La condizione della donna nel XXI secolo

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La condizione della donna nel ventunesimo secolo”: perché un titolo del genere, perché affrontare questo argomento? Non è anacronistico o sorpassato? Dopo tutto, non siamo nel 2012? I diritti delle donne alla parità non sono riconosciuti in Italia e in una moltitudine di convenzioni e dichiarazioni in tutto il mondo?

In realtà, la questione della sofferenza delle donne in una società che rimane fondamentalmente patriarcale rimane irrisolta[1]. In tutto il mondo, la violenza domestica, le mutilazioni genitali rituali, lo sviluppo di ideologie del tutto anacronistiche, come il fondamentalismo religioso, per esempio, continuano ad operare e a svilupparsi[2].

Quello che i socialisti del XIX secolo chiamavano “la questione femminile” si pone dunque tuttora: come creare una società in cui le donne non subiscano più questa particolare oppressione? E quale deve essere l’atteggiamento dei comunisti rivoluzionari nei confronti delle “lotte delle donne”?

Una prima osservazione: la società capitalistica ha gettato le basi per il cambiamento più radicale che la società umana abbia mai conosciuto. Tutte le società precedenti, senza eccezione, si basavano sulla divisione sessuale del lavoro. Qualunque fosse la loro natura di classe, e al di là del fatto che la situazione delle donne fosse più o meno favorevole, era scontato che certe occupazioni fossero riservate agli uomini, altre alle donne. Le occupazioni maschili e femminili potevano cambiare da una società all’altra, ma la divisione era universale. Non possiamo entrare qui in uno studio approfondito sul perché di questo fatto, ma molto verosimilmente esso è legato ai vincoli del parto, e risale agli albori dell’umanità. Il capitalismo, per la prima volta nella storia, tende ad eliminare questa divisione. Dalla sua nascita, il capitalismo rende il lavoro astratto. Mentre una volta vi era il lavoro pratico dell’artigiano o del contadino, inquadrato dalle regole delle corporazioni o dalle leggi consuetudinarie, adesso vi è solo la mano d’opera pagata con una tariffa oraria o a cottimo indipendentemente da chi esegua il lavoro. Poiché le donne sono pagate di meno, spesso queste vengono fatte entrare in fabbrica per sostituire gli uomini che vi lavoravano prima. Questo è ad esempio il caso dei tessitori. Con l’aiuto della meccanizzazione, il lavoro richiede sempre meno forza fisica poiché la forza dell’uomo viene sostituita da quella, decuplicata, delle macchine. Oggi, il numero di posti di lavoro che richiedono ancora la forza fisica del maschio è limitata e si vedono sempre più donne entrare in campi precedentemente riservati agli uomini. I vecchi pregiudizi sulla presunta “irrazionalità” delle donne cadono quasi da soli, e si vedono sempre più donne occupare posti di ricercatori o nelle professioni mediche che in precedenza erano riservate agli uomini.

L’entrata massiccia delle donne nel mondo del lavoro associato[3] ha avuto due conseguenze potenzialmente rivoluzionarie:

  • la prima conseguenza è che, mettendo fine alla divisione sessuale del lavoro, il capitalismo apre la strada verso un mondo in cui uomini e donne non saranno più limitati a svolgere professioni determinate dal sesso ma potranno realizzare pienamente i loro talenti e le loro capacità umane. Ciò apre anche la prospettiva di relazioni tra i sessi che possono sviluppare su basi completamente nuove;
  • la seconda conseguenza è che le donne acquistano una indipendenza economica. Una lavoratrice salariata non è più dipendente dal proprio marito per vivere e ciò apre la possibilità, per la prima volta, alle masse delle donne lavoratrici, di partecipare alla vita pubblica e politica.

Nel capitalismo, negli anni tra il XIX ed il XX secolo, la rivendicazione a partecipare alla vita politica non si limitava alle donne operaie. Le donne della borghesia e della piccola borghesia rivendicavano anche loro parità di diritti ed in particolare il diritto al voto. Per il movimento operaio, ciò poneva il problema di quale atteggiamento adottare nei confronti dei movimenti femministi. Infatti, se il movimento operaio era contro ogni oppressione della donna, i movimenti femministi, ponendo la questione sociale a partire dal sesso e non dal conflitto di classe, negavano la necessità di un rovesciamento rivoluzionario della società da parte di una classe sociale composta di uomini e di donne: il proletariato. Mutatis mutandis, questa è la stessa questione che si pone oggi: quale atteggiamento devono adottare i rivoluzionari verso il movimento di liberazione della donna?

In un articolo pubblicato nel maggio 1912 sulla lotta per il suffragio femminile, la rivoluzionaria Rosa Luxemburg fa una netta distinzione tra le donne della borghesia ed il proletariato femminile: “Molte di queste donne borghesi che si comportano come leonesse nella lotta contro le “prerogative maschili” marcerebbero come delle docili pecore nel campo della reazione conservatrice e clericale, se avessero il diritto di voto (...) Economicamente e socialmente, le donne delle classi sfruttatrici non sono un segmento indipendente della popolazione. La loro unica funzione sociale è quella di essere strumenti della riproduzione naturale delle classi dominanti. Al contrario, le donne proletarie sono economicamente indipendenti. Esse sono produttive per la società così come lo sono gli uomini[4]. La Luxemburg fa dunque una distinzione molto netta tra la lotta per il suffragio delle donne proletarie e quella delle donne della borghesia, e insiste inoltre sul fatto che la lotta per i diritti delle donne è una questione che riguarda tutta la classe operaia: “Il suffragio delle donne è l'obiettivo. Ma il movimento di massa che potrà ottenerlo non è quello delle sole donne, perché questa è una preoccupazione della classe comune delle donne e degli uomini del proletariato.

Il rifiuto del femminismo borghese è altrettanto chiaro in Aleksandra Kollontaj, membro del partito bolscevico, che pubblica nel 1908 La base sociale della questione femminile:

Qualunque cosa dicano le femministe, l’istinto di classe si mostra sempre più potente dei nobili entusiasmi della politica “al di sopra delle classi”. Finché le donne borghesi e le loro “sorelline” [vale a dire le operaie, ndr] sono uguali nella loro disuguaglianza, le prime possono in tutta sincerità fare dei grandi sforzi per difendere gli interessi generali delle donne. Ma, una volta superata la barriera e avuto accesso all’attività politica, quelle stesse donne borghesi che fino a poco prima si erano fatte sostenitrici dei “diritti per tutte le donne” diventano sostenitrici entusiaste dei privilegi della loro classe (...). Quando le femministe parlano agli operai della necessità di una lotta comune per raggiungere un qualche “principio generale delle donne”, le donne della classe operaia sono naturalmente diffidenti[5].

Che questa diffidenza avanzata dalla Kollontaj e dalla Luxemburg fosse del tutto giustificata, fu dimostrato in pratica durante la Prima Guerra mondiale. Il movimento delle “suffragette” si divise in due: da un lato, le femministe guidate da Emmeline Pankhurst e da sua figlia Christabel che diedero il loro sostegno inequivocabile alla guerra e al governo; dall’altro, Sylvia Pankhurst in Gran Bretagna e sua sorella Adela in Australia, che si separarono dal movimento femminista per difendere una posizione internazionalista. Durante la guerra, Sylvia Pankhurst abbandonò gradualmente il riferimento al femminismo: la sua “Women’s Suffrage Federation” divenne la “Workers’ Suffrage Federation” nel 1916, e il suo giornale Women’s Dreadnought[6] cambiò nome per diventare Workers’ Dreadnought en 1917.

La Luxemburg e la Kollontaj ammisero che le lotte delle femministe e quelle delle donne proletarie potevano trovarsi temporaneamente su un terreno comune, ma non che le donne proletarie potessero fondersi nella lotta delle femministe su un terreno puramente di “diritti delle donne”. Ci sembra che i rivoluzionari debbano adottare oggi lo stesso atteggiamento, naturalmente nelle condizioni della nostra epoca.

Vogliamo concludere con una riflessione su “l’uguaglianza” come rivendicazione per le donne. Dato che il capitalismo considera la forza lavoro come un’astrazione, finanziariamente contabile, la sua visione di uguaglianza è ugualmente astratta, contabile: un’“uguaglianza di diritti”. Ma dal momento che gli esseri umani sono tutti diversi, un’uguaglianza di diritti diventa molto presto una disuguaglianza di fatto[7], ed è per questo che i comunisti, da Marx in poi, non rivendicano una “uguaglianza” sociale. Al contrario, lo slogan della società comunista è: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. E vi è un bisogno, ma anche una capacità, che le donne hanno e che gli uomini non avranno mai: quella di partorire.

Una donna deve dunque avere la possibilità di dare alla luce il suo bambino, di allevarlo per i suoi primi anni, senza che ciò vada in contraddizione né con la sua indipendenza né con la sua partecipazione alla vita sociale in tutte le sue dimensioni. E’ una necessità, un bisogno fisico, che la società deve sostenere; ed è una capacità di cui la società ha tutto l’interesse a consentirne l’espressione dal momento che si tratta del suo avvenire[8]. Non è dunque difficile vedere che una società veramente umana, una società comunista, non cercherà di imporre un’“uguaglianza” astratta alle donne, che sarebbe solo una disuguaglianza reale di fatto. Essa cercherà al contrario di integrare questa capacità specifica alle donne nell’insieme dell’attività sociale, completando al tempo stesso un processo che il capitalismo non poteva che iniziare, mettendo così fine per la prima volta nella storia alla divisione sessuale del lavoro.

Jens, giugno 2012

 

[1] Secondo l’indagine nazionale sulle violenze contro le donne del 2000, “nel 1999, più di un milione e mezzo di donne hanno dovuto affrontare una situazione di violenza, verbale, fisica e/o sessuale. Circa una donna su 20 ha subito un’aggressione fisica nel 1999, dei colpi per tentato omicidio, [mentre] l’1,2% sono state vittime di violenza sessuale, dalle palpazioni allo stupro. Questa sale al 2,2% nella fascia di età di 20-24 anni” (cf. www.sosfemmes.com/violences/violences_chiffres.htm)

[2] Per fare solo un esempio, secondo un articolo pubblicato nel 2008 da Human Rights Watch, gli Stati Uniti hanno conosciuto un drammatico aumento della violenza contro le donne nel corso dei due ultimi anni (cf. www.hrw.org/news/2008/12/18/us-soaring-rates-rape-and-violence-against-women).

[3] Le donne, naturalmente, hanno sempre lavorato. Ma nelle società di classe precedenti al capitalismo, il loro lavoro è rimasto per lo più rinchiuso nel dominio domestico privato.

[4] Dall’articolo “Suffragio femminile e lotta di classe”, del maggio 1912, riprodotto in francese sul sito www.marxists.org/francais/luxembur/works/1912/05/suffrage.htm e tradotto in italiano da noi.

[5] Pubblicato in Aleksandra Kollontaj : Selected writings, Alison & Busby, 1977, p. 73. Tradotto in italiano da noi.

[6] Riferimento alle navi da battaglia della marina britannica dell’epoca.

[7] Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa.” (Marx, Critica del Programma di Gotha, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-cp.htm).

[8] Stiamo qui parlando in generale. E’ ovvio che non tutte le donne avvertono questa esigenza.

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