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2.1 Perdita di credibilità dei partiti ed accentuazione del populismo di sinistra (e di destra): quali prospettive per le politiche del 2013?
Come abbiamo ricordato più volte, la formazione del governo Monti a metà novembre dello scorso anno, se è stato un atto indispensabile da parte della borghesia per recuperare una situazione economica e politica che rischiava di andare sempre più fuori controllo, ha comportato per i vari partiti politici rappresentati in parlamento un sacrificio importante ma soprattutto ha creato per loro una situazione molto difficile per il futuro. Se si parte dalla constatazione che l’insieme della “rappresentanza politica” della borghesia ha perso da parecchio lo smalto di una volta e che la gente ripone sempre meno speranze e quindi fiducia in questo o quel partito, accettare la formazione del governo Monti come unica possibile soluzione per poter uscire dai guai, significa in qualche modo riconoscere la propria incompetenza a fare altrettanto. D’altra parte questa unione coatta all’interno dell’attuale governo di forze destinate a combattersi già da oggi in vista delle elezioni di aprile prossimo crea necessariamente fibrillazioni continue nella maggioranza e porta alla erosione dei due principali partiti che vi appartengono, PDL e PD.
Il primo, dopo la recente sconfitta elettorale alle amministrative[1], è alla ricerca di una identità perduta. Infatti, il ritiro forzato di Berlusconi dalla scena politica per qualche tempo ha tolto al PDL la sua quasi unica attrattiva, cioè il populismo berlusconiano, rendendolo un partito arido e privo di ogni attrattiva. Non è un caso che, dopo le amministrative, assorbita un po’ la botta della sconfitta, sia tornato in grande stile la figura di Berlusconi che ha ricominciato a buttare giù una serie di gragnole politiche per destare l’attenzione: vedi la proposta di abbandonare l’euro e di tornare alla lira, o quella di tornare a candidarsi come segretario del partito e premier per la prossima legislazione, o ancora quella di cambiare di nuovo nome al partito e tornare a quello di Forza Italia, salvo che fare marcia indietro dopo la minaccia degli ex AN di non aderire al nuovo partito, ecc. ecc. Ma è chiaro che, per quanto cerchi di creare attenzione intorno a sé, gli argomenti dell’ultimo Berlusconi sono ormai triti e ritriti e non attecchiscono più come una volta; inoltre, il consenso che il Berlusconi imprenditore poteva avere in tutta una serie di settori forti dell’Italia che conta (confindustria, chiesa, …) è stato irrimediabilmente bruciato. La prospettiva del PDL è dunque quella di sopravvivere a sé stesso, con o senza Berlusconi, con un credito elettorale che difficilmente potrà anche solo accostarsi agli exploit di una volta.
Per quanto riguarda il PD, si fa veramente fatica a capire cosa sia questo oggetto politico statico e inerme per antonomasia, espressione di una sinistra borghese ormai praticamente inesistente in Italia. Il PD ha permesso a Berlusconi di governare indisturbato per 8 dei 10 lunghi anni dal giugno 2001 al novembre 2011, consentendogli di portare avanti, tra le altre cose e senza la benché minima opposizione: la macelleria del G-8 a Genova, le più spregiudicate leggi ad personam, la completa lottizzazione della RAI, oltre naturalmente che avallare tutte le manovre economiche e gli interventi militari in varie parti del mondo. Il PD in realtà si caratterizza più per quello che non ha fatto che per il quasi niente che ha fatto. Per cui esso stesso, se in qualche modo risulta ufficialmente vincitore delle amministrative di quest’anno e candidato a vincere le prossime politiche, è in preda ad una perdita di credibilità che trova un limite giusto nella mancanza di alternative.
La deriva dei due principali partiti trova una spiegazione nella fase di crisi profonda che affronta l’economia mondiale e quella italiana in particolare, e nell’obbligatorietà di prendere, da parte di qualunque sia il partito al governo, le misure le più impopolari. La destra di Berlusconi, il centro di Casini e la “sinistra” di Bersani si sono inchinati alle criminali misure economiche che ha preso e che continua a prendere Monti, e questo non è certo un elemento di vanto per un partito, particolarmente per il PD che dovrebbe esprimere gli interessi delle classi più umili. In più, il carattere del tutto inedito della situazione, l’incomprensione di quali possano essere le vie di uscita dalla crisi, l’assenza di un qualunque programma che caratterizzi una componente politica per i valori storici difesi, non fa che accentuare quel fenomeno di decomposizione politica che caratterizza i partiti politici nella fase attuale.
La conseguenza è lo sviluppo del populismo, ovvero di politiche orientate a far presa sugli istinti più viscerali della popolazione per raccogliere consensi elettorali e illudere i cittadini che ci possa essere una politica diversa in modo da tenerli legati al sistema. Ma il populismo, non essendo un programma politico ma solo un atteggiamento propagandistico, è in generale legato alla figura carismatica di un leader e alla sua capacità di reggere il gioco sul teatro della politica. Questo è il motivo delle difficoltà del PDL la cui grande risorsa è stata la sfrontatezza della politica di Berlusconi ma che adesso non trova carte di riserva. Lo stesso si può dire per la Lega Nord, che dopo lo scandalo che ha praticamente bruciato la figura di Bossi, ha le più grandi difficoltà a ritrovare una propria identità. Ma il fatto che i vecchi partiti populisti entrino in crisi non significa che sia il populismo a entrare in crisi. Viceversa questo diventa sempre più la maniera di fare politica, a destra e a sinistra, come mostrato non solo dal partito 5 stelle di Grillo, ma anche da una deriva sempre più estremista portata avanti da Di Pietro con i suoi attacchi continui al governo Monti e soprattutto al presidente della Repubblica.
La prospettiva delle prossime elezioni politiche dell’aprile 2013 costituisce dunque un elemento di grande angoscia per la borghesia italiana nella misura in cui questa è consapevole che il suo apparato politico è visibilmente impreparato e inadeguato a sostenere, con la compattezza e determinazione necessarie in questi frangenti, le tempeste economiche e politiche mondiali. Il ruolo di supplenza svolto da Monti e dalla sua banda nei confronti dei partiti esistenti aveva peraltro la funzione di permettere a tali partiti di riacquistare una credibilità che finora, a 8 mesi dalle prossime elezioni, non è stata recuperata. Non a caso ogni tanto torna in campo l’ipotesi che Monti possa continuare a reggere un futuro governo con una maggioranza non dissimile a quella attuale. Ma questo, per i partiti della borghesia italiana, sarebbe un suicidio. Più funzionale per i giochi politici borghesi potrebbe essere invece l’alleanza di uno dei due grandi partiti, PDL o PD, con un neo partito formato da Monti o al quale Monti aderisse. Lo scenario dell’alleanza elettorale tra PD e Casini da una parte e il recente e insolito attacco di Monti a Berlusconi (“con lui lo spread arriverebbe a 1500”), potrebbe suggerire una soluzione di questo tipo con un governo di centro sinistra a guida Monti, cioè con un’azione non meno devastante per le nostre tasche ma con la giustificazione che lo facciamo tutti per la nostra Patria!
2.2 Politica imperialista ai tempi della crisi economica
Terminata la guerra in Libia che ci è costatata ufficialmente 202 milioni di euro, l’Italia ha deciso di rimanere sul posto con una missione di addestramento a Tripoli dal costo di 10 milioni. In Libano, a distanza ormai di qualche decennio, rimane un contingente di 1.115 unità. Ed ancora circa 600 militari assegnati stabilmente alle forze Nato in Kosovo. In Afghanistan c’è il grosso delle truppe italiane con 4 mila uomini. Queste sono solo alcune delle 20 missioni di peace-keeping cui partecipa l’Italia e con cui questo paese cerca di condurre la sua tradizionale politica di stare dentro le cose per poter, al momento opportuno, cogliere le opportunità del momento.
Nonostante la crisi, non viene meno l’impegno militare ed imperialistico dell’Italia nel mondo, particolarmente nei punti caldi come l’Afghanistan di oggi o l’Iraq di ieri. “Stando al sito ufficiale dell'Esercito Italiano, “la media di personale costantemente schierato all'estero si aggira sulle settemila unità”, ma ciò ovviamente non toglie che il numero possa variare, a seconda delle situazioni che si vengono a creare; attualmente si può parlare di circa ottomila.”[2] Come dice giustamente (dal punto di vista degli interessi della borghesia), il ministro della Difesa ammiraglio Giampaolo Di Paola, “La crisi non fa venire meno funzioni fondamentali come la Difesa”.[3]
Ma questa necessità, soprattutto in tempi di crisi, di mantenere sempre aggiornato il proprio arsenale di armi per poter esibire la propria arroganza imperialista nei confronti delle altre iene capitaliste non elimina, al tempo stesso, la necessità di eludere nei confronti della popolazione il continuo trend all’ammodernamento del proprio armamentario. Così abbiamo assistito all’esibizione, da parte del governo Monti dopo i suoi primi 100 giorni di governo, della bufala secondo cui “la spesa per la Difesa in Italia, in rapporto al PIL, è la più bassa d’Europa. (…) nel documento si afferma (…) che le spese militari in Italia sarebbero solo lo 0,90 per cento del PIL contro una media Ue del 1,61 per cento. (…) Peccato che sia proprio la NATO (e non Anonymous) a smentire quel numero. (…) (Dai dati NATO risulta che) la spesa militare in Italia in rapporto al PIL (a prezzi correnti) non è la più bassa dell’Unione Europea, come scritto nel documento ufficiale della Presidenza del Consiglio, (…). Non solo è maggiore del “magico” 0,9%, ma è superiore al dato di Germania e Spagna (per restare ai paesi territorialmente comparabili al nostro). (…) Nella sua pubblicazione “The World Factbook”, c’è l’elenco della spesa militare di ciascun paese (non solo NATO) in rapporto al proprio PIL. L’Italia - secondo la CIA - spende l’1,8% del proprio PIL. (…) Dello stesso parere è il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) - il prestigioso istituto svedese indipendente - che nel monitorare le spese militari nel mondo, secondo una metodologia corretta, che stabilisce di includere ed escludere le stesse cose nei dati di ciascun paese, certifica che l’Italia spende in media nel periodo 2005-2009 l‘1,8% del PIL. E’ solo lo 0,2% in più dei dati NATO ma un valore doppio rispetto a quello dichiarato dal Governo italiano. Com’è possibile un divario così ampio? La ragione è semplice. Lo 0,9% è il risultato di una manipolazione contabile che sottrae dal calcolo delle spese militari, le voci del bilancio del Ministero della Difesa destinate alle pensioni e accantonamenti obbligatori, alle funzioni esterne (es. l’impiego dei militari in interventi di protezione civile) e all’Arma dei Carabinieri (in totale più di un terzo del budget). Nello stesso tempo non computa né il fondo per le missioni internazionali (1,640 miliardi di euro nel 2011), ascritte in bilancio al Ministero dell’Economia e Finanze, né i fondi ascritti al Ministero dello Sviluppo Economico per finanziare programmi di nuovi sistemi d’arma (2,248 miliardi di euro nel 2011). Lo 0,9% corrisponde, quindi, solo alle spese di personale, esercizio e investimento a bilancio del Ministero della Difesa, mentre le spese - pur espressamente militari - sostenute da altri dicasteri non sono calcolate.”[4]
Il grafico riportato in fig.2[5] mostra le spese militari, sostenute nell’arco dell’ultima ventina d’anni, da alcuni dei principali paesi europei sottoforma di percentuale del PIL del rispettivo paese. Come si vede, le spese militari stanno calando di continuo dopo il crollo del blocco dell’est, ma questa è una tendenza mondiale (tranne che per gli USA che hanno ripreso alla grande alla svolta del millennio) già messa in evidenza dalla nostra organizzazione e che corrisponde più ad una razionalizzazione che ad una riduzione dell’interesse per il settore militare. In più, osservando il grafico di fig.2, si possono notare due cose interessanti: anzitutto che l’Italia impegna una percentuale di PIL più alta di Germania e Spagna per il settore militare, il che è quanto dire. Ma ancora che, fra i vari paesi considerati, l’Italia è uno dei paesi europei che meno hanno ridotto il peso delle spese militari in rapporto al PIL nell’arco di venti anni: in Francia questo rapporto si è ridotto del 30%, in Germania del 38%, in Grecia del 28%, nel Regno Unito del 32%, in Spagna del 25%, mentre in Italia solo del 20%.[6]
Quello che fa rabbia naturalmente è il fatto che, mentre si portano le famiglie sull’orlo della fame, si programma la spesa di 131 caccia bombardieri F35 nell'ambito del programma Joint Strike Fighter che costeranno all'Italia almeno 15 miliardi di euro[7]. E non è neanche vero, come sostenuto ancora di recente dal Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, che il prezzo delle penali, in caso di mancato acquisto, sarebbe maggiore della fattura di acquisto, come dimostrato nello stesso articolo già citato del sito www.disarmo.org.
[1] Per un commento sulle amministrative del 2012 vedi Dopo sei mesi di governo Monti, quale futuro ci prepara la borghesia italiana?, su Rivoluzione Internazionale n°176.
[2] Missioni di pace: l’esercito italiano nel mondo , (18 Gennaio 2010 su www.levanteonline.net/).
[3] "Caccia a tutti i costi", (1/01/2012 su www.disarmo.org/).
[4] Gianni Alioti, Sulle spese militari, il Ministro dà i numeri, (27 febbraio 2012 su www.disarmo.org/).
[5] Questo grafico, o altri relativi ad altri indicatori nazionali rilevanti, si possono facilmente ottenere utilizzando il link www.google.it/publicdata/explore?ds=d5bncppjof8f9_&met_y=ms_mil_xpnd_gd_zs&idim=country:ITA&dl=it&hl=it&q=spese+militari.
[6] Gianni Alioti, Sulle spese militari, il Ministro dà i numeri, (27 febbraio 2012 su www.disarmo.org/).
[7] Francesco Vignarca, "Caccia a tutti i costi", (01 gennaio 2012 su www.disarmo.org/).