Dibattito su Marxismo e scienza (seconda parte)

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Nella prima parte di questo articolo[1], ripreso dal nostro sito spagnolo e che esprime il dibattito con un compagno, abbiamo fatto vedere come la scienza non fosse riuscita a superare la crisi che l’aveva attraversata a cavallo fra il 19° e il 20° secolo, crisi provocata dall’incapacità a integrare in un pensiero dialettico le nuove scoperte, in primis la relatività einsteiniana e la meccanica quantistica, che avevano messo in crisi le precedenti teorie newtoniane. Questo perché il pensiero borghese era dominato dal positivismo e dall’idea che i fatti, i fenomeni, coincidessero con la realtà stessa, laddove essi sono parti e momenti di un processo. In questa seconda parte continueremo a criticare questa concezione della realtà e mostreremo come lo stalinismo, partendo da alcuni errori teorici di Lenin, cercò di sostituire una teoria altrettanto dogmatica, il leninismo, negando gli apporti della scienza, e quindi rifiutandosi di comprenderli in una teoria più complessiva, alla luce del materialismo dialettico. Perciò la prossima rivoluzione avrà anche il compito di integrare gli apporti della scienza in una visione del mondo e della conoscenza coerente con il materialismo dialettico.

Per questo, dopo la 2^ guerra mondiale, nel pieno del “boom” della tecnologia e dello sviluppo scientifico degli anni ’60, la scienza si trovava in una situazione simile a quella della fine del secolo 19°, come mise in evidenza la corrente bordighista:

“...il «progresso scientifico» è uno dei grandi alibi della borghesia… Inoltre, prende argomenti dai risultati delle scienze della natura per costruire una ‘scienza sociale’ che si proclama al di sopra delle classi, in realtà per giustificare la sua filosofia sociale e la sua forma di società…” scriveva il partito bordighista nella sua riunione generale di Torino nel 1968.

Durante il 20° secolo, a causa della sconfitta del tentativo rivoluzionario e del peso dello stalinismo, il Movimento Operaio è stato vittima di una visione dogmatica e materialista volgare della scienza, che si riassumeva negli “avanzamenti” dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica e in “scienziati” come Lyssenko; ma anche, all’opposto, da un rifiuto della scienza, che si identificava con la corsa agli armamenti e con lo sfruttamento, come denunciavano i giovani degli anni ’60. Solo eccezionalmente si sono prodotti sforzi per recuperare un’impostazione marxista del problema, partendo dal materialismo storico. E questo principalmente su un terreno teorico e isolato dalle lotte della classe, un terreno filosofico.

Come, ad esempio, gli sforzi di Lukács, che anche se cominciarono nel fuoco della lotta della Sinistra Comunista nella rivista Kommunismus, si persero in seguito in un contesto “teorico” astratto e furono infine utilizzati da Stalin nella sua battaglia contro Trotsky.

Lukács critica la scienza nel capitalismo perché questa viene costruita a partire dalle premesse della società capitalista stessa, che preesistono ai suoi postulati, per cui difetta di una visione storica e dialettica:

“Il carattere storico di quei ‘fatti’ che sembrano essere appresi dalla scienza in questa ‘purezza’ si fa valere con conseguenze ancora più gravi. Essi non sono soltanto compresi come prodotti dello sviluppo storico in una costante trasformazione, ma sono anche – proprio nella struttura della loro oggettualità - prodotti di un’epoca storica determinata: quella del capitalismo. Di conseguenza quella ‘scienza’ che riconosce il modo in cui essi sono dati immediatamente come base della fattualità scientificamente rilevante e la loro forma oggettuale come premessa della formazione scientifica del concetto, si dispone semplicemente e dogmaticamente sul terreno della società capitalista, assumendo acriticamente la loro essenza, la loro struttura oggettuale, la loro legalità come base immodificabile della ‘scienza’. Per passare da questi ‘fatti’ ai fatti nel senso vero del termine, la loro condizionatezza storica deve essere penetrata come tale, abbandonando il punto di vista a partire dal quale essi si mostrano immediatamente: essi stessi sono da sottoporre ad una trattazione storico-dialettica. Infatti Marx dice: “La struttura (Gestalt) definitiva dei rapporti economici, così come si manifesta alla superficie, nella sua esistenza reale, e perciò anche le rappresentazioni attraverso le quali gli agenti attivi e passivi di tali rapporti cercano di venire in chiaro su di essi, differiscono notevolmente dal loro nucleo strutturale (Kerngestalt) interno, essenziale e tuttavia nascosto, e dal concetto che corrisponde ad esso, ne sono anzi il rovesciamento opposto.” Perciò, se si vogliono comprendere correttamente i fatti, si deve innanzitutto cogliere con chiarezza e precisione questa differenza fra la loro esistenza reale e il loro nucleo strutturale interno, tra le rappresentazioni che si formano in rapporto ad essi ed i loro concetti. Questa distinzione è il primo presupposto di una considerazione realmente scientifica che, secondo le parole di Marx, “sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente.” Ciò che importa è dunque, da un lato, liberare i fenomeni da questa forma immediata di dadità, trovare le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza e colti nella loro stessa essenza, e, d’altro lato, ottenere la comprensione di questo loro carattere di fenomeno, del loro apparire come loro necessaria forma fenomenica. Questa forma è necessaria a causa della loro essenza storica, per il fatto che essi si sono sviluppati sul terreno della società capitalista. Il rapporto dialettico consiste appunto in questa doppia determinazione, in questo contemporaneo riconoscimento e superamento dell’essere immediato”. (Storia e coscienza di classe, Sugarco edizioni, 1974, “Che cosa è il marxismo ortodosso?”, pag. 10-11).

La dittatura dei “fatti” nasconde una incapacità a comprendere l’evoluzione dialettica della realtà.

«L’essenza dell’evoluzione capitalista, resa estranea all’uomo, immobilizzata, trasformata in cosa impenetrabile, si cristallizza nel “fatto” sotto una forma che fa di questa immobilità e di questa alienazione il fondamento più evidente, il più indubitabile, della realtà e della comprensione del mondo. Di fronte alla immobilità di questi “fatti” ogni movimento appare come un semplice movimento al suo livello, ogni tendenza a modificarlo come un principio esclusivamente soggettivo (desideri, giudizi di valore, dover essere, ecc.). Quando questa priorità metodologica dei “fatti” è stata infranta, quando il carattere di processo di ogni fenomeno è stato riconosciuto, si può infine comprendere che quello che si suole chiamare “fatti” consiste anch’esso in processo. Si può quindi capire che i fatti non sono giustamente altra cosa che parti, momenti del processo complessivo, separati, artificialmente isolati e immobilizzati. Allo stesso tempo si capisce anche perché il processo complessivo, in cui l’essenza del processo si afferma senza falsificazione e la cui essenza non è oscurata da nessuna immobilità, rappresenta rispetto ai fatti la realtà superiore ed autentica. E si comprende allo stesso tempo perché il pensiero borghese ossificato debba necessariamente fare di questi “fatti” il proprio massimo feticcio teorico e pratico. Questa fatticità pietrificata, dove tutto si immobilizza in “grandezza fissa”, dove la realtà del momento è presente in una immobilità totale e assurda, rende ogni comprensione, anche di questa realtà immediata, metodologicamente impossibile.» (Lukács, op cit, Rosa Luxemburg marxista)

Si può anche citare il lavoro “filosofico” della scuola di Francoforte. Horkheimer e Adorno dimostrarono ne La dialettica dell’illustrazione che dietro il successo della scienza nel 20° secolo si nasconde un “ritorno a Kant”[2]:

«Il dominio della natura traccia il cerchio in cui la critica della ragion pura ha racchiuso il pensiero. Kant unì la tesi del suo faticoso e incessante progresso fino all’infinito con una inflessibile insistenza sull’insufficienza e l’eterna limitazione. La risposta che ha dato sembra il verdetto di un oracolo. Non c’è essere al mondo che non possa essere penetrato dalla scienza, però quello che può essere penetrato dalla scienza non è l’essere. Per questo, secondo Kant, il giudizio filosofico punta al nuovo, ma non conosce mai niente di nuovo, dal momento che ripete sempre solo quello che la ragione ha posto già nell’oggetto. Ma a questo modo di pensare, protetto e garantito – nei diversi dipartimenti della scienza – per i sogni di un visionario (riferimento a uno degli appellativi dello stesso Kant, ndr) viene presentato presto il conto. Il dominio universale sulla natura si ritorce contro lo stesso soggetto pensante, del quale non resta più che questo stesso, eternamente uguale “io penso”, che deve accompagnare tutte le mie rappresentazioni. Soggetto e oggetto si annullano fra di loro. Il sé astratto, il diritto di registrare e sistematizzare, non ha di fronte a sé altro che l’astratto materiale, che non ha altra caratteristica se non quella di servire da substrato a questo possesso. L’equazione di spirito e mondo finisce per risolversi, ma solo perché i due membri di essa si elidono reciprocamente. Nella riduzione del pensiero alla categoria dell’apparato matematico si trova la consacrazione del mondo come misura di se stesso. Quello che sembra un trionfo della razionalità oggettiva, la sottomissione di tutto l’esistente al formalismo logico,  è ricompensato con la docile sottomissione della ragione ai dati immediati. Comprendere il dato come tale, non limitarsi a leggere nei dati astratte relazioni spaziotemporali, grazie alle quali possono essere presi e trattati, senza intenderli in cambio come la superficie, come momenti mediati del concetto, che si compiono solo attraverso la spiegazione del suo significato storico, sociale e umano: ogni pretesa di conoscenza è abbandonata. Perché la conoscenza non consiste solo nella percezione, nella classificazione e nel calcolo, ma giustamente nella negazione determinante di quello che è immediato. Mentre il formalismo matematico, il cui strumento è il numero, la forma più astratta dell’immediato, fissa il pensiero nella pura immediatezza. Se dà ragione a quello che è di fatto, il pensiero si limita alla sua ripetizione, si riduce alla tautologia. Quanto più l’apparato teorico si impadronisce di tutto quello che esiste, tanto più ciecamente si limita a riprodurlo.» (Marc Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica della illustrazione, Il concetto di illustrazione).

La prossima rivoluzione non potrà evitare questi problemi.

Quale deve essere l’atteggiamento della rivoluzione rispetto alla scienza?

Purtroppo Lenin si fece trascinare, nel suo Materialismo ed Empiriocriticismo, in una deriva materialista volgare. Ma quello che fu un errore fu in seguito eretto, dallo stalinismo, a norma. Gli errori di Lenin diventarono la base del dogmatismo sterile, arrivando all’assurdo di negare la ‘teoria della relatività’ e voltando le spalle allo sviluppo della scienza, per instaurare una specie di catechismo che si chiamò “leninismo”. Lo stalinismo arrivò alla posizione caricaturale che il marxismo era l’unica “visione integrale della realtà” e perciò tutti i campi della scienza sono “limitati” e devono essere supervisionati o inquadrati nel marxismo. Sappiamo che nella Russia controrivoluzionaria questo portò all’aberrazione di una scienza “marxista”, che sarebbe “superiore”:

“Per quanto il punto di vista assunto successivamente da Lenin esteriormente possa apparire imparentato a quello engelsiano, in realtà si differenzia da esso come il giorno dalla notte: mentre Engels individua il compito essenziale del materialismo dialettico nel “salvare la dialettica cosciente trasferendola dalla filosofia idealistica tedesca nella concezione materialistica della natura e della storia” (prefazione alla seconda edizione dell’Antidühring, del 1885), Lenin, al contrario, individua il compito essenziale nel mantenimento e nella salvaguardia della posizione materialistica stessa, che in fondo nessuno ha messo seriamente in questione. Così Engels giunge ad affermare, in accordo con la progressiva evoluzione delle scienze, che il materialismo moderno applicato alla natura e alla storia “in entrambi i casi è essenzialmente dialettico e non necessita più di una filosofia che si collochi al di sopra delle altre scienze”, mentre Lenin cavilla attorno alle “deviazioni filosofiche” che ha individuato anche nei ricercatori scientifici più produttivi, pretendendo che alla sua “filosofia materialistica” spetti una specie di autorità giudiziaria suprema nei confronti dei risultati passati, presenti e futuri della ricerca scientifica settoriale.

Questa tutela “filosofica” materialistica di tutte le scienze della natura e della società come pure dell’ulteriore sviluppo complessivo della coscienza culturale nella letteratura, nel teatro, nelle arti figurative, ecc., che dagli epigoni di Lenin è stata spinta fino alle più assurde conseguenze, ha finito col condurre alla formazione di quella singolare dittatura ideologica, oscillante tra progresso rivoluzionario e oscura reazione, che nella Russia sovietica dei nostri giorni, in nome del cosiddetto “marxismo leninismo”, viene esercitata su tutta la vita spirituale non solo della burocrazia di partito che detiene il potere, ma dell’intera classe operaia, e che recentemente si è tentato di estendere anche oltre le frontiere della Russia sovietica, a tutti i partiti comunisti dell’Occidente e del mondo intero”[3].

Evidentemente è da qui che nasce l’idea nella storia (e in Gracchus) che la rivoluzione avrebbe “negato” la scienza per imporle una specie di “conoscenza” – parola di Marx-Stalin -, chiamata “leninismo”. Ovviamente, contro di questo, Gracchus sottolinea che la prossima rivoluzione dovrà partire e integrare gli apporti della scienza. Ma questo è di fatto la tradizione del Movimento operaio fino allo stalinismo. Non solo Marx ed Engels incorporarono le scoperte di Morgan o Darwin o Engels rifletté sulla teoria cellulare di Virchow, ma anche nella 2^ Internazionale questa fu la norma.

Di fatto, la Rivoluzione d’Ottobre, contrariamente al suo becchino Stalin, aprì e stimolò diversi fronti di lavoro sul terreno scientifico, per esempio sull’ecologia o la psicologia.

Il movimento operaio ha sempre mantenuto una dimensione culturale e scientifica nei dibattiti in seno alla socialdemocrazia tedesca e le cui ultime testimonianze conosciute sono gli scritti di Trotsky e la sua relazione con la corrente surrealista, per esempio. Una dimensione che è stata sepolta dalla controrivoluzione e che la CCI oggi tenta di recuperare.

18.04.12



[1] Vedi Rivoluzione Internazionale n. 176

[2] Con il termine di “ritorno a Kant” si ricorda un dibattito storico svoltosi nella Socialdemocrazia alla fine del 19° secolo e che costituiva il risvolto teorico-filosofico del riformismo. In effetti, riassumendo, Bernstein sosteneva che le analisi di Marx erano scientifiche in quanto descrivevano e analizzavano la società capitalista, però erano “idealiste” quando stabilivano una prospettiva rivoluzionaria. Sul terreno della prospettiva rivoluzionaria, delle questioni sociali, si sarebbe dovuto “recuperare la filosofia di Kant”.

[3] Karl Korsch, Marxismo e filosofia. Edizione Sugar, pag. 31-32.

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