Cinquanta anni dopo Maggio 1968. I progressi e gli arretramenti della lotta di classe dal 1968

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Senza gli avvenimenti del maggio 1968, la CCI non esisterebbe. Marc Chirik aveva già contribuito alla formazione di un gruppo in Venezuela, “Internacionalismo”, che dal 1964, e in seguito, aveva difeso tutte le posizioni di base che dovevano essere riprese un decennio dopo dalla CCI. Ma Marc era cosciente sin dall’inizio che solo una ripresa della lotta di classe nei centri del capitalismo mondiale sarebbe stata decisiva per attivare un cambiamento nel corso della storia. È questa comprensione che l’ha spinto a ritornare in Francia e a svolgere un ruolo attivo nel movimento di maggio-giugno, includendo la ricerca di contatti all’interno delle sue avanguardie politiche. Due giovani membri del gruppo venezuelano erano già partiti per la Francia per studiare all’università di Tolosa, e fu con questi compagni e con pochi altri che Marc è diventato un membro fondatore di “Révolution Internationale” nell’ottobre del 1968 - il gruppo che avrebbe svolto un ruolo centrale nella formazione della CCI sette anni dopo.

Da allora, la CCI non ha mai modificato le proprie convinzioni sul significato storico del Maggio 68, e noi siamo più volte ritornati su questo tema. Ogni dieci anni abbiamo pubblicato delle retrospettive nel nostro organo teorico, la Revue Internationale, così come altro materiale nella nostra stampa nazionale. Abbiamo tenuto riunioni pubbliche per celebrare il 40° e il 50° anniversario del Maggio e abbiamo partecipato a eventi promossi da altre organizzazioni[1]. In queste pagine iniziamo col ritornare su uno di questi articoli, scritto per un anniversario che ha poi acquisito un preciso valore simbolico: 1988.

Nella prima parte di questa nuova serie[2], noi diciamo nelle conclusioni che la prima valutazione fatta da “RI”- “Capire maggio”, scritta nel 1969, secondo la quale Maggio 68 ha rappresentato la prima grande reazione della classe operaia mondiale alla ricomparsa della crisi economica storica del capitalismo - è stata interamente confermata: nonostante la capacità spesso sorprendente del capitale di adattarsi alle sue contraddizioni che si acuiscono, la crisi, che alla fine degli anni ’60 non poteva essere avvertita che attraverso i suoi primi sintomi, è diventata al tempo stesso sempre più evidente e a tutti gli effetti, permanente.

Ma che dire della nostra insistenza sul fatto che il Maggio 68 segnava la fine dei decenni precedenti di controrivoluzione e l’apertura di una nuova fase, nella quale una classe operaia non sconfitta sarebbe andata incontro a lotte massicce e decisive; e, in cambio, l’esito di queste lotte avrebbe risolto il dilemma storico posto dalla crisi economica insanabile: guerra mondiale, nel caso di una nuova sconfitta della classe operaia, o rivoluzione mondiale e costruzione di una nuova società comunista?

L’articolo del 1988, “20 anni dopo il 1968 - lotta di classe: la maturazione delle condizioni della rivoluzione proletaria”[3] iniziava dalla critica allo scetticismo dominante dell’epoca – l’idea molto diffusa nei media borghesi e tra una ampia cerchia di intellettuali, che Maggio 68 era stato al massimo una magnifica utopia che la dura realtà ha portato ad appannarsi e a morire. In altri articoli, più o meno nello stesso periodo[4], noi abbiamo anche criticato lo scetticismo che affliggeva gran parte dell’ambiente rivoluzionario, e questo dopo gli avvenimenti stessi del 68 - una tendenza che si esprimeva sostanzialmente con il rifiuto dei principali eredi rimasti della Sinistra comunista italiana, di non vedere nel Maggio 68 niente altro che un’ondata di agitazione piccolo borghese che non ha fatto nulla per sollevare il peso morto della controrivoluzione.

Nello stesso modo hanno reagito le ali bordighiste e dameniste[5] della tradizione della Sinistra italiana del dopoguerra. Entrambe tendono a vedere il partito come qualcosa al di fuori della storia, poiché ritengono che sia possibile mantenerlo qualunque sia il rapporto di forza tra le classi. Vedendo la lotta degli operai essenzialmente circolare per sua stessa natura, poiché non può trasformarsi in senso rivoluzionario senza l’intervento del partito, ci si pone il problema da dove nasca il partito. I bordighisti, in particolare, hanno offerto nel 1968 una caricatura di questa visione, quando facevano uscire volantini che insistevano sul fatto che il movimento non sarebbe andato da nessuna parte senza mettersi sotto la bandiera del Partito (cioè il proprio piccolo gruppo politico). Dall’altra parte, la nostra corrente ha sempre replicato che si tratta di un approccio essenzialmente idealista che separa il partito dalle sue radici materiali nella lotta di classe. Noi riteniamo di basarci sull’esperienza reale della Sinistra comunista italiana, nel suo periodo teoricamente più fruttuoso, il periodo della Frazione negli anni 1930 e 40, quando essa ha riconosciuto che la sua stessa perdita d’influenza dalla fase precedente di partito era un risultato della sconfitta della classe operaia, e che solo una ripresa della lotta di classe poteva fornire le condizioni della trasformazione delle frazioni comuniste esistenti in un reale partito di classe.

D'altronde queste condizioni si sono sviluppate dopo il 1968, non solo a livello delle minoranze politicizzate, che vedevano una fase di crescita importante sulla scia degli avvenimenti del ‘68, e delle rivolte della classe operaia che ne seguirono, ma anche su scala più generale. La lotta di classe che ha fatto irruzione nel maggio 68 non era un fuoco di paglia ma il punto di partenza di un fenomeno importante che sarebbe rapidamente arrivato in primo piano a livello mondiale.

I progressi della lotta di classe tra il 1968 e il 1988

In accordo con la visione marxista che ha da tempo identificato il percorso della lotta di classe analogo a quello di ondate, l’articolo analizza tre ondate differenti di lotte nel corso dei due decenni dopo il 68: la prima, senza dubbio la più spettacolare, ha conosciuto l’autunno caldo italiano nel 69, la violenta rivolta a Cordoba in Argentina nel 69 e in Polonia nel 70, e movimenti importanti in Spagna e in Gran Bretagna nel 1972. In Spagna, in particolare, i lavoratori hanno iniziato ad organizzarsi attraverso assemblee di massa, un processo che giunse al culmine a Vitoria nel 1976. I riflessi dell’ondata di lotte con i suoi echi in Israele (1969) e in Egitto (1972) e, più tardi, le rivolte nelle townships in Sud Africa guidate da comitati di lotta (i “Civics”) ne dimostrano la dimensione internazionale.

Dopo una breve pausa nella metà degli anni 70, c’è stata una seconda ondata che ha riguardato gli scioperi degli operai del petrolio iraniani, i lavoratori delle acciaierie in Francia nel 1978, l’“inverno del malcontento” in Gran Bretagna, lo sciopero dei lavoratori portuali a Rotterdam, guidato da un comitato di lotta indipendente e in seguito gli scioperi dei lavoratori siderurgici in Brasile nel 1979 che hanno anche contestato il controllo dei sindacati. Questa ondata di lotte ha raggiunto il culmine in Polonia nel 1980, certamente l’evento più importante della lotta di classe dal 1968, e anche dagli anni ‘20. E nonostante la severa repressione degli operai polacchi abbia posto fine a questa ondata, non ci volle molto che un nuovo movimento si verificasse con le lotte in Belgio nel 1983 e 1986, lo sciopero generale in Danimarca nel 1985, lo sciopero dei minatori in Inghilterra nel 1984 - 85, le lotte dei ferrovieri  e dei lavoratori della sanità in Francia nel 1986 e nel 1988, oltre al movimento dei lavoratori della scuola in Italia nel 1987. Le lotte in Francia e in Italia, in particolare - come lo sciopero di massa in Polonia- hanno dimostrato una reale capacità di auto-organizzazione con assemblee generali e comitati di sciopero.

Non era una semplice lista di scioperi. L’articolo[6] evidenzia il fatto che questo movimento a ondate di lotte non girava in tondo, ma portava a reali progressi nella coscienza di classe:

“Il semplice paragone delle caratteristiche delle lotte di 20 anni fa con quelle di oggi permette di percepire rapidamente l’ampiezza dell’evoluzione che si è lentamente realizzata nella classe. La propria esperienza, aggiunta all’evoluzione catastrofica del sistema capitalista, le ha permesso di sviluppare una visione molto più lucida della realtà della sua lotta. Questo ha comportato:

- una perdita delle illusioni sulle forze politiche della sinistra del capitale e in primo luogo sui sindacati rispetto ai quali le illusioni hanno lasciato il posto alla sfiducia e sempre più un’aperta ostilità;

- l’abbandono sempre più marcato di forme di mobilitazione inefficaci, vicoli ciechi nei quali i sindacati hanno tante volte fuorviato la combattività operaia:

- giornate di azioni, manifestazioni-processione, scioperi lunghi e isolati…

Ma l’esperienza di questi 20 anni di lotta non ha portato alla classe operaia solo insegnamenti “in negativo” (ciò che non si deve fare). Essa si è anche tradotta in insegnamenti su cosa e come si deve fare:

- cercare di estendere la lotta (in particolare in Belgio nel 1986)

- cercare di prendere in mano la lotta, organizzandosi in assemblee e comitati di sciopero eletti e revocabili (Francia alla fine del 1986, e in particolare in Italia nel 1987).

Al tempo stesso, l’articolo non trascurava le risposte della borghesia al crescere della lotta di classe: benché fosse stata sorpresa dallo scoppio del movimento del Maggio 68, rincorrendo a forme brutali di repressione che hanno accelerato l’estensione della lotta, essa ha in seguito davvero imparato molto o di nuovo su come far fronte alla resistenza del suo nemico di classe. Non ha rinunciato a impiegare la repressione, ovviamente, ma ha trovato strumenti più subdoli per proporne e giustificarne l’impiego, come lo spauracchio del terrorismo: nel frattempo ha sviluppato il suo arsenale di mistificazioni democratiche per deviare le lotte verso obiettivi politici borghesi, in particolare nei paesi che erano ancora governati da dittature. Per quanto riguarda le stesse lotte, si è trovata di fronte la disillusione crescente verso i sindacati ufficiali e la minaccia di auto-organizzazione nello sviluppo di forme di sindacalismo, che potevano abbracciare anche forme “al di fuori delle organizzazioni sindacali” (ad esempio l’attività di coordinamento messa in atto dalla estrema sinistra in Francia).

L’articolo cominciava col riconoscere che molte affermazioni ottimistiche sulla “rivoluzione nel 1968” erano state chiaramente utopistiche. In parte perché la discussione sulla possibilità della rivoluzione era stata falsata dalle posizioni gauchiste secondo le quali quelle in Vietnam o a Cuba erano proprio rivoluzioni socialiste che dovevano essere sostenute attivamente dalla classe operaia dei paesi centrali.

Ma anche perché, qualora si fosse compreso che la rivoluzione implicava realmente la trasformazione dei rapporti sociali, le condizioni oggettive del 1968, oltre la crisi economica mondiale, avevano appena iniziato a fornire la base materiale di una sfida rivoluzionaria al capitalismo. Da allora le cose sono diventate più complicate, ma più profonde.

Forse si parla meno facilmente di rivoluzione nel 1988 che nel 1968. Ma quando oggi questa parola è gridata in una manifestazione che denuncia la natura borghese dei sindacati a Roma o in una manifestazione di disoccupati a Bilbao c’è un diverso significato più concreto e profondo che nelle assemblee concitate e piene di false illusioni del 1968.

Il 1968 aveva sottolineato il ritorno dell’obiettivo rivoluzionario. Durante 20 anni le condizioni della sua realizzazione hanno continuato a maturare. Lo sprofondare del capitalismo in un punto morto, la situazione sempre più insostenibile che questo crea per l’insieme delle classi sfruttate, l’esperienza accumulata con la combattività operaia, tutto questo porta alla situazione, di cui parlava Marx, che rende “ogni passo indietro impossibile”.

La svolta del 1989

Ci sono molti aspetti in questa analisi che oggi possiamo sempre condividere. Tuttavia non possiamo che essere colpiti da una frase che sintetizza la valutazione della terza ondata di lotta di questo articolo:

Infine, la recente mobilitazione dei lavoratori della Ruhr in Germania e la ripresa degli scioperi in Gran Bretagna nel 1988 (vedi l’editoriale di questo numero) confermano che questa terza ondata internazionale di lotte operaie, che dura ora da più di 4 anni, è tutt’altro che conclusa”.

Nei fatti, la terza ondata, e comunque tutto il periodo di lotte dal 1968, doveva arrivare a una fine improvvisa con il crollo del blocco dell’Est nel 1989-91 e la marea di campagne sulla morte del comunismo che l’ha accompagnato. Il cambiamento storico nella situazione mondiale ha segnato l’arrivo definitivo di una nuova fase nel declino del capitalismo: la fase di decomposizione.

La CCI aveva già notato i sintomi di decomposizione in precedenza, negli anni ‘80, e nell’organizzazione era già in corso una discussione sulle sue implicazioni per la lotta di classe. Tuttavia, l’articolo su Maggio 68 nella Revue Internationale n°53 così come l’editoriale nello stesso numero, mostrano chiaramente che non si era colto il suo significato più profondo. L’articolo sul ‘68 ha un sottotitolo “20 anni di decomposizione” senza che sia fornita una spiegazione del termine, mentre l’editoriale si riferisce solo alle sue manifestazioni a livello dei conflitti imperialistici - il fenomeno che in seguito è stato indicato come “libanizzazione” - la tendenza di interi paesi-nazione a disintegrarsi sotto il peso di rivalità imperialiste sempre più irrazionali. È probabile che queste imprecisioni abbiano riflesso le reali differenze che erano comparse all’8° congresso della CCI verso la fine del 1988.

L’atmosfera dominante in questo congresso era stata di un ottimismo e di un’euforia illusoria. Questo rifletteva in parte il comprensibile entusiasmo dovuto all’integrazione di due nuove sezioni della CCI al congresso, in Messico e in India. Ma soprattutto si esprimeva in alcune analisi della lotta di classe che erano state poste in risalto: l’idea che era questione di mesi e le nuove mistificazioni borghesi si sarebbero logorate a loro volta, speranze smisurate nelle lotte che c’erano in Russia, la concezione di una terza ondata che avanzava sempre tra alti e bassi, e oltre tutto, una reticenza ad accettare l’idea che, di fronte alla decomposizione sociale crescente, la lotta di classe sembrava segnare una “battuta di arresto” o arrancare (cosa che, considerata l’importanza della posta in gioco, non poteva che implicare una tendenza al riflusso o alla regressione). Al congresso Marc Chirik e una minoranza di compagni difendevano questa visione che si basava su una chiara coscienza che lo sviluppo della decomposizione esprimeva una sorta di blocco storico tra le classi. La borghesia non aveva inflitto una sconfitta storica decisiva alla classe operaia, e non era capace di mobilitarsi per una nuova guerra mondiale; ma la classe operaia, malgrado i 20 anni di lotta che avevano impedito il cammino verso la guerra, e che tra l’altro avevano visto progressi significativi della coscienza di classe, non era stata capace di sviluppare la prospettiva della rivoluzione, di porre la sua alternativa politica alla crisi del sistema. Privato di ogni via di uscita ma sempre precipitato in una crisi economica di lunga durata, il capitalismo cominciava a decomporsi, e questa putrefazione influenzava la società capitalista a ogni livello[7].

Questa diagnosi ha avuto una decisiva conferma con il crollo del blocco dell’Est. Da un lato, questo importante avvenimento era un prodotto della decomposizione. Metteva in luce l’impasse profonda della borghesia stalinista che si era arenata in una palude economica ma chiaramente incapace di mobilitare i suoi lavoratori in una soluzione militare alla bancarotta della sua economia (le lotte in Polonia nel 1980 lo avevano chiaramente dimostrato alla classe dominante stalinista). Allo stesso tempo, esso mostrava le gravi debolezze politiche di questa parte della classe operaia mondiale. Il proletariato del blocco russo aveva indubbiamente dimostrato la sua capacità di lottare sul piano economico difensivo, ma di fronte a un avvenimento storico enorme che di per sé si esprimeva sul piano decisamente politico, era del tutto incapace di offrire una propria alternativa e, come classe, è stato trascinato nelle rivolte democratiche falsamente descritte come una serie di “rivoluzioni del popolo”.

A loro volta, questi eventi hanno considerevolmente accelerato il processo di decomposizione su scala mondiale. Era più evidente a livello imperialista, quando il crollo repentino del vecchio sistema dei blocchi ha portato la tendenza al “ciascuno per sé” a dominare sempre più spesso le rivalità diplomatiche e militari. Ma era vero anche a proposito dei rapporti di forza tra le classi. A seguito del tracollo del blocco dell’Est, le campagne della borghesia mondiale sulla morte del comunismo, sull’impossibilità di qualsiasi alternativa della classe operaia al capitalismo, hanno inflitto altri colpi alla capacità della classe operaia internazionale, in particolare nei paesi centrali del sistema, di generare una prospettiva politica.

La CCI non aveva previsto gli eventi del 1989-91, ma è stata capace di dare una risposta con una analisi coerente basata sul lavoro teorico precedente. Questo era vero per quanto riguarda sia  la comprensione dei fattori economici implicati nella caduta dello stalinismo[8], che la previsione del caos crescente che, in assenza dei blocchi, si sarebbe quindi scatenato nella sfera dei conflitti imperialisti[9] . In merito al livello della lotta di classe, siamo riusciti a vedere che il proletariato si trovava ad affrontare un periodo particolarmente difficile:

L’identificazione sistematica tra comunismo e stalinismo, la menzogna mille volte ripetuta e martellata oggi ancora più di prima per cui la rivoluzione proletaria non potrebbe condurre che al fallimento, vanno a trovare con il crollo dello stalinismo, e per tutto un periodo di tempo, un impatto accresciuto nei ranghi della classe operaia. È dunque un riflusso momentaneo della coscienza del proletariato, di cui già ora si possono notare le manifestazioni - in particolare con il ritorno in forze del sindacato - che bisogna attendersi. Se gli attacchi incessanti e sempre più brutali che il capitalismo non mancherà di sferrare contro gli operai costringeranno questi a scendere in lotta, in un primo tempo non ne risulterà una maggiore capacità della classe di avanzare nella sua presa di coscienza. In particolare, l’ideologia riformista peserà molto fortemente sulle lotte del prossimo periodo, favorendo grandemente l’azione dei sindacati.

Tenuto conto dell’importanza storica dei fatti che lo determinano, l’attuale riflusso del proletariato, benché non rimetta in causa il corso storico, la prospettiva generale agli scontri fra le classi, si presenta come ben più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia. Ciò detto, noi non ne possiamo prevedere né l’ampiezza reale, né la durata. In particolare, il ritmo di sprofondamento del capitalismo occidentale - di cui si può percepire attualmente un’accelerazione con la prospettiva di una nuova recessione aperta - costituisce un fattore determinante del momento in cui il proletariato potrà riprendere la sua marcia verso la coscienza rivoluzionaria”[10]. Questo passaggio è molto chiaro sull’impatto profondamente negativo del crollo dello stalinismo, ma contiene ancora una certa sottostima della profondità del riflusso. La stima secondo la quale “questo sarà momentaneo” attenua già la posizione successiva (che afferma) che il riflusso sarebbe stato “molto più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia”, e questo problema si sarebbe manifestato nella nostra analisi nel corso degli anni seguenti, in particolare nell’idea che alcune lotte negli anni ‘90 - nel 92 e di nuovo nel 98 - segnavano la fine dell'arretramento. In realtà, alla luce degli ultimi tre decenni, possiamo affermare che l'arretramento nella coscienza di classe non solo è continuato, ma si è approfondito, causando una sorta di amnesia nei confronti delle conquiste e dei passi avanti del periodo 1968-1989.

Quali sono i principali indicatori di questo percorso?

- L’impatto della crisi economica nell’Ovest non è stato così lineare come presupposto nel passaggio citato prima. Le convulsioni dell’economia hanno certamente sminuito le fanfaronate della classe dominante all’inizio degli anni 90, secondo le quali, con la fine del blocco dell’Est, saremmo entrati in un periodo di prosperità assoluta. Ma la borghesia è stata capace di sviluppare nuove forme di capitalismo di Stato e manipolazioni economiche (contraddistinte dal concetto di “neoliberismo”) che hanno mantenuto almeno un’illusione di crescita, mentre lo sviluppo reale dell’economia cinese in particolare ha convinto molti che il capitalismo può adattarsi all’infinito e trovare sempre nuove vie per uscire dalla sua crisi. E quando le contraddizioni di fondo sarebbero tornate a galla, come accaduto con il grande crollo finanziario del 2008, avrebbero potuto stimolare alcune reazioni proletarie (ad esempio nel periodo 2010-2013); ma allo stesso tempo, la stessa forma che ha preso questa crisi, “una stretta creditizia” che implica una ingente perdita dei risparmi per milioni di lavoratori, rendeva più difficile rispondere sul terreno di classe, perché l’impatto sembrava colpire di più le singole famiglie che una classe associata[11].

- La decomposizione mina questa coscienza del proletariato in quanto forza sociale diversa sotto molti aspetti che aumentano tutti l’atomizzazione e l’individualismo insiti nella società borghese. Possiamo osservarli ad esempio nella tendenza alla formazione di gang nei centri urbani che esprimono allo stesso tempo la mancanza di ogni prospettiva economica per una parte consistente dei giovani proletari, e una ricerca disperata di una comunità alternativa che porta a divisioni mortali tra i giovani, basate su rivalità tra i diversi quartieri e le diverse condizioni sociali, sulla concorrenza per il controllo dell’economia locale della droga, o su differenze razziali e religiose. Ma la politica economica della classe dominante ha anche deliberatamente attaccato ogni senso di identità di classe - sia facendo saltare i vecchi centri industriali di resistenza della classe operaia, sia introducendo forme  molto più atomizzate di lavoro, come la cosiddetta “gig economy” (economia dei piccoli lavoretti), in cui gli operai sono regolarmente considerati come degli “imprenditori”.

- Il numero crescente di guerre sanguinose e caotiche che caratterizza questo periodo smentisce decisamente l’affermazione che la fine dello stalinismo avrebbe regalato all’umanità un “dividendo della pace”, ma non fornisce la base per uno sviluppo generale della coscienza di classe, come è accaduto ad esempio nel corso della Prima guerra mondiale, quando il proletariato dei paesi centrali era coinvolto direttamente nella carneficina. La borghesia ha imparato dai conflitti sociali del passato provocati dalla guerra (compresa la resistenza contro la guerra del Vietnam) e, nei paesi chiave in Occidente, ha fatto il possibile per evitare l’impiego di eserciti di leva e per confinare le sue guerre nella periferia del sistema. Ciò non ha impedito che questi scontri militari avessero un impatto molto concreto sui paesi centrali, ma ha assunto principalmente forme tendenti a rinforzare il nazionalismo e a fare leva sulla “protezione” dello Stato: l’enorme crescita del numero di rifugiati che fuggono dalle zone di guerra, e l’azione di gruppi terroristici volta a colpire la popolazione dei paesi più sviluppati[12].

- A livello politico, in mancanza di una chiara prospettiva proletaria, abbiamo visto differenti parti della classe operaia influenzate dalle false critiche del sistema fornite dal populismo da un lato e dal jihadismo dall’altro. L’influenza crescente della “politica identitaria” tra gli strati più istruiti della classe operaia è un’altra espressione di questa dinamica: l’assenza di identità di classe è aggravata dalla tendenza alla frammentazione in identità razziali, sessuali ed altre, accrescendo l’esclusione e la divisione, mentre solo il proletariato che lotta per i propri interessi può essere inclusivo.

- Noi dobbiamo fare i conti con la realtà di tutte queste difficoltà e trarne le conseguenze politiche nella lotta per cambiare la società. Ma, nella nostra visione, anche se il proletariato non può evitare la dura scuola delle sconfitte, le difficoltà crescenti e persino le sconfitte parziali non significano ancora una sconfitta storica della classe e la scomparsa della possibilità del comunismo.

Negli ultimi decenni circa, alcuni movimenti importanti hanno fornito una base a questa conclusione. Nel 2006 abbiamo visto la mobilitazione massiccia degli studenti in Francia contro il CPE[13]. I mass media della classe dominante descrivono spesso le lotte in Francia, anche se sono sotto il controllo dai sindacati, come nell’ultimo caso[14] , agitando lo spettro di un “nuovo Maggio 68”, il modo migliore per deformare la vera esperienza del Maggio. Ma il movimento del 2006 ha fatto rivivere, per certi versi, lo “spirito” autentico del 68: da un lato perché i suoi protagonisti riscoprivano forme di lotta di quell’epoca, in particolare le assemblee generali dove potevano svolgersi reali dibattiti, e dove i giovani partecipanti erano pronti ad ascoltare la testimonianza dei compagni più vecchi che avevano preso parte agli avvenimenti del 68. Ma, allo stesso tempo, questo movimento, che aveva tagliato fuori i quadri sindacali, rischiava realmente di condurre impiegati e operai in una direzione probabilmente “senza controllo”, proprio come nel maggio 68, e perciò il governo ha ritirato il progetto di legge.

Sempre nel maggio 2006, 23 mila operai metallurgici di Vigo, in una provincia della Galizia in Spagna, sono scesi massicciamente in sciopero contro una riforma del lavoro del settore e invece di rimanere chiusi nelle fabbriche hanno cercato la solidarietà di altre industrie, in particolare davanti ai cancelli dei cantieri navali e degli stabilimenti della Citroën, hanno organizzato manifestazioni nella città per coinvolgere tutta la popolazione, e soprattutto quotidiane assemblee generali pubbliche aperte agli altri lavoratori, occupati, disoccupati o pensionati.

Queste assemblee proletarie sono state per una settimana linfa vitale di una lotta che ha impiegato metodi esemplari, finché il movimento non è stato preso nella morsa della repressione violenta e delle manovre dei sindacati nelle trattative con la dirigenza.

Nel 2011 abbiamo visto l’ondata di rivolte sociali in Medio Oriente e in Grecia, che è culminata nel movimento degli “Indignados” in Spagna o “Occupy” negli Stati Uniti. L’elemento proletario in questi movimenti era diverso da un paese all’altro, ma è stato più evidente in Spagna, dove abbiamo visto ampiamente diffusa l’adozione della forma assembleare; un forte slancio internazionalista che plaudeva alle manifestazioni di solidarietà dei partecipanti di tutto il mondo e dove la parola d’ordine “rivoluzione mondiale” era presa sul serio, forse per la prima volta dall’ondata rivoluzionaria del 1917; un riconoscimento che “il sistema è ormai superato” e una grande voglia di discutere la possibilità di una nuova forma di organizzazione sociale. Nelle numerose e intense discussioni che si svolgevano nelle assemblee e nelle commissioni sulla morale, sulla scienza, sulla cultura, nel rimettere sempre in discussione i dogmi secondo i quali i rapporti capitalistici sono eterni – abbiamo visto proprio qui emergere di nuovo il vero spirito del Maggio 68.

Certamente la maggior parte di questi movimenti aveva molti punti deboli che abbiamo analizzato in altri articoli[15], non ultima la tendenza dei partecipanti a vedersi come “cittadini” piuttosto che come proletari, e dunque una reale vulnerabilità all’ideologia democratica che avrebbe consentito ai partiti borghesi come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna di presentarsi come i veri eredi di queste rivolte. E, in un certo senso, come in ogni sconfitta proletaria, più in alto si sale, più in basso si cade: il riflusso di questi movimenti ha ulteriormente diminuito la coscienza di classe. In Egitto, dove il movimento nelle piazze ha ispirato il movimento in Grecia e in Spagna, le illusioni sulla democrazia avevano preparato il terreno alla restaurazione dello stesso tipo di governo autoritario che era stato il catalizzatore iniziale della “primavera araba”; in Israele, dove le manifestazioni di massa hanno lanciato una volta la parola d’ordine internazionalista “Nethanyahu, Moubarak, Assad, stesso nemico”, la brutale politica militarista di Nethanyahu ha ripreso ora il controllo. E, cosa ancor più grave, in Spagna molti dei giovani che avevano partecipato al movimento degli “Indignados” sono stati intrappolati nel vicolo cieco del nazionalismo catalano o spagnolo.

  La comparsa di questa nuova generazione di proletari nei movimenti del 2006 e 2011 ha anche dato vita a  una nuova ricerca della politica comunista in una minoranza, ma  le speranze che ciò avrebbe portato un apporto completamente nuovo di forze rivoluzionarie non si sono, al momento, realizzate. La Sinistra comunista resta decisamente isolata e disunita; tra gli anarchici, tra cui si stavano osservando alcuni nuovi interessanti sviluppi, la ricerca di posizioni di classe è stata minata dall’influenza della politica identitaria e anche dal nazionalismo. In un terzo articolo di questa serie analizzeremo nei dettagli l’evoluzione del campo politico proletario e del suo contesto dopo il 1968.

Ma se Maggio 68 insegna qualcosa, mostra che la classe operaia può riprendersi dalle peggiori sconfitte, risorgere dalle più gravi ritirate. I momenti di rivolta proletaria che ci sono stati nonostante la minaccia crescente della decomposizione del capitalismo rivelano la possibilità che sorgano nuovi movimenti che, riscoprendo la prospettiva della rivoluzione, possano sventare i tanti pericoli che la decomposizione comporta per il futuro della specie.

Questi pericoli - l’espansione del caos militare, della catastrofe ecologica, della fame e delle malattie a livelli mai raggiunti prima - provano che la rivoluzione è più che mai necessaria per la specie umana. Il declino del capitalismo e la decomposizione aumentano certamente il rischio che la base oggettiva di una nuova società possa essere definitivamente spazzata via se la decomposizione avanza oltre un certo limite. Ma anche nella sua ultima fase, il capitalismo produce ancora le forze che possono essere usate per sconfiggerlo - come nel testo del Manifesto Comunista del 1848, “la borghesia, prima di ogni altra cosa, produce i suoi becchini”. Il capitalismo, i suoi modi di produzione e di comunicazione sono più globali che mai - ma anche il proletariato è più internazionale, più capace di comunicare al suo interno a livello mondiale. Il capitalismo è diventato molto più avanzato a livello tecnologico ma deve quindi educare il proletariato all’uso della sua scienza e della sua tecnologia che possono essere utilizzate in una futura società per i bisogni dell’uomo piuttosto che per il profitto. Questo proletariato più istruito, più coinvolto a livello internazionale, è sempre comparso nei movimenti sociali recenti, soprattutto nei paesi centrali del sistema, e svolgerà un ruolo chiave in ogni futura ripresa della lotta di classe, come lo faranno le nuove forze proletarie create dalla vertiginosa ma malaticcia crescita del capitalismo in Asia e nelle altre regioni prima “sottosviluppate”. Noi non abbiamo visto la fine né il funerale dello spirito del Maggio 68.

Amos, giugno 2018

 

[1] Vedere per esempio World Revolution n°315 “Riunione della CCI su '1968 e tutto il resto': la prospettiva aperta 40 anni fa non non è scomparsa”.

[2] “50 anni fa, maggio 68. Prima parte: lo sprofondamento nella crisi economica. Revue Internationale n°160”.

[3] Rivista Internazionale n°12. L’articolo è firmato RV, uno dei giovani “venezuelani” che ha contribuito a fondare RI nel 1968.

[4] Vedere in particolare: “La confusione dei gruppi comunisti sul periodo attuale: sottovalutazione della lotta di classe” nella Revue Internationale n°54, 3° trimestre 1988.

[5] Vedere in particolare l’articolo “Gli anni 1950 e 60. Damen, Bordiga e la passione del comunismo” nella Revue Internationale n°158.

[6] “20 anni dopo il 1968: lotta di classe: la maturazione delle condizioni della rivoluzione proletaria”. Rivista Internazionale n°12, ottobre 1988.

[7] Per un bilancio più ampio delle lotte di classe degli ultimi decenni, che prende in considerazione le tendenze a sovrastimare il potenziale immediato della lotta di classe nelle nostre analisi, vedi “Rapporto sulla lotta di classe del 21° Congresso della CCI”, https://it.internationalism.org/cci/201603/1358/rapporto-sulla-lotta-di-classe, inverno 2016.

[8] Vedere “Tesi sulla crisi politica ed economica nei paesi dell’Est”, Rivista Internazionale n°13, febbraio 1990.

[9] Vedere in particolare “Testo di orientamento: Militarismo e decomposizione”, Rivista  Internazionale n°15,  https://it.internationalism.org/content/militarismo-e-decomposizione.

[10] “Tesi sulla crisi politica ed economica nei paesi dell’Est”, Rivista Internazionale n°13.

[11] Vedere il punto 14 della Risoluzione sulla lotta di classe del 22° Congresso della CCI, /content/1410/risoluzione-sulla-lotta-di-classe-internazionale

[12] Vedere i punti 15 e 16 della risoluzione precedente.

[13] CPE: contratto di primo impiego, una misura destinata ad accrescere la precarietà del lavoro per i giovani lavoratori. Per un’analisi di questo movimento, vedere “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”.

[14] Sciopero a singhiozzo dei ferrovieri: una manovra dei sindacati per dividerci! (volantino).

[15] Vedere “Gli indignati in Spagna, Grecia e Israele: dall’indignazione alla preparazione della lotta di classe”, Rivista Internazionale n°33, gennaio 2012.

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