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Per quanto riguarda la pace, l’anno 1991 avrebbe conosciuto l’inizio della guerra nella ex Yugoslavia, che avrebbe provocato centinaia di migliaia di morti nel cuore stesso dell’Europa, un continente che era stato risparmiato da questo flagello da quasi mezzo secolo.
Analogamente, la recessione del 1993, e poi il crollo delle “tigri” e dei “dragoni” asiatici del 1997, seguiti dalla nuova recessione del 2002, che mise fine all’euforia provocata dalla “bolla internet”, hanno eroso sensibilmente le illusioni sulla “prosperità” annunciata da Bush senior.
Ma una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri. Tra il 2003 e il 2007, il tono dei discorsi ufficiali dei settori dominanti della borghesia era improntato all’euforia, con la celebrazione del successo del “modello anglosassone”, che permetteva dei profitti esemplari, dei tassi di crescita del PIL sostenuti e anche una diminuzione significativa della disoccupazione. Non si trovavano parole sufficientemente elogiative per celebrare il trionfo della “economia liberale” e i benefici della “deregulation”. Ma dopo l’estate 2007 e soprattutto durante l’estate 2008, questo bell’ottimismo si è fuso come neve al sole. Ormai al centro dei discorsi della borghesia le parole “prosperità”, “crescita” e “trionfo del liberalismo” si sono discretamente eclissati. Al tavolo del grande banchetto dell’economia capitalista si è istallato un convitato che si credeva di aver espulso per sempre. La crisi, lo spettro di una “nuova grande depressione”, simile a quella degli anni ’30.
2. Secondo le stesse parole di tutti i responsabili borghesi, di tutti gli specialisti dell’economia, compresi i sostenitori più accaniti del capitalismo, la crisi attuale è la più grave che questo sistema abbia conosciuto dopo la grande depressione che iniziò nel 1929. Secondo l’OCSE “L’economia mondiale è preda della recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni.” (rapporto intermedio di marzo 2009). Ci sono anche quelli che non esitano a dire che essa è ancora più grave e che la ragione per cui i suoi effetti non sono così catastrofici come negli anni trenta sta nel fatto che, dopo quel periodo, i dirigenti del mondo, forti di quella esperienza, hanno imparato a far fronte a questo genere di situazioni, in particolar modo evitando la fuga nel ciascuno per sé generalizzato: “Anche se si è talvolta qualificata questa severa recessione mondiale come ‘grande recessione’, si è lontani da una nuova ‘grande depressione’ tipo quella degli anni trenta, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente. La ‘grande depressione’ era stata aggravata da terribili errori di politica economica, dalle misure monetarie restrittive fino alla politica del ‘ciascuno per sé’, espressa dal protezionismo commerciale e della svalutazioni competitive. Viceversa l’attuale recessione ha, in generale, suscitato delle buone risposte”. (ibidem).
Tuttavia, anche se tutti i settori della borghesia constatano la gravità delle convulsioni attuali dell’economia capitalista, le spiegazioni che essi danno, benché spesso divergenti tra loro, sono evidentemente incapaci di cogliere il vero significato di queste convulsioni e la prospettiva che esse annunciano per l’insieme della società.
Per alcuni, la responsabile delle difficoltà acute del capitalismo è la “finanza folle”, il fatto che dall’inizio degli anni 2000 si siano sviluppati tutta una serie di “prodotti finanziari tossici”, che hanno permesso una esplosione di crediti senza garanzia sufficiente di un loro rimborso. Altri affermano che il capitalismo soffre di un eccesso di “deregulation” su scala internazionale, orientamento che si trovava al centro delle “reaganomics” messe in atto dall’inizio degli anni’80. Altri, infine, in particolare i rappresentanti della sinistra del capitale, considerano che la causa profonda sta in una insufficienza dei redditi dei salariati, cosa che costringe questi ultimi, in particolare nei paesi più sviluppati, ad una fuga in avanti nei debiti per poter soddisfare i loro bisogni elementari.
Ma quali che siano le differenze, quello che caratterizza tutte queste interpretazioni è che esse considerano che non è il capitalismo, come modo di produzione, che è in causa, ma questa o quella forma di questo sistema. Ed è proprio questo postulato di partenza che impedisce a tutte queste interpretazioni di andare a fondo nella comprensione delle cause vere della crisi attuale e degli scenari che essa preannuncia.
3. Nei fatti solo una visione globale e storica del modo di produzione capitalista permette di comprendere, di prendere la misura e di individuare le prospettive della crisi attuale. Oggi, ed è questo che viene nascosto dall’insieme degli “specialisti” dell’economia, si rivela apertamente la realtà delle contraddizioni che assalgono il capitalismo: la crisi di sovrapproduzione, l’incapacità di questo sistema di vendere tutta la massa delle merci che produce. Non si tratta di una sovrapproduzione rispetto ai bisogni reali dell’umanità, che sono ancora ben lungi dall’essere soddisfatti, ma sovrapproduzione rispetto ai mercati solvibili, capaci cioè di pagare per assorbire questa produzione. I discorsi ufficiali, così come le misure che vengono adottate dalla maggior parte dei governi, si focalizzano sulla crisi finanziaria, sul fallimento delle banche, ma in realtà quella che i commentatori chiamano la “economia reale” (in contrapposizione all’economia “fittizia”) illustra come stanno le cose: non passa un giorno senza che vengano annunciate chiusure di fabbriche, licenziamenti in massa, fallimenti di imprese industriali. Il fatto che General Motors, che per decenni è stata la prima industria al mondo, debba la sua sopravvivenza al sostegno massiccio dello Stato americano, mentre la Chrysler è ufficialmente dichiarata fallita e passa sotto il controllo dell’italiana FIAT, è significativo dei problemi di fondo che affliggono l’economia capitalista. E, ancora, la caduta del commercio mondiale, la più grave dopo la seconda guerra mondiale e che viene valutata dall’OCSE pari a -13,2% per il 2009, mostra l’incapacità per le imprese a trovare degli acquirenti per la loro produzione.
Questa crisi di sovrapproduzione, oggi evidente, non è una semplice conseguenza della crisi finanziaria, come cercano di far credere la maggior parte degli “specialisti”. Essa risiede negli ingranaggi stessi dell’economia capitalista, come l’ha messo in evidenza il marxismo da un secolo e mezzo a questa parte. Finché la conquista del mondo da parte delle metropoli capitaliste proseguiva, i nuovi mercati permettevano di superare le momentanee crisi di sovrapproduzione. Con il completamento di questa conquista, avvenuto all’inizio del 20° secolo, queste metropoli, e in particolare quella che era arrivata in ritardo alla ricerca di colonie, la Germania, non hanno avuto altra risorsa che attaccare le zone di influenza delle altre, provocando la prima guerra mondiale anche prima che la crisi di sovrapproduzione si esprimesse apertamente. Questa si è invece manifestata chiaramente con il crack del 1929 e la grande depressione degli anni ’30, spingendo i principali paesi capitalisti nella fuga in avanti verso la preparazione della guerra e lo scoppio del secondo olocausto planetario che superò di gran lunga il primo in termini di massacri e barbarie.
L’insieme delle disposizioni adottate dalle grandi potenze all’indomani di questa, in particolare l’organizzazione sotto tutela americana delle grandi componenti dell’economia capitalista, come quella della moneta (accordi di Bretton Woods) e l’attuazione da parte degli Stati di politiche keynesiane, così come le ricadute positive della decolonizzazione in termini di mercati hanno permesso per quasi tre decenni al capitalismo mondiale di dare l’illusione che esso avesse infine superato le sue contraddizioni. Ma questa illusione ha subito un colpo importante nel 1974 con l’arrivo di una violenta recessione, in particolare nella prima economia mondiale. Questa recessione non rappresentava l’inizio delle difficoltà maggiori del capitalismo perché essa faceva seguito a quella del 1967 e alle successive crisi della sterlina e del dollaro, due monete fondamentali nel sistema di Bretton Woods. Nei fatti è dalla fine degli anni sessanta che il neo-keynesianesimo aveva dimostrato il suo fallimento storico come avevano sottolineato all’epoca i gruppi che avrebbero costituito la CCI. Ciò detto, per l’insieme dei commentatori borghesi e per la maggioranza della classe operaia è il 1974 che marca l’inizio di un nuovo periodo nella vita del capitalismo del dopoguerra, in particolare con la riapparizione di un fenomeno che si credeva definitivamente vinto nei paesi sviluppati, lo sciopero di massa. E’ sempre a partire di là che la fuga in avanti nell’indebitamento si è sensibilmente accelerata: allora furono i paesi del Terzo Mondo a trovarsi ai primi posti di questo fenomeno e costituirono, per un certo tempo, la “locomotiva” della ripresa. Questa situazione cominciò a finire all’inizio degli anni ottanta con la crisi del debito, l’incapacità di questi paesi a rimborsare i prestiti che avevano permesso loro in un primo tempo di costituire uno sbocco per la produzione dei grandi paesi industriali. Ma la fuga nell’indebitamento non si arresta là. Gli Stati Uniti cominciano a prendersi il ruolo di “locomotiva” a costo di una crescita considerevole del loro deficit commerciale e di bilancio statale, politica che era loro consentito per il ruolo privilegiato della loro moneta nazionale come moneta mondiale. Se lo slogan di Reagan divenne allora “lo Stato non è la soluzione, ma il problema” per giustificare la liquidazione del neo-keynesianesimo, lo Stato federale americano, con i suoi enormi deficit di bilancio, ha continuato a costituire l’agente essenziale nella vita economica nazionale ed internazionale. Tuttavia, le “reaganomics”, la cui prima ispiratrice fu Margaret Tatcher in Gran Bretagna, rappresentava fondamentalmente uno smantellamento dello “Stato sociale”, cioè un attacco senza precedenti contro la classe operaia che hanno contribuito a superare l’inflazione galoppante che aveva colpito il capitalismo alla fine degli anni settanta.
Nel corso degli anni ’90 una delle “locomotive” dell’economia mondiale è stato costituita dalle “tigri” e dai “dragoni” asiatici che hanno conosciuto dei tassi di crescita spettacolari ma a prezzo di un indebitamento considerevole che li ha condotti alla crisi nel 1997. Nello stesso momento, la Russia “nuova” e “democratica” si è ritrovata anch’essa in una situazione di cessazione dei pagamenti, deludendo crudelmente quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera duratura l’economia mondiale. A sua volta la “bolla internet” della fine degli anni novanta, nei fatti una speculazione sfrenata sulle imprese “high tech”, è scoppiata nel 2001-2002 mettendo fine al sogno di un rilancio dell’economia mondiale attraverso lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. E’ allora che l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, in particolare attraverso lo sviluppo iperbolico dei prestiti ipotecari sugli immobili in diversi paesi, e in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva” dell’economia mondiale, ma a prezzo di una crescita abissale dei debiti – in particolare in seno alla popolazione americana – basata su ogni sorta di “prodotti finanziari” che si ipotizzavano esenti dal rischio di cessazione di pagamenti. In realtà, la diffusione dei crediti a rischio non ha affatto abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario, essa non ha fatto che accumulare nel capitale delle banche “attivi tossici” che sono stati all’origine dei fallimenti bancari a partire dal 2007.
4. Così non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione non può proseguire all’infinito. Prima o poi la “economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.
In questo senso, le misure che sono state scelte a marzo 2009, durante il G20 di Londra, un raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale, un sostegno massiccio degli Stati al sistema bancario in perdita, un incoraggiamento a quest’ultimo a mettere in atto delle politiche attive di rilancio dell’economia a prezzo di un salto spettacolare dei deficit di bilancio, non possono in alcun modo risolvere la questione di fondo. La fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono. L’obiettivo del G20 era evitare il ciascuno per sé che aveva caratterizzato gli anni’30. Esso si proponeva anche di tentare di ristabilire un po’ di fiducia tra gli agenti economici, sapendo che questa, nel capitalismo, costituisce un fattore essenziale in quello che si trova al centro del suo funzionamento, e cioè il credito. Ciò detto, quest’ultimo fatto, cioè l’insistenza sull’importanza della “psicologia” nelle convulsioni economiche, la messa in piedi delle parole di fronte alle realtà materiali, segna il carattere fondamentalmente illusorio delle misure che il capitalismo potrà prendere di fronte alla crisi storica della sua economia. Nei fatti, anche se il sistema capitalista non crollerà come un castello di carta, anche se la caduta della produzione non proseguirà indefinitamente, la sua prospettiva è quella di un infognamento crescente nel suo blocco storico, quella di un ritorno su scala sempre più vasta delle convulsioni che lo affliggono oggi. Da quattro decenni la borghesia non ha potuto impedire l’aggravamento continuo della crisi. Essa parte oggi da una situazione ben più degradata di quella degli anni sessanta. Malgrado tutta l’esperienza che essa ha acquisito nel corso di questi decenni, essa non potrà fare meglio, ma solo peggio. In particolare, le politiche di ispirazione neo-keynesiane che sono state promosse dal G20 di Londra (che sono arrivate fino alla nazionalizzazione della banche in difficoltà) non hanno nessuna possibilità di ristabilire una qualsivoglia “salute” del capitalismo, perché l’inizio delle sue difficoltà maggiori, alla fine degli anni sessanta, proveniva per l’appunto dal fallimento definitivo delle misure neokeynesiane adottate all’indomani della seconda guerra mondiale.
5. Se ha sorpreso la classe dominante, l’aggravamento brutale della crisi capitalista non ha sorpreso i rivoluzionari. La risoluzione adottata dal precedente congresso internazionale[1], prima ancora dell’inizio del panico nell’estate 2007, affermava: “Già da ora (...) le minacce che si addensano sul settore immobiliare negli stati Uniti, uno dei motori dell’economia americana, e che portano in sé il rischio di fallimenti bancari catastrofici, seminano allarme e inquietudine negli ambienti economici.” (punto 4).
La stessa risoluzione distruggeva le grandi aspettative suscitate dal “miracolo cinese”: “Quindi, lungi dal rappresentare un soffio di aria buona per l’economia capitalista, il “miracolo” in Cina e in alcuni paesi del terzo mondo è solo una rappresentazione della decadenza del capitalismo. Inoltre, la totale dipendenza dell’economia cinese verso le esportazioni è fonte di una considerevole vulnerabilità ad ogni calo della domanda degli attuali clienti. Cosa che potrebbe verificarsi duramente dato che l’economia americana è obbligata a fare fronte ai colossali debiti, che attualmente gli permettono di giocare il ruolo di locomotiva per la domanda mondiale. Quindi, proprio come il miracolo delle crescite a due cifre delle tigri e dragoni asiatici del 1997 giunse ad una spiacevole fine, l’attuale miracolo cinese, anche se non ha le stesse origini ed ha margini di gran lunga maggiori a propria disposizione, dovrà presto o tardi confrontarsi con l’impasse storica del modo di produzione capitalistico”. (Punto 6).
La caduta del tasso di crescita e l’esplosione della disoccupazione che ne consegue, con il ritorno forzato nei propri villaggi di decine di milioni di contadini che si erano arruolati nelle imprese industriali per sfuggire a una miseria insostenibile, confermano in pieno questa previsione.
La capacità della CCI di prevedere cosa stava per succedere non deriva da alcun “merito particolare” della nostra organizzazione. Il suo solo “merito” sta nella sua fedeltà al metodo marxista, nella volontà di metterlo in atto in maniera permanente nell’analisi della realtà mondiale, nella sua capacità di resistere con fermezza alle sirene che proclamavano il “fallimento definitivo del marxismo”.
6. La conferma della validità del marxismo non riguarda solo la questione della vita economica della società. Tra le mistificazioni che venivano diffuse all’inizio degli anni ’90 c’era quella dell’apertura di un periodo di pace per il mondo intero. Si metteva avanti che la fine della guerra fredda, la sparizione del blocco dell’est, definito a suo tempo da Reagan come “l’impero del male”, avrebbero messo fine ai differenti conflitti militari attraverso cui si era sviluppato lo scontro fra i due blocchi imperialisti dal 1947. Di fronte a questo tipo di mistificazioni sulla possibilità di pace in seno al capitalismo, il marxismo ha sempre sottolineato l’impossibilità per gli Stati borghesi di superare le loro rivalità economiche e militari, in particolare nel periodo di decadenza. E’ perciò che, già dal gennaio 1990, potevamo scrivere:
“La scomparsa del gendarme imperialista russo, e quella che ne consegue per il gendarme americano di fronte ai suoi principali ‘partner’ di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità più locali. Queste rivalità e scontri non possono, attualmente, degenerare in un conflitto mondiale (…). Tuttavia, a causa della sparizione della disciplina imposta dalla presenza dei blocchi, questi conflitti rischiano di essere più violenti e più numerosi, in particolare, evidentemente, nelle zone in cui il proletariato è più debole”. (Révue Internationale n. 61, Dopo il crollo del blocco dell’est, stabilizzazione e caos).
La scena mondiale non avrebbe tardato a confermare questa analisi, in particolare con la prima guerra del Golfo del 1991 e la guerra nella ex Yugoslavia a partire dall’ottobre dello stesso anno. In seguito gli scontri sanguinosi e barbari non sono cessati. Non si può elencarli tutti, ma si può sottolineare in particolare:
· Il proseguimento della guerra nella ex Yugoslavia che ha visto, sotto l’egida della NATO, un impegno diretto degli Stati Uniti e delle principali potenze europee nel 1999;
· Le due guerre in Cecenia;
· Le numerose guerre che non hanno smesso di devastare il continente africano (Ruanda, Somalia, Congo, Sudan, ecc.);
· Le operazioni militari di Israele contro il Libano e, di recente, contro la striscia di Gaza;
· La guerra in Afganistan del 2001 che è ancora in atto;
· La guerra in Iraq del 2003, le cui conseguenze continuano a pesare in maniera drammatica su questo paese, ma anche sull’iniziatore di questa guerra, la potenza americana.
Il senso e le implicazioni della politica di questa potenza sono stati analizzati da lungo tempo da parte della CCI:
“Certamente, lo spettro di una Guerra mondiale non ha ossessionato ulteriormente il pianeta, ma allo stesso tempo, abbiamo visto il liberarsi degli antagonismi imperialisti e delle guerre locali in cui sono implicate direttamente le grandi potenze, in particolare la più potente, gli USA.
Gli USA, che per decenni sono stati i “gendarmi del mondo”, hanno dovuto tentare di proseguire e rinvigorire questo ruolo a seguito del “nuovo disordine mondiale” che è fuoriuscito dalla fine della Guerra Fredda. Ma nonostante abbiano certamente assunto questo ruolo sulla Terra, essi non l’hanno fatto per puntare a contribuire alla stabilità del pianeta, ma per conservare fondamentalmente la loro leadership mondiale, messa in questione più volte dal fatto che non esisteva più il cemento che manteneva insieme i due blocchi imperialisti – la minaccia del blocco rivale.
Con la definitiva scomparsa della “minaccia Sovietica”, il solo modo con cui la potenza americana poteva imporre la propria disciplina era di contare sulla propria forza, l’enorme superiorità a livello militare. Ma facendo ciò, la politica militare degli USA è diventata uno dei principali fattori dell’instabilità mondiale”. (Risoluzione sulla situazione internazionale, 17° Congresso della CCI, punto 7)
7. L’arrivo del democratico Barak Obama alla testa della prima potenza mondiale ha suscitato molte illusioni su un possibile cambiamento di orientamento della strategia di questa, un cambiamento che permetterebbe l’apertura di “un’era di pace”. Una delle basi di queste illusioni proviene dal fatto che Obama fu uno dei pochi senatori americani a votare contro l’intervento militare in Iraq nel 2003 e che, contrariamente al suo concorrente McCain, si è impegnato per un ritiro delle truppe americane da questo paese. Tuttavia queste illusioni si sono rapidamente confrontate con la realtà dei fatti. In particolare se Obama aveva previsto di ritirare le forze americane dall’Iraq, era per poter rafforzare l’intervento in Afganistan e in Pakistan. D’altra parte la continuità della politica militare degli Stati Uniti è ben illustrata dal fatto che la nuova amministrazione ha confermato nel suo incarico il Segretario alla Difesa, Gates, nominato da Bush.
In realtà il nuovo orientamento della diplomazia americana non rimette per niente in discussione il quadro ricordato prima. Essa continua ad avere l’obiettivo della riconquista della leadership degli Stati Uniti sul pianeta attraverso la loro superiorità militare. Così, l’orientamento di Obama a favore dell’accrescimento del ruolo della diplomazia ha principalmente lo scopo di guadagnare del tempo e rimandare il momento degli inevitabili interventi imperialisti delle forze militari americane che sono, attualmente, troppo disperse e usurate per la simultaneità delle guerre in Iraq e Afganistan.
Tuttavia, come abbiamo spesso ribadito, in seno alla borghesia americana esistono due opzioni per arrivare a questi fini:
· L’opzione rappresentata dal Partito Democratico che cerca di associare finché possibile altre potenze in queste imprese;
· L’opzione maggioritaria tra i repubblicani, che preferiscono prendere l’iniziativa delle offensive militari imponendole, costi quel che costi, alle altre potenze.
La prima opzione è quella che fu adottata alla fine degli anni’90 dall’amministrazione Clinton nella ex Yugoslavia, dove riuscì ad ottenere dalle principali potenze dell’Europa occidentale, in particolare la Germania e la Francia, la cooperazione e la partecipazione ai bombardamenti della NATO in Serbia per costringere questo paese ad abbandonare il Kosovo.
La seconda opzione è tipicamente quella dello scatenamento della guerra contro l’Iraq nel 2003, scatenata contro l’opposizione molto dura della Germania e della Francia associatesi in questa circostanza alla Russia in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Comunque, nessuna di queste due opzioni è stata in grado, finora, di rovesciare la tendenza alla perdita della leadership americana. La politica dell’uso della forza, usata in particolare durante i due mandati di George Bush figlio, ha portato non solo al caos iracheno, un caos ben lungi dal poter essere superato, ma anche ad un isolamento crescente della diplomazia americana, illustrata in particolare dal fatto che certi paesi che l’avevano sostenuta nel 2003, come la Spagna e l’Italia, hanno abbandonato la nave dell’avventura irachena in corso d’opera (senza contare la presa di distanza più discreta del governo di Gordon Brown, rispetto all’appoggio incondizionato portato da Tony Blair a questa avventura). Dal canto suo la politica di “cooperazione”, preferita dai democratici, non permette veramente di assicurarsi una “fedeltà” delle potenze che si tenta di associare alle imprese militari, in particolare perché essa lascia un margine di manovra più ampia a queste potenze per far valere i loro propri interessi.
Oggi, per esempio, l’amministrazione Obama ha deciso di adottare una politica più conciliante verso l’Iran e più ferma verso Israele, due orientamenti che vanno nello stesso senso della maggioranza dei paesi dell’Unione europea, in particolare la Germania e la Francia, paesi che sperano di recuperare una parte dell’influenza che avevano in passato in Iran e in Iraq. Ciò detto, questo orientamento non riuscirà ad impedire che permangano conflitti di interesse maggiori tra questi due paesi e gli Stati Uniti, in particolare nella sfera est-europea (dove la Germania cerca di mantenere dei rapporti “privilegiati” con la Russia), o africana (dove le due fazioni che stanno mettendo a ferro e a fuoco il Congo hanno il sostegno rispettivo della Francia e degli Stati Uniti).
Più in generale, la sparizione della divisione del mondo in due grandi blocchi imperialisti rivali ha aperto la porta all’apparizione di ambizioni di imperialismi di secondo piano che costituiscono dei nuovi protagonisti della destabilizzazione della situazione internazionale. E’ così, per esempio, per l’Iran che punta a conquistare una posizione dominante in Medio Oriente sotto la bandiera della “resistenza” al “Grande Satana” americana e della lotta contro Israele. Con mezzi molto più considerevoli, la Cina punta ad estendere la propria influenza su altri continenti, in particolare in Africa, dove la presenza economica crescente è finalizzata ad insediare in questa regione del mondo una presenza diplomatica e militare, come già sta avvenendo nel conflitto in Sudan.
Così la prospettiva che si presenta al pianeta dopo l’elezione di Obama alla testa della prima potenza mondiale non è fondamentalmente differente dalla situazione che prevaleva finora: proseguimento degli scontri tra potenze di primo e secondo piano, continuazione della barbarie guerriera con conseguenze sempre più tragiche (carestie, epidemie, esodi di massa) per le popolazioni che vivono nelle zone in conflitto. Ci si può anche aspettare che l’instabilità che consegue all’aggravarsi della crisi economica in tutta una serie di paesi della periferia possa alimentare una intensificazione degli scontri fra le cricche militari di questi paesi con, come sempre, una partecipazione delle diverse potenze imperialiste. Di fronte a questa situazione Obama e la sua amministrazione non potranno fare altro che proseguire la politica bellicista dei loro predecessori, come si vede per esempio in Afganistan, una politica sinonimo di barbarie guerriera crescente.
8. Come le “buone intenzioni” affermate da Obama sul piano diplomatico non impediranno al caos militare di proseguire e di aggravarsi nel mondo e alla nazione che egli dirige di essere un fattore attivo in questo caos, il riorientamento americano che egli annuncia oggi nel campo della protezione dell’ambiente non potrà impedire il suo ulteriore degrado. Questo degrado non è questione di buona o cattiva volontà dei governi, per quanto potenti essi siano. Ogni giorno che passa mette un po’più in evidenza la vera catastrofe ambientale che minaccia il pianeta : tempeste sempre più violente nei paesi che fino ad ora ne erano risparmiati, siccità, canicole, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai, paesi minacciati di essere ricoperti dal mare … le prospettive sono sempre più nere. Questo degrado dell’ambiente significa anche una minaccia di aggravamento degli scontri militari, in particolare con l’esaurimento delle riserve di acqua potabile che diventerà l’oggetto di nuovi conflitti.
Come dicevamo nella risoluzione adottata al precedente congresso internazionale:
“Perciò, come la CCI mostra da 15 anni, la decomposizione del capitalismo porta con sé serie minacce per l’esistenza umana. L’alternativa annunciata da Engels alla fine del XIX secolo, socialismo o barbarie, è stata una sinistra verità per tutto il XX secolo. Cosa ci offre il XXI secolo come prospettiva è abbastanza semplice: socialismo o distruzione dell’umanità. Questa è la vera posta in gioco cui è confrontata l’unica forza sociale in grado di sovvertire il capitalismo, la classe operaia mondiale.” (Punto 10)
9. Questa capacità della classe operaia di mettere fine alla barbarie generata dal capitalismo in decomposizione, a far uscire l’umanità dalla sua preistoria per aprirle le porte del “regno della libertà”, secondo l’espressione di Engels, si forgia fin da ora nelle lotte quotidiane contro lo sfruttamento capitalista. Dopo il crollo del blocco dell’est e dei regimi cosiddetti “socialisti”, le assordanti campagne sulla “fine del comunismo”, o sulla “fine della lotta di classe”, hanno portato un colpo severo alla coscienza e alla combattività della classe operaia. Il proletariato ha quindi subito un profondo riflusso su tutti e due i piani, un riflusso che si è prolungato per più di dieci anni. Non è che a partire dal 2003 che la classe operaia mondiale ha cominciato a mostrare di aver superato questo riflusso, di aver ripreso il cammino delle lotte contro gli attacchi capitalisti. Da allora questa tendenza non si è smentita e i due anni che ci separano dal precedente congresso hanno visto il prosieguo di lotte significative in tutte le parti del mondo.
Si è anche potuto vedere, in certi periodi, una simultaneità notevole delle lotte operaie a scala mondiale.
Per esempio, all’inizio del 2008, i seguenti paesi sono stati toccati da lotte operaie nello stesso momento: Russia, Irlanda, Belgio, Svizzera, Italia, Grecia, Romania, Turchia, Israele, Iran, Emirato del Barein, Tunisia, Algeria, Camerun, Swaziland, Venezuela, Messico, Stati Uniti, Canada e Cina.
Ancora, si sono viste lotte operaie molto significative nel corso dei due anni passati. Senza pretendere di essere esaustivi, si possono citare i seguenti esempi:
· In Egitto, durante l’estate 2007, dove i massicci scioperi nell’industria tessile hanno trovato la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori (portuali, trasporti, ospedali …);
· A Dubai, nel novembre 2007, dove gli operai edili (essenzialmente degli immigrati) si sono mobilitati massicciamente;
· In Francia, nel novembre 2007, dove gli attacchi contro il trattamento pensionistico provocano uno sciopero molto combattivo nelle ferrovie, con esempi di legami di solidarietà con gli studenti, mobilitati nello stesso momento contro i tentativi del governo di accentuare la segregazione sociale all’Università, uno sciopero che ha svelato apertamente il ruolo di sabotatori delle grandi centrali sindacali, in particolare la CGT e la CFDT, cosa che ha costretto la borghesia a rinnovare il suo apparato di inquadramento delle lotte operaie;
· in Turchia, alla fine del 2007, dove lo sciopero di più di un mese dei 26.000 lavoratori di Turk Telecom costituisce la mobilitazione più importante del proletariato di questo paese dal 1991, e questo nello stesso momento in cui il suo governo è impegnato in una operazione militare nel nord dell’Iraq;
· in Russia, nel novembre 2008, dove importanti scioperi a San Pietroburgo (in particolare alla Ford) testimoniano della capacità dei lavoratori di superare l’intimidazione poliziesca molto presente, in particolare da parte del FSB (l’ex KGB);
· in Grecia, alla fine del 2008, dove, in un clima di enorme malcontento che si era già espresso prima, la mobilitazione degli studenti contro la repressione gode di una profonda solidarietà da parte della classe operaia, alcuni settori della quale debordano il sindacalismo ufficiale; una solidarietà che non resta confinata all’interno delle frontiere del paese, visto che questo movimento incontra un’eco di simpatia molto significativa in numerosi paesi europei;
· in Gran Bretagna, dove lo sciopero selvaggio nella raffineria Linsay, all’inizio del 2009, ha costituito uno dei movimenti più significativi della classe operaia di questo paese da due decenni, una classe operaia che aveva subito crudeli sconfitte nel corso egli anni ’80; questo movimento ha mostrato la capacità della classe operaia di estendere le lotte e, in particolare, ha visto l’inizio di un confronto con il peso del nazionalismo con manifestazioni di solidarietà tra operai britannici e operai immigrati, polacchi ed italiani.
10. L’aggravamento considerevole che la crisi del capitalismo conosce attualmente costituisce evidentemente un elemento di prim’ordine nello sviluppo delle lotte operaie. Fin da ora in tutti i paesi del mondo gli operai sono confrontati a licenziamenti di massa, a un aumento irresistibile della disoccupazione. In maniera estremamente concreta, sulla propria carne, il proletariato fa l’esperienza dell’incapacità del sistema capitalista ad assicurare un minimo di vita decente ai lavoratori che esso sfrutta. Ancora di più, esso è incapace di offrire il minimo avvenire alle nuove generazioni della classe operaia, cosa che costituisce un fattore di angoscia e di disperazione non solo per queste, ma anche per i loro genitori. Così maturano le condizioni perché l’idea della necessità di rovesciare questo sistema possa svilupparsi in maniera significativa in seno al proletariato. Tuttavia, alla classe operaia non basta percepire che il sistema capitalista sta in un vicolo cieco, che esso dovrebbe cedere il posto ad un’altra società, perché diventi capace di indirizzarsi verso una prospettiva rivoluzionaria. Occorre ancora che essa abbia la convinzione che una tale prospettiva è possibile ed anche che essa ha la forza di realizzarla. Ed è giustamente su questo terreno che la borghesia è riuscita a marcare dei punti molto importanti contro la classe operaia in seguito al crollo del preteso “socialismo reale”. Da una parte essa è riuscita a insinuare l’idea che la prospettiva del comunismo è un sogno vano: “il comunismo non funziona; la prova sta nel fatto che esso è stato abbandonato a beneficio del capitalismo dalle popolazioni che vivevano in tale sistema”. Dall’altra parte essa è riuscita a creare in seno alla classe operaia un forte sentimento di impotenza per la sua incapacità a scatenare lotte di massa. In questo senso la situazione oggi è molto diversa da quella che prevaleva al momento della ripresa storica della classe alla fine degli anni ’60. Allora il carattere massivo delle lotte operaie, in particolare con l’immenso sciopero del maggio 1968 in Francia e l’autunno caldo in Italia del 1969, aveva messo in evidenza che la classe operaia può costituire una forza di primo piano nella vita della società e che l’idea che essa avrebbe potuto un giorno rovesciare il capitalismo non apparteneva al dominio dei sogni irrealizzabili. Tuttavia, nella misura in cui la crisi del capitalismo era giusto ai suoi inizi, la coscienza della necessità assoluta di rovesciare questo sistema non disponeva ancora delle basi materiali per poter diffondersi tra gli operai. Si può riassumere questa situazione nel modo seguente: alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità.
11. Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia è necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa. L’enorme attacco che essa subisce attualmente a scala internazionale dovrebbe costituire la base oggettiva per tali lotte. Tuttavia, la forma principale che prende oggi questo attacco,quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. In generale, e ciò si è verificato frequentemente nel corso degli ultimi quaranta anni, i momenti di forte aumento della disoccupazione non sono quelli in cui si sviluppano lotte importanti. La disoccupazione, i licenziamenti di massa, tendono a provocare una certa paralisi momentanea della classe. Essa è sottomessa a un ricatto da parte dei padroni: “se non siete contenti, molti altri operai sono pronti a sostituirvi”. La borghesia può utilizzare questa situazione per provocare una divisione, se non una opposizione fra quelli che perdono il loro lavoro e quelli che hanno il “privilegio” di conservarlo. In più, padroni e governo si nascondono dietro un argomento “decisivo”: “Noi non c’entriamo niente con l’aumento della disoccupazione o i vostri licenziamenti: è colpa della crisi”. Infine, di fronte alla chiusura di fabbriche l’arma dello sciopero diventa inutilizzabile, accentuando il sentimento di impotenza dei lavoratori. In una situazione storica in cui il proletariato non ha subito sconfitte decisive, contrariamente agli anni ’30, i licenziamenti di massa, che sono già cominciati, potranno provocare lotte molto dure, con anche esplosioni di violenza. Queste saranno probabilmente, in un primo tempo, lotte disperate e relativamente isolate, anche se possono beneficiare di una simpatia reale in altri settori della classe operaia. Perciò anche se, nel prossimo periodo, non si assisterà a una risposta poderosa della classe operaia di fronte agli attacchi, non bisognerà considerare questo fatto come una rinuncia a lottare in difesa dei propri interessi. Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più. Questo non deve significare che i rivoluzionari devono restare assenti nelle lotte attuali. Queste fanno parte delle esperienze che il proletariato deve fare per essere capace di sviluppare una nuova tappa nella sua lotta contro il capitalismo. Ed è compito delle organizzazioni comuniste mettere avanti, in seno alle lotte, la prospettiva generale della lotta proletaria e dei passi ulteriori che essa deve compiere in questa direzione.
12. Il cammino che porta alle lotte rivoluzionarie e al rovesciamento del capitalismo è ancora lungo e difficile. La necessità di questo rovesciamento diventa ogni giorno più evidente, ma la classe operaia dovrà ancora superare delle tappe essenziali prima di essere in grado di realizzare questo compito:
- la riconquista della sua capacità a prendere in mano le proprie lotte giacché, attualmente, la maggior parte di esse, in particolare nei paesi sviluppati, sono ancora fortemente sotto il controllo dei sindacati (contrariamente a quello che si poteva constatare nel corso degli anni ’80);
- lo sviluppo della capacità di smascherare le mistificazioni e le trappole borghesia che ostacolano il cammino verso le lotte di massa e il ristabilimento della fiducia in se stessa, perché se il carattere di massa delle lotte della fine degli anni ’60 può spiegarsi in gran parte con il fatto che la borghesia era stata sorpresa dopo decenni di controrivoluzione, questo evidentemente non è più vero oggi;
- la politicizzazione delle sue lotte, cioè la capacità a iscriverle nella loro dimensione storica, a concepirle come un momento della lunga lotta storica del proletariato contro lo sfruttamento e per l’abolizione di questo.
Questa tappa è evidentemente la più difficile da superare, in particolare a causa:
- della rottura, provocata nell’insieme della classe dalla controrivoluzione, tra le sue lotte del passato e quelle attuali;
- della rottura organica in seno alle organizzazioni rivoluzionarie conseguente a questa situazione;
- del riflusso della coscienza nell’insieme della classe in seguito al crollo dello stalinismo;
- del peso deleterio della decomposizione del capitalismo sulla coscienza del proletariato;
- della tendenza della classe dominante a far nascere organizzazioni (come il Nuovo Partito Anticapitalistico in Francia e Die Linke in Germania) che aspirano a prendere il posto dei partiti stalinisti oggi spariti o moribondi, o della Socialdemocrazia discreditata da diversi decenni di gestione della crisi capitalista e che, a causa della loro novità, hanno una capacità a mantenere mistificazioni importanti in seno alla classe operaia.
Nei fatti la politicizzazione delle lotte del proletariato è legata allo sviluppo della presenza nel loro seno della minoranza comunista. La constatazione della debolezza attuale delle forze dell’ambiente internazionalista è uno degli indici della lunghezza del cammino che resta ancora da percorrere prima che la classe operaia possa impegnarsi nelle sue lotte rivoluzionarie e che essa faccia sorgere il suo partito di classe mondiale, organo essenziale senza il quale la vittoria della rivoluzione è impossibile.
Il cammino è lungo e difficile, ma questo non potrebbe essere in nessuna maniera un fattore di scoraggiamento per i rivoluzionari, di paralisi nel loro impegno nella lotta proletaria. Al contrario!