Il conflitto arabi/ebrei: La posizione degli internazionalisti negli anni trenta: Bilan nn. 30 e 31

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Gli articoli che seguono sono stati pubblicati nel 1936 nei numeri 30 e 31 della rivista Bilan, organo della Frazione italiana della Sinistra comunista. Era fondamentale che la Frazione esprimesse la posizione marxista di fronte al conflitto arabo-israeliano in Palestina, a seguito dello sciopero generale arabo contro l’immigrazione giudea che era degenerato in una serie di pogrom sanguinari. Benché da allora un certo numero di aspetti specifici della situazione siano mutati, ciò che colpisce in questi articoli è a qual punto, ancora oggi, essi siano applicabili alla situazione di questa regione. In particolare, essi dimostrano con molta precisione come i movimenti “nazionali”, sia quelli degli ebrei che quelli degli arabi, pur essendo sorti a seguito dell’oppressione e della persecuzione, sono strettamente legati al conflitto tra gli imperialismi contrapposti; ed inoltre, questi articoli dimostrano come questi movimenti sono entrambi utilizzati per offuscare gli interessi di classe comuni dei proletari arabi ed israeliani, portandoli a massacrarsi reciprocamente per difendere gli interessi dei loro sfruttatori. Gli articoli dimostrano dunque che:

  • Il movimento sionista è divenuto un progetto reale solo dopo aver ricevuto il sostegno dell’imperialismo britannico che cercava di creare ciò che chiamava “una piccola Irlanda” in Medio Oriente, zona d’importanza strategica crescente con lo sviluppo dell’industria petrolifera;

  • la Gran Bretagna, pur sostenendo il progetto sionista, faceva anche un doppio gioco: doveva tener conto della notevole componente arabo-musulmana nel suo impero coloniale; aveva cinicamente sfruttato le aspirazioni nazionali arabe durante la prima guerra mondiale, quando la sua principale preoccupazione era chiudere i conti con l’Impero ottomano in disfacimento. Essa aveva fatto quindi tutta una serie di promesse alla popolazione araba della Palestina e del resto della regione. Questa politica classica, ligia alla regola “dividere per regnare”, aveva un doppio scopo: mantenere l’equilibrio tra le differenti aspirazioni imperialiste nazionali in conflitto nelle zone che erano sotto la sua dominazione, pur impedendo allo stesso tempo alle masse sfruttate della regioni di individuare i propri interessi materiali comuni;

  • il movimento di “liberazione araba”, pur opponendosi al sostegno della Gran Bretagna al sionismo, non era affatto antimperialista – così come non lo erano gli elementi in seno al sionismo che erano pronti a prendere le armi contro la Gran Bretagna. I due movimenti nazionalisti si collocavano interamente nel quadro del gioco imperialista globale. Se una frazione nazionalista si ribellava contro il suo vecchio sostenitore imperialista, non lo poteva fare se non cercando il sostegno di un altro imperialismo. Al momento della guerra di indipendenza di Israele nel 1948, praticamente tutto il movimento sionista era apertamente divenuto anti-inglese ma, ciò facendo, era già diventato uno strumento del nuovo imperialismo trionfante, gli USA, che era pronta ad utilizzare tutto quanto aveva sotto le mani per far fuori i vecchi imperi coloniali. Ugualmente, Bilan dimostra che quando il nazionalismo arabo entrò in conflitto aperto con la Gran Bretagna, ciò non fece che aprire la porta alle ambizioni dell’imperialismo italiano (ed anche tedesco); in seguito abbiamo potuto vedere la borghesia palestinese rivolgersi verso il blocco russo, poi verso la Francia ed altre potenze europee durante il suo conflitto con gli Stati Uniti.

I principali cambiamenti che hanno avuto luogo dopo che questi articoli sono stati scritti consistono evidentemente nel fatto che il sionismo è riuscito a costituire uno Stato che ha fondamentalmente mutato il rapporto di forze nella regione e che l’imperialismo dominante in questa zona non è più la Gran Bretagna ma gli Stati Uniti. Ma l’essenza del problema, anche in questo caso, resta la stessa: la creazione dello Stato di Israele, che ha avuto come conseguenza l’espulsione di decine di migliaia di palestinesi, non ha fatto che acuire al massimo la tendenza all’espropriazione dei contadini palestinesi che, come nota Bilan, era una componente del progetto sionista; e gli Stati Uniti sono, a loro volta, costretti a mantenere un equilibrio contraddittorio tra il sostegno che apportano allo Stato sionista da un lato e, dall’altro, la necessità di mantenere, finché possono, il “mondo arabo” sotto la loro influenza. Nel frattempo, i rivali degli Stati Uniti continuano a fare di tutto per utilizzare a loro vantaggio gli antagonismi tra questi ultimi ed i paesi della regione.

Ciò che è estremamente pertinente è la chiara denuncia da parte di Bilan del modo in cui i due sciovinismi, arabo ed israeliano, sono stati utilizzati per mantenere il conflitto tra gli operai; malgrado ciò, la Frazione italiana rifiutò di fare il benché minimo compromesso nella difesa dell’internazionalismo autentico: “Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fanno parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivolta comunista.”. Essa rigettò quindi totalmente la politica staliniana del sostegno al nazionalismo arabo con il pretesto di combattere l’imperialismo. La politica dei partiti stalinisti dell’epoca è ripresa oggi dai partiti trotskisti ed altri gruppi della estrema sinistra borghese che si fanno portavoce della “Resistenza palestinese”. Queste posizioni sono controrivoluzionarie oggi così come lo erano nel 1936.

Oggi, quando le masse di entrambe le parti sono più che mai spinte in una frenesia di odio reciproco, quando il prezzo dei massacri è tanto più alto di quello pagato negli anni 1930, l’internazionalismo intransigente resta il solo antidoto contro il veleno nazionalista.

C.C.I., giugno 2002

BILAN n° 30 (maggio-giugno 1936)

L’aggravarsi del conflitto arabo-israeliano in Palestina, l’accentuarsi dell’orientamento antibritannico del mondo arabo che durante la guerra mondiale fu una pedina dell’imperialismo inglese, ci ha indotto ad affrontare il problema ebraico e quello del nazionalismo panarabo. Tenteremo in questo articolo di trattare la prima di queste due questioni.

Si sa che dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani e la dispersione degli ebrei, i vari paesi nei quali questi emigrarono fino a che non furono espulsi dai loro territori (non certo per le ragioni religiose invocate dalle autorità cattoliche quanto per motivazioni economiche, leggasi la confisca dei loro beni e l’annullamento del loro credito), ne regolarono le condizioni di vita secondo la bolla papale della metà del 16° secolo che divenne regola in tutti i paesi, obbligandoli a vivere rinchiusi in quartieri recintati (ghetti) e costringendoli a portare un marchio infamante. Espulsi nel 1290 dall’Inghilterra, nel 1394 dalla Francia, emigrarono in Germania, in Italia, in Polonia; espulsi dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1498, essi si rifugiarono in Olanda, in Italia e soprattutto nell’Impero Ottomano che occupava allora l’Africa del nord e la maggior parte dell’Europa del sud-est; là formarono e formano ancor oggi questa comunità che parla un dialetto giudeo-spagnolo, mentre quelli emigrati in Polonia, in Russia, in Ungheria, ecc., parlano il dialetto giudeo-tedesco (Yddisch). La lingua ebraica che resta in questo periodo la lingua dei rabbini fu tirata fuori dal regno delle lingue morte per divenire la lingua degli ebrei di Palestina con il movimento nazionalista giudeo attuale.

Mentre gli ebrei di Occidente, i meno numerosi, ed in parte quelli degli Stati Uniti, hanno acquisito una influenza economica e politica attraverso la loro influenza borsistica ed un’influenza intellettuale per l’elevato numero di quelli tra loro occupati in professioni liberali, le grandi masse si concentrarono nell’Europa orientale e già, alla fine del 18° secolo, costituivano l’80% degli ebrei dell’Europa. Con la prima spartizione della Polonia e l’annessione della Bessarabia, essi passarono sotto il dominio degli zar che, all’inizio del 19° secolo, avevano sui loro territori i due terzi degli ebrei. Il governo russo adottò fin dall’inizio, a partire da Caterina II, una politica repressiva, che trovò la sua espressione più feroce sotto Alessandro III che ipotizzava come soluzione del problema giudeo la seguente: un terzo deve essere convertito, un terzo deve emigrare ed un terzo deve essere sterminato. Essi erano rinchiusi in un certo numero di distretti di province del nord-ovest (Russia Bianca), del sud-est (Ucraina e Bessarabia) ed in Polonia. Erano queste le loro zone di residenza. Non potevano abitare al di fuori delle città e soprattutto non potevano risiedere nelle regioni industrializzate (bacini minerari e regioni metallurgiche). Ma è soprattutto tra questi ebrei che penetrò il capitalismo nel 19° secolo e che si determinò una differenziazione in classi.

Fu la pressione del terrorismo del governo russo che diede il primo impulso alla colonizzazione palestinese. Tuttavia i primi ebrei ritornarono in Palestina già dopo la loro espulsione dalla Spagna alla fine del 15° secolo e la prima colonia agricola fu costituita presso Jaffa nel 1870. Ma la prima emigrazione seria cominciò solo dopo il 1880, quando la persecuzione poliziesca ed i primi pogrom determinarono una emigrazione verso l’America e la Palestina. Questa prima “Alya” (immigrazione ebrea) del 1882, detta dei “Biluimes”, era in maggioranza composta da studenti russi che possono essere considerati come le pedine della colonizzazione giudea in Palestina. La seconda”Alya” si verificò nel 1904-05, a seguito dello schiacciamento della prima rivoluzione in Russia. Il numero degli ebrei stabilitisi in Palestina, che era di 12.000 nel 1850, salì a 35.000 nel 1882 ed a 90.000 nel 1914. Erano tutti ebrei russi o rumeni, intellettuali e proletari, perché i capitalisti ebrei dell’Occidente si limitarono, come i Rothschild e gli Hirsch, ad un sostegno finanziario che dava loro anche un benevole alone di filantropia, senza dover mettere a disposizione la loro preziosa persona.

Tra i “Biluimes” del 1882, i socialisti erano ancora poco numerosi, e ciò perché nel dilemma dell’epoca, cioè se l’emigrazione degli ebrei dovesse essere diretta verso la Palestina o l’America, loro parteggiavano per quest’ultima. Nella prima emigrazione giudea verso gli Stati Uniti, i socialisti furono dunque molto numerosi e vi costituirono subito delle organizzazioni, dei giornali e praticamente anche dei tentativi di colonizzazione comunista. La seconda volta che si pose la questione di decidere verso dove dirigere l’emigrazione ebrea, fu, come abbiamo detto, dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa ed in seguito all’aggravarsi dei pogrom come quello di Kitchinew.

Il sionismo che tentava di assicurare al popolo ebreo un territorio in Palestina e che aveva costituito un Fondo Nazionale per acquistare le terre si divise, all’epoca del 7° Congresso sionista di Baie, in una corrente tradizionalista che restava fedele alla costituzione dello Stato ebreo in Palestina e in corrente territorialista che era per la colonizzazione anche altrove, e nello specifico nell’Uganda, offerta dall’Inghilterra. Solo una minoranza di socialisti ebrei, i Poales sionisti di Ber Borochov, restarono fedeli ai tradizionalisti, tutti gli altri partiti socialisti ebrei dell’epoca, come il partito dei socialisti sionisti (S.S.) ed i Serpisti – una specie di riproduzione negli ambienti ebrei degli Socialisti Rivoluzionari russi – si dichiararono per il territorialismo. La più antica e la più potente organizzazione ebrea del mondo dell’epoca, il Bund, era, come si sa, tutt’altro che contraria alla questione nazionale, per lo meno a quell’epoca.

Un momento decisivo per il movimento di rinascita nazionale fu aperto dalla guerra mondiale del 1914, e dopo l’occupazione da parte delle truppe inglesi della Palestina, alle quali era collegata la Legione ebrea di Jabotinsky, fu promulgata la dichiarazione di Balfour del 1917 che prometteva la costituzione in Palestina del Nucleo nazionale Ebreo. Questa promessa fu sancita alla Conferenza di San Remo del 1920 che pose la Palestina sotto mandato inglese. La dichiarazione di Balfour provocò una terza “Alya”, ma fu soprattutto la quarta, la più numerosa, che coincise con la rimessa del mandato palestinese all’Inghilterra. Questa “Alya” ebbe al suo interno numerosi strati di piccolo borghesi. Si sa che l’ultima immigrazione in Palestina, che seguì l’avvento al potere di Hitler e che è certamente la più importante, era composta già da una forte percentuale di capitalisti.

Se il primo censimento, effettuato nel 1922 in Palestina, considerate le devastazioni della guerra mondiale, non aveva registrato che 84.000 ebrei, l’11 per cento della popolazione totale, quello del 1931 ne censì già 175.000. Nel 1934, le statistiche dicono 307.000 su di una popolazione totale di un milione 171.000. Attualmente la cifra è 400.000 ebrei. L’80 per cento degli ebrei sono stabiliti nelle città il cui sviluppo è ben illustrato dalla comparsa rapida della città fungo di Tel Aviv; lo sviluppo dell’industria giudea è molto rapido: nel 1928 contava 3.505 fabbriche di cui 782 con più di 4 operai, cioè un totale di 18.000 operai con un capitale investito di 3,5 milioni di lire sterline. Gli ebrei stabiliti nelle campagne rappresentano solo il 20% rispetto agli arabi che costituiscono il 65% della popolazione agricola. Ma i fellahs lavorano le loro terre con dei mezzi primitivi, mentre gli ebrei nelle loro colonie e piantagioni lavorano secondo i metodi intensivi del capitalismo, con della manodopera araba pagata molto poco.

Le cifre che abbiamo fornito spiegano già un aspetto dell’attuale conflitto. A partire dal 20° secolo i giudei hanno abbandonato la Palestina ed altre popolazioni si sono stabilite sulla riva del Giordano. Benché le dichiarazioni di Balfour e le decisioni della Società delle Nazioni pretendano di assicurare il rispetto del diritto degli occupanti della Palestina, in realtà l’aumento della immigrazione giudea significa cacciare gli arabi dalle loro terre anche se esse sono state comprate a basso prezzo tramite il Fondo nazionale giudeo. Non è per umanità verso “il popolo perseguitato e senza patria” che la Gran Bretagna ha scelto una politico filo-ebraica. Sono gli interessi dell’alta finanza inglese dove gli ebrei hanno un’influenza predominante che hanno determinato questa politica. D’altra parte, dall’inizio della colonizzazione ebrea si evidenzia un contrasto tra i proletari arabi ed ebrei. Inizialmente i coloni ebrei avevano utilizzato degli operai ebrei perché sfruttavano il loro fervore nazionale per difendersi contro le incursioni arabe. Dopo, con il consolidarsi della situazione, gli industriali ed i proprietari fondiari ebrei preferirono alla mano d’opera ebrea più esigente, quella araba. Gli operai ebrei, costituendo i loro sindacati, più che alla lotta di classe, si dedicarono alla concorrenza contro i bassi salari arabi. Questo spiega il carattere sciovinista del movimento operaio ebreo che viene sfruttato del nazionalismo ebreo e dall’imperialismo britannico.

Vi sono naturalmente anche delle ragioni di natura politica che sono alla base del conflitto attuale. L’imperialismo inglese, a dispetto dell’ostilità tra le due razze, vorrebbe far coabitare sullo stesso territorio due Stati differenti e creare anche un bi parlamentarismo che prevede un parlamento distino per ebrei ed arabi. Nel campo ebreo, oltre alla direttiva temporizzatrice di Weissman, vi sono i revisionisti di Jabotinsky che combattono il sionismo ufficiale, accusano la Gran Bretagna di assenteismo, o addirittura di venir meno agli impegni assunti, e che vorrebbe indirizzare l’emigrazione ebrea verso la Transgiordania, la Siria e la penisola del Sinai. I primi conflitti, che si manifestarono nell’agosto 1929 e che si svolsero intono al Muro del pianto, provocarono, secondo le statistiche ufficiali, la morte di duecento arabi e centotrenta ebrei, cifre certamente inferiori alla realtà, perché se negli insediamenti moderni gli ebrei riuscirono a respingere gli attacchi, a Hebron, a Safi e nei pochi sobborghi di Gerusalemme, gli arabi effettuarono dei veri pogrom. Questi eventi segnarono la fine della politica filoebrea dell’Inghilterra, perché l’impero coloniale britannico aveva sul suo territorio troppi musulmani, compresa l’India, per avere sufficienti ragioni per essere prudenti.

In seguito a questo comportamento del governo britannico verso il Nucleo Nazionale Ebreo, la maggior parte dei partiti giudei: i sionisti ortodossi, i sionisti generali ed i revisionisti passarono alla opposizione, mentre l’appoggio più sicuro alla politica inglese, diretta in questa epoca dal Labour Pary, fu rappresentato dal movimento laburista ebreo che era l’espressione politica della Confederazione Generale del lavoro e che raggruppava quasi la totalità degli operai giudei in Palestina. Di recente si era manifestata, in superficie soltanto, una lotta comune del movimento ebreo ed arabo contro la potenza mandataria. Ma il fuoco covava sotto le ceneri e l’esplosione si ebbe con gli eventi del maggio scorso.

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La stampa fascista italiana è insorta contro l’accusa fatta dalla stampa “sanzionista” che fossero stati degli agenti fascisti a fomentare i moti in Palestina, accusa già avanzata a proposito dei recenti eventi egiziani. Nessuno può negare che il fascismo ha tutto l’interesse a soffiare su questo fuoco. L’imperialismo italiano non ha mai nascosto le sue mire verso il Medio Oriente, cioè il suo desiderio di sostituirsi alle potenze mandatarie in Palestina ed in Siria. Esso possiede, d’altronde, nel Mediterraneo una potente base navale e militare rappresentata da Rodi e le altre isole del Dodecanneso . L’imperialismo inglese, da parte sua, se si trova avvantaggiato dal conflitto tra arabi ed ebrei, perché secondo la vecchia formula romana divide et impera, bisogna dividere per regnare, deve tuttavia tener conto della potenza finanziaria degli ebrei e della minaccia del movimento nazionalista arabo. Quest’ultimo movimento, di cui parleremo più diffusamente un’altra volta, è una conseguenza della guerra mondiale che ha determinato una industrializzazione nelle Indie, in Palestina ed in Siria e rafforzato la borghesia indigena che pose la sua candidatura a governare, cioè a sfruttare le masse indigene.

Gli arabi accusano la Gran Bretagna di voler fare della Palestina il Nucleo Nazionale Giudeo, che significherebbe rubare la terra alle popolazioni indigene. Essi hanno inviato nuovamente degli emissari in Egitto, in Siria ed in Marocco per proclamare un’agitazione del mondo mussulmano a sostegno degli arabi di Palestina, al fine di cercare di intensificare il movimento, in vista dell’unione nazionale panislamica. Essi sono incoraggiati dai recenti avvenimenti della Siria dove la potenza mandataria, la Francia, è stata obbligata a capitolare davanti allo sciopero generale, ed anche dagli eventi di Egitto, dove l’agitazione e la costituzione di un Fronte unico nazionale hanno obbligato Londra a trattare da pari a pari con il governo del Cairo. Noi non sappiamo se lo sciopero generale degli arabi di Palestina otterrà parecchio successo. Esamineremo questo movimento insieme al problema arabo in un prossimo articolo.

Gatto MAMMONE

BILAN n° 31 (giugno-luglio 1936)

Come abbiamo visto nella precedente parte di questo articolo, quando, dopo cento anni di esilio, i “Biluimes” acquistarono un pezzo di territorio sabbioso a Sud di Jaffa, essi trovarono altre tribù, gli Arabi, che si erano sostituiti a loro in Palestina. Questi ultimi non erano che poche centinaia di migliaia, o Arabi fellah (contadini) o beduini (nomadi); i contadini lavoravano con dei mezzi molto primitivi, il suolo apparteneva ai proprietari fondiari (effendis). L’imperialismo inglese, come si è visto, spingendo questi latifondisti e la borghesia araba ad entrare in lotta al suo fianco durante la guerra mondiale, ha loro promesso la costituzione di uno Stato nazionale arabo. La rivolta araba fu nei fatti di un’importanza decisiva per il crollo del fronte turco-tedesco nel Medio Oriente, perché essa vanificò l’appello alla Guerra Santa lanciato dal Califfo ottomano e tenne in scacco numerose truppe turche in Siria, senza parlare della distruzione delle armate turche in Mesopotamia.

Ma se l’imperialismo britannico aveva determinato questa rivolta araba contro la Turchia, grazie alla promessa della creazione di uno Stato arabo composto da tutte le province dell’antico impero ottomano (ivi compresa la Palestina), non esitò, per la difesa dei suoi propri interessi a sollecitare come contropartita l’appoggio dei sionisti giudei, dicendo loro che la Palestina sarebbe stata loro restituita tanto dal punto di vista dell’amministrazione quanto della colonizzazione. Nello stesso tempo si metteva d’accordo con l’imperialismo francese per cedergli un mandato sulla Siria, dividendo così questa regione, che forma, con la Palestina, un’unità storica ed economica indissolubile.

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Nella lettera che Lord Balfour scrisse il 2 novembre 1917 a Rothschild. presidente della Federazione sionista d’Inghilterra, e nella quale egli comunicava che il governo inglese guardava con simpatia alla costituzione in Palestina di un insediamento nazionale per il popolo ebreo e che avrebbe impiegato tutti i suoi sforzi per la realizzazione di questo obiettivo, Lord Balfour aggiungeva che: niente si sarebbe fatto che potesse portare pregiudizio sia ai diritti civili e religiosi delle collettività non ebree esistenti in Palestina, sia ai diritti e allo statuto politico di cui gli ebrei godevano negli altri paesi. Malgrado i termini ambigui di questa dichiarazione, che permetteva ad un nuovo popolo di insediarsi sul loro territorio, l’insieme della popolazione araba restò indifferente all’inizio ed anche favorevole alla creazione di un insediamento nazionale ebreo. I proprietari arabi, per il timore che venisse varata una legge agraria, si mostrarono disposti a vendere alcuni terreni. I capi sionisti, unicamente per delle preoccupazioni di ordine politico non approfittarono di queste offerte e giunsero fino ad approvare la difesa del governo Albany a proposito della vendita dei terreni. Ben presto, la borghesia manifestò delle tendenze ad occupare totalmente dal punto di vista territoriale e politico la Palestina, spodestando la popolazione autoctona e respingendola verso il deserto. Questa tendenza si manifesta oggi presso i sionisti revisionisti, cioè nella corrente filofascista del movimento nazionalista giudeo.

La superficie delle terre arabe della Palestina è di circa 12 milioni di “dounnams” metrici (1 dounnams = 1 decimo di ettaro) di cui tra 5 e 6 milioni sono attualmente coltivati.

Ecco come viene stabilita la superficie delle terre coltivate dai Giudei in Palestina, dopo il 1899:

1899: 22 colonie, 5.000 abitanti, 300.000 dounnams;

1914: 43 colonie, 12.000 abitanti, 400.010 dounnams;

1922: 73 colonie, 15.000 abitanti, 600.000 dounnams;

1931: 160 colonie, 70.000 abitanti, 1.120.000 dounnams.

Per giudicare il valore reale di questa progressione e dell’influenza che ne deriva, non bisogna dimenticare che gli Arabi coltivano ancora oggi la terra in un modo primitivo, mentre i coloni ebrei impiegano i metodi più moderni di cultura. I capitali ebrei investiti nelle imprese agricole sono stimati in molti milioni di dollari, di cui il 65% nelle piantagioni. Benché gli ebrei non possiedano che il 14% delle terre coltivate, il valore dei loro prodotti raggiunge il quarto della produzione totale. Per quel che riguarda le piantagioni di arance, gli ebrei arrivano al 55% della raccolta totale.

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E’ nell’aprile del 1920, a Gerusalemme, e nel maggio 1921, a Jaffa, che si ebbero, sotto forma di pogrom, i primi sintomi della reazione araba. Sir Herbert Samuel, alto commissario in Palestina fino al 1925 tentò di tranquillizzare gli arabi fermando l’immigrazione ebrea, promettendo agli Arabi un governo rappresentativo ed attribuendo loro le migliori terre del patrimonio statale. Dopo la grande ondata di colonizzazione del 1925, che raggiunse il suo massimo con 33.000 immigrati, la situazione peggiorò e finì per determinare i movimenti di agosto 1929. Fu allora che si ricongiunsero alle popolazioni arabe della Palestina le tribù beduine della Transgiordania, chiamate dagli agitatori mussulmani.

In seguito a questi eventi la Commissione di Inchiesta parlamentare inviata in Palestina, e che è conosciuta con il nome di Commissione Shaw, concluse che i fatti erano dovuti all’immigrazione operai ebrea e alla “penuria” di terra e propose al governo l’acquisto di terre per risarcire i fellah sradicati dalle loro terre. Quando, successivamente, nel maggio 1930, il governo britannico accettò nel loro insieme le conclusioni della Commissione Shaw, e sospese nuovamente l’immigrazione operai giudea in Palestina, il movimento operaio ebreo – che la Commissione Shaw non aveva voluto ascoltare – rispose con uno sciopero di protesta di 24 ore, mentre in altri paesi si ebbero numerose manifestazioni di ebrei contro questa decisione. Nell’ottobre 1930 vi fu una nuova dichiarazione riguardante la politica britannica in Palestina, conosciuta con il nome di Libro Bianco.

Essa era ugualmente troppo poco favorevole alla tesi sionista. Ma, di fronte alle proteste sempre più crescenti degli ebrei, il governo laburista rispose, nel febbraio 1931 con una lettera di Mac Donald, che riaffermava il diritto al lavoro, all’immigrazione ed alla colonizzazione ebrea e che autorizzava i datori di lavoro giudei ad impiegare la mano d’opera ebrea – se preferivano questa piuttosto che gli arabi – senza tener conto dell’eventuale aumento di disoccupazione tra questi ultimi. Il movimento operaio palestinese si affrettò a dare fiducia al governo laburista inglese, mentre tutti gli altri partiti sionisti restavano in un’opposizione diffidente. Noi abbiamo mostrato, nell’articolo precedente, le ragioni del carattere sciovinista del movimento operaio in Palestina.

L’Histadrath – la principale Centrale sindacale palestinese non comprende che degli ebrei (l’80% degli operai ebrei sono organizzati). E’ solo la necessità di elevare lo standard di vita delle masse arabe, per proteggere gli alti salari della mano d’opera ebrea, che ha determinato, in questi ultimi tempi, i suoi sforzi di organizzare gli arabi. Ma gli embrioni di sindacai raggruppati nella “Alliance” restano organicamente separati dall’Histadrath, eccezion fatta per il sindacato dei ferrovieri che raggruppa i rappresentanti di tutte le due razze.

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Lo sciopero generale degli Arabi in Palestina entra ora nel suo quarto mese. La guerriglia continua, malgrado il recente decreto che infligge la pena di morte agli autori di attentati: ogni giorno si fanno delle imboscate e si assalgono treni ed automobili, senza contare le distruzioni e gli incendi di proprietà ebree. Questi eventi sono costati alla potenza mandataria già quasi mezzo milione di lire sterline per il mantenimento delle forze armate e per la diminuzione delle entrate, conseguenza della resistenza passiva e del boicottaggio delle masse arabe. Ultimamente, ai Comuni, il ministro delle colonie ha fornito come cifre delle vittime: 400 Mussulmani, 200 ebrei e 100 poliziotti; finora 1.800 arabi ed ebrei sono stati giudicati e 1.200 sono stati condannati di cui 300 ebrei. Secondo il ministro, un centinaio di nazionalisti arabi sono stati deportati nei campi di concentramento. Quattro capi comunisti (2 ebrei e 2 armeni) sono detenuti e 60 comunisti sono sorvegliati dalla polizia. Ecco le cifre ufficiali.

E’ evidente che la politica dell’imperialismo britannico in Palestina si ispira naturalmente ad una politica colonia le caratteristica di ogni imperialismo. Questa consiste nel fare affidamento soprattutto su certi strati della popolazione coloniale (opponendo le razze tra loro, o delle confessioni religiose differenti, o meglio ancora risvegliando delle gelosie tra clan o capi), il che permette all’imperialismo di stabilire solidamente la sua super oppressione sulle stesse masse coloniali, senza distinzione di razza o confessione. Ma, se questa manovra è potuta riuscire in Marocco e in Africa centrale, in Palestina ed in Siria il movimento nazionalista arabo presenta una resistenza molto compatta. Si appoggia sui paesi più o meno indipendenti che lo circondano: Turchia, Persia, Egitto, Irak, Stati arabi ed, inoltre, si lega all’insieme del mondo mussulmano che conta parecchi milioni di individui.

A dispetto dei contrasti esistenti tra differenti Stati mussulmani e malgrado la politica anglofila di alcuni tra loro, il grande pericolo per l’imperialismo sarebbe la costituzione di un blocco orientale capace di imporsi – il che sarebbe possibile se il risveglio e il rafforzamento del sentimento nazionalista delle borghesie indigene potesse impedire il risveglio della rivolta di classe degli sfruttati coloniali che hanno da rompere tanto con i loro sfruttatori che con l’imperialismo europeo- e che potrebbe trovare un punto di legame con la Turchia che viene da poco ad affermare i suoi diritti sui Dardanelli e che potrebbe riprendere la sua politica panislamica. Ora la Palestina è di un’importanza vitale per l’imperialismo inglese. Se i sionisti si sono illusi di ottenere una Palestina “ebrea”, in realtà essi non otterranno altro che una Palestina “britannica”, via dei transiti terrestri che lega l’Europa all’India. Essa potrebbe rimpiazzare la via marittima del Suez, la cui sicurezza viene ad essere indebolita dallo stabilirsi dell’imperialismo italiano in Etiopia. Non bisogna dimenticare inoltre che l’oleodotto di Mossoul (zona petrolifera) giunge al porto palestinese di Haifa.

Infine, la politica inglese dovrà sempre tener conto del fatto che 100 milioni di mussulmani popolano l’impero britannico. Finora l’imperialismo britannico è riuscito, in Palestina, a contenere la minaccia rappresentata dal movimento arabo di indipendenza nazionale, opponendogli il sionismo che, spingendo le masse ebree ad emigrare in Palestina, dislocava il movimento di classe del loro paese d’origine dove questo avrebbe trovato il loro posto ed, infine, si assicurava un appoggio solido alla sua politica in Medio Oriente. L’espropriazione delle terre, a dei prezzi irrisori, ha spinto i proletari arabi nella miseria più nera e li ha buttati nelle braccia dei nazionalisti arabi e dei grandi proprietari fondiari e della borghesia nascente. Quest’ultima ne ha approfittato, evidentemente, per estendere le sue mira di sfruttamento delle masse e dirige il malcontento dei fellah e proletari contro gli operai ebrei nello stesso modo in cui i capitalisti sionisti hanno diretto il malcontento degli operai ebrei contro gli arabi. Da questo contrasto tra sfruttati ebrei ed arabi, l’imperialismo britannico e le classi dirigenti arabe non possono che uscire rafforzate. Il comunismo ufficiale aiuta gli arabi nella loro lotta contro il sionismo qualificato come strumento dell’imperialismo inglese. Già nel 1929 la stampa nazionalista ebrea pubblicò una lista nera della polizia dove gli agitatori comunisti figuravano al fianco del gran Mufti e dei capi nazionalisti arabi. Attualmente numerosi militanti comunisti sono stati arrestati. Dopo aver lanciato la parola d’ordine di “arabizzazione” del partito, i centristi hanno lanciato oggi la parola d’ordine “l’Arabia agli arabi”, che non è altro che una copia della parola d’ordine “Federazione di tutti i popoli arabi” propria dei nazionalisti arabi, cioè dei latifondisti (gli effendi) e degli intellettuali che, con l’appoggio del clero mussulmano, dirigono il congresso arabo e canalizzano, in nome dei loro interessi, le reazioni degli sfruttati arabi.

Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fanno parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivolta comunista.

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