comunista, un partito rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga articolata di massa visibile a tutti, ed una ristretta segreta. Questo anche in tempi della più ampia democrazia e legalità perché non si può mai fare affidamento sui piani del nemico...” Secchia (in A.P.S., p. 587)[6]
Secchia non era un personaggio qualunque, ma uno che all’epoca competeva con Togliatti per la leadership del partito. Chiamato dallo stesso Togliatti a dirigere la commissione d'organizzazione, segnò subito un cambiamento. “Alla fine del 1945, quando si celebra a Roma il V Congresso del Pci, gli iscritti al partito sono già più che triplicati rispetto all'aprile. Sono 1.800.000, organizzati in 7000 sezioni e 30.000cellule; al VI Congresso nel 1948, gli iscritti sono 2.250.000 e le cellule sono diventate 50.000.”[7]
Queste due anime convivono nel partito senza che la seconda, quella lottarmatista, si esprima in maniera esplicita. E’ solo quando nel partito ci si rende conto che la politica di Togliatti, ormai inserito nelle istituzioni in qualità di ministro della giustizia, si muove esclusivamente sul piano della democrazia, una parte degli ex partigiani che non avevano consegnato le loro armi dopo il 25 aprile ripresero ad usarle in modo solitario e irregolare.
“Regolamenti di conti, duri e feroci, liquidazione fisica di fascisti e repubblichini avvennero, e numerosi ben dopo il 25 aprile del 1945. A Milano, lo abbiamo già raccontato, ancora alla fine di maggio venivano raccolti, ogni mattina all'alba, alla periferia, cadaveri di sconosciuti fucilati durante la notte. In Emilia, nelle province dove la lotta partigiana aveva avuto un forte connotato di classe, vennero eliminati nel corso dell'estate del 1945, signorotti fascisti e proprietari terrieri. (…) Ma nessun tribunale riuscì mai a dimostrare, nonostante tutti i tentativi fatti, una qualche responsabilità di dirigenti o organizzazioni del Pci. (…) Ma c'è senza dubbio anche un'altra storia del Pci, più segreta, fatta di appoggio e simpatia per questi piccoli gruppi armati. Non altrimenti si spiega l'avvio clandestino, verso i paesi dell'Est, della maggior parte degli imputati di quei processi quando condannati in contumacia. (…) La vicenda della Volante Rossa è da questo punto di vista esemplare, anche per la struttura che si dà, negli anni tra il 1945 e il 1949, in un singolare intreccio di attività legale e illegale, di normali attività sportive e ricreative e di operazioni terroristiche. Può accadere così che alcuni che fanno parte della Volante in quanto circolo ricreativo non sappiano nulla delle attività illegali del suo nucleo più ristretto cui involontariamente offrono copertura. E se è certo che molti dirigenti Pci di Milano conoscono questa attività segreta della Volante Rossa, è altrettanto certo che la maggior parte degli iscritti al Pci a Milano e in Italia ne sono totalmente all'oscuro (…). Quante sono le esecuzioni da addebitare alla Volante Rossa? E impossibile darne una cifra anche approssimativa: alcune furono azioni clamorose e in qualche modo "firmate", di altre sparizioni non fu possibile indicare la responsabilità. "Andavamo a prendere l'individuo" racconta un testimone che resta anonimo "lo portavamo dalle parti del campo Giuriati, perché allora lì era tutto prato e la mattina passava l'obitorio a ritirarlo." Alcuni fascisti vennero eliminati con una gita in barca sul Lago Maggiore; i cadaveri vennero poi ritrovati con una pietra al collo assicurata con un cavo di ferro.”[8]
In realtà questa componente del PCI fu successivamente lentamente emarginata perché di fatto il PCI, agendo in un paese che era stato assegnato dalla Conferenza di Yalta[9] al blocco occidentale e dunque alla tutela degli USA, non poteva permettersi di lanciarsi in avventure particolari. Tutt’al più poteva seguire di farsi uno spazio attraverso le elezioni, ma con il vincolo di rimanere comunque minoranza parlamentare! Ma la cosa importante è che è rimasta in questo partito, soprattutto nella tradizione orale, questa idea che il partito conservava le armi da qualche parte e il disappunto che non fossero utilizzate in questa o quella occasione. Come si vede la genesi del terrorismo è tutta interna alle istituzioni borghesi e in particolare a quel PCI che ci ha regalato oggi personaggi come Giorgio Napolitano, attuale presidente della repubblica, e tanti altri padri della repubblica democratica fondata sul lavoro … e soprattutto su tanto sangue!
Di conseguenza, quando nei primi anni ’70, con il riflusso del poderoso movimento dell’autunno caldo, una serie di elementi proletari vengono presi dallo sconforto e si chiedono cosa fare per contrastare il declino del movimento, ritenendo che la violenza abbia intrinsecamente un contenuto di classe, non trovano nulla di meglio che riprendere il cammino abbandonato dal vecchio PCI di cui tutto il brigatismo si sente orfano. Come si vede le debolezze che si manifestano nella classe operaia hanno sempre delle radici ed è importante risalire a queste radici per poterle estirpare una volta per tutte.
Come è noto la nostra posizione sul lottarmatismo o brigatismo, comunque lo si voglia chiamare, è del tutto negativo. Naturalmente proviamo tristezza per tutti quei proletari che, pur con grande coraggio e spirito altruistico, nel corso del tempo sono caduti in questa trappola infilandosi in situazioni del tutto controproducenti. Ma la questione è che il terrorismo ha un ruolo nefasto sull’azione della classe operaia nella misura in cui i proletari, di fronte ad atti di terrore, si vedono strappare l’iniziativa e restano paralizzati dal clima di terrore e di caccia alle streghe che immediatamente si instaura.
Bisogna poi dire che la borghesia italiana è riuscita addirittura a trarre profitto dalla presenza e dall’azione dei gruppi armati a vari livelli:
“Ma è stato proprio il timore di questa collera crescente all’interno del proletariato che ha suggerito alla borghesia di provvedere in anticipo a bagnare le cartucce al proprio nemico di classe. Così, da una parte, c’è stata la discesa in campo di tutte le forze della sinistra borghese, dal PD ai vendoliani di SEL, da CGIL e FIOM fino ai vari sindacati di base e alle varie associazioni tipo ARCI e quant’altro è presente nella galassia della sinistra borghese. (…). Su un altro e diverso fronte ha lavorato lo Stato per creare, già alla vigilia della manifestazione, un’atmosfera di tensione. L’episodio di Bologna di tre giorni prima era servito perfettamente ad aizzare gli spiriti più bollenti del movimento e a portarli a Roma con un atteggiamento di sfida. Così, una volta scesi in piazza, i vari settori di proletari, disoccupati, cassaintegrati, studenti, precari, ecc. ecc. si sono sentiti stretti tra due fuochi: da una parte dalla sinistra borghese che cercava di realizzare l’ennesima sterile sfilata, dall’altra dalla tentazione di lasciare almeno un segno tangibile della manifestazione, di fare almeno un poco male a questo sistema di padroni che vuole scaricare tutto il peso della crisi solo su chi lavora e sugli strati più deboli.”[10]
Come è ormai storia, gli scontri che ne sono seguiti hanno completamente disgregato e disperso una manifestazione di ben 200.000 manifestanti impedendo ogni sviluppo ulteriore del movimento[11]. Concretamente questo ha di fatto impedito che attecchisse realmente tra la gioventù in Italia un movimento tipo indignati e che potessero diffondersi quelle pratiche di assemblee, di incontri e discussioni che hanno fatto così bene al proletariato nel mondo intero.
3.3 Il ruolo del sindacato e del sindacalismo di base
Ma forse il principale elemento di freno dell’azione del proletariato in Italia è stato e resta l’azione del sindacalismo, ed in particolare quello di base. Nel 2011 c’è stato un record di ore si sciopero[12], a conferma dell’attivismo sindacale per evitare movimenti più ampi e/o tendenti all’autonomia. E mentre si fa sempre più strada tra i proletari l’idea che i sindacati tradizionali servono solo gli interessi dei padroni si sviluppa, ai margini delle strutture confederali, tutta una pletora di sindacatini divisi per aree geografiche, per settore lavorativo, ma soprattutto divisi tra di loro dall’ambizione di avere ognuno diritto di prelazione su quanto sfugge al controllo dei sindacati maggiori. Per capire questo fenomeno che è tipicamente italiano (a nostra conoscenza non esistono altri paesi con una tale quantità e variegazione di strutture sindacali) occorre fare un po’ la storia di queste formazioni.
Tra i primi a comparire abbiamo le Rappresentanze Sindacali di Base (RdB), che costituiscono la prima struttura ufficiale nell’ambito dell’INPS, nell’ottobre 1979:
“Nel 1977 alcuni rappresentanti dei lavoratori della sede centrale dell’Inps di Roma, componenti del Consiglio dei Delegati, regolarmente eletti, tentano di ridisegnare un modello di democrazia partecipativa in forte contrasto con la segreteria provinciale Flep/Cgil e con il resto del CdD (Cgil - Cisl - Uil) dando vita ad un Comitato di Lotta contro il rifiuto costante del CdD di tener conto delle volontà dell’assemblea”[13].
Successiva è “la nascita dei COBAS (acronimo di Comitati di Base della Scuola = Co.Ba.S, poi generalizzato in Co.Bas) (1986, assemblea al Liceo Virgilio di Roma; costituzione formale, 1987), sulla scia di un grande sciopero nazionale proclamato contro l’atteggiamento dilatorio del governo nelle trattative per il rinnovo contrattuale della scuola per il triennio 1985-88. (…) Si costituisce, agli inizi degli anni ‘90 il Cobas Coordinamento Nazionale, in cui confluiscono il Collettivo Politico Enel, i Collettivi della Sanità, delle Telecomunicazioni, degli Enti Locali, dell’Industria, del Trasporto e dei Servizi. Nel ‘99, il Cobas, Coordinamento Nazionale e il Cobas Scuola daranno vita alla “Confederazione dei Comitati di Base” (…) Quasi subito i Cobas diventano una bandiera. Nel giro di pochi anni arrivano ad avere i numeri per essere sindacato nazionale. (…) In poco più di un lustro i Cobas diventano all’Alfa di Arese il primo sindacato. Nel maggio del 1994 lo Slai Cobas vince le elezioni Rsu all’Alfa di Arese e tra gli operai dell’Alfasud e ottiene successi in numerose aziende. (…)”[14]
Le due diverse strutture sindacali RdB e COBAS, così come tutte quelle che verranno dopo, partono dall’idea che sia possibile praticare il sindacalismo, ovvero portare avanti una contrattazione permanente della forza lavoro con il padronato, in un’epoca in cui tale contrattazione è ormai impedita dell’assenza di ogni margine di manovra per la stessa borghesia che è esclusivamente interessata a togliere tutto quello che può dalle tasche dei lavoratori. Di fatto tutte le iniziative di costituzione di sindacati, come mostra in maniera emblematica proprio il citato sciopero dei lavoratori della scuole del 1986, non è stato mai ad iniziativa dei lavoratori ma sempre di un certo “ceto politico (…) in larga parte ereditato dal rottame parastalinista gravitante nell'orbita del Partito Comunista Italiano prima e di Democrazia Proletaria poi.”[15]
Nella primavera del 1992 nasce la CUB, Confederazione Unitaria di Base, che “organizza oltre 706.802 tra lavoratori dell’industria, dei servizi, del pubblico impiego, gli inquilini e i pensionati, ed è composta dai seguenti sindacati di base: FLMUniti (metalmeccanici, telefonici, energia); FLAICA (commercio, industria alimentare, igiene urbana, pulizie, servizi), ALLCA (chimici, energia, farmaceutici, plastica, gomma), CUB-Edili, CUB-Scuola, CUB-Informazione, CUB-Pensionati, CUB-Sanità, CUB-Tessili, CUB-Trasporti Aereoportuali, Cobas_pt-CUB, Fiap, FLTUniti (trasporto); CUB pubblico-impiego (pubblico impiego); SALLCA-CUB (Credito e Assicurazioni), Unione Inquilini (casa e territorio).”[16]
Ma tutto il percorso del sindacalismo di base, dalla sua nascita fino ai giorni nostri, come detto all’inizio, è all’insegna della competizione. E questa competizione si è periodicamente tradotta in scissioni traumatiche, tentativi di appropriarsi delle casse del sindacato, e tutto il ben di dio che si può immaginare in una struttura che differisce dalle grandi centrali sindacali solo per … una questione di taglia. Non è un caso che, con tutta la determinazione a lottare di ampi settori proletari, le lotte “controllate” dai vari sindacati di base siano rimaste sempre intrappolate nel loro ambito, come abbiamo anche recentemente cercato di mostrare.[17] Ecco alcuni passaggi significativi dell’opera di unificazione condotta da questi sindacati … “alternativi”:
Il 14 ottobre 1996 nasce, all'Alfa di Arese, il SinCobas (sindacato intercategoriale dei comitati di base), a partire da una scissione del comitato di base Slai Cobas e da successive separazioni di lavoratori e delegati da Cgil-Cisl-Uil.
Nel 2006 si forma l’Associazione Lavoratori Cobas, A.L.Cobas, (aderente alla CUB) “dopo che con un atto d’imperio, il coordinatore nazionale dello Slai-cobas aveva espulso i compagni dell’ATM. Il coordinatore nazionale dello Slai aveva, inoltre, addirittura notificato alla controparte (direzione atm) la decadenza dalle rsu dei compagni, la richiesta di estromettere dalla sede interna i delegati eletti dai lavoratori e il cambiamento del conto corrente delle tessere. (…) Il coordinamento nazionale dello Slai, dopo l’espulsione dei compagni dell’ATM Milano ha espulso quelli di Varese e Como, bloccando il conto corrente dove venivano accreditate le tessere. Da quel momento chiunque ha osato dissentire con la direzione dello Slai, ha subito ogni possibile accusa personale: traditore, venduto alla Cub per un posto da funzionario, ladro dei soldi delle tessere, venduto alla Fiat e sempre alla ricerca del compromesso legale per fare soldi ecc. ecc..”[18]
Il 14 gennaio 2007 nasce il Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale dalla fusione tra i sindacati SinCobas, SALC e SULT.
Il 17 maggio 2008, 2.000 delegati tengono un’assemblea nazionale a Milano in cui “il processo di lento avvicinamento delle posizioni delle più rappresentative organizzazioni sindacali di base, Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale, in atto da tempo, ha subito una positiva accelerazione. (…) Il bilancio che facciamo, a sei mesi dall'Assemblea di Milano, è solo parzialmente positivo. (…) Il permanere di organizzazioni sindacali oggettivamente ancora in concorrenza tra loro, tuttavia, riduce l’impatto della nostra azione e amplifica la consapevolezza di quanto uno strumento realmente unitario potrebbe giovare alla causa che ci siamo prefissati.”[19]
Il 12 settembre 2008 CUB, Confederazione Cobas e SdL intercategoriale sottoscrivono un Patto di Consultazione Permanente nazionale, allo scopo di coordinare l'azione e le iniziative sindacali delle tre organizzazioni di base. “Il Patto di Consultazione Permanente prevede:
· riunioni periodiche a livello nazionale nel corso delle quali si confrontino le varie proposte di lotta, con l'obbiettivo di giungere a iniziative comuni, o ad iniziative di singola organizzazione ma non in competizione tra di loro;
· la realizzazione di iniziative unitarie di dibattito, convegni, seminari e l'elaborazione di documenti, prese di posizione comuni sui principali temi di conflitto con il padronato, il governo, i sindacati concertativi;
· la costituzione di un Forum permanente sulla rappresentanza, sui diritti sindacali, il diritto di sciopero e contro il monopolio concesso ai sindacati concertativi”.[20]
Sabato 7 febbraio 2009, la Confederazione Unitaria di Base (CUB), la Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale, in continuità con il Patto di Consultazione Permanente stretto fra le tre organizzazioni, adottano il Patto di Base, con cui si intende perseguire obiettivi comuni e utilizzare strumenti organizzativi e di coordinamento sempre più incisivi. Questi i punti caratterizzanti il nuovo patto contenuti nella relazione introduttiva:
· “Il Patto di Base ha l’obiettivo di intensificare e facilitare l’unità d’azione tra le tre organizzazioni sindacali, portando a un più stretto e organico rapporto generale.
· Il Patto di Base rappresenta lo sviluppo naturale del Patto di Consultazione e ne assorbe contenuti e finalità e si prevede, per gestire efficacemente mobilitazioni e iniziative di lotta comuni, la realizzazione di sedi unitarie di dibattito, convegni, seminari ed elaborazioni di documenti.
· Inizialmente avrà organicità a livello nazionale e regionale, per procedere, nei tempi concordemente definiti, sul piano categoriale, territoriale e di posti di lavoro. Prevede quindi riunioni periodiche a livello nazionale e territoriale nel corso delle quali si cercherà di giungere in ogni occasione ad iniziative unitarie.”[21]
In un articolo di Umanità Nova del 19 aprile 2009 si legge: “In altri termini, le tensioni interne alla CUB, la più consistente organizzazione di quest'area (…) stanno (…) significativamente bloccando l'iniziativa del sindacalismo di base. Gran parte delle energie vengono assorbite dagli scontri interni e dal posizionamento in previsioni di scomposizioni e ricomposizioni mentre urgerebbe ben altro.”[22]
Tra il 21 ed il 23 maggio 2010 si è svolta un’assemblea nazionale in cui si è deciso lo scioglimento del SdL, che unitamente all'RdB ed a parte della CUB ha dato vita all'Unione Sindacale di Base.”[23]
In un altro articolo di Umanità Nova del 27 marzo 2011 si legge ancora, con un tono evidentemente ironico: “Evitiamo quindi di fare considerazioni sullo scontro attualmente in atto riguardo alla gestione ed al controllo del CAF di base e sulla lotta all’ultimo sangue, tra strutture ormai nemiche, attuata allo scopo di strapparsi reciprocamente i clienti. Evitiamo di ricondurre ogni cosa ad un’interpretazione banale e non molto fantasiosa: la scissione come risultato di uno scontro senza quartiere per cercare di conquistare un’egemonia intraorganizzativa ed il controllo completo di risorse scarse.”[24]
Il 22 giugno 2012 si tiene, subito dopo la manifestazione di Milano in occasione dello Sciopero nazionale dei sindacati di Base, un’assemblea autoconvocata dei delegati e degli attivisti di USB Lombardia. “Alla riunione erano presenti delegati e attivisti delle province di Milano, Pavia, Brescia Como e Varese. Per i partecipanti è venuta meno, o si è notevolmente affievolita, l’idea di un sindacato “includente ed aperto a processi unitari”, a tal punto da vedere “questo obiettivo strategico sacrificato a logiche che rischiano di farci fare enormi passi indietro e di farci tornare alla frammentazione tanto criticata”. (…) Per ora non c’è l’abbandono del sindacato ma la costituzione di una componente interna: Unità di Base. (…) “Vogliamo- conclude il documento – continuare a costruire un modello di sindacato completamente nuovo, (…) un modello sindacale che rompa con la tradizione burocratica ed accentratrice della storia delle organizzazioni del movimento operaio del secolo scorso, che sono alla base delle degenerazioni, delle involuzioni e quindi delle sconfitte che ci hanno portato alla situazione attuale, a questa “Caporetto” dei diritti di lavoratori e lavoratrici e a questa deriva autoritaria in cui a comandare sono le banche e i poteri economici”. A buon intenditore poche parole.”[25]
3.3 Prospettive della lotta di classe in Italia
Per trarre delle prospettive da tutto quanto abbiamo esposto dobbiamo stare attenti a non cadere in due stati d’animo (e in due atteggiamenti politici) opposti e simmetrici: da una parte quello di entusiasmarci per ogni azione della classe pensando che le cose si sviluppino da sole fino alla rivoluzione, dall’altra demoralizzarci per le difficoltà incontrate sul campo e pensare che non ce la faremo mai a superarle. La lotta del proletariato è di quelle che vincono una sola volta nella propria storia dopo aver accumulato una serie di sconfitte. E questa serie di sconfitte sono, per il proletariato, la scuola di guerra di classe attraverso cui, giorno dopo giorno, attraverso avanzamenti ed arretramenti sul piano della coscienza di classe, i proletari temprano le proprie armi.
In questo inizio di autunno stiamo assistendo all’acutizzarsi di una serie di lotte di lavoratori – ILVA di Taranto, Carbon-Sulcis, Alcoa, ecc., che stanno cercando in tutti i modi di difendere il loro lavoro e il futuro dei propri figli. Il problema è che la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro in quanto proletari viene portata avanti come se ci potesse essere una compatibilità tra gli interessi proletari e quelli della borghesia.
Così gli operai delle acciaierie dell’ILVA, che si ritrovano un impianto chiuso dalla magistratura dopo aver scoperto che la “loro” produzione aveva procurato malattie respiratorie, cancro e morte a tanti altri proletari tarantini, si ritrovano stretti nel ricatto di dover scegliere tra la difesa del posto di lavoro e il fregarsene delle condizioni di salubrità della fabbrica e reclamare in alternativa il rispetto dell’ambiente e della salute di lavoratori e cittadini, cauzionando in questo modo, se non il licenziamento, un lungo periodo di cassa integrazione e di precarietà.
I minatori della Carbon-Sulcis, per protestare contro la chiusura della miniera, hanno iniziato una protesta scendendo a 400 metri di profondità e minacciando di usare il materiale esplosivo che utilizzano per svolgere quotidianamente il proprio lavoro. I minatori hanno anche stilato un piano per la riconversione della miniera e nello specifico per la produzione di energia pulita, ma è stato bocciato dal sottosegretario allo Sviluppo Economico De Vincenti per insostenibilità economica.
All’Alcoa, fabbrica di produzione dell’alluminio, la situazione è ancora bloccata in attesa che si faccia avanti un compratore disposto a investire. E dove, in seguito alle dichiarazioni del ministro Passera sulla non risolvibilità del problema, sono scoppiati degli scontri molto duri con le forze dell’ordine dopo il tentativo degli operai dell’Alcoa di spezzare il cordone delle forze dell’ordine in difesa del Ministero dello Sviluppo.
Tutte e tre queste lotte si urtano contro il problema delle compatibilità. Quella dell’ILVA con la questione ambientale, quella della Carbon-Sulcis con la produttività dell’impianto e quella dell’Alcoa con la possibilità di trovare un nuovo acquirente dell’impianto. Peraltro c’è spesso l’idea, veicolata dai vari sindacalismi, che la lotta è tanto più legittima quanto più si spinge a difendere la produttività e l’efficienza della fabbrica o dell’impianto in cui si lavora. Se si rivolge lo sguardo al panorama delle lotte in Italia si assiste ad una costellazione di lotte tutte del tipo visto sopra. Cos’è dunque che manca ai proletari per sviluppare una lotta veramente efficace?
Non manca la combattività. Non manca la determinazione. Ma resta ancora debole la percezione che per vincere occorre lottare su un piano esclusivamente proletario. Manca ancora il sentimento che, non solo in maniera ideale, ma anzitutto sul piano concreto e materiale, la lotta non può essere condotta per singole fabbriche o anche per singoli settori produttivi, né ancora che la lotta si possa svolgere con atti di forza, con singole manifestazioni o singoli scioperi generali. C’è ancora un cammino da fare per raggiungere una dimensione in cui il proletariato ritrovi la sua identità di classe, una dimensione nella quale lottare assieme a proletari di un’altra fabbrica o settore o città non è più una questione di alleanza tattica per essere momentaneamente più forti ma come l’unica chance per arrivare a costituire un fronte di lotta ampio e saldo con cui fronteggiare la borghesia e combattere per una società futura che restituisca la dignità a tutta l’umanità.
CCI 12 settembre 2012
[1] Italia: la maturazione della lotta di classe [17], (30/09/2010 su Rivoluzione Internazionale n°167).
[2] La lotta degli studenti: una generazione alla ricerca di un futuro negato [18], (08/12/2010 su Rivoluzione Internazionale n°168).
[3] Italia: la maturazione della lotta di classe [17], (30/09/2010 su Rivoluzione Internazionale n°167).
[5] Vedi l’articolo: Che cosa ha significato il Referendum alla Fiat Mirafiori di Torino [20], su Rivoluzione Internazionale n°169.
[6] Riportato in: Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli
[7] Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli.
[8] Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli.
[9] La Conferenza, tenutasi nella città di Jalta in Crimea l’11 febbraio 1945 a guerra ancora in corso e tenutasi tra i capi delle tre principali potenze belligeranti, Churchill (GB), Roosevelt (USA) e Stalin (URSS), sancì di fatto la spartizione del mondo in due diverse zone di influenza, che poi costituirono i due diversi blocchi imperialisti, quello americano e quello sovietico.
[10] Manifestazione del 15 ottobre a Roma: cos’è che determina un rapporto di forza tra sfruttati e sfruttatori? [21], (25/10/2011), ICConline.
[11] Per una nostra posizione sulla violenza vedi Dibattito sulla violenza. E’ necessario superare il falso dilemma tra pacifismo socialdemocratico e violenza minoritaria [22] pubblicato su www.internationalism.org [23] e Manifestazione del 15 ottobre a Roma: cos’è che determina un rapporto di forza tra sfruttati e sfruttatori? [21]
[12] Nel solo 2011 6mila ore di sciopero, con un aumento del 55% rispetto a cinque anni prima. www.dirittiglobali.it [24]
[13] Fabio Sebastiani, Sindacalismo di base e democrazia sindacale: dall’autunno caldo quale modello di sindacato, www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=186 [25]
[14] Idem. Vogliamo precisare che noi non identifichiamo i Comitati di base della scuola che nascono alla fine del 1986, e che sono l’espressione di un movimento spontaneo che stava nascendo e che ha dato luogo a un momento importante di lotta almeno per tutto il 1987, con i Cobas-sindacato che nascono con il riflusso del movimento in effetti nel 1988.
[15] idem
[16] Chi siamo e cosa vogliamo. Una sintetica presentazione della CUB (03-10-2005), cub.it/article/?c=chi-siamo&id=3.
[17] Lotta di classe in Italia: perché le lotte non riescono ad unirsi in un unico fronte contro il capitale? [26] su Rivoluzione Internazionale n°173.
[18] A.L.Cobas, Chi siamo, 17/11/2005, cub.it/article/?c=organizzazioni&id=517.
[19] Fabrizio Tomaselli, Coordinatore nazionale SdL intercategoriale, Il tempo stringe: occorre accelerare il processo unitario dei sindacati di base! [27] (29 Novembre 2008 in www.pane-rose.it [28]).
[20] Tra CUB, Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale firmato un Patto di Consultazione Permanente [29], (12 Settembre 2008 in www.pane-rose.it [28]).
[21] Seconda Assemblea nazionale Cub - Confederazione Cobas - SdL intercategoriale [30] (9 Febbraio 2009 in www.pane-rose.it [28]).
[22] Un due tre, stella... La marcia del gambero del sindacalismo di base, Umanità Nova, n. 15 del 19 aprile 2009.
[24] Dove va il Sindacalismo di base?, Umanità Nova, n. 10 del 27 marzo 2011.
[25] Mishima, C’è fermento nell’USB. A Milano, una assemblea sancisce la nascita di una componente interna. E’ l’inizio di una rottura? (4 luglio 2012)
Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[2] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia
[3] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[4] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/imperialismo-italiano
[5] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/economia-italiana
[6] https://it.internationalism.org/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[7] https://it.internationalism.org/tag/2/29/lotta-proletaria
[8] https://it.internationalism.org/tag/2/30/la-questione-sindacale
[9] https://it.internationalism.org/tag/3/47/economia
[10] https://www.sipri.org/
[11] https://www.disarmo.org
[12] https://it.internationalism.org/content/dopo-sei-mesi-di-governo-monti-quale-futuro-ci-prepara-la-borghesia-italiana
[13] https://hurt100trailrace.com/
[14] https://www.disarmo.org/
[15] https://www.disarmo.org/rete/a/35774.html
[16] https://www.google.it/publicdata/explore?ds=d5bncppjof8f9_&met_y=ms_mil_xpnd_gd_zs&idim=country:ITA&dl=it&hl=it&q=spese+militari
[17] https://it.internationalism.org/content/italia-la-maturazione-della-lotta-di-classe
[18] https://it.internationalism.org/content/la-lotta-degli-studenti-una-generazione-alla-ricerca-di-un-futuro-negato
[19] http://www.economiaweb.it/fiat-la-mappa-delle-fabbriche-in-italia
[20] https://it.internationalism.org/content/che-cosa-ha-significato-il-referendum-alla-fiat-mirafiori-di-torino-0
[21] https://it.internationalism.org/content/manifestazione-del-15-ottobre-roma-cose-che-determina-un-rapporto-di-forza-tra-sfruttati-e
[22] https://it.internationalism.org/content/dibattito-sulla-violenza-e-necessario-superare-il-falso-dilemma-tra-pacifismo
[23] https://world.internationalism.org
[24] https://www.dirittiglobali.it/
[25] http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=186
[26] https://it.internationalism.org/content/lotta-di-classe-italia-perche-le-lotte-non-riescono-ad-unirsi-un-unico-fronte-contro-il
[27] https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o13485
[28] https://www.pane-rose.it
[29] https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o12729
[30] https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o14214
[31] https://it.wikipedia.org/wiki/Sindacato_dei_Lavoratori_Intercategoriale