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Il 2 novembre, la dichiarazione che abbiamo chiesto al BIPR di pubblicare sul suo sito, come "una messa a punto” è infine comparsa, undici giorni dopo la trasmissione della nostra prima e-mail a questo proposito. Prendiamo nota che il BIPR infine ha accolto la nostra richiesta.
Resta la domanda del perché il BIPR abbia preso così tanto tempo per reagire, permettendo che la dichiarazione "nauseabonda" del cosiddetto "Circolo" venisse mostrata in pubblico per circa 3 settimane con il totale sostegno del BIPR.
Si potrebbe immaginare che questo sia stato dovuto ad un puro problema tecnico: indisponibilità dell'indirizzo e-mail, dimenticanza o malattia del compagno responsabile delle e-mail, ecc. Per evitare qualsiasi inconveniente, ci siamo preoccupati di trasmettere le nostre e-mail a sei indirizzi differenti (Italia, Gran Bretagna, Francia, Canada, USA, Colombia). Tuttavia, risulta che non c’erano problemi di questo genere, poiché abbiamo ricevuto una e-mail dal BIPR datata 24 ottobre (ma per qualche motivo inviata soltanto il 31 ottobre), che risponde solo in parte alla nostra lettera (su una questione meno urgente) datata il 22 ottobre. Ovviamente, la nostra lettera del 22 ottobre è stata effettivamente ricevuta in tempo utile dal BIPR. Ma la risposta del BIPR non dice una parola sulla nostra richiesta di pubblicare la nostra "messa a punto".
Infatti, il BIPR ha pubblicato la nostra dichiarazione solo tre giorni dopo che pubblicassimo sul nostro sito, la nostra terza lettera, che conclude come segue: "Di fronte al vostro silenzio e al vostro atteggiamento che sembrano indicare che voi rifiutate di mettere sul vostro sito la nostra messa a punto, noi siamo indotti a rendere pubblica la nostra precedente corrispondenza pubblicandola sul nostro sito. Ancora una volta, compagni, noi attiriamo la vostra attenzione sul fatto che il mantenimento del vostro silenzio equivale ad apportare il vostro sostegno alle calunnie infami che sono dirette contro la nostra organizzazione dal preteso “Circolo”. Un annuncio che ha immediatamente avuto effetto.
Ciò detto, ci sembra che ci sia un altro motivo che ci permette di capire l’improvviso risveglio del BIPR dopo una settimana di sonno: questa organizzazione sta cominciando a rendersi conto che il cosiddetto "Circolo", nel quale aveva riposto grandi speranze (e al quale il BIPR ha dato un tale piacere pubblicando la sua ignobile "dichiarazione" del 12 ottobre), non è altro che un pietoso bluff montato da un individuo che sembra ignaro della differenza tra la Sinistra Comunista e lo stalinismo. È ciò che abbiamo messo in evidenza nel nostro testo: "Circulo de Comunistas Internacionalistas: impostura o realtà?", pubblicato sul nostro sito il 27 ottobre. Forse questo testo è servito ad aprire gli occhi ai militanti del BIPR.
Qualunque sia il motivo, noi consideriamo estremamente spiacevole che ci sia voluto tanto tempo, le ultime scappatelle di colui che si presenta come il “circolo” e tre lettere da parte nostra, perché il BIPR si decidesse infine a compiere un gesto elementare di buona vicinanza tra organizzazioni che appartengono alla Sinistra Comunista. Un tale atteggiamento non fa onore al BIPR.
CCI, 3 novembre 2004
Qual è il mezzo di lotta più efficace quando il “proprio” lavoro o la “propria” azienda non sono considerate più redditizie? L’arma dello sciopero perde la sua efficacia quando il capitalismo intende chiudere una fabbrica ad ogni costo, o quando delle intere aziende sono sull’orlo del fallimento? Questioni di questo tipo si pongono oggi in maniera concreta non solo alla Opel, alla Karstadt o alla Volkswagen, ma dovunque si pone il problema, dato dalla crisi economica del capitalismo, della “salvezza” o della chiusura di fabbriche o compagnie. Oggi questo accade un po’ dappertutto. Non solo in Germania, ma in America e anche in Cina. Non solo nell’industria, ma anche negli ospedali e nei servizi pubblici.
È necessario lottare, ma come?
Già a metà degli anni ottanta ci sono state grandi lotte di difesa contro massicce riduzioni di posti di lavoro. Per esempio alla Krupp Rheinhausen o nelle miniere in Gran Bretagna. In quel periodo intere branche industriali, come le miniere, le acciaierie, i cantieri navali, sono state quasi del tutto chiuse. Ma oggi la disoccupazione e la chiusura di fabbriche diventano una realtà dappertutto. Questo ha creato, in una prima fase, un sentimento di timore largamente diffuso. Per lo più i licenziamenti sono stati accettati senza resistenza. Tuttavia la lotta di questa estate alla Daimler-Chrysler è stato il segnale di qualche cosa di nuovo. Qui i dipendenti hanno reagito in maniera spettacolare ai tentativi di ricatto dei padroni. Le azioni di solidarietà, in particolare dei lavoratori di Brema con i loro fratelli di classe delle fabbriche di Stoccarda-Sindelfield, hanno dimostrato che gli operai si battono contro i tentativi di metterli gli uni contro gli altri. Ora l’azione di sciopero alla Opel, e soprattutto a Bochum, come prima risposta agli annunci di licenziamenti di massa, ha di nuovo messo in evidenza la determinazione a non accettare passivamente massicce riduzioni di posti di lavoro.
Ciononostante, la questione della possibilità e degli scopi della lotta in tali circostanze deve essere posta. Noi sappiamo che le lotte alla Daimler-Chrysler, come quelle alla Krupp-Rheinhausen o quelle delle miniere inglesi si sono concluse con delle sconfitte. Si è ripetutamente sperimentato – anche oggi – come i sindacati e i consigli di fabbrica, dovunque gli operai resistevano, hanno anche adottato il linguaggio della lotta, ma dicendo allo stesso tempo che non c’era alternativa se non quella di sottomettersi alla logica del capitalismo. Quello che è in gioco, dicevano, è evitare che le cose peggiorino. Per cui per effettuare il “salvataggio” dell’azienda occorreva che i licenziamenti si facessero nella maniera più “sociale” possibile. Così l’accordo nel dipartimento della catena di magazzini di Karstadt-Quelle, che prevedeva la soppressione diretta di 5.500 impieghi, la vendita di 77 magazzini e una spaventosa riduzione dei salari (con una economia totale di 760 milioni di euro fino al 2007), che è stato accettato, era presentato dal sindacato Verdi come una vittoria per i lavoratori.
Da almeno due secoli il lavoro salariato e il capitale sono in lotta sui salari e le condizioni di lavoro, cioè sul grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale. Se gli sfruttati non avessero lottato senza tregua, da una generazione all’altra, i lavoratori di oggi starebbero solo un pochino meglio degli schiavi taglieggiati e comandati fino alla morte.
In più su questa questione del livello di sfruttamento, che si poneva già per gli schiavi e i servi dei tempi antichi, l’economia moderna pone un secondo problema che è apparso con il dominio dell’economia di mercato e la forza lavoro salariata. La questione è questa: che fare quando i detentori dei mezzi di produzione non sono più in grado di sfruttare in maniera redditizia la forza lavoro degli operai? Lungo tutta la storia del capitalismo la questione si è sempre posta per i disoccupati. Ma oggi, quando la crisi di sovrapproduzione cronica del mercato mondiale, quando il fallimento del modo di produzione capitalista diventano sempre più visibili, essa diventa una questione di vita o di morte per tutti gli operai salariati.
La prospettiva della classe operaia contro la prospettiva del capitale
Gli imprenditori, i politici, ma anche i sindacati e i consigli di fabbrica – tutti quelli che sono implicati nella gestione della fabbrica, dell’azienda o dello Stato – considerano gli operai e gli impiegati come un elemento di una data compagnia, il cui mantenimento è inseparabilmente legato agli interessi del datore di lavoro. Da questo punto di vista, è evidentemente sempre dannoso che dei “membri della compagnia” si oppongano agli interessi della compagnia in termini di profitto. Dopo tutto, un’azienda non esiste che per fare dei profitti. Secondo questa logica, il presidente del consiglio generale di fabbrica della Opel, Klaus Franz, ha dichiarato categoricamente, fin dall’inizio, “noi sappiamo che i licenziamenti non possono essere evitati”. Questa è la logica del capitalismo. Ma questo non è il solo punto di vista dal quale può essere vista la situazione. Se si affrontano le cose non come il problema della Opel o della Karstadt, o della Germania, ma come un problema della società nel suo insieme, viene fuori tutta un’altra prospettiva. Se voi considerate il mondo non dal punto di vista di una fabbrica o di una azienda particolare, ma dal punto di vista della società, dal punto di vista del benessere umano, le vittime non appaiono più come appartenenti alla Opel o alla Karstadt, ma come facenti parte di una classe sociale di lavoratori salariati che sono le principali vittime della crisi del capitalismo. Da questa angolazione, diventa chiaro che le donne salariate della Karstadt di Herne, l’uomo impiegato su una catena di produzione della Opel di Bochum, ma anche i disoccupati della Germania dell’est o gli operai illegali dell’edilizia provenienti dall’Ucraina, che sono ridotti quasi a degli schiavi, condividono un destino comune, non con i loro sfruttatori, ma gli uni con gli altri.
Dal punto di vista del capitale, si sa che questa prospettiva esiste. Ed è giustamente quest’altra prospettiva che fa paura. La classe dominante lo sa. Finché gli operai della Opel o della Volkswagen vedono il problema ponendosi dal punto di vista della Opel o della VW, essi finiscono “con l’essere ragionevoli”. Ma quando scoprono la loro propria prospettiva, quando essi scoprono i loro interessi comuni, allora si fanno avanti delle prospettive per la lotta completamente differenti.
Adottando il punto di vista della società
È perciò che i rappresentanti del capitale cercano continuamente di persuaderci che le catastrofi causate dal loro sistema economico sono il risultato delle “inadeguatezze” o delle “specificità” di ogni azienda o di ogni paese: dicono che i problemi della Karstadt sono il risultato di una cattiva strategia di vendita, mentre l’Opel, dal canto suo, viene accusata di non aver seguito l’esempio della Daimler-Chrysler o della Toyota che hanno avuto successo con lo sviluppo di nuovi modelli. Si dice anche che il fatto che i 10.000 posti di lavoro, sui 12.000 che la General Motors ha deciso di sopprimere in Europa, saranno in Germania, sia una rappresaglia della borghesia americana a causa della posizione della Germania rispetto alla guerra in Iraq! Come se la Daimler-Chrysler non avesse licenziato i suoi impiegati nella stessa maniera giusto qualche mese prima! Come se le compagnie tedesche, tipo la Karstadt di Quelle non avesse anch’essa buttato per strada i suoi operai senza pietà! La realtà stessa fa giustizia di un tale tipo di argomenti. Il 14 ottobre non solo venivano annunciati le migliaia di licenziamenti alla Karstadt o alla Opel, ma veniva prospettata anche una riduzione di posti di uguale portata per i supermercati Spar. Lo stesso giorno trapelava la notizia di un nuovo piano di “salvataggio” per il consorzio olandese Philips. Quando il “giovedì nero” del 14 ottobre è stato annunciato che in tutto erano 15.500 i posti in pericolo alla Karstadt e alla Opel nei prossimi tre anni, i “partner negoziatori”, i politici e i commentatori si sonno preoccupati di separare con cura i due casi.
Ci si poteva attendere che, visto che gli impiegati delle due compagnie si trovavano nella stessa situazione, sarebbe stata la somiglianza tra queste e gli interessi minacciati degli operai ad essere messa al centro. Invece quello che viene presentato è esattamente il contrario. Appena il negoziatore in capo per il sindacato dei Verdi, Wiethold, ha annunciato il pomeriggio di giovedì, quasi con gioia, il “salvataggio” di Karstadt, i mezzi di informazione hanno subito fatto passare il seguente messaggio: ora che il futuro di Karstadt è assicurato, l’obiettivo resta la Opel. Mentre quindi si ipotizzava che la mano d’opera della catena di magazzini tornasse al lavoro con “sollievo”, ci sarebbe stata solo la forza lavoro della Opel che doveva ancora preoccuparsi per il proprio futuro.
Ma la sola differenza tra le situazioni degli impiegati delle due compagnie è che i terribili attacchi che sono stati già decisi per la Karstadt - riduzione di posti, chiusura parziale, minaccia di spostamenti massicci di mano d’opera – alla Opel sono ancora allo stato di ipotesi. Si è in attesa che la forza lavoro accetti delle riduzioni di salario per circa 1,2 miliardi di euro, perdendo in parte i suoi mezzi di sussistenza per salvare i profitti, e non certo i posti di lavoro!
L’affermazione secondo cui la situazione degli impiegati di Karstadt è fondamentalmente differente da quella degli operai della Opel è completamente infondata. Per i lavoratori della Karstadt, in ogni caso, niente può essere “salvato”. Il sindacato Verdi parla di “un salvataggio di posti di lavoro degno di questo nome” e di un “successo per gli impiegati”, perché sono state date delle “garanzie per i posti” ed il contratto salariale è stato salvato. Quello che somiglia tanto a una sconfitta per la classe operaia viene fatta passare per una vittoria. Quale valore possono avere “le garanzie per i posti”, i contratti salariali e le altre promesse quando compagnie che lavorano su scala mondiale si battono per sopravvivere? In realtà le vittime del salvataggio della Karstadt sono ancora esattamente nella stessa situazione di quelle della Opel, come anche di quelle della Daimler-Chrysler, Siemens o del pubblico impiego.
I negoziati per la Karstadt si sono conclusi velocemente perché si sapeva che la General Motors avrebbe annunciato il suo piano di “salvataggio” per le fabbriche europee il 14 ottobre. Fino ad allora la classe dominante aveva sempre come regola tacita di non attaccare mai nello stesso momento grossi settori della classe operaia, in maniera da non incoraggiare involontariamente un sentimento di solidarietà operaia. Ma oggi, l’accentuarsi della crisi del capitalismo mondiale limita sempre più l’intervallo di tempo tra attacchi consecutivi. In queste condizioni la borghesia sperava almeno che il giorno in cui sarebbero arrivate le cattive notizie da Detroit, Karstadt potesse essere presentata come una “vittoria”.
I mezzi della lotta solidale
I licenziamenti massicci, la minaccia di fallimento, non significano che l'arma dello sciopero è diventata superflua. Fermare il lavoro alla Mercedes o all’Opel è un segnale importante, un appello alla lotta.
Tuttavia, è purtroppo vero che in tali situazioni lo sciopero in quanto mezzo di intimidazione dell'avversario perde molto della sua efficacia. La lotta dei disoccupati, per esempio, è obbligata a fare a meno di quest’arma. Ma anche là dove i datori di lavoro hanno l'intenzione di separarsi da quelli che sfruttano, lo sciopero perde una buona parte del suo potere di minaccia. Ciò che occorrerebbe, di fronte al livello attuale degli attacchi del capitale, sarebbe lo sciopero di massa di tutti gli operai. Una tale azione difensiva dell'insieme della classe operaia le darebbe la fiducia in se stessa, fiducia di cui la classe ha bisogno per andare contro l'arroganza della classe dominante. In più, tali mobilitazioni massicce sarebbero capaci di cambiare il clima sociale, facendo riconoscere che i bisogni umani devono diventare la preoccupazione della società.
Questo mettere in discussione il capitalismo farebbe crescere la determinazione degli operai occupati e dei disoccupati a difendere i loro interessi da subito. Sicuramente tali azioni di massa, comuni non sono ancora possibili. Ciò non vuole affatto dire che non si possa lottare ed ottenere adesso già qualche cosa. Ma bisogna riconoscere che lo sciopero non è l'unica arma della lotta di classe.
Tutto ciò che, già oggi, fa avanzare il riconoscimento degli interessi comuni di tutti i lavoratori, che fa rivivere la tradizione della solidarietà operaia, spaventa la classe dominante, fa sì che il nostro avversario debba fare più concessioni, almeno temporanee. Nel 1987, gli operai della Krupp - Rheinhausen, minacciati dalla chiusura della fabbrica, hanno aperto le loro assemblee quotidiane alla popolazione, agli operai delle altre fabbriche ed ai disoccupati. Oggi, è ancora più inaccettabile che gli operai della Opel, Karstadt, Spar o della Siemens non si riuniscano per discutere della loro comune situazione. Durante lo sciopero di massa in Polonia tutti gli operai di una città si riunivano nella più grande fabbrica del posto. Là stabilivano le loro rivendicazioni comuni e prendevano la loro lotta nelle proprie mani.
La lotta alla Mercedes ha già dimostrato ciò che gli attacchi all’Opel o alla Karstadt hanno poi confermato: l’esistenza di un grande sentimento di solidarietà nella popolazione operaia verso coloro che subivano gli attacchi. In tali circostanze le manifestazioni nelle città possono diventare un mezzo per far uscire gli operai dalle altre fabbriche e mobilitare i disoccupati, sviluppare una solidarietà tra tutti. La lotta alla Mercedes ha mostrato anche che gli operai cominciano a comprendere che, di fronte ai licenziamenti di massa, non possono permettersi di lasciarsi dividere. Gli stessi capitalisti si rendono conto che non possono provare più a dividere gli operai in modo grossolano, come hanno fatto l'estate scorsa a Stoccarda e a Brema. (…) Il consiglio generale di fabbrica della Opel, di fronte agli attacchi, ha annunciato che era prioritaria l'unità delle differenti fabbriche della General Motors. Ma che cosa vuol dire quando i Socialdemocratici ed i sindacalisti parlano di solidarietà? Da quando queste istituzioni fanno parte della società capitalista, il termine “unità” nella loro bocca può significare solamente che le differenti fabbriche, mentre sono in concorrenza l’una con l’altra, provano a mettersi d’accordo sui prezzi. Il presidente del consiglio di fabbrica dell’Opel ha dichiarato che avrebbe incontrato il suo collega svedese della Saab per discutere quale prezzo avrebbe fatto ognuna delle fabbriche (una contro l'altra) per i nuovi modelli GM. I consigli di fabbrica, come i sindacati, fanno essi stessi parte della lotta concorrenziale capitalista. La lotta in comune degli operai non può essere condotta che dagli operai stessi.
La necessità di rimettere politicamente in questione il capitalismo
Di fronte alla profondità della crisi del capitalismo contemporaneo, gli operai devono anche superare la loro mancanza di volontà ad abbordare le questioni politiche. Noi non parliamo qui della politica borghese, ma del fatto che i lavoratori devono trattare dei problemi della società nel suo insieme, e della questione del potere.
I licenziamenti massicci di oggi ci mettono di fronte alla realtà di una società nella quale noi non siamo degli elementi di questo o quel luogo di lavoro, ma degli oggetti di sfruttamento, dei “fattori di costo”, che possono essere messi da parte senza pietà. Questi attacchi fanno vedere chiaramente ciò che vuol dire che i mezzi di produzione non appartengono alla società nel suo insieme, e non servono affatto alla soddisfazione dei bisogni della società. Al contrario, essi appartengono ad una stretta minoranza e, soprattutto, sono sottomessi alle leggi cieche e sempre più distruttrici della concorrenza e del mercato, che spingono senza tregua una parte crescente dell'umanità nella povertà ed in una insicurezza insopportabile. Delle leggi che scalzano le regole più elementari della solidarietà umana senza la quale, a lungo termine, nessuna società è possibile. I lavoratori salariati, che producono quasi tutti i beni ed i servizi di cui l'umanità ha bisogno per vivere, cominciano lentamente a realizzare che non hanno niente da dire in questo ordine sociale. La crisi alla Karstadt o alla Opel non è il risultato di una cattiva gestione, ma è l'espressione di una crisi di sovrapproduzione cronica, che viene da lontano ed è distruttrice, che si sviluppa di decennio in decennio. Una crisi che conduce alla diminuzione del potere di acquisto della popolazione operaia. Di rimando, questa colpisce in maniera sempre più forte i dettaglianti, l'industria dell’automobile, e tutta l'industria. L’inasprirsi della concorrenza obbliga il capitalismo ad abbassare i suoi costi, ciò che in conseguenza riduce il potere di acquisto delle masse ed accentua la crisi. Non c’è alcun modo di uscire da questo circolo vizioso all’interno del capitalismo.
CCI, 15.10.2004
Compagni,
4 giorni fa, il 22 ottobre, vi abbiamo inviato una lettera di cui riportiamo qui la parte principale:
“da più di una settimana è pubblicato, sulle pagine francesi ed inglesi del BIPR, una “Dichiarazione del Circolo di Comunisti Internazionalisti (Argentina)” datata 12 ottobre e intitolata “Contro il nauseabondo metodo della Corrente Comunista Internazionale”. Questo titolo già da solo riassume la mole di calunnie che questo “circolo” riversa sulla nostra organizzazione, su cui non volgiamo tornare qui. Come abbiamo detto nella nostra messa a punto intitolata “Il Circolo di Comunisti Internazionalisti (Argentina) Una nuova… strana apparizione”: “Rispetto a questa ultima dichiarazione (del 12 ottobre) la CCI afferma che essa è un insieme di menzogne e di calunnie”. Finora gli attacchi e le calunnie sullo stile di quelli portati dal “Circolo” erano prerogativa della “FICCI” (o erano rilanciate da questa sul suo sito internet), cioè di un gruppo la cui sola ragione di esistere è quella di cercare di discreditare la CCI, cosa che, evidentemente, attenuava la portata di questi attacchi. Il fatto che attacchi di questo tipo siano oggi rilanciati dal BIPR (in aggiunta alla FICCI) e senza il minimo commento per prendere una qualche distanza con quello che viene detto (il che significa che il BIPR gli dà una cauzione) è evidentemente di tutt’altra gravità. Voi siete liberi di prendere per denaro contante, senza verificare, le calunnie riversate dal “Circolo”. Tuttavia, in nome di un “diritto di risposta”, noi vi chiediamo di pubblicare sul vostro sito, in coda alla dichiarazione del “Circolo” e nella stessa lingua, la seguente messa a punto:
“La CCI dichiara che le accuse contenute nella dichiarazione del ‘Circolo di Comunisti Internazionalisti” del 12 ottobre, e che attribuisce alla CCI ‘l’utilizzazione di pratiche che non corrispondono all’eredità lasciata dalla Sinistra Comunista, ma piuttosto ai metodi propri della sinistra borghese e allo stalinismo”, al fine di “distruggere il nostro piccolo nucleo (uscito dal NCI), o i suoi militanti individualmente” sono totalmente menzognere. La CCI raccomanda ai suoi lettori di fare riferimento al suo sito internet [5] per trovare maggiori informazioni in proposito. La CCI fa appello ad una inchiesta indipendente effettuata da una commissione composta di elementi appartenenti ad organizzazioni della Sinistra Comunista, o vicine a questa, con l’obiettivo di fare completa luce sulle accuse di cui essa è oggetto. A tal fine la CCI ha cominciato a prendere contatto con persone ed organizzazioni che potrebbero partecipare a una tale inchiesta”.
Vi chiediamo di pubblicare questa messa a punto il più presto possibile.
A tutt’oggi non abbiamo visto apparire questa messa a punto su nessuna delle pagine del sito del BIPR. Si tratta di un ritardo di ordine tecnico o si tratta di un rifiuto da parte vostra alla pubblicazione di questo nostro piccolo testo?
Se si tratta di un ritardo tecnico, vi chiediamo di fare in maniera che questa messa a punto sia pubblicata il più presto possibile: ogni giorno che passa nuovi visitatori del vostro sito prendono conoscenza della dichiarazione totalmente menzognera del “Circolo” senza che essi abbiano la possibilità di sapere che la CCI respinge le accuse che essa contiene.
Se si tratta di un vostro rifiuto, la cosa è ancora più grave e noi vi invitiamo a riflettere sul significato di un tale atteggiamento: non solo voi partecipate alla diffusione di infami calunnie contro una organizzazione del campo proletario, ma ne assumete in proprio la responsabilità.
Comunque sia, quale che sia la ragione della mancata pubblicazione della nostra messa a punto, noi vi chiediamo di comunicarcela nel più breve tempo possibile.
Sugli altri punti affrontati nella nostra lettera del 22 ottobre, noi aspettiamo ugualmente una risposta, anche se capiamo bene che voi vogliate prendere del tempo per riflettere.
Saluti comunisti, CCI
Compagni,
il 22 e il 26 ottobre vi abbiamo inviato, agli indirizzi elettronici di tutte le vostre sezioni, due lettere per chiedervi di pubblicare sul vostro sito web una messa a punto della CCI a proposito della “Dichiarazione del Circolo di Comunisti Internazionalisti (Argentina) contro il nauseabondo metodo della Corrente Comunista Internazionale” datata 12 ottobre e che voi avete pubblicato sul vostro sito. Fino ad oggi voi non avete preso in conto la nostra richiesta, né vi siete degnati di rispondere alle nostre due lettere. Per contro, mentre questa dichiarazione menzognera non figurava, al momento della nostra prima lettera, che in francese ed in inglese, adesso essa compare anche in spagnolo.
Di fronte al vostro silenzio e al vostro atteggiamento che sembrano indicare che voi rifiutate di mettere sul vostro sito la nostra messa a punto, noi siamo indotti a rendere pubblica la nostra precedente corrispondenza pubblicandola sul nostro sito.
Ancora una volta, compagni, noi attiriamo la vostra attenzione sul fatto che il mantenimento del vostro silenzio equivale ad apportare il vostro sostegno alle calunnie infami che sono dirette contro la nostra organizzazione dal preteso “Circolo”.
Saluti comunisti, CCI
Parigi, 7 dicembre '04
Compagni,
A partire dal 2 dicembre abbiamo assistito ad alcune significative modificazioni sul sito Internet del BIPR. Una dopo l’altra, prima la versione inglese poi quella spagnola della «Dichiarazione del Circolo dei Comunisti Internazionalisti contro i metodi nauseabondi della CCI» del 12 ottobre, che vi si trovavano da più di un mese e mezzo, sono scomparse (molto curiosamente, la versione francese di questa dichiarazione è ancora presente al momento in cui noi vi inviamo questa lettera: forse che il BIPR persegue una politica differente secondo il paese e secondo le lingue?[1]). D’altra parte sulle pagine italiane del vostro sito, l’introduzione che precedeva la «Presa di posizione del Circolo dei Comunisti Internazionalisti sui fatti di Caleta Olivia» è stato ridotto di tre quarti perdendo il passaggio seguente: “Recentemente il Nucleo Comunista Internazionalista di Argentina ha rotto con la Corrente Comunista Internazionale, che da tempo indichiamo come ormai inutile sopravvivenza di una vecchia politica sicuramente non adeguata a contribuire alla formazione del Partito internazionale. L'organizzazione argentina ha anche cambiato nome assumendo quello di Circolo di Comunisti Internazionalisti”.
Queste modifiche dimostrano che il BIPR comincia (forse?) a prendere coscienza del vespaio nel quale si è ficcato prendendo per oro colato e pubblicando senza la minima precauzione ciò che il preteso «Circolo» ha raccontato nelle sue differenti «dichiarazioni», in particolare a proposito del comportamento della CCI. In altri termini, il BIPR non è più capace di nascondere a se stesso, né soprattutto di nascondere ai lettori del suo sito Internet, ciò che la CCI ha affermato da circa due mesi: le accuse fatte alla nostra organizzazione sono delle pure menzogne inventate da un elemento torbido, un impostore mitomane e senza scrupoli. Ciò detto, l’eliminazione discreta e progressiva di queste «dichiarazioni» non cancella né ripara in alcun modo il considerevole errore politico, per non dire il comportamento inqualificabile, di cui si è resa responsabile la vostra organizzazione. Proprio il contrario.
E’ per questo che questa lettera vuole essere un appello solenne ai militanti del BIPR di fronte a un comportamento della loro organizzazione assolutamente scandaloso e incompatibile con tutto ciò che è alla base di un atteggiamento di classe proletario.
Un breve riepilogo dei fatti:
Verso la metà di ottobre, il BIPR pubblica in diverse lingue sul suo sito Internet questa famosa «Dichiarazione contro i metodi nauseabondi della CCI» del cosiddetto «Circolo dei Comunisti Internazionalisti» che si presenta come il successore del «Nucleo Comunista Internazionale» con cui la CCI era in discussione da diversi mesi (con, in particolare, due incontri in Argentina anche tra il NCI e delegazioni della CCI).
Cosa contiene in sostanza questa «Dichiarazione»? Si tratta di una serie di accuse estremamente gravi contro la nostra organizzazione:
- la CCI utilizza delle «pratiche che non corrispondono all’eredità trasmessa dalla Sinistra comunista, ma piuttosto ai metodi propri della sinistra borghese e allo stalinismo» con «l’intenzione subdola di distruggere [il nostro piccolo nucleo] (vale a dire il «Circolo», nuovo nome del NCI), dove i suoi militanti in maniera individuale provocano la diffidenza reciproca e seminano i germi della divisione nei ranghi del nostro piccolo gruppo»;
- la CCI «si è ingaggiata in una dinamica di distruzione non solo contro quelli che si mettono a rischio di sfidare le “leggi e le teorie immutabili” dei guru di questa corrente, ma anche contro tutti quelli che cercano di pensare da soli e che dicono NO ai ricatti della CCI»;
- la CCI utilizza «la tattica stalinista della “terra bruciata”, cioè non solo la distruzione del nostro piccolo e modesto gruppo, ma anche l’opposizione attiva ad ogni tentativo di raggruppamento rivoluzionario di cui la CCI non sarebbe alla testa, attraverso le sue politiche settarie e opportuniste. E per raggiungere questo scopo, essa non esita a utilizzare tutta una serie di astuzie ripugnanti aventi per obiettivo centrale quello di demoralizzare i suoi oppositori e, così, di poter eliminare un “nemico potenziale”»;
- «mancando di aderire alle sue posizioni che non hanno niente a che vedere con la tradizione rivoluzionaria, la CCI tenta di sabotare ogni tentativo di raggruppamento rivoluzionario come è stato il caso della Riunione Pubblica [del BIPR] del 2 ottobre 2004 a Parigi (Francia) e (…) come cerca oggi di distruggere il nostro piccolo gruppo d’Argentina».
Qualunque lettore un pò esperto delle questioni concernenti i gruppi della Sinistra comunista (o che vi si richiama) avrà riconosciuto lo stile delle calunnie che la FICCI rovescia da diversi anni sulla nostra organizzazione. Ma l’analogia non si ferma qui. La si ritrova anche nella sfrontatezza con cui le menzogne più grosse vengono assestate:
- «Su loro richiesta unanime, i compagni che la CCI ha chiamato al telefono per seminare i germi della diffidenza e della distruzione del nostro piccolo gruppo, propongono all’insieme dei membri del Circolo dei comunisti internazionalisti il rigetto totale del metodo politico della CCI che essi considerano come tipicamente stalinista e il cui obiettivo centrale, obiettivo della direzione attuale della CCI, è di impedire il raggruppamento rivoluzionario per il quale diverse correnti e gruppi lottano; e propongono di denunciare questi comportamenti davanti all’insieme delle correnti che si dichiarano nella continuità della Sinistra comunista».
La realtà è molto diversa, come noi abbiamo riportato già in altri testi e come viene detto nella dichiarazione del NCI del 27 ottobre: effettivamente, abbiamo chiamato un compagno del NCI ma non certo per tentare di «distruggere [il NCI] o i suoi militanti uno per uno ».
Lo scopo della nostra prima telefonata era cercare di capire come si era costituito questo «Circulo de Comunistas Internacionalistas» e perché dei compagni che avevano testimoniato qualche settimana prima un atteggiamento estremamente fraterno nei confronti della nostra delegazione e che non avevano manifestato nessun disaccordo con la CCI (in particolare a proposito dei comportamenti della FICCI), adottavano adesso, il 2 ottobre, una «Dichiarazione» particolarmente ostile nei confronti della nostra organizzazione, voltando le spalle a tutto ciò che avevano difeso fino a quel momento. Da quel momento, noi abbiamo messo in dubbio che l’insieme dei compagni del NCI si fossero associati a questa «Dichiarazione» (malgrado quanto veniva affermato sull’«unanimità» di questo orientamento tra i membri del NCI). Le discussioni che noi abbiamo avuto per telefono con i compagni del NCI ci hanno permesso di informarli di quello che stava avvenendo: la comparsa di un «Circolo» che si presentava come la continuazione del NCI e che scatenava degli attacchi contro la CCI. Noi abbiamo potuto ugualmente verificare che questi compagni non erano per niente informati di questa nuova politica portata avanti dall’individuo B. (il solo a poter accedere a Internet), alle loro spalle e a loro nome. Quando noi abbiamo chiesto a un compagno che avevamo potuto raggiungere per primo telefonicamente se voleva che noi lo richiamassimo, lui ha risposto di sì insistendo che queste telefonate fossero le più frequenti possibile e suggerendo che noi chiamassimo quando si fosse trovato in compagnia degli altri compagni in modo da poter parlare anche con loro. Ecco a cosa corrisponde «la richiesta unanime dei compagni che la CCI ha chiamato»: essi non hanno per niente «proposto all’insieme dei membri del “Circolo” il rigetto totale del metodo politico della CCI» ma l’hanno calorosamente approvato. Mentre il metodo «che essi considerano come tipicamente stalinista» è quello di mister B.
Questo interessante personaggio, all’inizio della sua dichiarazione del 12 ottobre ci avverte: ciò che viene affermato sui “metodi della CCI” può “sembrare una menzogna”. Effettivamente, le “dichiarazioni” di Mr B. possono “sembrare una menzogna”. E vi è una buona ragione a ciò: sono realmente una menzogna, una pura menzogna. Evidentemente, la FICCI ha immediatamente creduto a questa menzogna che somigliava ad una menzogna. Tutto ciò che le può permettere di gettare del fango sulla nostra organizzazione è benvenuto e poco importa se l’accusa “può sembrare una menzogna”. Dopo tutto, la menzogna è la sua seconda natura, il suo marchio di fabbrica (assieme al ricatto, al furto e alla delazione). Ma ciò che è al contrario assolutamente inverosimile, che “sembra una menzogna”, è che un’organizzazione della Sinistra comunista, il BIPR, abbia preso la stessa traiettoria della FICCI pubblicando sul suo sito Internet, senza il minimo commento, quindi avallandole completamente, le elucubrazioni infami di Mr B.
Al BIPR piace fare le lezioni agli altri, ad esempio dando la sua propria interpretazione delle crisi della CCI credendo sulla parola alle menzogne della FICCI e senza darsi neanche la pena di esaminare seriamente l’analisi che ne fa la stessa CCI (vedi per esempio “Elementi di riflessione sulle crisi della CCI” sul sito Internet del BIPR). Al contrario, il BIPR non ama che qualcuno faccia degli apprezzamenti sul suo modo di comportarsi: «noi rigettiamo come ridicole le “messe in guardia” da parte [della CCI]», «Non è alla CCI, né ad alcun altro che dobbiamo rendere conto del nostro modo di agire politico e la pretesa della CCI a rilanciare delle presunte tradizioni della sinistra comunista sembrano soltanto patetiche» (vedi Risposta alle stupide accuse di una organizzazione in via di disgregazione, sul sito Internet del BIPR). Malgrado ciò, noi ci permettiamo di dire al BIPR come avrebbe agito la CCI se avesse ricevuto una dichiarazione come quella del “Circolo” che avesse messo gravemente in causa il BIPR.
La prima cosa che noi avremmo fatto sarebbe stata quella di contattare il BIPR e di chiedergli la sua versione su tali accuse. Avremmo inoltre verificato la credibilità e l’onestà dell’autore di questo tipo di accuse. Se si fosse verificata la natura menzognera dell’accusa, noi avremmo immediatamente denunciato questo comportamento apportando la nostra solidarietà al BIPR. Se l’accusa fosse risultata fondata, e se noi avessimo ritenuto necessario farla conoscere attraverso la nostra stampa, avremmo chiesto al BIPR la sua posizione in modo da pubblicarla a fianco al documento di accusa.
Voi potete forse pensare che queste sono parole platoniche e che nella realtà noi avremmo fatto tutt’altro. I lettori della nostra stampa sanno comunque che è questo il nostro modo di agire, modo che noi abbiamo peraltro già messo in pratica quando la LA Workers’ Voice si è lanciata in una campagna di denigrazione del BIPR (vedi Internationalism n°122).
Come ha agito il BIPR quando ha ricevuto la «Dichiarazione del ‘Circolo»? Non solo è stato contento di sottoscriverlo subito pubblicandolo in diverse lingue sul suo sito senza la minima verifica della sua autenticità, ma ha anche rifiutato per oltre una dozzina di giorni di pubblicare la smentita che noi gli abbiamo richiesto a più riprese (vedi le nostre lettere dei giorni 22, 26 e 30 ottobre) da aggiungere alla dichiarazione del “Circolo”.
La pubblicazione della nostra smentita era il minimo che poteva fare il BIPR (e che d’altra parte qualunque giornale borghese accetta di fare in generale) e tuttavia ci sono volute tre lettere per arrivare a questo, tre lettere e un certo numero di fatti che cominciavano a dimostrare il carattere menzognero della “dichiarazione”. L’inserzione della nostra smentita era il minimo, ma era ancora nettamente insufficiente poiché, non prendendo posizione sulla dichiarazione del «Circolo», il BIPR continuava ad avallare le sue menzogne. E’ per questo che nelle nostre lettere del 17 e del 21 novembre noi vi abbiamo chiesto «di pubblicare immediatamente (vale a dire alla ricezione di questo messaggio) sul vostro sito Internet la Dichiarazione del NCI del 27 ottobre che si trova sul nostro proprio sito in tutte le lingue corrispondenti», una dichiarazione che non partiva dalla CCI, della quale si poteva sempre lasciare intendere che raccontasse non importa cosa, ma dei principali testimoni dell’impostura e delle menzogne calunniose di Mr B. Finora, voi non avete ancora pubblicato questa dichiarazione del NCI (che vi è stata spedita da Buenos Aires tramite posta normale) di cui voi avete consapevolezza della sua veridicità poiché avete cominciato a ritirare progressivamente e discretamente dal vostro sito la dichiarazione del «Circolo».
Per settimane, avete fatto orecchio da mercante di fronte alle richieste della CCI affinchè fosse ristabilita la verità. Adesso che questa verità risplende sempre più (ma non certo grazie a voi), voi scegliete il metodo più ipocrita possibile per cercare di evitare che questa vi possa infangare: ritirate un documento che per circa due mesi ha rovesciato sulla nostra organizzazione carrettate di fango con lo stesso silenzio che aveva accompagnato la sua messa in circolazione da parte vostra.
Compagni, siete coscienti della gravità dei vostri comportamenti? Siete coscienti che questo atteggiamento non è degno di un gruppo che si richiama alla Sinistra comunista ma appartiene ai metodi del trotskismo degenerato, o anche dello stalinismo? Vi rendete conto che voi fate la stessa cosa di Mr B (i cui maneggi recenti con il sito «Argentina Roja» dimostrano che ritorna ai suoi vecchi amori stalinisti) che ha trascorso il suo tempo a fare apparire e scomparire dei documenti sul suo sito Internet per cercare di mascherare i suoi tiri mancini?
In ogni caso, poiché avete messo i vostri mezzi di comunicazione al servizio della calunnia contro la CCI, non basta far sparire discretamente questa calunnia come se niente fosse stato. Voi avete commesso un errore politico di una gravità estrema e adesso occorre riparare. Il solo mezzo degno per una organizzazione del proletariato è dichiarare sul vostro sito Internet che il documento che vi è rimasto per circa due mesi è una collezione di menzogne e denunciare le azioni di Mr B.
Comprendiamo l’amara delusione che avete dovuto provare scoprendo la verità: il NCI non ha rotto con la CCI ed il “Circolo”, sul quale riponevate grandi speranze (vedi il vostro articolo nel numero di ottobre di Battaglia Comunista “Anche in Argentina qualcosa si muove”), non è altro che un grande raggiro uscito dall’immaginazione di Mr B. Ma questa non è una buona ragione per schivare ogni presa di posizione sui metodi di questo impostore. Si tratta anche di una questione di solidarietà elementare con i militanti del NCI che sono state le prime vittime delle manipolazioni infami di questo elemento che ha usurpato il loro nome.
Comprendiamo anche che è penoso per voi riconoscere pubblicamente, ancora una volta (dopo il vostro comunicato del 9 settembre 2003 su i “Comunisti radicali d’Ucraina”), che siete stati vittime di un imbroglio. Quando vi è capitata questa disavventura la CCI non ha fatto il minimo commento. Piuttosto che rigirare il coltello nella piaga, abbiamo pensato che toccava a voi, dato che siete una “forza dirigente responsabile” (secondo i vostri stessi termini), tirare le lezioni da questa esperienza. Tuttavia ciò non ci ha sorpreso dopo le disillusioni che avete avuto, in particolare con il SUCM ed il LAWV, nonostante le nostre messe in guardia che voi avete “rigettato come ridicole”. Ma oggi il problema va ben al di là del ridicolo di essere stati raggirati. Dietro la toccante ingenuità con la quale avete creduto sulla parola ad un mitomane scroccone, c’è la doppiezza con la quale avete accolto sul vostro sito le infamie di questo individuo. Questo è un comportamento assolutamente indegno di una organizzazione che si richiama alla Sinistra comunista.
Il BIPR afferma che la CCI ha perso ogni “capacità/possibilità di contribuire positivamente al processo di formazione dell’indispensabile partito comunista internazionale”, (Battaglia Comunista di ottobre 2004, “Anche in Argentina qualcosa si muove”). Contrariamente al BIPR (ed alle differenti piccole cappelle della corrente bordighista), la CCI non ha mai pensato di essere la sola organizzazione capace di contribuire positivamente alla formazione del futuro partito rivoluzionario mondiale, anche se, evidentemente, valuta che il proprio contributo a questo compito sarà il più determinante. E’ per questo che sin dalla sua riapparizione nel 1964 (dunque ben prima della fondazione della CCI propriamente detta), la nostra corrente ha ripreso l’orientamento che era quello della Sinistra comunista di Francia ed ha sempre difeso la necessità del dibattito fraterno e della cooperazione (evidentemente nella chiarezza) tra le forze della Sinistra comunista. Ancor prima che Battaglia Comunista ne facesse la proposta nel 1977, noi avevamo a più riprese, ma invano, proposto a questa organizzazione di organizzare delle conferenze internazionali dei gruppi della Sinistra comunista. Per questo abbiamo risposto con entusiasmo all’iniziativa di Battaglia e ci siamo implicati con serietà e determinazione in questo sforzo. Ed è sempre per questo che abbiamo rigettato e condannato la decisione di Battaglia e della CWO di porre fine a questo sforzo alla fine della 3ª conferenza nel 1980.
Effettivamente noi pensiamo che alcune delle posizioni del BIPR sono confuse, sbagliate o incoerenti e che esse possono creare o mantenere delle confusioni all’interno della classe. Per questo pubblichiamo regolarmente nella nostra stampa degli articoli che criticano queste posizioni. Tuttavia noi pensiamo che il BIPR, per i suoi principi fondamentali, è un’organizzazione del proletariato e che esso apporta un contributo positivo all’interno di questo contro le mistificazioni borghesi (in particolare quando difende l’internazionalismo di fronte alla guerra imperialista). Per questo abbiamo sempre considerato fino ad oggi che era interesse della classe preservare un’organizzazione come il BIPR.
Questa non è la vostra analisi riguardo alla nostra organizzazione, poichè dopo aver affermato nella vostra riunione con la FICCI del marzo 2002 che “se siamo portati a concludere che la CCI è diventata un’organizzazione ‘non valida’, allora il nostro scopo sarà fare di tutto per spingere alla sua scomparsa”(Bollettino della FICCI n°9) voi avete adesso cominciato effettivamente a fare di tutto per raggiungere questo scopo.
Il fatto che voi valutate che la CCI costituisce un ostacolo alla presa di coscienza della classe operaia e che sarebbe preferibile per la sua lotta che la CCI scomparisse, non ci pone in sé dei problemi. Dopo tutto è la stessa posizione che hanno sempre difeso le differenti cappelle della corrente bordighista.
Così come non ci pone problema il fatto che vi dotiate dei mezzi per pervenire a questo obiettivo. La questione è “quali mezzi”? Anche la borghesia è interessata alla scomparsa della CCI, come alla scomparsa degli altri gruppi della Sinistra comunista. E’ per questo, in particolare, che ha scatenato delle campagne ripugnanti contro questa corrente assimilandola alle correnti “revisioniste” complici dell’estrema destra. Per la classe dominante TUTTI i mezzi sono buoni, ivi compreso e soprattutto, la menzogna e la calunnia. Ma questo non è possibile per un’organizzazione che pretende di lottare per la rivoluzione proletaria. Allo stesso titolo delle altre organizzazioni rivoluzionarie del movimento operaio che l’hanno preceduta, la Sinistra comunista non si distingue solo per le posizioni programmatiche, quali l’internazionalismo. Nella sua lotta contro la degenerazione dell’IC e contro la deriva opportunista del trotskismo che l’ha condotta nel campo borghese, la Sinistra ha sempre rivendicato un metodo basato sulla chiarezza, e dunque la verità, in particolare contro tutte le falsificazioni di cui lo stalinismo si è fatto portatore.
Marx diceva “la verità è rivoluzionaria”. In altri termini, la menzogna, e ancor più la calunnia, non sono armi del proletariato, ma della classe nemica. E l’organizzazione che ne fa uno degli strumenti di lotta, quale che sia la validità delle posizioni inscritte nel suo programma, prende la via del tradimento o, comunque, diventa un ostacolo decisivo alla presa di coscienza della classe operaia. In tal caso, effettivamente, e ben più che a causa della presenza di errori nel suo programma, è preferibile, dal punto di vista degli interessi del proletariato, che una tale organizzazione scompaia.
Compagni, ve lo diciamo francamente, se il BIPR persiste nella politica della menzogna, della calunnia e, peggio ancora, del “lasciar correre” e del complice silenzio di fronte a comportamenti di gruppuscoli di cui queste sono il marchio di fabbrica e la ragion d’essere, come è il caso del “Circolo” e della FICCI, allora darà la prova che anch’esso è diventato un ostacolo alla presa di coscienza del proletariato.
Sarà un ostacolo non tanto per il discredito che potrà apportare alla nostra organizzazione (gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato che noi siamo capaci di difenderci, anche se pensate che “la CCI è in via di disgregazione”), ma per il discredito ed il disonore che questo tipo di comportamenti infligge alla memoria della Sinistra comunista d’Italia, e dunque al suo contributo insostituibile. In questo caso, effettivamente, sarebbe preferibile che il BIPR scomparisse e, come voi dite così bene, “il nostro scopo sarà fare di tutto per spingere alla sua scomparsa”. E’ chiaro, evidentemente, che per raggiungere questo scopo noi impiegheremo esclusivamente le armi che appartengono alla classe operaia che, naturalmente, ci impediscono l’utilizzo della menzogna e della calunnia.
Un ultimo punto:
La dichiarazione del 12 ottobre del «Circolo», così come l’articolo della FICCI nel suo Bollettino 28, evocano i nostri pretesi «tentativi di sabotaggio» in occasione della vostra riunione pubblica del 2 ottobre a Parigi. Voi stessi non siete estranei a questo tipo di accuse poiché nella prima versione della vostra presa di posizione su questa riunione pubblica apparsa unicamente in italiano (e non in francese – ancora un mistero del BIPR!) voi riportate «le avanguardie rivoluzionarie anche laddove scarseggiano, ostacolate nel loro emergere dai miasmi prodotti da una organizzazione in via di disfacimento, come la CCI a Parigi. E’ per questo che il BIPR continuerà il suo lavoro anche su Parigi, prendendo tutte le misure necessarie a prevenire ed evitare sabotaggi, da qualunque parte essi vengano». In seguito, voi avete ritirato la fine di questo passaggio (prova del fatto che voi non eravate molto sicuri di voi), e in particolare il riferimento ai nostri «sabotaggi». Ciò detto, un certo numero di visitatori del vostro sito e i contatti abbonati ai vostri comunicati per e-mail hanno potuto prendere conoscenza di queste accuse. Ugualmente, la FICCI ed il «Circolo» continuano a pubblicarlo sul loro proprio sito senza che voi li smentiate.
Compagni,
se voi pensate che noi abbiamo tentato di sabotare la vostra riunione pubblica a Parigi, allora ditelo francamente, spiegando perchè. Noi potremo allora discuterne con degli argomenti piuttosto che essere confrontati a pettegolezzi ipocriti.
Un’ultimissima cosa. La presente lettera è centrata attorno a una sola questione: la pubblicazione sul vostro sito Internet di una «Dichiarazione» infame che calunnia la CCI. Ciò detto, l’uso (attivo o passivo) della menzogna e della calunnia come mezzo di «lotta» contro la CCI non si ferma là. Vi ricordiamo che vi abbiamo scritto due lettere nelle quali vi chiediamo tra l’altro una presa di posizione su una questione della massima importanza (a meno che le parole non siano prive di senso): «Pensate voi, come non ha smesso di ripetere la FICCI, che la CCI sarebbe sotto il giogo di agenti dello Stato capitalista (appartenenti alla sua polizia o a una setta massonica)?»
Vi ricordiamo pure che finora, anche se voi giustificate il furto da parte della FICCI del nostro elenco di abbonati, voi non avete fornito spiegazioni al fatto che questi ultimi hanno ricevuto per posta un invito alla vostra riunione pubblica, malgrado non vi avessero mai comunicato il loro indirizzo. La sola «spiegazione» che noi abbiamo avuto è quella di un membro del presidium della vostra riunione pubblica del 2 ottobre a Parigi che ha detto: «noi non eravamo al corrente dell’invio di questi inviti e non siamo d’accordo».
· Se non è il BIPR che ha fatto questi invii, allora chi è stato?
· Perchè non approvate questa iniziativa dal momento che approvate il furto del nostro elenco abbonati?
Se non avete voglia di dare queste spiegazioni alla CCI, vi chiediamo di avere almeno la correttezza di darle ai nostri abbonati, i quali non sono necessariamente dei simpatizzanti della CCI.
Ecco dunque un esempio di questioni che per noi non sono chiuse. E le rimetteremo sul tappeto tutte le volte che sarà necessario se voi decidete di applicare la vostra politica tradizionale del silenzio nei confronti delle nostre lettere.Ricevete, compagni, i nostri saluti comunisti.
CCI
[1] È una questione che non si pone soltanto a proposito della data del ritiro della «Dichiarazione» del 12 ottobre, ma anche a proposito del suo inserimento sul sito del BIPR. In effetti, questa dichiarazione non è mai apparsa in italiano laddove in questa lingua sono stati pubblicati due altri testi del Circolo, la «Presa di posizione del Circolo di Comunisti Internazionalisti sui fatti di Caleta Olivia» e «Prospettive della classe operaia in Argentina e nei paesi periferici» i quali, paradossalmente, non sono stati pubblicati in altre lingue dal BIPR. Comprenda chi può. Noi speriamo che almeno i militanti del BIPR conoscano le ragioni di queste scelte sorprendenti.
Parigi, 1 ottobre 2004
Compagni
In
primo luogo, salutiamo la tenuta di una riunione pubblica del Bipr
a Parigi, il 2 ottobre, così come abbiamo salutato qualche
mese fa le riunioni pubbliche della vostra organizzazione a
Berlino. Non si tratta da parte nostra, come sapete, di un
atteggiamento di circostanza: da molti anni, soprattutto in
occasione di avvenimenti importanti della situazione mondiale, vi
abbiamo fatto proposte affinché possano esprimersi nel modo
più esteso possibile le posizioni della vostra
organizzazione, offrendovi la nostra ospitalità nelle città
dove abbiamo delle sezioni. È per lo stesso motivo che,
dopo aver saputo della tenuta della vostra riunione pubblica,
abbiamo informato i nostri simpatizzanti.
Su
questo soggetto, vogliamo fare una serie di osservazioni:
non è attraverso una lettera (postale o elettronica) del Bipr alla nostra organizzazione, né attraverso il sito internet del BIPR (dove l’avviso è apparso più tardi), che noi abbiamo appreso della tenuta della vostra riunione pubblica ma attraverso una lettera alla nostra casella postale inviata da un gruppo, la FICCI, la cui essenziale attività consiste nel denigrare la CCI;
molti nostri abbonati hanno ricevuto ciò che voi non avete considerato utile inviare alla CCI, un invito alla vostra riunione pubblica.
Concernente questo ultimo punto, alcuni di loro ci hanno espresso il loro stupore poiché, non essendo abbonati alle pubblicazioni del BIPR, non gli avevano dato il loro indirizzo. Alcuni di questi compagni si sono scandalizzati per il fatto che il loro indirizzo, che ci avevano confidato, circoli oggi all'infuori dell'organizzazione a cui l'avevano dato.
Da parte nostra, sappiamo con certezza come vi siete procurati questi indirizzi, che provengono dallo schedario degli abbonati che è stato rubato alla CCI da uno dei membri della FICCI. Perciò, protestiamo in modo solenne su questo tipo di metodo: che abbiate informato i nostri abbonati della tenuta della vostra riunione pubblica non ci pone alcun problema, al contrario, poiché noi abbiamo informato tutti i nostri simpatizzanti appena l'abbiamo saputo. In compenso, stimiamo assolutamente inaccettabile che vi siate resi complici del furto del nostro materiale da parte di vecchi militanti della nostra organizzazione. Anche se non difendiamo le stesse posizioni, anche se le nostre posizioni rispettive sono troppo distanti per fare un lavoro in comune (questa non è la nostra opinione), pensiamo che sia necessario rispettare nelle relazioni tra il BIPR e la CCI alcune regole e principi propri alle organizzazioni del campo proletario. Sono queste regole che purtroppo avete violato rendendovi complici del furto del nostro materiale.
Per finire con questo punto, vi poniamo una domanda molto semplice: come avrebbe reagito il BIPR se la CCI avesse avuto nei suoi riguardi lo stesso atteggiamento, se avessimo portato il nostro sostegno e la nostra complicità al furto dello schedario degli indirizzi del BIPR da parte di uno dei suoi anziani membri utilizzandolo per invitare i suoi abbonati alle nostre riunioni pubbliche?
Questo
episodio assolutamente spiacevole, nel quale il BIPR si è
lasciato andare ad una condotta totalmente inaccettabile, illustra
il pericolo che esiste nel collaborare con la FICCI: intrattenendo
rapporti politici con persone che si sono comportate come
teppisti, si rischia di lasciarsi trascinare ad adoperare dei
metodi che non hanno più niente a che vedere con quelle di
un gruppo della Sinistra Comunista ma che sono dei gruppi
gauchisti.
Più
concretamente, se ancora una volta salutiamo la tenuta di questa
riunione pubblica, deploriamo che essa sia stata l’occasione
per la FICCI di farsi conferire un certificato di rispettabilità.
Nella nostra stampa come nelle nostre corrispondenze col BIPR, abbiamo messo in guardia contro i comportamenti e gli obiettivi di questa pretesa “frazione”. Il BIPR può non credere affatto sulla parola ciò che abbiamo scritto concernente i comportamenti di bugiardi, ladri, ricattatori in seno alla CCI dei membri della FICCI, allo stesso modo può continuare a credere che non hanno mai avuto luogo le campagne nei corridoi che accusano uno dei nostri membri di essere “un poliziotto” (mentre la FICCI non lo ha smentito, come l'abbiamo messo in evidenza nella nostra stampa). Tuttavia, il BIPR ha avuto tutto il tempo di prendere conoscenza, sul sito internet della FICCI, del fatto che questo gruppo si comporta come uno spione che fornisce deliberatamente al mondo intero, e particolarmente ai servizi di polizia, delle notizie confidenziali sull'identità di alcuni nostri militanti. E ciò senza la minima utilità dal punto di vista “strettamente politico”.
Tuttavia, il BIPR ha deciso di passare oltre la nostra messa in guardia, così come non ne aveva tenuto conto, in passato, delle nostre messe in guardia sul Communist Bulletin Group, il SUCM, il Los Angeles Workers' Voice, o l'elemento che chiameremo L. e che, dopo che la CCI ha rifiutato di integrarlo, ha percorso praticamente tutte le organizzazioni della Sinistra Comunista. L'esperienza ha mostrato tuttavia nel meglio l'assenza di serietà, nel peggio il pericolo rappresentato da questi gruppi ed elementi di cui alcuni non si sono privati, in seguito, di coprire di fango il BIPR.
Oggi,
le motivazioni della FICCI appaiono chiaramente, particolarmente
con l’avviso che ha messo in evidenza sul suo sito internet
sulla riunione pubblica del BIPR: dopo le denigrazioni menzognere
d’uso contro la CCI (non è vero che le nostre
riunioni pubbliche a Parigi sono “disertate”, al
contrario, è da anni che non si vedeva la partecipazione di
tanti elementi esterni ed invitiamo i compagni del BIPR ad
assicurarsene venendo a queste riunioni pubbliche), la FICCI
conclude così il suo avviso: “Su nostro suggerimento
e col nostro sostegno politico e materiale, il BIPR terrà
una Riunione Pubblica a Parigi (RP che, lo speriamo, sia solamente
la prima) alla quale chiamiamo tutti i nostri lettori a
partecipare”. Insomma, è grazie alla FICCI che il
BIPR terrà una riunione pubblica a Parigi, ecco il
messaggio principale di questo annuncio. In altri termini, è
per farsi la sua propria pubblicità che la FICCI ha portato
il suo sostegno alla RP del BIPR.
È
anche per farsi conferire un altro certificato di rispettabilità
che la FICCI scrive nel suo Bollettino n°27 che “questa
riunione [che si è tenuta a fine giugno tra la FICCI ed il
BIPR] ha permesso di gettare le basi per un lavoro comune nel
quale il dibattito deve prendere un posto di prima importanza”.
Nel
misura in cui:
- la FICCI pretende rappresentare la fedeltà alle posizioni fondamentali della CCI;
- il BIPR, a più riprese, ha rifiutato ogni “lavoro comune” con la CCI a causa proprio dell'importanza dei disaccordi tra le posizioni fondamentali della CCI e le sue proprie posizioni; poniamo al BIPR la domanda seguente: per quali ragioni il BIPR ha deciso di fare un “lavoro comune” con la FICCI?
La FICCI conosce perfettamente l'obiettivo delle sue proposte di lavoro in comune col BIPR (parimenti con tutte le adulazioni che riversa nei suoi riguardi): farsi riconoscere una "rispettabilità". Quale è l'obiettivo del BIPR nell’accettare queste proposte?
Con chi il BIPR pensa di fare un lavoro in comune, con gli elementi sinceri che difendono le stesse posizioni della CCI (come si presentano i membri della FICCI), o con gli elementi che hanno abbandonato ogni convinzione e ogni morale comunista adottando una condotta di teppisti e di spioni (come essi sono realmente)?
Ricevete, compagni, i nostri saluti comunisti.
Corrente Comunista Internazionale
Questa lettera è stata scritta da un nostro simpatizzante al BIPR, in seguito alla lettura dei vari documenti prodotti dalla CCI, dal BIPR, dalla FICCI e dal “Circulo”. La CCI sostiene questa presa di posizione del compagno non tanto perché esprime un accordo con il metodo della CCI, ma soprattutto perché esprime in maniera attiva una difesa dei principi di comportamento all’interno della classe operaia e, facendo appello alla tradizione ed alla serietà politica del BIPR, esprime una difesa di questa stessa organizzazione.
Ai compagni del BIPR.
Sono un simpatizzante della CCI e vi comunico immediatamente il mio vivo dissenso per come la vostra organizzazione si sta comportando nei confronti dei fatti emersi dalla Riunione pubblica di Parigi tenuta da voi con l’appoggio della cosiddetta FICCI. Con le vostre mancate risposte o nel meno peggio leggendo i vostri scarni e contraddittori comunicati (sia sulla vostra stampa che su internet) sono rimasto all’inizio incredulo e sbalordito e poi rattristato nel vedere come un gruppo di radicata tradizione proletaria si arrotoli in peripezie opportunistiche, ricche di contraddizioni, nel tentativo di giustificare le proprie figuracce politiche, alla stessa stregua di un qualsiasi gruppo estremista (operaista, stalinista o di qualsiasi altro colore voglia definirsi). Sottoscrivo completamente le varie sottolineature che la CCI punto per punto vi ha ribattuto (attraverso la stampa ed internet) con i dovuti interessi (politici), dai fatti di Russia a quelli d’Argentina, fino a ritenervi degli irresponsabili di fronte alla classe operaia, quando sostenete un gruppuscolo di teppisti e ladruncoli qual è la sedicente FICCI. Io se fossi in voi avrei paura di legarmi a tali individui; voi evidentemente no, forse perché ritenendovi il solo gruppo politico fedele alla tradizione della sinistra comunista, vi pensate intoccabili ed infallibili. Vi ritenete tali anche quando entrate in flagrante contraddizione proprio con i principi a cui dite di rifarvi nel tentativo maldestro e puerile di giustificare i vostri comportamenti e le vostre prese di posizione alquanto scorretti? (E questo è per la giustificazione dei furti nel senso che il fine giustifica i mezzi, per l’idealismo attribuito da voi alla CCI, sulle vaghe risposte sulle lotte di liberazioni nazionali e sul sindacalismo o ancora peggio nel credere sulla parola del primo elemento che si fa avanti e vi racconta strane storie su strane integrazioni o scissioni ecc! Parafrasandovi è proprio il caso di pensare che con tutto ciò che sta capitando nel mondo il BIPR non abbia niente da fare che dare ascolto ad impostori e manovrare ai danni della CCI! Tuttavia, contrariamente forse a quello che credete confondendo i vostri pericolosi desideri con la realtà , la CCI gode ancora di buona salute e ciò, vi sembrerà strano, anche per vostra fortuna. L’educazione politica ed il rispetto di tutte le organizzazioni appartenenti al campo politico proletario, di cui voi ancora fate parte, e speriamo fino al momento - se ci sarà (altro che fatalismo della CCI!)- della riscossa proletaria, è una delle raccomandazioni più frequenti ed insistenti che la CCI fa in tutte le sue manifestazioni pubbliche e se volete anche private. Quello che probabilmente vi riesce difficile da capire e che se si perdono pezzi per strada non è sempre perché la macchina ormai vecchia è instabile e traballante, ma proprio il contrario. Una piattaforma politica, degli statuti, ed un comportamento politico coerente come interfaccia tra l’uno e l’altro è chiaro che prima o poi mandando fuori soggetti stanchi e incerti o smascherando piccoli borghesi declassati o elementi confusi rafforza l’organizzazione. Non a caso la vera attività di tali elementi si rileva poi essere parassitaria non solo dell’organizzazione da cui sono stati espulsi – per indegnità rivoluzionaria - ma per tutto il campo politico proletario, facendo magari all’inizio la parte della moglie bastonata tradita ed abbandonata dal marito e poi magari per essere più convincente strizzando gli occhi e battendo le ciglia all’alleato di turno. E non dite che queste sono volgarità! Aprite gli occhi compagni del BIPR e per capirvi meglio datevi una lettura della strigliatina che Engels fece ai compagni francesi dell’AIT (che strizzavano gli occhi ai piccoli produttori rovinati dallo sviluppo della grande produttività) a proposito della definizione di opportunismo e che cosa avrebbe potuto provocare se non combattuto sempre: per guadagnare qualche militante oggi, soprassedendo sui principi, si rischia la vita di tutta l’organizzazione per il futuro. E qui non si parla di piccola borghesia rovinata ma di individui in cerca di popolarità e di lestofanti!
Leggendo il n° 27 del Bollettino della cosiddetta Frazione interna della CCI, la sezione italiana della CCI ha preso conoscenza di essere ingaggiata in una lotta all'interno dell'organizzazione per «opporsi alla "liquidazione" della CCI». Questa affermazione, che compare nel titolo dell'articolo dedicato alla nostra sezione, cosí come tutto l'articolo, è completamente falsa. L'articolo, costruito a partire dall'invenzione di divergenze relative all'analisi sull'attualità (stato della lotta di classe e quadro dell'imperialismo mondiale) tra la sezione italiana e l'organizzazione, o per meglio dire tra la sezione italiana e la «attuale direzione liquidazionista della CCI», non costituisce che l'ennesimo tentativo da parte della FICCI di creare artificialmente delle fratture all'interno della nostra organizzazione. Noi denunciamo ugualmente gli atteggiamenti, a volte di adulazione e falsamente "fraterni", a volte di colpevolizzazione e ricattatori, volti a far credere ai lettori poco esperti del loro atteggiamento parassitario e distruttivo, che per davvero ci sarebbe una lotta all'interno della nostra organizzazione e che veramente ci sarebbe una difficoltà, se non addirittura una censura tra i militanti dell'organizzazione che impedirebbe loro ogni possibilità di esprimersi in maniera libera sulla sorte dell'organizzazione e sulle sue analisi.
Se la FICCI ha questo atteggiamento è perchè non sa più che fare nel tentativo disperato di difendere un'avventura senza uscita. Per quanto ci riguarda noi, sezione della CCI in Italia, non abbiamo e non avremo mai niente a che fare con i ladri, con i falsificatori, con gli spioni della FICCI.
2 ottobre 2004 - La sezione italiana della CCI
Questa “Risposta”
del BIPR comincia con il criticare “l’estrema
volgarità” del tono del nostro articolo dove
denunciamo questa pretesa “Frazione Interna” (FICCI)
come una banda di “mascalzoni”.
In realtà, se il BIPR gioca a fare la
verginella indignata [2]
non è perché avrebbe, da parte sua, delle maniere
più “distinte”, da “gentlemen”, ma
unicamente perché cauziona e fa propri i metodi della
FICCI. E’ per questo che il BIPR non ha trovato niente da
ridire né sulla volgarità del testo della FICCI
intitolato “L’ignominia non ha limiti”,
né sulla “estrema volgarità” dei
metodi di questi piccoli teppisti che non hanno nessuno scrupolo a
lanciare appelli a pogrom contro le nostre presunte “porcherie”
e contro nostri militanti qualificati come “porci”
[3].
In effetti, questa “Risposta” del BIPR alle “stupide accuse” della CCI mira in primo luogo a giustificare il furto del nostro archivio di indirizzi da parte di un membro della FICCI con i seguenti argomenti: “se dei compagni dirigenti della CCI – che come tali disponevano del file di indirizzi dell’organizzazione – rompono con la organizzazione stessa, dichiarando per di più di voler recuperare i compagni alla “retta via” e si tengono il file di indirizzi, non si tratta di furto. Il falso moralismo della CCI odora dunque di ipocrisia, quando è la stessa CCI a lanciare accuse di ogni genere a chi l’abbandona”.
Questo tentativo di “giustificazione” degli atteggiamenti da gangster della FICCI ci spinge a fare diverse considerazioni:
1) Il nostro archivio di indirizzi, esattamente come i soldi e ogni altro materiale politico, appartiene all’organizzazione come tale e non agli individui che la compongono. Questo è un principio elementare di funzionamento di tutte le organizzazioni rivoluzionarie. E il BIPR lo sa bene! E’ per questo che si rifiuta di rispondere alla nostra lettera dell’1/10/04 nella quale noi ponevano, tra le altre, le seguenti domande:
- Come è arrivato agli indirizzi dei nostri abbonati, che avevano dato il loro indirizzo solo alla CCI, il volantino di convocazione della riunione pubblica del BIPR del 2 ottobre a Parigi?
- “Come avrebbe reagito il BIPR, se la CCI avesse avuto nei suoi confronti lo stesso comportamento, se noi avessimo dato il nostro sostegno e la nostra complicità al furto dell’archivio di indirizzi da parte di un suo ex membro”, accettando che esso fosse utilizzato “per invitare i suoi abbonati alle nostre riunioni pubbliche”? (Lettera della CCI al BIPR, pubblicata sul nostro sito internet).
2) Nel caso in cui il BIPR non fosse d’accordo con il principio secondo cui questo materiale appartiene all’organizzazione e non agli individui, allora vuol dire che, con il pretesto di proseguire un lavoro politico, il militante incaricato della tenuta dei soldi potrebbe tranquillamente andarsene con la cassa se egli fosse escluso o se rompesse con l’organizzazione. Questa è la visione di certi anarchici e dei sottoproletari, non delle organizzazioni del proletariato.
Vogliamo ricordare al BIPR che la banda di mascalzoni della FICCI non si è accontentata di rubare il nostro archivio di indirizzi, ma ha anche rubato i soldi della CCI. Essa ha sottratto dei fondi dell’organizzazione rifiutandosi di rimborsare il prezzo dei biglietti aerei che erano serviti a far venire a Parigi due delegati della nostra sezione messicana: questi sono stati prelevati all’aeroporto di Roissy dai teppisti della FICCI che hanno impedito loro di partecipare alla nostra Conferenza Straordinaria nell’aprile 2002 (vedi il nostro articolo su Rivoluzione Internazionale n. 126, giugno 2002).
Leggendo gli argomenti usati dal BIPR per giustificare il furto del nostro materiale politico, oggi siamo in diritto di porre la domanda: è anche con il denaro rubato alla CCI che il BIPR ha potuto pagare il fitto della sala per tenere la sua riunione pubblica del 2 ottobre a Parigi (visto che il BIPR ha organizzato questa riunione con l’aiuto materiale della FICCI)?
3) L’argomento del BIPR secondo cui i “compagni dirigenti” potevano portarsi via tutto il materiale che avevano in affidamento, dal momento che non erano riusciti a convincere gli altri della validità delle loro posizioni, è totalmente estranea al movimento operaio. Questa politica ha un nome preciso: è la politica distruttrice della “terra bruciata”. Poiché non si riesce a far valere le proprie posizioni, allora si deruba l’organizzazione, si fa man bassa del suo materiale politico per cercare di sabotare la sua attività [4].
Questi metodi da teppisti, la CCI li ha già denunciati pubblicamente nel 1981, al momento dell’ ”affare Chenier”. Allora, le due organizzazioni che avrebbero poi costituito il BIPR (Battaglia Comunista e la Communist Worker’s Organisation) avevano ancora un minimo di rispettabilità e non volarono in aiuto né del cittadino Chenier né del gruppo parassitario Communist Bullettin Group. Non levarono grida contro la “estrema volgarità” quando noi denunciammo in questi termini i comportamenti da piccoli teppisti di Chenier e soci: “Questi compagni (quelli della ex sezione della CCI di Aberdeen) avevano conoscenza delle manovre di Chenier da mesi e hanno giustificato il furto, una volta che questo si è compiuto, come ‘normale in caso di scissione’. La nostra condanna di queste pratiche veniva qualificata come ‘reazione di piccoli borghesi proprietari (…) Nei primi numeri di ‘The Bulletin’, il CBG rivendicava questo comportamento divulgando pettegolezzi tanto vili quanto stupidi contro la CCI (…) quando si ha una scissione, si può rubare quello che si vuole, ma quando poi si ha un proprio gruppo, allora si può farla da padroni… l’accesso alla proprietà rinsavisce i piccoli teppisti (…) Quali sono le posizioni del CBG? Ecco un altro gruppo la cui esistenza è parassitaria. Che rappresenta di fronte al proletariato? Una versione provinciale della piattaforma della CCI con la coerenza in meno e il furto in più.” (Révue Internationale n.36, “Risposta alle risposte”). Quello che noi affermavamo venti anni fa a proposito dei metodi da teppisti del CBG si applica perfettamente alla FICCI.
Sia ben chiaro: la CCI non ha rinunciato a recuperare, in un modo o nell’altro, il denaro rubato dalla FICCI [5]. Essa adotterà, al momento opportuno, la stessa politica che ha messo in atto più di venti anni fa per il recupero del materiale rubato da certi elementi della tendenza Chenier, e specificamente quelli che avrebbero costituito il CBG [6].
4) È proprio perché si tratta di una regola elementare di funzionamento delle organizzazioni del proletariato che i nostri Statuti affermano che ogni militante che abbandona l’organizzazione (che sia per propria volontà o per esclusione) è tenuto a restituire alla CCI tutto il materiale che gli era stato affidato per svolgere i suoi compiti: “il militante non fa ‘investimento’ personale nell’organizzazione da cui attendersi dei dividendi o che egli potrebbe ritirare se la abbandona. Sono quindi da escludere come totalmente estranee al proletariato tutte le pratiche di ‘recupero’ di materiale o di fondi dell’organizzazione anche in vista della costituzione di un altro gruppo politico.” (“Rapporto sulla struttura e il funzionamento dell’organizzazione dei rivoluzionari”, Révue Internationale n.33). I membri della FICCI sanno dunque perfettamente che portando via il nostro archivio di indirizzi (e rubando i soldi dell’organizzazione) hanno utilizzato una pratica “totalmente estranea al proletariato”. Hanno violato i nostri Statuti e hanno così ROTTO con la CCI, mettendosi essi stessi al di fuori dell’organizzazione, prima ancora di essere esclusi.
Ed è per questo, tra l’altro, che essi hanno rifiutato di fare appello a un Jury d’Onore (vedi il nostro articolo, pubblicato sul sito web, “Il jury d’onore: arma di difesa dei militanti e delle organizzazioni comuniste”).
5) Il BIPR usa ancora un altro argomento per giustificare questo furto: è perché erano dei “compagni dirigenti” che, “come tali”, i membri della FICCI potevano arrogarsi il diritto di portare con sé il materiale appartenente all’organizzazione. Così, i “dirigenti” avrebbero dei diritti e dei privilegi che non hanno i “militanti di base”! Questa concezione elitaria e burocratica appartiene alle organizzazioni borghesi (e in particolare a quelle staliniste), ma non a quelle della classe operaia!
Teniamo a segnalare, di passaggio, che la CCI non ha la visione piramidale del BIPR dei membri “dirigenti” (per noi esistono membri degli “organi centrali”). D’altra parte non è “come tale” (cioè come membro “dirigente”) che la CCI aveva affidato il suo archivio di indirizzi ad un attuale membro della FICCI. La CCI gli aveva affidato questo archivio in quanto militante incaricato di fare le spedizioni delle pubblicazioni ai nostri abbonati. Se abbiamo affidato a quella che il BIPR chiama “compagno dirigente” (cosa che ha fatto molto ridere i militanti della CCI!) la responsabilità molto importante di questo compito è solo perché se la cavava molto bene [7].
Attraverso gli argomenti contenuti in questa “Risposta” alle nostre “stupide accuse” scopriamo in realtà la complicità del BIPR in questo furto. Il BIPR ci dice in effetti che la FICCI aveva il diritto di conservare questo archivio di indirizzi al fine di poter “recuperare i compagni alla retta via” [8]. Questo comportamento non mira solo ad “assolvere” i comportamenti ignobili della FICCI. Mira anche e soprattutto a giustificare i tentativi di sabotaggio e di destabilizzazione della CCI portati avanti dal BIPR, alle nostre spalle, da più di due anni.
Nel bollettino n.9 della FICCI i nostri lettori potranno scoprire le manovre del BIPR consistenti nell’incoraggiare questa banda di mascalzoni a proseguire i suoi attacchi contro i nostri organi centrali e contro i nostri militanti al fine di guadagnare il massimo di compagni a…”la retta via”!. Invitiamo i nostri lettori a fare riferimento al “Resoconto della riunione del 17/03/02 tra la frazione e il BIPR”, pubblicato in questo bollettino n. 9 (disponibile sul sito internet della FICCI). Vi troveranno gli “argomenti” a giustificazione del furto del nostro archivio di indirizzi: per la FICCI si trattava di inviare ai militanti della CCI la propria prosa ripugnante (con la benedizione del BIPR), al fine di “aprire gli occhi dei militanti della CCI che nell’immediato si sono imbarcati in una dinamica consistente nel ‘seguire senza avere dei dubbi’ nei confronti degli OD (“Organi Decisionali”) della CCI (…) Il BIPR ha approvato questo orientamento” nei seguenti termini: “Voi dovete proseguire la vostra battaglia contro le derive attuali e per la restaurazione delle acquisizioni organizzative e politiche della CCI”.
Così veniamo a sapere che non solo il BIPR ha incoraggiato la FICCI a fare il suo sporco lavoro (consistente nel riempire le cassette postali dei nostri compagni e dei nostri simpatizzanti con le loro infami calunnie), ma, in aggiunta, il BIPR ha appoggiato e sostenuto questa battaglia… “per la restaurazione delle acquisizioni organizzative e politiche della CCI”. I nostri lettori potranno così farsi essi stessi un’idea della duplicità e dell’incredibile (ma vero!) doppio linguaggio del BIPR: da un lato, esso pretende (ipocritamente) di essere interessato a difendere le “acquisizioni organizzative e politiche della CCI”, dall’altra afferma (nella sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”) di voler convincere la FICCI che la “debolezza intrinseca” della CCI risiede in “questioni metodologiche di base che da sempre ci separano dalla CCI .”
E l’ipocrisia raggiunge il culmine quando, nello stesso momento in cui sosteneva la FICCI nella sua battaglia contro la nostra presunta “direzione liquidazionista” (così si esprime la FICCI), il BIPR scriveva: “Non tocca a noi dare torto o ragione nei contenziosi organizzativi/disciplinari della CCI” (vedi il testo del BIPR, del febbraio 2002, pubblicato in diverse lingue sul suo sito Internet, “Elementi di riflessione sulle crisi della CCI”).
Si comprende allora molto meglio perché il BIPR non poteva condannare il furto del nostro archivio di indirizzi. Esso era semplicemente interessato a utilizzare la FICCI (e i suoi metodi vergognosi) non solo come sergente reclutatore per la sua propria bottega, ma per tentare di seminare scombussolamento all’interno della CCI.
È chiaro che non è (come pretende il BIPR) il “falso moralismo” della CCI, ma l’abbandono da parte del BIPR di ogni morale proletaria che “odora di ipocrisia”!
E, lo ripetiamo al BIPR ancora una volta (pronti a scioccare di nuovo il suo pudore da verginella): quando si va a letto con una donna di facili costumi, non bisogna sorprendersi se ci si prende la blenorragia.
Nel punto 2 della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR afferma, sempre a proposito del furto del nostro archivio di indirizzi che sono serviti a inviare l’avviso della sua riunione pubblica del 2 ottobre, che “Non è dunque alla CCI, né a nessun altro, che dobbiamo rendere conto del nostro agire politico” e il BIPR stigmatizza la “pretesa della CCI di rifarsi a presunte tradizioni della Sinistra Comunista”, cosa che gli sembra “patetica”.
Quello che a noi sembra patetico è piuttosto il constatare che il BIPR, rendendosi complice della FICCI, ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. È per questo che esso è sul punto di buttare alle ortiche non solo la tradizione della Sinistra Comunista, ma i principi elementari del movimento operaio, per adottare la legge della giungla!
Alla questione posta dai nostri abbonati, “come ha ottenuto il BIPR il loro indirizzo?”, ecco la risposta che viene data loro: circolate, il BIPR non ha conti da rendere a nessuno sul suo “agire politico”!
I “dirigenti” del BIPR pensano di non dover render conto di niente ai militanti della propria organizzazione (che non hanno partecipato a questa riunione pubblica o che sono stati sorpresi dall’apprendere che l’invito del BIPR era stato inviato a delle persone di cui non avevano l’indirizzo)? A meno che questo “agire politico” sia conforme agli Statuti del BIPR o che i suoi militanti “seguano” ciecamente la politica (completamente irresponsabile!) dei loro “dirigenti” … “senza porsi alcun dubbio”?
Nel primo punto della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR comincia con l’affermare che i suoi contatti con la FICCI “esistono e resistono”, con il seguente argomento: “vorremmo evitare che l’ennesima scissione della CCI con relativa perdita di dirigenti della ‘vecchia guardia’ si risolvesse con la nascita di un altro gruppo dissidente della CCI e rivendicante la sua ortodossia”.
Intenzione molto buona da parte del BIPR (e siamo veramente toccati da tanta sollecitudine!), ma l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Il BIPR vorrebbe farci credere che è per evitare la nascita di un nuovo gruppo parassitario (perché anche se si rifiuta di ammetterlo, le cose vanno chiamate con il loro nome!) che starebbe tentando di convincere la FICCI ad abbandonare le posizioni programmatiche della CCI [9]. In realtà, il BIPR discute con i membri della FICCI per reclutarli.
E non vediamo perché il BIPR ha bisogno di tali contorsioni per mostrare la sua “buona fede”. In tutta evidenza il BIPR non ha più la minima dignità: oggi si è ridotto a… fare l’immondezzaio della CCI!
Da parte nostra vogliamo rassicurare il BIPR: il nostro obiettivo non è per niente quello di sabotare i suoi tentativi di “raggruppamento” (come gridano a destra e a manca la FICCI e il suo fratello gemello, il “Circolo” di Argentina). Se noi difendessimo un punto di vista di “piccola bottega”, non ci sconvolgerebbe proprio che il BIPR integrasse i membri della FICCI nei suoi ranghi. Renderebbe un grande servizio alla CCI sbarazzandoci di questo gruppuscolo parassitario che non cessa di sporcare il nome della CCI rivendicando la nostra stessa piattaforma.
La sola ed unica ragione per la quale abbiamo messo in guardia il BIPR contro i giochi di seduzione della FICCI è la seguente: volevamo evitare che una organizzazione della Sinistra Comunista sbeffeggiasse (ma ormai è troppo tardi) i principi proletari cauzionando i metodi di questa banda di teppisti. Ma se il BIPR vuole discreditarsi raggruppandosi con questi elementi, nessuno può impedirglielo. Come dice il proverbio: “non si può far bere un asino che non ha sete” !
Ancora una volta, prima il BIPR arriverà a “convincere” la FICCI a mollarci e meglio sarà! Sfortunatamente il BIPR, rifiutandosi di tener conto della nostra analisi del fenomeno del parassitismo (che non fa che riprendere quella che Marx aveva messo in evidenza a proposito dell’Alleanza di Bakunin all’interno dell’AIT), si priva di un’arma che potrebbe evitargli di lasciarci tutte le penne in questa sordida avventura. Esso continua a correre dietro la FICCI sperando di acchiappare la carota che questa gli tende per farlo avanzare: la prospettiva di una futura sezione del BIPR a Parigi ed in Messico!
In tutta evidenza la FICCI non ha nessuna intenzione di lasciarsi “convincere” dal BIPR e ancor meno di raggiungere i suoi ranghi. Tanto è vero che questi parassiti continuano a dire, con malsana ossessione, che loro non hanno “rotto con la CCI”. Infatti nel suo Bollettino (n. 28) la FICCI sbandiera un disaccordo con il BIPR: contrariamente a quanto afferma quest’ultimo nella sua “Risposta” alle “stupide accuse” della CCI, la FICCI ha giudicato necessario fare “giusto una piccola precisazione rispetto a ciò che dice il BIPR: noi non abbiamo rotto (con la CCI), noi siamo stati esclusi”. Siamo desolati per il BIPR e speriamo che si dimetterà da questa grossa delusione. Non possiamo che invitarlo ad abbandonare le sue illusioni: i membri della FICCI non possono raggiungere i ranghi del BIPR perchè, come affermano ancora una volta nel loro Bollettino n. 28 “la frazione È la CCI!: “noi, frazione, siamo la CCI!”. Non si può chiedere al BIPR di ricondurre alla realtà un folle che si crede Napoleone perchè questa è la sua sola ragione di esistenza. Siamo tuttavia costernati nel vedere che, incancrenito dal suo proprio opportunismo, il BIPR non è neanche capace di percepire il carattere totalmente delirante dell’universo mentale di questa pretesa “frazione”.
A proposito delle nostre “Tesi sul parassitismo”, il BIPR ci dice ancora una volta: “mentre nel mondo succede di tutto e di più, la CCI non trova niente di meglio da fare che scrivere delle “tesi” sulle sue beghe interne”.
Qualsiasi lettore serio potrà comparare il nostro resoconto della riunione pubblica del 2 ottobre pubblicato dalla CCI con quello del BIPR (sul sito Internet di Battaglia Comunista). Vedrà che sull’analisi delle radici della guerra in Iraq, il BIPR non è stato capace né di rispondere alle questioni poste nella sua riunione pubblica, né di confutare gli argomenti avanzati dalla CCI (vedi su Rivoluzione Internazionale n. 138 di prossima pubblicazione, “Il vuoto politico e l’assenza di metodo del BIPR”)! Anzi, di fronte allo scatenarsi della barbarie guerriera e di un caos sanguinoso in Iraq, in Medio Oriente, in Africa, il BIPR non trova niente di meglio oggi che rimettere in discussione l’analisi della decadenza del capitalismo (elaborata dall’Internazionale Comunista). Non trova niente di meglio che rilanciare la propaganda degli economisti borghesi al fine di consolare (e mistificare) il proletariato facendogli credere che questo modo di produzione avrebbe ancora dei giorni luminosi davanti a sé!
Quanto alla critica delle nostre “Tesi” sulle nostre “beghe interne”, il BIPR dovrebbe innanzitutto indirizzarla a Marx: nel momento in cui nel mondo c’era un avvenimento così importante come la Comune di Parigi del 1871, Marx non aveva “niente di meglio da fare” che convocare una Conferenza a Londra consacrata essenzialmente alle questioni di organizzazione ed esaminare in particolare il caso di Bakunin e del suo gruppo parassita, l’Alleanza della Democrazia Socialista! Allo stesso modo, il solo congresso dell’AIT dove Marx è stato presente, quello dell’Aia nel 1872, è stato essenzialmente consacrato, soprattutto sotto la sua spinta e quella di Engels, all’esame delle questioni organizzative e di funzionamento. Ed ancora, l’anno seguente, Marx Engels e Lafargue hanno dedicato un tempo ed un’energia considerevoli per redigere un grosso libro sulle azioni occulte del cittadino Bakunin e dei suoi complici (intitolato “L’Alleanza della Democrazia Socialista e L’Associazione Internazionale dei lavoratori”). E che dire di Lenin che, dopo il secondo congresso del POSDR, non ha trovato “niente di meglio da fare che scrivere” non qualche “Tesi” ma un libro intero (“Un passo avanti, due passi in dietro”) sulle “beghe interne” del POSDR?
Il BIPR non ha mai capito (per la sua incapacità a riappropriarsi di queste esperienze della storia del movimento operaio) che la questione del comportamento politico dei militanti comunisti è una questione di principio. È per questo che è lui (e non la CCI!) ad essere minacciato dalla “disintegrazione” [10]. Facendo causa comune con degli elementi che non hanno niente di meglio da fare che scrivere centinaia di pagine di calunnie contro la CCI ed i suoi militanti (vedi tra l’altro il romanzo poliziesco della FICCI intitolato “Storia dell’SI”), il BIPR è oggi condotto a riappropriarsi di un “modo politico di agire” totalmente estraneo al proletariato, basato non solo sul furto, ma anche sulla menzogna e la calunnia.
Il BIPR utilizza la menzogna e la calunnia
Nel punto 5 della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR afferma che non ha mai cercato di “speculare” sulle accuse di stalinismo mosse dalla FICCI: “respingiamo come ridicole le ‘messe in guardia’ da parte di una organizzazione che ... ogni volta (raccoglie) accuse di opportunismo e di stalinismo sulle quali non abbiamo mai cercato di speculare”.
Questa affermazione è una grossa menzogna. Rimandiamo ancora una volta i nostri lettori al Bollettino n° 9 della FICCI nel quale il BIPR accredita in questi termini la “tesi” della FICCI secondo la quale la CCI sarebbe entrata in un processo di “degenerazione staliniana”: “E’ evidente per noi (il BIPR) che c’è stato un processo di eliminazione di militanti. Una eliminazione della vecchia guardia della quale resta solo Peter (...) il cammino sarà breve, la tendenza a escludere è già innestata in modo irreversibile” [11].
Così, non solamente il BIPR è preso in flagrante menzogna quando pretende oggi con la mano sul cuore di non avere “mai speculato sulle accuse di stalinismo” contro la CCI, ma si fa egli stesso portavoce di dicerie calunniose appena celate contro uno dei nostri compagni, il “liquidatore in capo” (per riprendere una delle espressioni favorite della FICCI) che , come Stalin, avrebbe “eliminato la vecchia guardia”!
Ed è ancora questa “metodologia nauseabonda” basata sulla menzogna e la calunnia che ha portato recentemente il BIPR a pubblicare sul suo sito Internet (in tre lingue!) il testo calunnioso del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” d’Argentina (che come abbiamo dimostrato non è altro che una gigantesca impostura).
Nonostante la pubblicazione sul nostro sito Internet della Dichiarazione del NCI del 27 ottobre, il BIPR continua a divulgare la menzogna che il NCI avrebbe, come la FICCI, “rotto con la CCI” (vedi il sito Internet di Battaglia Comunista). Ancora una volta il BIPR prende i suoi desideri per realtà.
Benché il NCI abbia inviato loro questa Dichiarazione (nella quale afferma che i testi del “Circulo” sono “delle menzogne e delle calunnie vergognose lanciate contro la CCI”), il BIPR non ha mai ritenuto necessario ritirare dal suo sito Web il testo del “Circulo” che denuncia la presunta “metodologia nauseabonda della CCI”. Il che significa che esso insiste e persiste nell’utilizzazione della menzogna e della calunnia.
La ragione di una tale politica di natura borghese la si può trovare, ancora una volta, nel Bollettino n° 9 della FICCI. I nostri lettori vi scopriranno che, nel marzo 2003, il BIPR e la FICCI avevano iniziato ad elaborare di concerto una strategia politica mirata a distruggere la CCI.
Si apprende infatti dalla bocca del BIPR che “se noi siamo portati a concludere che la CCI è diventata una organizzazione ‘non valida’, allora il nostro scopo sarà fare di tutto per spingere alla sua sparizione” (sottolineato da noi).
Ecco perchè, e con quale “progetto politico”, i contatti del BIPR con la FICCI “esistono e resistono”!
È con l’obiettivo enunciato chiaramente di “fare di tutto per spingere alla sua sparizione” (quella della CCI) che il BIPR si è gettato a capofitto (come la FICCI) sul testo calunnioso di un impostore (il presunto “Circulo de Comunistas Internacionalistas”).
Il BIPR è veramente piazzato molto male per poterci dare lezioni di “vero moralismo”. La sua critica di “falso moralismo” serve solo a nascondere questa deplorevole realtà: il BIPR ha adottato la “morale” antiproletaria degli ipocriti per la quale il fine giustifica i mezzi!
Per distruggere la CCI ed eseguire la sentenza che lui stesso ha emesso contro la nostra organizzazione, il BIPR è pronto oggi (e ne ha già dato prova) ad utilizzare i metodi sordidi della propaganda borghese.
Per arrivare ai suoi scopi, non solo ha fatto alleanza con i mascalzoni della FICCI e con il mitomane manipolatore del “Circulo” d’Argentina, ma tende sempre più ad adottare i comportamenti nauseabondi del “tutto è lecito”!
Se possiamo dare un consiglio al BIPR è quello di spazzare prima davanti alla sua porta: mentre “al mondo” è successo “ di tutto è di più” dall’11 settembre, il BIPR non ha trovato niente di meglio da fare che spettegolare con la FICCI su l’eliminazione della “vecchia guardia”della CCI. Non ha trovato niente di meglio che grattarsi la testa per sapere “se la CCI è oggi moribonda” (Lettera del BIPR alla Frazione, pubblicata nel Bollettino n° 19 della FICCI). Non ha trovato niente di più interessante da leggere dei romanzi polizieschi della FICCI infarciti di piccoli dettagli “stuzzicanti” sullo “stile” o la vita personale di questo o quel militante della CCI!
E oggi, mentre ancora “al mondo succede di tutto e di più”quali sono le ultime bizzarrie di questo gruppo che ha ancora la pretesa e la sfacciataggine di presentarsi al mondo intero come... il solo “polo serio” della Sinistra comunista? Non ha trovato niente di meglio da fare che sottomettere alla “discussione” sul suo sito Internet, in tre lingue, le elucubrazioni di uno psicopatico (le cui menzogne sono tanto imponenti quanto l’assenza di scrupolo). Tutto questo per sapere se... le nostre telefonate ai militanti del NCI d’Argentina (di cui il BIPR non conosce neanche il contenuto!) sarebbero una nuova conferma della “degenerazione staliniana” della CCI!
Oggi perdendosi dietro alla FICCI, il BIPR ha messo una bomba in casa propria. Non possiamo che ringraziare la FICCI di averci delucidato, grazie ai suoi “bollettini”, sulle intenzioni del BIPR di “fare di tutto per spingere alla sparizione” della nostra organizzazione. Per una volta la sua delazione ha fatto un piacere alla CCI!
Se non vuole auto affondarsi, è ormai tempo che il BIPR ponga fine alle sue “riflessioni” (e stupide speculazioni!) “sulle crisi della CCI” per fare innanzitutto una riflessione sulle cause delle proprie delusioni organizzative e sulla sua deriva attuale.
E’ la sola “metodologia” che possa (forse?) permettergli di sfuggire al destino al quale il suo opportunismo congeniale lo condanna da sempre.
E’ ormai tempo, infine, che il BIPR riconosca che malgrado la sua alleanza diplomatica e “tattica” con la FICCI, non ha i mezzi per le sue ambizioni: “spingere alla sparizione della CCI” per essere il “solo polo di raggruppamento” della Sinistra comunista. Più il BIPR gracida con questa banda di mascalzoni (e il suo piccolo clone degenerato d’Argentina), e più si incammina non verso una “lenta ma sicura aggregazione di forze rivoluzionarie” (come afferma nella sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”), ma verso la stessa fine tragica (e grottesca) di quella della... rana che voleva diventare più grossa del bue!
CCI (18/11/04)
Note:
1. Bureau Internazionale per il
Partito Rivoluzionario, organizzazione che si richiama alla
tradizione della Sinistra comunista d’Italia e che è
composta principalmente dalla Communist Workers’
Organisation (CWO) in Inghilterra e da Battaglia Comunista in
Italia.
2. Nelle prime righe della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR si copre di ridicolo: strilla come un’aquila e si scandalizza per il fatto che la CCI abbia potuto utilizzare (nel suo articolo “Il BIPR preso in ostaggio da mascalzoni!”) delle parole così “volgari” come... “mascalzoni”, “dote matrimoniale”, “donna di facili costumi” o ancora “blenoraggia”! Visibilmente il redattore di questa “Risposta” alla CCI non conosce bene la lingua francese poiché nessuno di questi termini è volgare. In più, il redattore avrebbe potuto evitare di ridicolizzare un testo ufficiale del BIPR che è stato tradotto in più lingue e secondo il quale il termine “corbeille de mariage” (dote matrimoniale) è messo nella rubrica dei detti volgari!
3. Vedi il testo della FICCI pubblicato sul suo sito Internet “l’ignominia non ha limiti” che introduce la Dichiarazione del “Circulo” del 2 ottobre. Curiosamente questo testo è scomparso dal sito in francese della FICCI (ed esiste solo in lingua inglese e spagnola). Per fortuna ne abbiamo conservato delle copie e potremo inviarle ai lettori che ne faranno richiesta. Tuttavia bisogna segnalare che gli appelli al pogrom lanciati da questi mascalzoni hanno incominciato ad incontrare una certa eco, come testimonia una lettera anonima di minacce, inviata all’inizio di novembre al nostro indirizzo e-mail in Spagna. I nostri lettori potranno trovare la lettera, tanto volgare quanto nauseabonda di questo “sciacallo”, accompagnata dalla nostra risposta, sul nostro sito in lingua spagnola (“Risposta ad una lettera anonima”).
4. La FICCI considera la CCI come sua proprietà privata quando afferma, nel suo Bollettino n° 28, che la CCI è “NOSTRA organizzazione”. Questa è la stessa visione che aveva portato l’ex-militante Michel ad affermare, durante una riunione segreta della quale abbiamo scoperto le note: “Bisogna recuperare gli strumenti di funzionamento”. Bisogna segnalare che se Michel ha preferito ritirarsi piuttosto che raggiungere la “frazione”, è proprio perché lui era riuscito a realizzare (come ha detto chiaramente ad una delegazione della CCI) che “ciò che si è fatto (alle spalle della CCI) è sporco”! E contrariamente ai suoi amici della FICCI, lui ha fatto una uscita un po’ più “onorevole” rimborsando completamente il suo debito alla CCI. Lo stesso per un altro ex-militante (Stanley) che, benché in principio abbia partecipato con i membri della FICCI ad ogni sorta di manovra alle spalle dell’organizzazione, si è distaccato dalla FICCI ed ha rimborsato tutto il denaro che doveva alla CCI.
5. E non vediamo nessun inconveniente nel fatto che il BIPR apporti la sua “solidarietà” alla FICCI aprendo una sottoscrizione per aiutarla a rimborsare il suo debito alla CCI!
6. È d’altronde con la stessa intransigenza e la stessa determinazione che, nella primavera 2002, la CCI ha potuto recuperare i propri archivi depositati nella seconda casa di un membro della FICCI, mentre questo piccolo mascalzone si apprestava a “traslocarle”. Teniamo a segnalare che il recupero dei nostri archivi si è svolto in tutta tranquillità: il cittadino Olivier membro “dirigente” della FICCI, ce li ha restituiti senza la minima resistenza o protesta.
7. Almeno fino al 14° congresso della CCI. Dopo, di fronte al disconoscimento crescente dell’organizzazione rispetto ai suoi comportamenti, lei ha iniziato a sabotare questo lavoro ed è per questo che le è stato tolto l’incarico. Tuttavia lei ha conservato a nostra insaputa (e con premeditazione) una copia dell’archivio degli abbonati, e ciò ancor prima che si costituisse la pretesa “frazione”.
8. Di passaggio, bisogna segnalare che i membri della FICCI non hanno mai fatto nessuno sforzo per convincere il resto della CCI della loro “retta via”. Tutto al contrario: è il loro atteggiamento apertamente distruttivo e di “terra bruciata”, il loro uso sistematico della menzogna e del ricatto, i loro colpi bassi e le loro manovre sordide che li hanno isolati dalla totalità dei militanti della CCI, ivi compreso da quelli che all’inizio erano più sensibili ai loro argomenti. Mentre la CCI li chiamava ad esprimere apertamente i loro disaccordi nei nostri bollettini interni e nelle nostre riunioni regolari, loro hanno preferito far circolare tra “iniziati” dei documenti che si sono rifiutati di comunicare al resto dell’organizzazione ed hanno tenuto delle riunioni segrete destinate a complottare per “destabilizzare” (secondo le parole di uno di questi paladini della virtù) l’organizzazione. Così come, quando abbiamo proposto loro di pubblicare nella Rivista Internazionale una risposta all’articolo sulla nozione di frazione apparso in questa stessa Rivista (n°108, in lingua francese) che rigettava, sulla base dell’esperienza storica delle frazioni del passato, le concezioni sulle quali loro avevano fondato la “FICCI”, si sono rifiutati di utilizzare questo strumento per convincere i lettori della loro “retta via”.
9. Bisogna sottolineare che nella sua “risposta” alle nostre “stupide accuse” il BIPR inizia a fare un primo schizzo di analisi sul fenomeno del parassitismo. Infatti afferma, giustamente, che la costituzione di un “altro gruppo dissidente della CCI” significherebbe che “un qualunque ‘intellettuale’ con attorno qualche simpatizzante si sente in diritto di fare il suo gruppetto, rubacchiando qua e là idee e posizioni, o di una propria incapacità a tenere assieme i compagni”. Tradendo i nostri principi organizzativi, divulgando calunnie ripugnanti contro i nostri organi centrali e contro i nostri militanti, gli elementi della FICCI hanno rotto con la CCI (e su questo siamo completamente d’accordo con il BIPR!): questi hanno dimostrato la loro “incapacità a tenere assieme i compagni”. “Rubacchiando” i soldi ed il materiale della CCI, “rubacchiando qua e là” (alla CCI ed al BIPR) “idee e posizioni” questi scrocconi non hanno alcun “diritto” di reclamarsi alla Sinistra comunista. Non possiamo che incoraggiare il BIPR a fare ancora un piccolo sforzo per andare fino in fondo alla sua riflessione: questo gruppuscolo auto proclamatosi “Frazione Interna della CCI” non è una emanazione storica del proletariato. Non ha alcuna legittimità e non è nient’altro che un gruppo parassita! Quanto alla caricatura che fa il BIPR della nostra analisi del parassitismo tentando di ridicolizzare le “stupide” accuse della CCI che “grida al complotto della borghesia!”, questa non fa che rivelare una cosa: la sua ignoranza di ciò che Marx denunciava, di fronte ai suoi detrattori, a proposito dell’Alleanza di Bakunin quando affermava (come prova della sua “stupidità”?) che la lotta del Consiglio Generale dell’AIT contro Bakunin era un “complotto del sole contro l’ombra”!
10. Nel giugno 1897, di fronte alle voci di corridoio che annunciavano il suo decesso, lo scrittore americano Mark Twain rispose: “La notizia della mia morte è stata enormemente esagerata” (“The reports of my death have been greatly exaggerated”). Possiamo dire al BIPR che la notizia della nostra “disgregazione” è anch’essa “enormemente esagerata”. Sarebbe tempo, una volta per tutte, che i militanti del BIPR la smettessero di credere alle storie Horror (così come ai racconti delle fate) che racconta loro la FICCI. Non ne hanno più l’età.
11. Ci teniamo a fare una piccola messa a punto per ristabilire la verità:
a) L’idea veicolata dal BIPR secondo la quale non resta che un solo “membro fondatore” (Peter) all’interno della CCI è una pura menzogna. Consigliamo al BIPR di verificare d’ora in avanti la veridicità delle informazioni che gli fornisce la FICCI perchè, come diceva Lenin, “quello che crede sulla parola è un incorreggibile idiota”.
b) Il fatto di essere membro fondatore non significa affatto essere immunizzati contro il tradimento. Bisogna ricordare al BIPR che tra i sei membri fondatori dell’Iskra (che avevano ben altra tempra che questa banda di mascalzoni!), quattro hanno tradito e sono passati nel campo borghese al momento della prima guerra mondiale. Lenin è il solo membro dell’Iskra rimasto fedele fino alla fine alla causa rivoluzionaria.
Infine, bisogna ristabilire un’altra verità: i membri della FICCI non sono dei “dirigenti della vecchia guardia” come pretende il BIPR. Nessuno di questi elementi è stato un membro “fondatore di Révolution Internationale” (antenata della CCI insieme alla sezione in Venezuela) come sono andati raccontando in giro per “farsi esaltare” con incredibile presunzione. Neanche il più anziano tra di loro, l’uomo invisibile (e “padre fondatore” della FICCI), il cittadino Jonas: lui aveva lasciato l’organizzazione immediatamente dopo il riflusso del movimento del Maggio 1968 ed è ritornato molti anni dopo, a metà anni 70.
Ed è ancora una volta per evitare di fare chiarezza sulla loro traiettoria all’interno della CCI che i membri della FICCI non vogliono un Jury d’Onore. Questi eroi da fumetto che si prendono per Superman o Wonderwoman preferiscono continuare ad imbrogliare tutti quelli che, come il BIPR, vogliono credere alle loro favole. Il fatto che questi hanno militato per molti anni e sono stati nominati negli organi centrali non ne fa dei “dirigenti della vecchia guardia”.
Nei fatti la FICCI ed il BIPR si lisciano il pelo reciprocamente: il BIPR omaggia i membri della FICCI presentandoli come i “dirigenti” della “vecchia guardia della CCI” e la FICCI lo ripaga proclamando che il BIPR è il “solo serio polo di raggruppamento della Sinistra comunista”. Ecco a cosa si riduce il commercio diplomatico tra il BIPR e la FICCI!
Il BIPR preso in ostaggio da teppisti
Sabato 2 ottobre si è tenuta a Parigi una riunione
pubblica del BIPR(1)
sul tema "Perché la guerra in Iraq?". La CCI ha
salutato questa iniziativa del BIPR, proprio come aveva salutato
la tenuta delle sue riunioni pubbliche a Berlino di cui abbiamo
pubblicato il resoconto nella nostra stampa (vedi Révue
Internationale n°349 e 350). Tuttavia questa riunione del BIPR
a Parigi presentava una singolarità rispetto a quelle che
si sono tenute in Germania: è stata decisa ed organizzata
su suggerimento e con il sostegno politico e materiale di un
gruppo parassitario che si è auto-proclamato "Frazione
Interna della CCI" (FICCI) che ne ha fatto una clamorosa
pubblicità.
È precisamente questa singolarità
che giustifica che, prima di rendere conto della tenuta del
dibattito e degli argomenti scambiati tra il BIPR e la CCI
sull'analisi della guerra in Iraq, abbiamo dedicato la prima parte
di questo articolo alla questione del "lavoro comune"
tra il BIPR e la FICCI annunciato nel Bollettino n° 27 della
FICCI (vedi il "Resoconto di una discussione tra il BIPR e la
frazione").
Questa questione ci sembra tanto più importante da
trattare perché nel suo appello, pubblicato sul suo sito
Internet, la FICCI presentava così questa riunione
pubblica:
"Dall'inizio della crisi che subisce
attualmente la CCI, crisi che è stata la causa della nostra
formazione in 'frazione interna' di questa organizzazione, non
abbiamo smesso di sottolineare una penosa realtà -il grave
indebolimento di un importante polo politico proletario- che si è
manifestata nella regione parigina principalmente per il fatto che
le sue presunte riunioni 'aperte' al pubblico sono disertate o
vietate ad alcuni e soprattutto non sono più dei luoghi
di dibattito e di confronto di punti di vista in seno alla classe.
Abbiamo sottolineato anche che, di fronte alla prospettiva aperta
dalla situazione attuale, il necessario rafforzamento e
raggruppamento delle forze rivoluzionarie del campo proletario non
poteva farsi oggi se non intorno al solo polo serio esistente:
il BIPR (…). Su nostro suggerimento e con il nostro
sostegno politico e materiale, il BIPR si appresta a tenere una
Riunione Pubblica a Parigi (RP che, lo speriamo, non è che
la prima) alla quale chiamiamo tutti i nostri lettori a
partecipare”, (sottolineato da noi).
Si può constatare, in questo manifesto
pubblicitario, che la FICCI non ha giudicato utile scrivere una
sola frase di analisi o di denuncia della guerra in Iraq
(contrariamente al volantino pubblicato dal BIPR). Quest’appello
è dedicato, invece, ad una sola questione: come ricostruire
nella capitale francese un polo di raggruppamento di rivoluzionari
in seguito al crollo della CCI verificato, secondo la FICCI, dal
fatto che le nostre riunioni pubbliche sarebbero disertate "e
non sarebbero più dei luoghi di dibattiti” (il
che è una pura menzogna come possono confermarlo tutti i
simpatizzanti della CCI che vengono regolarmente alle nostre
riunioni pubbliche e di cui una decina era anche presente a quella
del BIPR).
Il BIPR: il solo "polo serio" del
campo politico proletario?
A questa riunione pubblica erano presenti, oltre
la delegazione del BIPR e quattro membri della FICCI (solo
l'elemento Jonas era assente):
- due simpatizzanti della FICCI (di cui uno è
un ex-membro della FICCI);
- un vecchio giramondo del campo consiliarista
anti-partito, che conosciamo da più di trent'anni.
Altre tre persone sono solo passate per
pochissimo tempo e hanno lasciato la sala senza partecipare al
dibattito.
Pertanto questa riunione pubblica, che a dire
della FICCI, doveva essere la prova che il BIPR è oggi il
solo "polo serio" di discussioni e di riferimento della
Sinistra comunista, sarebbe stato un fiasco totale se la CCI fosse
mancata e non avesse invitato i suoi simpatizzanti a parteciparvi.
Infatti erano anche presenti un'importante delegazione di
militanti della CCI ed una decina di simpatizzanti della nostra
organizzazione.
Nei fatti, malgrado la rumorosa pubblicità
fatta per questa riunione pubblica, la FICCI è riuscita a
dimostrare solo una cosa: è riuscita a fare il vuoto
intorno a sé. È la CCI con i suoi simpatizzanti che
ha formato più dei due terzi delle presenze, permettendo di
riempire la sala. Ciò era così evidente che:
- prima della presentazione dell'esposizione, un
militante del BIPR si è avvicinato ad uno dei nostri
compagni e gli ha chiesto: "Perché siete venuti tanto
numerosi?" (2).
- alla fine di questa riunione, il presidium è
stato costretto a chiedere: "a questo punto, quali sono i
compagni che non fanno parte della CCI?". Messi da parte
i nostri simpatizzanti ed i membri della FICCI... si sono alzate
solo tre mani!
La partecipazione a questa riunione pubblica ha
dimostrato che la FICCI (e forse anche il BIPR?) scambia i suoi
desideri per realtà: la CCI non è ancora morta e
sepolta come "polo serio" del campo proletario. La FICCI
non organizza riunioni pubbliche sue proprio perché queste
andrebbero disertate dato che la sua politica consiste solo nel
parassitare quelle dei gruppi della Sinistra comunista!
Ma più importante ancora è
chiedersi: perché, malgrado la pubblicità chiassosa
che ha fatto la FICCI, questa riunione pubblica, annunciata come
uno "scoop", è stata boicottata dai lettori del
Bollettino della FICCI e dai nostri abbonati?
Proprio perché questi ultimi hanno saputo
che la riunione del BIPR veniva organizzata su "suggerimento"
e col "sostegno politico e materiale" di un
gruppuscolo parassitario la cui principale attività
consiste nello scaricare le peggiori calunnie sulla CCI! Uno dei
nostri simpatizzanti ci ha riferito che non avrebbe assistito a
questa riunione pubblica perché non voleva “mettere
i piedi nella merda!"
I soli elementi che la FICCI poteva attirare
erano i propri sostenitori che, di fatto, non erano poi così
numerosi.
Se la FICCI non avesse gridato ai quattro venti
che il BIPR aveva organizzato questa riunione pubblica col suo
"sostegno politico e materiale", altri elementi
in ricerca (che del resto non sono tutti d’accordo con le
nostre posizioni) certamente sarebbero venuti per partecipare al
dibattito.
È una lezione che il BIPR dovrà
trarre da questo smacco: non si è mai meglio serviti se non
da sé stessi. La sua alleanza con la FICCI, che ha
scaricato tonnellate di calunnie sulla CCI comportandosi
apertamente come un gruppo di spioni, che ha rubato il materiale
ed il denaro della CCI, tutto ciò evidentemente ha avuto un
effetto repellente sugli elementi seri vicini alla Sinistra
comunista.
Gli eccessi di zelo della FICCI (e le lisciate
che gli ha fatto) in fin dei conti sono serviti solo a
ridicolizzare il BIPR.
Ciò che la FICCI voleva mettere in
particolare evidenza nel suo manifesto è che senza di lei,
questa organizzazione della Sinistra comunista che esiste a scala
internazionale e da parecchi decenni sarebbe stata incapace di
prendere l'iniziativa e tenere questa riunione pubblica!
È deplorevole che il BIPR non abbia capito
di essere preso in giro dalla FICCI quando, nel suo Bollettino
n°27, questa pretesa "frazione" affermava che sulla
questione della costruzione del partito... "la frazione
difende posizioni più categoriche del BIPR"
("Resoconto di una discussione tra il BIPR e la frazione")!
Ciò significa chiaramente che, pretendendo di difendere le
posizioni più "radicali", la FICCI presenta se
stessa come alla sinistra del BIPR.
In realtà, è proprio per fare la
sua propria pubblicità (e farsi conferire un certificato di
"rispettabilità") che questo gruppuscolo
parassitario ha utilizzato il BIPR come prestanome, facendo
apparire quest’ultimo alla coda della FICCI! È
proprio questo che il BIPR si è rifiutato di ammettere,
malgrado tutti i nostri avvertimenti, prima di celebrare le sue
nozze con la FICCI. Se avesse preso sul serio la CCI, non avrebbe
avuto bisogno di questa esperienza per comprendere, come dice la
favola di La Fontaine che "ogni adulatore vive a spese di
quello che l'ascolta".
Come si è fatto intrappolare il BIPR
dalla FICCI?
Portando il suo "sostegno politico e
materiale" al BIPR per organizzare questa riunione
pubblica, evidentemente la FICCI cercava di farsi riconoscere come
gruppo appartenente al campo politico proletario. Purtroppo, il
matrimonio tra FICCI e BIPR ha avuto per sola conseguenza quella
di coprire il BIPR di ridicolo. Ha inoltre
contribuito a gettare discredito su un'organizzazione della
Sinistra comunista che non era arrivata mai fino ad oggi a
calpestare uno dei principi elementari del movimento operaio: il
rigetto di ogni pratica che utilizza il furto di materiale delle
altre organizzazioni comuniste.
Durante questa riunione pubblica, la CCI ha chiesto di prendere la parola per leggere una lettera che uno dei nostri abbonati ha inviato al BIPR chiedendo a noi di renderla pubblica. Questo compagno (e non è il solo) aveva ricevuto al suo indirizzo personale il volantino del BIPR di invito a questa riunione pubblica. Ci ha espresso il suo stupore (come altri simpatizzanti della CCI che avevano ricevuto l’invito per posta): il BIPR come si è procurato il suo indirizzo che lui aveva dato solo alla CCI? In seguito a questa domanda posta da parecchi dei nostri abbonati, la CCI ha deciso, alla vigilia di questa riunione pubblica, di inviare una lettera di protesta al BIPR (che speriamo non sarà cestinata, come in altre circostanze).
Appena abbiamo posto la questione del furto del nostro schedario di indirizzi, il presidium ha tentato in un primo tempo di toglierci la parola con la scusa che il BIPR "non voleva prendere le parti" tra la CCI e la FICCI perché è un affare "interno" alla nostra organizzazione. Poi, di fronte alla nostra protesta, il presidium ci ha garantito a due riprese, che il BIPR non ha lo schedario di indirizzi degli abbonati di RI (sezione della CCI in Francia) ed ha aggiunto: "anche se ci fosse stato proposto, noi l’avremmo in ogni modo rifiutato". Abbiamo chiesto allora ai compagni del BIPR: "ciò vuole dire che condannate il furto di questo schedario di indirizzi?" Al che, il presidium si è rifiutato di rispondere malgrado la nostra insistenza, e ha dichiarato: "ciò verrà chiarito tra noi la FICCI dopo la riunione pubblica"
Questo incidente richiede parecchie osservazioni:
1) il BIPR ci prende per scemi quando ha la sfrontatezza di affermare di "non volere prendere le parti" in un affare "interno" alla CCI. Dal momento che questa prima riunione pubblica del BIPR a Parigi è stata organizzata col "sostegno materiale e politico" della FICCI, veniamo a sapere che il BIPR e la FICCI hanno cominciato a "gettare le basi per un lavoro comune" (Bollettino n° 27 della FICCI), e dal momento che il BIPR ha da più di sette anni rifiutato ogni lavoro in comune con la CCI (con la scusa fallace che le nostre divergenze sarebbero troppo importanti) bisogna essere sordi e ciechi per non vedere che il BIPR ha preso le parti della FICCI!
2) in quanto al furto dello schedario di indirizzi che appartengono alla CCI, il BIPR sa per certo che non è un problema "interno" alla nostra organizzazione: sono più di due anni che abbiamo denunciato questo fatto nella nostra stampa e reso pubblico!
3) quando il BIPR afferma che anche se la FICCI gli avesse proposto il nostro schedario di indirizzi, lo avrebbe "ad ogni modo rifiutato", ciò significa semplicemente che riconosce e condanna il furto del materiale che appartiene alla CCI. In questo senso, se il BIPR vuole essere coerente, deve trarre le conclusioni che si impongono: ha gettato le basi di un lavoro comune con dei teppisti.
4) il BIPR ha dichiarato che avrebbe "chiarito" questo affare con la FICCI dopo la riunione. Per nostra parte, riteniamo che questo chiarimento non deve restare un "affare interno" al BIPR ma deve essere reso pubblico nella misura in cui:
- il BIPR è stato compromesso nel furto del materiale che appartiene alla CCI dato che questo materiale è stato utilizzato per l'invio del suo volantino come invito alla sua riunione pubblica;
- ha da rendere conto ai nostri abbonati che hanno posto la questione: come mai il volantino del BIPR è arrivato nella loro buca delle lettere?
Da parte nostra non possiamo che prendere atto della dichiarazione secondo la quale il BIPR non avrebbe accettato in ogni modo che la FICCI, per le sue nozze con il BIPR, portasse in dote il "tesoro di guerra" rubato alla CCI.
Evidentemente (e noi crediamo ai compagni del BIPR sulla parola quando ci garantiscono di non avere il nostro schedario di indirizzi) i membri della FICCI hanno fatto un colpaccio alle spalle del BIPR (come ne hanno fatti continuamente alle spalle della CCI quando questi elementi erano ancora membri della nostra organizzazione e facevano riunioni segrete per tentare di “destabilizzarci”!) (3).
Noi speriamo che il BIPR sia capace di tirare le lezioni da questa disastrosa esperienza che, in vano, abbiamo cercato di risparmiargli con tutti i nostri avvertimenti. Quando si va a letto con una donna di “facili costumi”(4), non bisogna stupirsi di acchiappare la blenorragia!
ll commercio del BIPR colla FICCI è evidentemente un mercato di stupidi. Accettando i servigi di questa pretesa "frazione", cedendo alle sue adulazioni e prendendo per oro colato grossolane menzogne, il BIPR ha corso il rischio di perdere non solo ogni credibilità ma anche il suo onore di gruppo della Sinistra comunista.
Invitiamo il BIPR a prendere posizione sulle
nostre "Tesi sul parassitismo" (pubblicate nella nostra
Révue Internationale n°94) in cui abbiamo messo in
evidenza che i gruppi parassiti hanno per principale attività
screditare le organizzazioni comuniste. Facendo uso sia della
calunnia sia dell'adulazione, queste piattole possono vivere
solamente a spese e succhiando il sangue dei gruppi del campo
proletario. Appare chiaro che la funzione parassitaria della FICCI
va ben oltre la CCI. Utilizzando il BIPR per farsi valere (come
aveva fatto con Le Prolétaire nel 2002)(5),
gettando oggi il discredito su questo gruppo, la pretesa
"frazione" non è solamente un parassita della
CCI, ma dell'insieme della Sinistra comunista.
Se il BIPR vuole continuare il suo lavoro comune
con la FICCI, se vuole continuare ad essere il pollo della farsa,
chiaramente non possiamo impedirlo. Per contro la CCI non può
tollerare che esso utilizzi (anche in modo indiretto, attraverso
il suo commercio con la FICCI) il furto e la calunnia contro la
nostra organizzazione ed i nostri militanti per fare la propria
politica di raggruppamento
Dove porta l'opportunismo del BIPR?
La CCI ha sempre stigmatizzato l'opportunismo del
BIPR che l'ha portato, sin dalla sua fondazione, a fare una
politica di raggruppamento senza principi. A più riprese,
lo abbiamo messo in guardia contro il pericolo di far comunella
con elementi e gruppi dell'estrema sinistra del capitale (come il
gruppo iraniano SUCM) o di aver effettuato una rottura incompleta
con l’estremismo (come il Los Angeles Workers' Voice). Oggi,
la collaborazione opportunista del BIPR con la FICCI rivela il
pericolo che minaccia questa organizzazione della Sinistra
comunista. Lasciandosi andare ad utilizzare, per opportunismo, i
metodi di reclutamento dei gruppi della sinistra del capitale
(basati non sul chiarimento aperto e leale delle divergenze
politiche ma su... la pesca all’amo) il BIPR rischia di
allontanarsi sempre di più dai metodi e dalla tradizione
della Sinistra comunista avvicinandosi al trotskismo (6).
Il BIPR ha creduto di potersi servire della FICCI come esca per
acchiappare un grosso pesce a questa riunione pubblica. Non solo è
ritornato a mani vuote dalla sua pesca che sperava miracolosa, ma
ci ha lasciato anche alcune piume.
Ancora più grave è il fatto che la deriva opportunista del BIPR lo porta ora a dare la sua cauzione ad una pratica, totalmente estranea al proletariato, basata sul furto e la calunnia. Se questi metodi sono moneta corrente nei gruppi borghesi, essi sono sempre stati rigettati e condannati dalle organizzazioni del campo proletario.
L'opportunismo "è l'assenza di ogni principio" (Rosa Luxemburg,"Riforma o Rivoluzione"). Facendo alleanza con individui che utilizzano i metodi della borghesia (il furto del materiale che appartiene alla CCI) il BIPR ha perso totalmente di vista un principio che era ancora capace di difendere quando, in seguito alla truffa di cui è stato vittima da parte di un gruppo fittizio in Ucraina (che aveva come obiettivo l'estorsione di fondi) scriveva: "Quando la fine ed i mezzi sono separati, (...) allora è aperta la via verso la controrivoluzione". (Dichiarazione del BIPR sui "Comunisti Radicali di Ucraina", 9 settembre 2003).
Difatti, nella loro lotta per il rovesciamento del capitalismo, i rivoluzionari hanno sempre rigettato la morale borghese dei gesuiti secondo la quale "il fine giustifica i mezzi", per opporre un'etica proletaria in conformità con l’essenza della classe portatrice del comunismo (come, Trotskij, tra altri, lo ha messo in evidenza nel suo opuscolo “La loro morale e la nostra"). È per tale motivo che le organizzazioni rivoluzionarie devono rigettare fermamente ogni politica di raggruppamento che utilizzi il furto del materiale appartenente alle altre organizzazioni comuniste.
Questa pietosa disavventura ha mostrato che il BIPR è stato preso di sana pianta in ostaggio da una banda di teppisti (e ci chiediamo come il BIPR possa liberarsi della rete della FICCI). Speriamo che almeno sarà obbligato a togliersi i paraocchi ed a comprendere finalmente la natura di questa pretesa "frazione"(7).
Ciò che determina la natura proletaria di
un gruppo politico, non è solo il programma che difende (o
che pretende difendere). È anche il suo comportamento
politico, e cioè la sua pratica fondata su dei principi.
Questa visione, che è rigorosamente la nostra, non ha
niente a che vedere con la "psicologia" come pretende la
FICCI. Questo perché, come diceva Marx nelle sue "Tesi
su Feuerbach", "è nella pratica che l'uomo
deve dimostrare la verità, cioè la realtà e
la potenza del suo pensiero".
Di fronte alla pericolosa deriva del BIPR, è
dovere dei militanti comunisti chiamare i compagni di questa
organizzazione al senso di responsabilità. Essi devono
saper valutare qual è la posta in gioco, per l'avvenire
delle organizzazioni rivoluzionarie, di ogni collaborazione
opportunista con i gruppi parassitari, con gli avventurieri, i
teppisti o ancora con i gruppi fantasmi che esistono solamente su
un sito Internet.
Anche se la CCI, per difendere i suoi principi,
continuerà a vietare l'entrata alle sue riunioni pubbliche
ai parassiti senza legge né fede che si sono comportati da
spioni, essa ritiene non essere il solo polo di riferimento della
Sinistra comunista. È per ciò che le nostre riunioni
pubbliche restano sempre aperte al BIPR e che lo invitiamo
vivamente a parteciparvi.
CCI (10 ottobre 2004)
1. Bureau
Internazionale per il Partito Rivoluzionario che raggruppa due
organizzazioni della Sinistra comunista "Battaglia Comunista"
(BC) in Italia e la "Communist Workers' Organisation"
(CWO) in Gran-Bretagna.
2. Come
vedremo nella seconda parte di questo articolo, non è
intorno alle analisi del BIPR, ma intorno a quelle della CCI che
si è svolto il dibattito sulla questione della guerra.
3. Secondo i
termini utilizzati da un membro della FICCI, Olivier, in una di
queste riunioni segrete (di cui abbiamo per caso scoperto le
note).
4. Ammettiamo
che questo paragone tra la FICCI e le donne di “facili
costumi” è piuttosto ingiurioso per... le donne di
“facili costumi”!
5. Vedi il
nostro articolo “A proposito di un articolo pubblicato ne Le
Prolètaire n°463, Il Partito comunista internazionale a
rimorchio della 'frazione' interna della CCI", nella Révue
Internationale n 328).
6. Come
avevamo già evidenziato quattro anni fa nel nostro articolo
"La visione marxista e la visione opportunista nella
costruzione del partito", pubblicato nella nostra Révue
Internationale n°103.
7. I metodi
della FICCI, propri del teppismo, si rivelano ancora più
chiaramente nel vocabolario che essa prende adesso in prestito dal
sottoproletariato (vedi l'articolo pubblicato sul suo sito
Internet "L'ignominia non ha limite!” che costituisce
un vero appello al pogrom contro le nostre pretese "porcherie"
ed i nostri compagni qualificati oggi come..."porci").
Quando le maschere cadono, questa pretesa "frazione"
svela il suo vero volto.
Compagni,
In primo luogo, salutiamo la tenuta di una riunione pubblica del Bipr a Parigi, il 2 ottobre, così come abbiamo salutato qualche mese fa le riunioni pubbliche della vostra organizzazione a Berlino. Non si tratta da parte nostra, come sapete, di un atteggiamento di circostanza: da molti anni, soprattutto in occasione di avvenimenti importanti della situazione mondiale, vi abbiamo fatto proposte affinché possano esprimersi nel modo più esteso possibile le posizioni della vostra organizzazione, offrendovi la nostra ospitalità nelle città dove abbiamo delle sezioni. È per lo stesso motivo che, dopo aver saputo della tenuta della vostra riunione pubblica, abbiamo informato i nostri simpatizzanti.
Su questo soggetto, vogliamo fare una serie di osservazioni:
- non è attraverso una lettera (postale o elettronica) del Bipr alla nostra organizzazione, né attraverso il sito internet del BIPR (dove l’avviso è apparso più tardi), che noi abbiamo appreso della tenuta della vostra riunione pubblica ma attraverso una lettera alla nostra casella postale inviata da un gruppo, la FICCI, la cui essenziale attività consiste nel denigrare la CCI;
- molti nostri abbonati hanno ricevuto ciò che voi non avete considerato utile inviare alla CCI, un invito alla vostra riunione pubblica.
Concernente questo ultimo punto, alcuni di loro ci hanno espresso il loro stupore poiché, non essendo abbonati alle pubblicazioni del BIPR, non gli avevano dato il loro indirizzo. Alcuni di questi compagni si sono scandalizzati per il fatto che il loro indirizzo, che ci avevano confidato, circoli oggi all'infuori dell'organizzazione a cui l'avevano dato.
Da parte nostra, sappiamo con certezza come vi siete procurati questi indirizzi, che provengono dallo schedario degli abbonati che è stato rubato alla CCI da uno dei membri della FICCI. Perciò, protestiamo in modo solenne su questo tipo di metodo: che abbiate informato i nostri abbonati della tenuta della vostra riunione pubblica non ci pone alcun problema, al contrario, poiché noi abbiamo informato tutti i nostri simpatizzanti appena l'abbiamo saputo. In compenso, stimiamo assolutamente inaccettabile che vi siate resi complici del furto del nostro materiale da parte di vecchi militanti della nostra organizzazione. Anche se non difendiamo le stesse posizioni, anche se le nostre posizioni rispettive sono troppo distanti per fare un lavoro in comune (questa non è la nostra opinione), pensiamo che sia necessario rispettare nelle relazioni tra il BIPR e la CCI alcune regole e principi propri alle organizzazioni del campo proletario. Sono queste regole che purtroppo avete violato rendendovi complici del furto del nostro materiale.
Per finire con questo punto, vi poniamo una domanda molto semplice: come avrebbe reagito il BIPR se la CCI avesse avuto nei suoi riguardi lo stesso atteggiamento, se avessimo portato il nostro sostegno e la nostra complicità al furto dello schedario degli indirizzi del BIPR da parte di uno dei suoi anziani membri utilizzandolo per invitare i suoi abbonati alle nostre riunioni pubbliche?
Questo episodio assolutamente spiacevole, nel quale il BIPR si è lasciato andare ad una condotta totalmente inaccettabile, illustra il pericolo che esiste nel collaborare con la FICCI: intrattenendo rapporti politici con persone che si sono comportate come teppisti, si rischia di lasciarsi trascinare ad adoperare dei metodi che non hanno più niente a che vedere con quelle di un gruppo della Sinistra Comunista ma che sono dei gruppi gauchisti.
Più concretamente, se ancora una volta salutiamo la tenuta di questa riunione pubblica, deploriamo che essa sia stata l’occasione per la FICCI di farsi conferire un certificato di rispettabilità.
Nella nostra stampa come nelle nostre corrispondenze col BIPR, abbiamo messo in guardia contro i comportamenti e gli obiettivi di questa pretesa “frazione”. Il BIPR può non credere affatto sulla parola ciò che abbiamo scritto concernente i comportamenti di bugiardi, ladri, ricattatori in seno alla CCI dei membri della FICCI, allo stesso modo può continuare a credere che non hanno mai avuto luogo le campagne nei corridoi che accusano uno dei nostri membri di essere “un poliziotto” (mentre la FICCI non lo ha smentito, come l'abbiamo messo in evidenza nella nostra stampa). Tuttavia, il BIPR ha avuto tutto il tempo di prendere conoscenza, sul sito internet della FICCI, del fatto che questo gruppo si comporta come uno spione che fornisce deliberatamente al mondo intero, e particolarmente ai servizi di polizia, delle notizie confidenziali sull'identità di alcuni nostri militanti. E ciò senza la minima utilità dal punto di vista “strettamente politico”.
Tuttavia, il BIPR ha deciso di passare oltre la nostra messa in guardia, così come non ne aveva tenuto conto, in passato, delle nostre messe in guardia sul Communist Bulletin Group, il SUCM, il Los Angeles Workers' Voice, o l'elemento che chiameremo L. e che, dopo che la CCI ha rifiutato di integrarlo, ha percorso praticamente tutte le organizzazioni della Sinistra Comunista. L'esperienza ha mostrato tuttavia nel meglio l'assenza di serietà, nel peggio il pericolo rappresentato da questi gruppi ed elementi di cui alcuni non si sono privati, in seguito, di coprire di fango il BIPR.
Oggi, le motivazioni della FICCI
appaiono chiaramente, particolarmente con l’avviso che ha messo in evidenza sul
suo sito internet sulla riunione pubblica del BIPR: dopo le denigrazioni
menzognere d’uso contro la CCI (non è vero che le nostre riunioni pubbliche a
Parigi sono “disertate”, al contrario, è da anni che non si vedeva la partecipazione
di tanti elementi esterni ed invitiamo i compagni del BIPR ad assicurarsene
venendo a queste riunioni pubbliche), la FICCI conclude così il suo avviso: “Su
nostro suggerimento e col nostro sostegno politico e materiale, il BIPR terrà
una Riunione Pubblica a Parigi (RP che, lo speriamo, sia solamente la prima)
alla quale chiamiamo tutti i nostri lettori a partecipare”. Insomma, è grazie
alla FICCI che il BIPR terrà una riunione pubblica a Parigi, ecco il messaggio
principale di questo annuncio. In altri termini, è per farsi la sua propria
pubblicità che la FICCI ha portato il suo sostegno alla RP del BIPR.
È anche per farsi conferire un altro
certificato di rispettabilità che la FICCI scrive nel suo Bollettino n° 27
che “questa riunione [che si è tenuta a fine giugno tra la FICCI ed il BIPR] ha
permesso di gettare le basi per un lavoro comune nel quale il dibattito deve
prendere un posto di prima importanza”.
Nella misura in cui:
- la FICCI pretende rappresentare la fedeltà alle posizioni fondamentali della CCI;
- il BIPR, a più riprese, ha rifiutato ogni “lavoro comune” con la CCI a causa proprio dell'importanza dei disaccordi tra le posizioni fondamentali della CCI e le sue proprie posizioni ; poniamo al BIPR la domanda seguente: per quali ragioni il BIPR ha deciso di fare un “lavoro comune” con la FICCI?
La FICCI conosce perfettamente l'obiettivo delle sue proposte di lavoro in comune col BIPR (parimenti con tutte le adulazioni che riversa nei suoi riguardi): farsi riconoscere una "rispettabilità". Quale è l'obiettivo del BIPR nell’accettare queste proposte?
Con chi il BIPR pensa di fare un lavoro
in comune, con gli elementi sinceri che difendono le stesse posizioni della CCI
(come si presentano i membri della FICCI), o con gli elementi che hanno abbandonato
ogni convinzione e ogni morale comunista adottando una condotta di teppisti e
di spioni (come essi sono realmente)?
Ricevete, compagni, i nostri saluti
comunisti.
Corrente Comunista Internazionale
Questa “Risposta” del BIPR comincia con il criticare “l’estrema volgarità” del tono del nostro articolo dove denunciamo questa pretesa “Frazione Interna” (FICCI) come una banda di “mascalzoni”.
In realtà, se il BIPR gioca a fare la verginella indignata [2] non è perché avrebbe, da parte sua, delle maniere più “distinte”, da “gentlemen”, ma unicamente perché cauziona e fa propri i metodi della FICCI. E’ per questo che il BIPR non ha trovato niente da ridire né sulla volgarità del testo della FICCI intitolato “L’ignominia non ha limiti”, né sulla “estrema volgarità” dei metodi di questi piccoli teppisti che non hanno nessuno scrupolo a lanciare appelli a pogrom contro le nostre presunte “porcherie” e contro nostri militanti qualificati come “porci” [3].
In effetti, questa “Risposta” del BIPR alle “stupide accuse” della CCI mira in primo luogo a giustificare il furto del nostro archivio di indirizzi da parte di un membro della FICCI con i seguenti argomenti: “se dei compagni dirigenti della CCI – che come tali disponevano del file di indirizzi dell’organizzazione – rompono con la organizzazione stessa, dichiarando per di più di voler recuperare i compagni alla “retta via” e si tengono il file di indirizzi, non si tratta di furto. Il falso moralismo della CCI odora dunque di ipocrisia, quando è la stessa CCI a lanciare accuse di ogni genere a chi l’abbandona”.
Questo tentativo di “giustificazione” degli atteggiamenti da gangster della FICCI ci spinge a fare diverse considerazioni:
1) Il nostro archivio di indirizzi, esattamente come i soldi e ogni altro materiale politico, appartiene all’organizzazione come tale e non agli individui che la compongono. Questo è un principio elementare di funzionamento di tutte le organizzazioni rivoluzionarie. E il BIPR lo sa bene! E’ per questo che si rifiuta di rispondere alla nostra lettera dell’1/10/04 nella quale noi ponevano, tra le altre, le seguenti domande:
- Come è arrivato agli indirizzi dei nostri abbonati, che avevano dato il loro indirizzo solo alla CCI, il volantino di convocazione della riunione pubblica del BIPR del 2 ottobre a Parigi?
- “Come avrebbe reagito il BIPR, se la CCI avesse avuto nei suoi confronti lo stesso comportamento, se noi avessimo dato il nostro sostegno e la nostra complicità al furto dell’archivio di indirizzi da parte di un suo ex membro”, accettando che esso fosse utilizzato “per invitare i suoi abbonati alle nostre riunioni pubbliche”? (Lettera della CCI al BIPR, pubblicata sul nostro sito internet).
2) Nel caso in cui il BIPR non fosse d’accordo con il principio secondo cui questo materiale appartiene all’organizzazione e non agli individui, allora vuol dire che, con il pretesto di proseguire un lavoro politico, il militante incaricato della tenuta dei soldi potrebbe tranquillamente andarsene con la cassa se egli fosse escluso o se rompesse con l’organizzazione. Questa è la visione di certi anarchici e dei sottoproletari, non delle organizzazioni del proletariato.
Vogliamo ricordare al BIPR che la banda di mascalzoni della FICCI non si è accontentata di rubare il nostro archivio di indirizzi, ma ha anche rubato i soldi della CCI. Essa ha sottratto dei fondi dell’organizzazione rifiutandosi di rimborsare il prezzo dei biglietti aerei che erano serviti a far venire a Parigi due delegati della nostra sezione messicana: questi sono stati prelevati all’aeroporto di Roissy dai teppisti della FICCI che hanno impedito loro di partecipare alla nostra Conferenza Straordinaria nell’aprile 2002 (vedi il nostro articolo su Rivoluzione Internazionale n. 126, giugno 2002).
Leggendo gli argomenti usati dal BIPR per giustificare il furto del nostro materiale politico, oggi siamo in diritto di porre la domanda: è anche con il denaro rubato alla CCI che il BIPR ha potuto pagare il fitto della sala per tenere la sua riunione pubblica del 2 ottobre a Parigi (visto che il BIPR ha organizzato questa riunione con l’aiuto materiale della FICCI)?
3) L’argomento del BIPR secondo cui i “compagni dirigenti” potevano portarsi via tutto il materiale che avevano in affidamento, dal momento che non erano riusciti a convincere gli altri della validità delle loro posizioni, è totalmente estranea al movimento operaio. Questa politica ha un nome preciso: è la politica distruttrice della “terra bruciata”. Poiché non si riesce a far valere le proprie posizioni, allora si deruba l’organizzazione, si fa man bassa del suo materiale politico per cercare di sabotare la sua attività [4].
Questi metodi da teppisti, la CCI li ha già denunciati pubblicamente nel 1981, al momento dell’ ”affare Chenier”. Allora, le due organizzazioni che avrebbero poi costituito il BIPR (Battaglia Comunista e la Communist Worker’s Organisation) avevano ancora un minimo di rispettabilità e non volarono in aiuto né del cittadino Chenier né del gruppo parassitario Communist Bullettin Group. Non levarono grida contro la “estrema volgarità” quando noi denunciammo in questi termini i comportamenti da piccoli teppisti di Chenier e soci: “Questi compagni (quelli della ex sezione della CCI di Aberdeen) avevano conoscenza delle manovre di Chenier da mesi e hanno giustificato il furto, una volta che questo si è compiuto, come ‘normale in caso di scissione’. La nostra condanna di queste pratiche veniva qualificata come ‘reazione di piccoli borghesi proprietari (…) Nei primi numeri di ‘The Bulletin’, il CBG rivendicava questo comportamento divulgando pettegolezzi tanto vili quanto stupidi contro la CCI (…) quando si ha una scissione, si può rubare quello che si vuole, ma quando poi si ha un proprio gruppo, allora si può farla da padroni… l’accesso alla proprietà rinsavisce i piccoli teppisti (…) Quali sono le posizioni del CBG? Ecco un altro gruppo la cui esistenza è parassitaria. Che rappresenta di fronte al proletariato? Una versione provinciale della piattaforma della CCI con la coerenza in meno e il furto in più.” (Révue Internationale n.36, “Risposta alle risposte”). Quello che noi affermavamo venti anni fa a proposito dei metodi da teppisti del CBG si applica perfettamente alla FICCI.
Sia ben chiaro: la CCI non ha rinunciato a recuperare, in un modo o nell’altro, il denaro rubato dalla FICCI [5]. Essa adotterà, al momento opportuno, la stessa politica che ha messo in atto più di venti anni fa per il recupero del materiale rubato da certi elementi della tendenza Chenier, e specificamente quelli che avrebbero costituito il CBG [6].
4) È proprio perché si tratta di una regola elementare di funzionamento delle organizzazioni del proletariato che i nostri Statuti affermano che ogni militante che abbandona l’organizzazione (che sia per propria volontà o per esclusione) è tenuto a restituire alla CCI tutto il materiale che gli era stato affidato per svolgere i suoi compiti: “il militante non fa ‘investimento’ personale nell’organizzazione da cui attendersi dei dividendi o che egli potrebbe ritirare se la abbandona. Sono quindi da escludere come totalmente estranee al proletariato tutte le pratiche di ‘recupero’ di materiale o di fondi dell’organizzazione anche in vista della costituzione di un altro gruppo politico.” (“Rapporto sulla struttura e il funzionamento dell’organizzazione dei rivoluzionari”, Révue Internationale n.33). I membri della FICCI sanno dunque perfettamente che portando via il nostro archivio di indirizzi (e rubando i soldi dell’organizzazione) hanno utilizzato una pratica “totalmente estranea al proletariato”. Hanno violato i nostri Statuti e hanno così ROTTO con la CCI, mettendosi essi stessi al di fuori dell’organizzazione, prima ancora di essere esclusi.
Ed è per questo, tra l’altro, che essi hanno rifiutato di fare appello a un Jury d’Onore (vedi il nostro articolo, pubblicato sul sito web, “Il jury d’onore: arma di difesa dei militanti e delle organizzazioni comuniste”).
5) Il BIPR usa ancora un altro argomento per giustificare questo furto: è perché erano dei “compagni dirigenti” che, “come tali”, i membri della FICCI potevano arrogarsi il diritto di portare con sé il materiale appartenente all’organizzazione. Così, i “dirigenti” avrebbero dei diritti e dei privilegi che non hanno i “militanti di base”! Questa concezione elitaria e burocratica appartiene alle organizzazioni borghesi (e in particolare a quelle staliniste), ma non a quelle della classe operaia!
Teniamo a segnalare, di passaggio, che la CCI non ha la visione piramidale del BIPR dei membri “dirigenti” (per noi esistono membri degli “organi centrali”). D’altra parte non è “come tale” (cioè come membro “dirigente”) che la CCI aveva affidato il suo archivio di indirizzi ad un attuale membro della FICCI. La CCI gli aveva affidato questo archivio in quanto militante incaricato di fare le spedizioni delle pubblicazioni ai nostri abbonati. Se abbiamo affidato a quella che il BIPR chiama “compagno dirigente” (cosa che ha fatto molto ridere i militanti della CCI!) la responsabilità molto importante di questo compito è solo perché se la cavava molto bene [7].
Attraverso gli argomenti contenuti in questa “Risposta” alle nostre “stupide accuse” scopriamo in realtà la complicità del BIPR in questo furto. Il BIPR ci dice in effetti che la FICCI aveva il diritto di conservare questo archivio di indirizzi al fine di poter “recuperare i compagni alla retta via” [8]. Questo comportamento non mira solo ad “assolvere” i comportamenti ignobili della FICCI. Mira anche e soprattutto a giustificare i tentativi di sabotaggio e di destabilizzazione della CCI portati avanti dal BIPR, alle nostre spalle, da più di due anni.
Nel bollettino n.9 della FICCI i nostri lettori potranno scoprire le manovre del BIPR consistenti nell’incoraggiare questa banda di mascalzoni a proseguire i suoi attacchi contro i nostri organi centrali e contro i nostri militanti al fine di guadagnare il massimo di compagni a…”la retta via”!. Invitiamo i nostri lettori a fare riferimento al “Resoconto della riunione del 17/03/02 tra la frazione e il BIPR”, pubblicato in questo bollettino n. 9 (disponibile sul sito internet della FICCI). Vi troveranno gli “argomenti” a giustificazione del furto del nostro archivio di indirizzi: per la FICCI si trattava di inviare ai militanti della CCI la propria prosa ripugnante (con la benedizione del BIPR), al fine di “aprire gli occhi dei militanti della CCI che nell’immediato si sono imbarcati in una dinamica consistente nel ‘seguire senza avere dei dubbi’ nei confronti degli OD (“Organi Decisionali”) della CCI (…) Il BIPR ha approvato questo orientamento” nei seguenti termini: “Voi dovete proseguire la vostra battaglia contro le derive attuali e per la restaurazione delle acquisizioni organizzative e politiche della CCI”.
Così veniamo a sapere che non solo il BIPR ha incoraggiato la FICCI a fare il suo sporco lavoro (consistente nel riempire le cassette postali dei nostri compagni e dei nostri simpatizzanti con le loro infami calunnie), ma, in aggiunta, il BIPR ha appoggiato e sostenuto questa battaglia… “per la restaurazione delle acquisizioni organizzative e politiche della CCI”. I nostri lettori potranno così farsi essi stessi un’idea della duplicità e dell’incredibile (ma vero!) doppio linguaggio del BIPR: da un lato, esso pretende (ipocritamente) di essere interessato a difendere le “acquisizioni organizzative e politiche della CCI”, dall’altra afferma (nella sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”) di voler convincere la FICCI che la “debolezza intrinseca” della CCI risiede in “questioni metodologiche di base che da sempre ci separano dalla CCI .”
E l’ipocrisia raggiunge il culmine quando, nello stesso momento in cui sosteneva la FICCI nella sua battaglia contro la nostra presunta “direzione liquidazionista” (così si esprime la FICCI), il BIPR scriveva: “Non tocca a noi dare torto o ragione nei contenziosi organizzativi/disciplinari della CCI” (vedi il testo del BIPR, del febbraio 2002, pubblicato in diverse lingue sul suo sito Internet, “Elementi di riflessione sulle crisi della CCI”).
Si comprende allora molto meglio perché il BIPR non poteva condannare il furto del nostro archivio di indirizzi. Esso era semplicemente interessato a utilizzare la FICCI (e i suoi metodi vergognosi) non solo come sergente reclutatore per la sua propria bottega, ma per tentare di seminare scombussolamento all’interno della CCI.
È chiaro che non è (come pretende il BIPR) il “falso moralismo” della CCI, ma l’abbandono da parte del BIPR di ogni morale proletaria che “odora di ipocrisia”!
E, lo ripetiamo al BIPR ancora una volta (pronti a scioccare di nuovo il suo pudore da verginella): quando si va a letto con una donna di facili costumi, non bisogna sorprendersi se ci si prende la blenorragia.
Nel punto 2 della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR afferma, sempre a proposito del furto del nostro archivio di indirizzi che sono serviti a inviare l’avviso della sua riunione pubblica del 2 ottobre, che “Non è dunque alla CCI, né a nessun altro, che dobbiamo rendere conto del nostro agire politico” e il BIPR stigmatizza la “pretesa della CCI di rifarsi a presunte tradizioni della Sinistra Comunista”, cosa che gli sembra “patetica”.
Quello che a noi sembra patetico è piuttosto il constatare che il BIPR, rendendosi complice della FICCI, ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. È per questo che esso è sul punto di buttare alle ortiche non solo la tradizione della Sinistra Comunista, ma i principi elementari del movimento operaio, per adottare la legge della giungla!
Alla questione posta dai nostri abbonati, “come ha ottenuto il BIPR il loro indirizzo?”, ecco la risposta che viene data loro: circolate, il BIPR non ha conti da rendere a nessuno sul suo “agire politico”!
I “dirigenti” del BIPR pensano di non dover render conto di niente ai militanti della propria organizzazione (che non hanno partecipato a questa riunione pubblica o che sono stati sorpresi dall’apprendere che l’invito del BIPR era stato inviato a delle persone di cui non avevano l’indirizzo)? A meno che questo “agire politico” sia conforme agli Statuti del BIPR o che i suoi militanti “seguano” ciecamente la politica (completamente irresponsabile!) dei loro “dirigenti” … “senza porsi alcun dubbio”?
Nel primo punto della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR comincia con l’affermare che i suoi contatti con la FICCI “esistono e resistono”, con il seguente argomento: “vorremmo evitare che l’ennesima scissione della CCI con relativa perdita di dirigenti della ‘vecchia guardia’ si risolvesse con la nascita di un altro gruppo dissidente della CCI e rivendicante la sua ortodossia”.
Intenzione molto buona da parte del BIPR (e siamo veramente toccati da tanta sollecitudine!), ma l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Il BIPR vorrebbe farci credere che è per evitare la nascita di un nuovo gruppo parassitario (perché anche se si rifiuta di ammetterlo, le cose vanno chiamate con il loro nome!) che starebbe tentando di convincere la FICCI ad abbandonare le posizioni programmatiche della CCI [9]. In realtà, il BIPR discute con i membri della FICCI per reclutarli.
E non vediamo perché il BIPR ha bisogno di tali contorsioni per mostrare la sua “buona fede”. In tutta evidenza il BIPR non ha più la minima dignità: oggi si è ridotto a… fare l’immondezzaio della CCI!
Da parte nostra vogliamo rassicurare il BIPR: il nostro obiettivo non è per niente quello di sabotare i suoi tentativi di “raggruppamento” (come gridano a destra e a manca la FICCI e il suo fratello gemello, il “Circolo” di Argentina). Se noi difendessimo un punto di vista di “piccola bottega”, non ci sconvolgerebbe proprio che il BIPR integrasse i membri della FICCI nei suoi ranghi. Renderebbe un grande servizio alla CCI sbarazzandoci di questo gruppuscolo parassitario che non cessa di sporcare il nome della CCI rivendicando la nostra stessa piattaforma.
La sola ed unica ragione per la quale abbiamo messo in guardia il BIPR contro i giochi di seduzione della FICCI è la seguente: volevamo evitare che una organizzazione della Sinistra Comunista sbeffeggiasse (ma ormai è troppo tardi) i principi proletari cauzionando i metodi di questa banda di teppisti. Ma se il BIPR vuole discreditarsi raggruppandosi con questi elementi, nessuno può impedirglielo. Come dice il proverbio: “non si può far bere un asino che non ha sete” !
Ancora una volta, prima il BIPR arriverà a “convincere” la FICCI a mollarci e meglio sarà! Sfortunatamente il BIPR, rifiutandosi di tener conto della nostra analisi del fenomeno del parassitismo (che non fa che riprendere quella che Marx aveva messo in evidenza a proposito dell’Alleanza di Bakunin all’interno dell’AIT), si priva di un’arma che potrebbe evitargli di lasciarci tutte le penne in questa sordida avventura. Esso continua a correre dietro la FICCI sperando di acchiappare la carota che questa gli tende per farlo avanzare: la prospettiva di una futura sezione del BIPR a Parigi ed in Messico!
In tutta evidenza la FICCI non ha nessuna intenzione di lasciarsi “convincere” dal BIPR e ancor meno di raggiungere i suoi ranghi. Tanto è vero che questi parassiti continuano a dire, con malsana ossessione, che loro non hanno “rotto con la CCI”. Infatti nel suo Bollettino (n. 28) la FICCI sbandiera un disaccordo con il BIPR: contrariamente a quanto afferma quest’ultimo nella sua “Risposta” alle “stupide accuse” della CCI, la FICCI ha giudicato necessario fare “giusto una piccola precisazione rispetto a ciò che dice il BIPR: noi non abbiamo rotto (con la CCI), noi siamo stati esclusi”. Siamo desolati per il BIPR e speriamo che si dimetterà da questa grossa delusione. Non possiamo che invitarlo ad abbandonare le sue illusioni: i membri della FICCI non possono raggiungere i ranghi del BIPR perchè, come affermano ancora una volta nel loro Bollettino n. 28 “la frazione È la CCI!: “noi, frazione, siamo la CCI!”. Non si può chiedere al BIPR di ricondurre alla realtà un folle che si crede Napoleone perchè questa è la sua sola ragione di esistenza. Siamo tuttavia costernati nel vedere che, incancrenito dal suo proprio opportunismo, il BIPR non è neanche capace di percepire il carattere totalmente delirante dell’universo mentale di questa pretesa “frazione”.
A proposito delle nostre “Tesi sul parassitismo”, il BIPR ci dice ancora una volta: “mentre nel mondo succede di tutto e di più, la CCI non trova niente di meglio da fare che scrivere delle “tesi” sulle sue beghe interne”.
Qualsiasi lettore serio potrà comparare il nostro resoconto della riunione pubblica del 2 ottobre pubblicato dalla CCI con quello del BIPR (sul sito Internet di Battaglia Comunista). Vedrà che sull’analisi delle radici della guerra in Iraq, il BIPR non è stato capace né di rispondere alle questioni poste nella sua riunione pubblica, né di confutare gli argomenti avanzati dalla CCI (vedi su Rivoluzione Internazionale n. 138 di prossima pubblicazione, “Il vuoto politico e l’assenza di metodo del BIPR”)! Anzi, di fronte allo scatenarsi della barbarie guerriera e di un caos sanguinoso in Iraq, in Medio Oriente, in Africa, il BIPR non trova niente di meglio oggi che rimettere in discussione l’analisi della decadenza del capitalismo (elaborata dall’Internazionale Comunista). Non trova niente di meglio che rilanciare la propaganda degli economisti borghesi al fine di consolare (e mistificare) il proletariato facendogli credere che questo modo di produzione avrebbe ancora dei giorni luminosi davanti a sé!
Quanto alla critica delle nostre “Tesi” sulle nostre “beghe interne”, il BIPR dovrebbe innanzitutto indirizzarla a Marx: nel momento in cui nel mondo c’era un avvenimento così importante come la Comune di Parigi del 1871, Marx non aveva “niente di meglio da fare” che convocare una Conferenza a Londra consacrata essenzialmente alle questioni di organizzazione ed esaminare in particolare il caso di Bakunin e del suo gruppo parassita, l’Alleanza della Democrazia Socialista! Allo stesso modo, il solo congresso dell’AIT dove Marx è stato presente, quello dell’Aia nel 1872, è stato essenzialmente consacrato, soprattutto sotto la sua spinta e quella di Engels, all’esame delle questioni organizzative e di funzionamento. Ed ancora, l’anno seguente, Marx Engels e Lafargue hanno dedicato un tempo ed un’energia considerevoli per redigere un grosso libro sulle azioni occulte del cittadino Bakunin e dei suoi complici (intitolato “L’Alleanza della Democrazia Socialista e L’Associazione Internazionale dei lavoratori”). E che dire di Lenin che, dopo il secondo congresso del POSDR, non ha trovato “niente di meglio da fare che scrivere” non qualche “Tesi” ma un libro intero (“Un passo avanti, due passi in dietro”) sulle “beghe interne” del POSDR?
Il BIPR non ha mai capito (per la sua incapacità a riappropriarsi di queste esperienze della storia del movimento operaio) che la questione del comportamento politico dei militanti comunisti è una questione di principio. È per questo che è lui (e non la CCI!) ad essere minacciato dalla “disintegrazione” [10]. Facendo causa comune con degli elementi che non hanno niente di meglio da fare che scrivere centinaia di pagine di calunnie contro la CCI ed i suoi militanti (vedi tra l’altro il romanzo poliziesco della FICCI intitolato “Storia dell’SI”), il BIPR è oggi condotto a riappropriarsi di un “modo politico di agire” totalmente estraneo al proletariato, basato non solo sul furto, ma anche sulla menzogna e la calunnia.
Il BIPR utilizza la menzogna e la calunnia
Nel punto 5 della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR afferma che non ha mai cercato di “speculare” sulle accuse di stalinismo mosse dalla FICCI: “respingiamo come ridicole le ‘messe in guardia’ da parte di una organizzazione che ... ogni volta (raccoglie) accuse di opportunismo e di stalinismo sulle quali non abbiamo mai cercato di speculare”.
Questa affermazione è una grossa menzogna. Rimandiamo ancora una volta i nostri lettori al Bollettino n° 9 della FICCI nel quale il BIPR accredita in questi termini la “tesi” della FICCI secondo la quale la CCI sarebbe entrata in un processo di “degenerazione staliniana”: “E’ evidente per noi (il BIPR) che c’è stato un processo di eliminazione di militanti. Una eliminazione della vecchia guardia della quale resta solo Peter (...) il cammino sarà breve, la tendenza a escludere è già innestata in modo irreversibile” [11].
Così, non solamente il BIPR è preso in flagrante menzogna quando pretende oggi con la mano sul cuore di non avere “mai speculato sulle accuse di stalinismo” contro la CCI, ma si fa egli stesso portavoce di dicerie calunniose appena celate contro uno dei nostri compagni, il “liquidatore in capo” (per riprendere una delle espressioni favorite della FICCI) che , come Stalin, avrebbe “eliminato la vecchia guardia”!
Ed è ancora questa “metodologia nauseabonda” basata sulla menzogna e la calunnia che ha portato recentemente il BIPR a pubblicare sul suo sito Internet (in tre lingue!) il testo calunnioso del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” d’Argentina (che come abbiamo dimostrato non è altro che una gigantesca impostura).
Nonostante la pubblicazione sul nostro sito Internet della Dichiarazione del NCI del 27 ottobre, il BIPR continua a divulgare la menzogna che il NCI avrebbe, come la FICCI, “rotto con la CCI” (vedi il sito Internet di Battaglia Comunista). Ancora una volta il BIPR prende i suoi desideri per realtà.
Benché il NCI abbia inviato loro questa Dichiarazione (nella quale afferma che i testi del “Circulo” sono “delle menzogne e delle calunnie vergognose lanciate contro la CCI”), il BIPR non ha mai ritenuto necessario ritirare dal suo sito Web il testo del “Circulo” che denuncia la presunta “metodologia nauseabonda della CCI”. Il che significa che esso insiste e persiste nell’utilizzazione della menzogna e della calunnia.
La ragione di una tale politica di natura borghese la si può trovare, ancora una volta, nel Bollettino n° 9 della FICCI. I nostri lettori vi scopriranno che, nel marzo 2003, il BIPR e la FICCI avevano iniziato ad elaborare di concerto una strategia politica mirata a distruggere la CCI.
Si apprende infatti dalla bocca del BIPR che “se noi siamo portati a concludere che la CCI è diventata una organizzazione ‘non valida’, allora il nostro scopo sarà fare di tutto per spingere alla sua sparizione” (sottolineato da noi).
Ecco perchè, e con quale “progetto politico”, i contatti del BIPR con la FICCI “esistono e resistono”!
È con l’obiettivo enunciato chiaramente di “fare di tutto per spingere alla sua sparizione” (quella della CCI) che il BIPR si è gettato a capofitto (come la FICCI) sul testo calunnioso di un impostore (il presunto “Circulo de Comunistas Internacionalistas”).
Il BIPR è veramente piazzato molto male per poterci dare lezioni di “vero moralismo”. La sua critica di “falso moralismo” serve solo a nascondere questa deplorevole realtà: il BIPR ha adottato la “morale” antiproletaria degli ipocriti per la quale il fine giustifica i mezzi!
Per distruggere la CCI ed eseguire la sentenza che lui stesso ha emesso contro la nostra organizzazione, il BIPR è pronto oggi (e ne ha già dato prova) ad utilizzare i metodi sordidi della propaganda borghese.
Per arrivare ai suoi scopi, non solo ha fatto alleanza con i mascalzoni della FICCI e con il mitomane manipolatore del “Circulo” d’Argentina, ma tende sempre più ad adottare i comportamenti nauseabondi del “tutto è lecito”!
Se possiamo dare un consiglio al BIPR è quello di spazzare prima davanti alla sua porta: mentre “al mondo” è successo “ di tutto è di più” dall’11 settembre, il BIPR non ha trovato niente di meglio da fare che spettegolare con la FICCI su l’eliminazione della “vecchia guardia”della CCI. Non ha trovato niente di meglio che grattarsi la testa per sapere “se la CCI è oggi moribonda” (Lettera del BIPR alla Frazione, pubblicata nel Bollettino n° 19 della FICCI). Non ha trovato niente di più interessante da leggere dei romanzi polizieschi della FICCI infarciti di piccoli dettagli “stuzzicanti” sullo “stile” o la vita personale di questo o quel militante della CCI!
E oggi, mentre ancora “al mondo succede di tutto e di più”quali sono le ultime bizzarrie di questo gruppo che ha ancora la pretesa e la sfacciataggine di presentarsi al mondo intero come... il solo “polo serio” della Sinistra comunista? Non ha trovato niente di meglio da fare che sottomettere alla “discussione” sul suo sito Internet, in tre lingue, le elucubrazioni di uno psicopatico (le cui menzogne sono tanto imponenti quanto l’assenza di scrupolo). Tutto questo per sapere se... le nostre telefonate ai militanti del NCI d’Argentina (di cui il BIPR non conosce neanche il contenuto!) sarebbero una nuova conferma della “degenerazione staliniana” della CCI!
Oggi perdendosi dietro alla FICCI, il BIPR ha messo una bomba in casa propria. Non possiamo che ringraziare la FICCI di averci delucidato, grazie ai suoi “bollettini”, sulle intenzioni del BIPR di “fare di tutto per spingere alla sparizione” della nostra organizzazione. Per una volta la sua delazione ha fatto un piacere alla CCI!
Se non vuole auto affondarsi, è ormai tempo che il BIPR ponga fine alle sue “riflessioni” (e stupide speculazioni!) “sulle crisi della CCI” per fare innanzitutto una riflessione sulle cause delle proprie delusioni organizzative e sulla sua deriva attuale.
E’ la sola “metodologia” che possa (forse?) permettergli di sfuggire al destino al quale il suo opportunismo congeniale lo condanna da sempre.
E’ ormai tempo, infine, che il BIPR riconosca che malgrado la sua alleanza diplomatica e “tattica” con la FICCI, non ha i mezzi per le sue ambizioni: “spingere alla sparizione della CCI” per essere il “solo polo di raggruppamento” della Sinistra comunista. Più il BIPR gracida con questa banda di mascalzoni (e il suo piccolo clone degenerato d’Argentina), e più si incammina non verso una “lenta ma sicura aggregazione di forze rivoluzionarie” (come afferma nella sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”), ma verso la stessa fine tragica (e grottesca) di quella della... rana che voleva diventare più grossa del bue!
CCI (18/11/04)
Note:
1. Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario, organizzazione che si richiama alla tradizione della Sinistra comunista d’Italia e che è composta principalmente dalla Communist Workers’ Organisation (CWO) in Inghilterra e da Battaglia Comunista in Italia.
2. Nelle prime righe della sua “Risposta” alle nostre “stupide accuse”, il BIPR si copre di ridicolo: strilla come un’aquila e si scandalizza per il fatto che la CCI abbia potuto utilizzare (nel suo articolo “Il BIPR preso in ostaggio da mascalzoni!”) delle parole così “volgari” come... “mascalzoni”, “dote matrimoniale”, “donna di facili costumi” o ancora “blenoraggia”! Visibilmente il redattore di questa “Risposta” alla CCI non conosce bene la lingua francese poiché nessuno di questi termini è volgare. In più, il redattore avrebbe potuto evitare di ridicolizzare un testo ufficiale del BIPR che è stato tradotto in più lingue e secondo il quale il termine “corbeille de mariage” (dote matrimoniale) è messo nella rubrica dei detti volgari!
3. Vedi il testo della FICCI pubblicato sul suo sito Internet “l’ignominia non ha limiti” che introduce la Dichiarazione del “Circulo” del 2 ottobre. Curiosamente questo testo è scomparso dal sito in francese della FICCI (ed esiste solo in lingua inglese e spagnola). Per fortuna ne abbiamo conservato delle copie e potremo inviarle ai lettori che ne faranno richiesta. Tuttavia bisogna segnalare che gli appelli al pogrom lanciati da questi mascalzoni hanno incominciato ad incontrare una certa eco, come testimonia una lettera anonima di minacce, inviata all’inizio di novembre al nostro indirizzo e-mail in Spagna. I nostri lettori potranno trovare la lettera, tanto volgare quanto nauseabonda di questo “sciacallo”, accompagnata dalla nostra risposta, sul nostro sito in lingua spagnola (“Risposta ad una lettera anonima”).
4. La FICCI considera la CCI come sua proprietà privata quando afferma, nel suo Bollettino n° 28, che la CCI è “NOSTRA organizzazione”. Questa è la stessa visione che aveva portato l’ex-militante Michel ad affermare, durante una riunione segreta della quale abbiamo scoperto le note: “Bisogna recuperare gli strumenti di funzionamento”. Bisogna segnalare che se Michel ha preferito ritirarsi piuttosto che raggiungere la “frazione”, è proprio perché lui era riuscito a realizzare (come ha detto chiaramente ad una delegazione della CCI) che “ciò che si è fatto (alle spalle della CCI) è sporco”! E contrariamente ai suoi amici della FICCI, lui ha fatto una uscita un po’ più “onorevole” rimborsando completamente il suo debito alla CCI. Lo stesso per un altro ex-militante (Stanley) che, benché in principio abbia partecipato con i membri della FICCI ad ogni sorta di manovra alle spalle dell’organizzazione, si è distaccato dalla FICCI ed ha rimborsato tutto il denaro che doveva alla CCI.
5. E non vediamo nessun inconveniente nel fatto che il BIPR apporti la sua “solidarietà” alla FICCI aprendo una sottoscrizione per aiutarla a rimborsare il suo debito alla CCI!
6. È d’altronde con la stessa intransigenza e la stessa determinazione che, nella primavera 2002, la CCI ha potuto recuperare i propri archivi depositati nella seconda casa di un membro della FICCI, mentre questo piccolo mascalzone si apprestava a “traslocarle”. Teniamo a segnalare che il recupero dei nostri archivi si è svolto in tutta tranquillità: il cittadino Olivier membro “dirigente” della FICCI, ce li ha restituiti senza la minima resistenza o protesta.
7. Almeno fino al 14° congresso della CCI. Dopo, di fronte al disconoscimento crescente dell’organizzazione rispetto ai suoi comportamenti, lei ha iniziato a sabotare questo lavoro ed è per questo che le è stato tolto l’incarico. Tuttavia lei ha conservato a nostra insaputa (e con premeditazione) una copia dell’archivio degli abbonati, e ciò ancor prima che si costituisse la pretesa “frazione”.
8. Di passaggio, bisogna segnalare che i membri della FICCI non hanno mai fatto nessuno sforzo per convincere il resto della CCI della loro “retta via”. Tutto al contrario: è il loro atteggiamento apertamente distruttivo e di “terra bruciata”, il loro uso sistematico della menzogna e del ricatto, i loro colpi bassi e le loro manovre sordide che li hanno isolati dalla totalità dei militanti della CCI, ivi compreso da quelli che all’inizio erano più sensibili ai loro argomenti. Mentre la CCI li chiamava ad esprimere apertamente i loro disaccordi nei nostri bollettini interni e nelle nostre riunioni regolari, loro hanno preferito far circolare tra “iniziati” dei documenti che si sono rifiutati di comunicare al resto dell’organizzazione ed hanno tenuto delle riunioni segrete destinate a complottare per “destabilizzare” (secondo le parole di uno di questi paladini della virtù) l’organizzazione. Così come, quando abbiamo proposto loro di pubblicare nella Rivista Internazionale una risposta all’articolo sulla nozione di frazione apparso in questa stessa Rivista (n°108, in lingua francese) che rigettava, sulla base dell’esperienza storica delle frazioni del passato, le concezioni sulle quali loro avevano fondato la “FICCI”, si sono rifiutati di utilizzare questo strumento per convincere i lettori della loro “retta via”.
9. Bisogna sottolineare che nella sua “risposta” alle nostre “stupide accuse” il BIPR inizia a fare un primo schizzo di analisi sul fenomeno del parassitismo. Infatti afferma, giustamente, che la costituzione di un “altro gruppo dissidente della CCI” significherebbe che “un qualunque ‘intellettuale’ con attorno qualche simpatizzante si sente in diritto di fare il suo gruppetto, rubacchiando qua e là idee e posizioni, o di una propria incapacità a tenere assieme i compagni”. Tradendo i nostri principi organizzativi, divulgando calunnie ripugnanti contro i nostri organi centrali e contro i nostri militanti, gli elementi della FICCI hanno rotto con la CCI (e su questo siamo completamente d’accordo con il BIPR!): questi hanno dimostrato la loro “incapacità a tenere assieme i compagni”. “Rubacchiando” i soldi ed il materiale della CCI, “rubacchiando qua e là” (alla CCI ed al BIPR) “idee e posizioni” questi scrocconi non hanno alcun “diritto” di reclamarsi alla Sinistra comunista. Non possiamo che incoraggiare il BIPR a fare ancora un piccolo sforzo per andare fino in fondo alla sua riflessione: questo gruppuscolo auto proclamatosi “Frazione Interna della CCI” non è una emanazione storica del proletariato. Non ha alcuna legittimità e non è nient’altro che un gruppo parassita! Quanto alla caricatura che fa il BIPR della nostra analisi del parassitismo tentando di ridicolizzare le “stupide” accuse della CCI che “grida al complotto della borghesia!”, questa non fa che rivelare una cosa: la sua ignoranza di ciò che Marx denunciava, di fronte ai suoi detrattori, a proposito dell’Alleanza di Bakunin quando affermava (come prova della sua “stupidità”?) che la lotta del Consiglio Generale dell’AIT contro Bakunin era un “complotto del sole contro l’ombra”!
10. Nel giugno 1897, di fronte alle voci di corridoio che annunciavano il suo decesso, lo scrittore americano Mark Twain rispose: “La notizia della mia morte è stata enormemente esagerata” (“The reports of my death have been greatly exaggerated”). Possiamo dire al BIPR che la notizia della nostra “disgregazione” è anch’essa “enormemente esagerata”. Sarebbe tempo, una volta per tutte, che i militanti del BIPR la smettessero di credere alle storie Horror (così come ai racconti delle fate) che racconta loro la FICCI. Non ne hanno più l’età.
11. Ci teniamo a fare una piccola messa a punto per ristabilire la verità:
a) L’idea veicolata dal BIPR secondo la quale non resta che un solo “membro fondatore” (Peter) all’interno della CCI è una pura menzogna. Consigliamo al BIPR di verificare d’ora in avanti la veridicità delle informazioni che gli fornisce la FICCI perchè, come diceva Lenin, “quello che crede sulla parola è un incorreggibile idiota”.
b) Il fatto di essere membro fondatore non significa affatto essere immunizzati contro il tradimento. Bisogna ricordare al BIPR che tra i sei membri fondatori dell’Iskra (che avevano ben altra tempra che questa banda di mascalzoni!), quattro hanno tradito e sono passati nel campo borghese al momento della prima guerra mondiale. Lenin è il solo membro dell’Iskra rimasto fedele fino alla fine alla causa rivoluzionaria.
Infine, bisogna ristabilire un’altra verità: i membri della FICCI non sono dei “dirigenti della vecchia guardia” come pretende il BIPR. Nessuno di questi elementi è stato un membro “fondatore di Révolution Internationale” (antenata della CCI insieme alla sezione in Venezuela) come sono andati raccontando in giro per “farsi esaltare” con incredibile presunzione. Neanche il più anziano tra di loro, l’uomo invisibile (e “padre fondatore” della FICCI), il cittadino Jonas: lui aveva lasciato l’organizzazione immediatamente dopo il riflusso del movimento del Maggio 1968 ed è ritornato molti anni dopo, a metà anni 70.
Ed è ancora una volta per evitare di fare chiarezza sulla loro traiettoria all’interno della CCI che i membri della FICCI non vogliono un Jury d’Onore. Questi eroi da fumetto che si prendono per Superman o Wonderwoman preferiscono continuare ad imbrogliare tutti quelli che, come il BIPR, vogliono credere alle loro favole. Il fatto che questi hanno militato per molti anni e sono stati nominati negli organi centrali non ne fa dei “dirigenti della vecchia guardia”.
Nei fatti la FICCI ed il BIPR si lisciano il pelo reciprocamente: il BIPR omaggia i membri della FICCI presentandoli come i “dirigenti” della “vecchia guardia della CCI” e la FICCI lo ripaga proclamando che il BIPR è il “solo serio polo di raggruppamento della Sinistra comunista”. Ecco a cosa si riduce il commercio diplomatico tra il BIPR e la FICCI!
Nel corso delle ultime due settimane abbiamo assistito ad una serie di scene allucinanti alla frontiera sud dell’Unione Europea. Prima ci sono stati gli assalti di massa alle barriere spinate istallate dal governo spagnolo che migliaia di emigranti sono riusciti a superare, non prima di avervi lasciato brandelli di vestiti e sangue. Poi ci sono state le raffiche di pallottole che hanno stroncato la vita di 5 emigranti, raffiche sparate, con tutta probabilità, a dispetto delle contorsioni dei portavoce ufficiali, dalle forze del tanto ”democratico” e tanto “pacifista” governo Zapatero, che ama presentarsi come un Bambi, un cerbiatto inoffensivo. Infine è arrivato lo spiegamento massiccio di truppe della Legione e della Guardia Civile con la consegna di respingere “in maniera umana” (sic!) gli emigranti. Il 6 ottobre, dopo oscuri negoziati tra i governi di Marocco e Spagna, gli avvenimenti subiscono una accelerazione: 6 emigranti muoiono mitragliati in territorio marocchino. Queste morti sono l’inizio dello scatenamento di una serie di atti sempre più brutali: emigranti abbandonati nel deserto a sud di Oujda il 7 ottobre, rastrellamenti di massa nelle città marocchine dove si concentrano gli emigranti; voli charter per rimpatriare verso il Mali e il Senegal, con uomini e donne ammassati; nuove deportazioni di massa di emigranti, negli autobus della morte verso il deserto del Sahara.
A partire dal 6 ottobre il governo Zapatero recupera il suo ruolo di “campione nel sapersela sbrigare”. “Protesta” con vigore con il Marocco per il trattamento “inumano” che esso riserva agli emigranti e presenta, con grande pubblicità di stampa, il suo progetto di una barriera “ultramoderna” (in realtà 3 barriere sovrapposte) che impedirebbe ogni penetrazione di emigranti “senza causare loro il minimo graffio”. I suoi colleghi dell’Unione Europea si uniscono in maniera pressante al coro della “protesta democratica” di fronte agli “eccessi” marocchini, “esigono” un “trattamento rispettoso degli emigranti” e ci rifilano le loro solite chiacchiere sull’Unione Europea “terra di accoglienza” e sulla necessità dello “sviluppo” dei paesi africani. Il ministro spagnolo degli esteri, un esperto in sorrisi beoti, mostra i denti e annuncia con molta serietà che “la Spagna non tollererà nessuna emigrazione illegale purché ciò sia compatibile con il rispetto degli emigranti” (sic).
In questa crisi si possono vedere i due volti degli Stati democratici. A partire dal 6 ottobre il governo Zapatero, dopo aver abilmente sottratto al Marocco la sua sporca guerra contro gli emigranti, esibisce la sua maschera abituale di promotore angelico della “pace”, dei “diritti dell’uomo” e del “rispetto delle persone”. È il volto del cinismo, della menzogna e della manovra, il mantello abituale entro cui si avvolgono le “grandi democrazie” quello dell’ipocrisia più ripugnante.
Tuttavia nei giorni precedenti il governo Zapatero ha mostrato l’altro volto: quello del mitragliamento di massa, quello della Guardia Civile che brutalizza un emigrante, quello del filo spinato e degli elicotteri che sorvolano sugli emigranti, quello delle deportazioni verso i paesi africani… Un volto che dissolve il velo ipocrita dei discorsi sui “diritti” e le “libertà” lasciando trasparire la realtà pura e dura: il “socialista” Zapatero si comporta con gli emigranti esattamente nella stessa maniera del tanto criticato Sharon con il suo muro in Cisgiordania e a Gaza o degli stalinisti della Germania dell’est Ulbricht e Honecker che costruirono il muro di Berlino. I due volti, quello dell’ipocrisia democratica e quello dei cani arrabbiati non sono in realtà opposti, ma sono complementari. Essi formano una unità indispensabile nel metodo del dominio capitalista, un sistema sociale che sorregge una classe minoritaria e sfruttatrice, la borghesia, la cui sopravvivenza si scontra sempre più frontalmente con gli interessi e le necessità del proletariato e della grande maggioranza della popolazione.
Nel problema tragico dell’emigrazione noi vediamo come il capitalismo, confrontato a una crisi sempre più acuta – e che prende la forma più estrema in continenti come l’Africa – non è più capace di assicurare un minimo di sopravvivenza a masse sempre più enormi di esseri umani che scappano dall’inferno della fame, delle guerre e delle epidemie più mortali.
Nella loro fuga essi sono maltrattati e svaligiati dai poliziotti e dalle mafie dei paesi che attraversano, che godono sempre dell’approvazione interessata dei loro rispettivi Stati, e quando riescono ad arrivare alla meta agognata, sbattono sul muro della vergogna, con il filo spinato, con le pallottole, le deportazioni: sottomessi a una crisi sempre più grave, i paesi dell’Unione Europea sono sempre meno questo “rifugio di pace e prosperità” con cui ci vorrebbero abbagliare. Le loro economie possono assorbire solo qualche goccia di questa immensa marea umana e in condizioni di sfruttamento sempre più infamanti che somigliano sempre più a quelle dei paesi da cui fuggono gli emigranti.
Questa situazione è accompagnata da un contesto di tensioni imperialiste crescenti tra i differenti Stati che cercano ognuno il mezzo per colpire il proprio rivale o di trovare dei mezzi per esercitare un ricatto su di lui. Questo rende gli emigranti una massa di manovra allettante utilizzata dai diversi governi. Il Marocco cerca di ricattare la Spagna dando ogni sorta di facilitazioni alle mafie specializzate nella tratta degli emigranti e che permettono loro di effettuare il loro “salto” dall’altra parte. Dal canto suo la Spagna, a causa della sua situazione di porta d’entrata del sud dell’Unione Europea, cerca di farsi pagare al miglior prezzo i suoi servizi di cerbero sanguinoso.
Questo gioco mortale di ciarlatani e di scrocconi viene condotto a scapito delle vite di centinaia di migliaia di esseri umani condannati ad una tragica odissea. Gli Stati più forti si presentano al mondo come i ”più umani e solidali” semplicemente perché, tra le quinte, essi hanno ottenuto che i loro colleghi più deboli si incarichino del lavoro sporco. Il Marocco appare come il “cattivo dei film” (e la tradizione di brutalità selvaggia delle sue forze di polizia e militari gli permettono di giocare questo ruolo alla perfezione) mentre la Spagna e i “partner” dell’UE, i suoi mandanti senza scrupoli (1), hanno la faccia tosta di dargli delle lezioni di “democrazia” e di “diritti umani”. Tuttavia le contraddizioni crescenti del capitalismo, l’approfondirsi della sua crisi storica, il processo di decomposizione che lo colpisce sempre più, l’acuirsi progressivo della lotta di classe, fanno sì che questi grandi Stati, specialisti consumati del ruolo di “virtuosi” nel teatro democratico, appaiono sempre più direttamente con il volto dei cani sanguinosi. Non più di 3 mesi fa abbiamo visto come la polizia britannica, la “più democratica del mondo” ha assassinato a sangue freddo un giovane brasiliano (2); meno di mese fa abbiamo visto l’esercito e la polizia americana dare colpi di bastone invece del cibo e dell’aiuto alle vittime dell’uragano Katrina; oggi vediamo il governo Zapatero assassinare degli emigranti, schierare le truppe e costruire un muro della vergogna. Un capitalismo dal volto umano non è possibile. Gli interessi dell’umanità sono incompatibili con le necessità di questo sistema. Perché l’umanità possa vivere, il capitalismo deve morire. Distruggere lo Stato capitalista in tutti i paesi, abolire le frontiere e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, questo è l’orientamento che il proletariato deve dare alla sua lotta perché l’umanità possa, semplicemente, cominciare a vivere.
Corrente Comunista Internazionale, 11/10/05
1. In questi ultimi giorni i dirigenti dell’Unione Europea hanno ricordato apertamente ai loro confratelli marocchini che essi avevano accordato loro dei crediti perché essi giocassero il ruolo di gendarmi, che essi non avevano svolto fino ad allora.
2. Vedere sul nostro sito l’articolo (in francese) “Esecuzione sommaria nel metrò di Londra: la borghesia democratica prepara i suoi “squadroni della morte [10]”
Più di 6000 veicoli bruciati: vetture, autobus, camion dei pompieri; dozzine di fabbricati incendiati: magazzini, empori, laboratori, palestre, scuole, asili nido; più di mille arresti e già oltre un centinaio di condanne al carcere emesse; diverse centinaia di feriti: manifestanti, ma anche poliziotti e decine di pompieri; colpi di arma da fuoco sparati sulla polizia. Ogni notte, a partire dal 27 ottobre, sono centinaia i comuni che sono toccati da questo fenomeno in tutte le regioni del paese. Comuni e quartieri tra i più poveri, dove si ammassano, in delle sinistre torri, milioni di operai con le loro famiglie, in gran parte originari del Maghreb o dell’Africa nera.
Una violenza disperata
Quello che colpisce, più ancora che l’ampiezza dei danni e delle violenze, è la loro totale assurdità. Si può capire abbastanza facilmente che dei giovani dei quartieri diseredati, in particolari quelli che vengono dall’immigrazione, abbiano voglia di scontrarsi con la polizia. Ogni giorno sono sottomessi, spesso senza riguardo e con rozzezza accompagnata da insulti razzisti, a controlli d’identità, a perquisizioni, ed è quindi logico che loro identifichino i poliziotti come dei persecutori. Ma qui, le principali vittime delle violenze sono la loro propria famiglia o i loro parenti: i fratelli e le sorelle minori che non potranno più andare alla loro scuola abituale, i genitori che hanno perso la macchina che gli sarà rimborsata ad un prezzo derisorio perché vecchia e comprata usata e che saranno obbligati a fare i loro acquisti lontano da casa perché i magazzini vicini a basso prezzo sono andati in fumo. Inoltre, non è affatto nei quartieri ricchi abitati dagli sfruttatori che i giovani scatenano le loro azioni violente e i saccheggi ma nei quartieri che loro stessi abitano e che saranno ancora più sinistrati e invivibili di prima. Ugualmente, le ferite provocate ai pompieri, persone la cui professione è quella di venire in soccorso di altri, mettendo spesso a repentaglio la propria vita, non può che scioccare. Così come sono scioccanti le ferite inflitte ai passeggeri di un autobus al quale è stato dato fuoco e, ugualmente, la morte d’un uomo di sessanta anni colpito da un giovane a cui sembra lui volesse impedire di commettere violenze.
In questo senso, gli atti di violenza ed i saccheggi che vengono commessi, notte dopo notte, nei quartieri poveri, non hanno niente a che vedere, né da vicino né da lontano con una lotta della classe operaia.
La classe, nella sua lotta contro il capitalismo, è costretta ad usare la violenza. Il rovesciamento del capitalismo sarà necessariamente un’azione violenta poiché la classe dominante, con tutti i mezzi di repressione di cui dispone, difenderà con le unghie e con i denti il suo potere e i suoi privilegi. La storia ci ha insegnato, a partire dalla Comune di Parigi del 1871 che è uno tra i tanti esempi, fino a che punto la borghesia è capace di calpestare i suoi principi di “democrazia” e di “libertà-uguaglianza-fratellanza” quando si sente minacciata: in una settimana (la “settimana di sangue”) sono stati massacrati 30.000 operai parigini perché avevano tentato di prendere il potere nelle loro mani. Ed anche nella difesa dei suoi interessi immediati, nelle lotte che non minacciano direttamente il regno della borghesia, la classe operaia è spesso confrontata con la repressione dello Stato borghese o delle milizie padronali, repressione alla quale oppone la propria violenza di classe.
Ma quello che sta avvenendo in questo momento in Francia non ha niente a che vedere con la violenza proletaria contro la classe sfruttatrice: le principali vittime delle violenze attuali sono gli operai. E, al di là di quelli che subiscono direttamente le conseguenze dei danni provocati, è l’insieme della classe operaia del paese che è toccata: la campagna mediatica intorno agli avvenimenti attuali maschera di fatto tutti gli attacchi che la borghesia scatena in questo momento anche contro i proletari, così come le lotte che questi cercano di condurre per farvi fronte.
La risposta della borghesia
Quanto ai capitalisti e ai dirigenti di Stato, tranquillamente installati nei loro quartieri ricchi, questi mettono a profitto le violenze attuali per giustificare un rafforzamento dei mezzi di repressione. La principale misura del governo francese per fare fronte alla situazione è stata quella di decretare, l’8 novembre, lo stato di emergenza, una misura che è stata applicata l’ultima volta circa 43 anni fa e che si appoggia su una legge adottata oltre cinquanta anni fa durante la guerra di Algeria.
L’elemento maggiore di questo decreto è il coprifuoco, il divieto di circolare nelle strade a partire da una certa ora, come ai tempi dell’occupazione tedesca tra il 1940 e il 1944, o come nel momento dello stato di guerra in Polonia 1981. Ma questo decreto permette molti altri strappi alla democrazia classica (come le perquisizioni di giorno e di notte, il controllo dei media o il ricorso ai tribunali militari). I politici che hanno deciso la messa in atto dello stato di emergenza o che lo sostengono (come il Partito socialista) ci assicurano che non si abuserà di queste misure eccezionali Ma comunque questo costituisce un precedente che è stato fatto accettare alla popolazione, ed in particolare agli operai e domani, di fronte alle lotte operaie che sorgeranno in risposta agli attacchi capitalisti, sarà più facile tirar fuori di nuovo quest’arma dell’arsenale di repressione della borghesia e farla accettare.
Come gli operai, anche i giovani che bruciano le auto non possono ricavare niente di positivo dalla situazione attuale.
Solo la borghesia in una certa misura può trarne vantaggio per il futuro.
Ciò non vuol dire che è stata la borghesia a provocare deliberatamente le violenze attuali.
E’ vero che certi suoi settori politici, come l’estrema destra del “Fronte nazionale”, potrà averne dei vantaggi elettorali.
E’ vero anche che un Sarkozy, che sogna di adescare gli elettori dell’estrema destra per piazzarsi alle prossime elezioni presidenziali, ha gettato olio sul fuoco dicendo qualche settimana fa che bisognava “ripulire” i quartieri sensibili e trattare da “teppaglia”, all’inizio delle violenze, i giovani che vi partecipavano. Ma è chiaro che i principali settori della classe dominante, a cominciare dal governo, ma anche i partiti di sinistra che in generale sono alla testa dei comuni più toccati, sono molto imbarazzati dalla situazione.
E’ un imbarazzo motivato dal costo economico di queste violenze. E’ per questo che Laurence Parisot del patronato francese ha dichiarato al canale radiofonico Europa1 il 7 novembre, che “la situazione è grave, anche molto grave” e che “le conseguenze saranno molto serie per l’economia”.
Ma è soprattutto sul piano politico che la borghesia esprime imbarazzo ed inquietudine: la difficoltà che trova a “ristabilire l’ordine” è un colpo alla credibilità delle istituzioni grazie alle quali governa. Anche se la classe operaia non può trarre alcun beneficio dalla situazione attuale, il suo nemico di classe, la borghesia, sta dando prova della sua difficoltà crescente a mantenere “l’ordine repubblicano” di cui ha bisogno per giustificare il suo posto alla testa della società.
Ed è un’inquietudine che non concerne solo la borghesia francese. In altri paesi, in Europa ma anche dall’altro lato del mondo, come in Cina, la situazione in Francia è sulle prime pagine dei giornali. Anche negli Stati Uniti, dove in genere la stampa presta poca attenzione a quello che si passa in Francia, le immagini delle auto e dei palazzi in fiamme sono continuamente in primo piano nei notiziari della televisione.
Per la borghesia americana la messa in evidenza della crisi che colpisce oggi i quartieri poveri delle città francesi, è l’occasione di un piccolo regolamento di conti: i media ed i politici francesi hanno fatto un gran baccano sul fallimento dello Stato americano rispetto all’uragano Katrina; oggi si vede un certo giubilo nella stampa o presso alcuni dirigenti degli Stati Uniti nel deridere “l’arroganza della Francia” in questa occasione. Questo “scambio di cortesia” è una guerra bella e buona tra due paesi che si contrappongono in permanenza sul piano diplomatico, in particolare sulla questione dell’Irak.
Ciò detto, il tono della stampa europea, anche se con qualche frecciatina al “modello sociale francese” vantato in continuazione da Chirac contro il “modello liberale anglosassone”, esprime una inquietudine reale. Per questo il 5 novembre si poteva leggere sul quotidiano spagnolo La Vanguardia “Che nessuno si sfreghi le mani, le burrasche dell’autunno francese potrebbero essere il preludio ad un inverno europeo”.
Ed è lo stesso da parte dei dirigenti politici: “Le immagini che ci vengono da Parigi sono per tutte le democrazie un avvertimento a fare in modo che questi sforzi di integrazione non devono mai essere considerati conclusi, ma che bisogna senza sosta dare loro nuovo slancio (…) La situazione non è comparabile, ma è chiaro che uno dei compiti del futuro governo sarà accelerare l’integrazione” (Thomas Steg, uno dei portavoce del governo tedesco, lunedì 7 novembre).
“Non dobbiamo pensare di essere tanto diversi da Parigi, è solo una questione di tempo” (Romano Prodi, leader del centro sinistra in Italia e ex presidente della Commissione europea).
“Tutti sono inquieti per quello che sta succedendo” (Tony Blair).
Questa inquietudine è rivelatrice del fatto che la classe dominante prende coscienza del suo fallimento. Anche nei paesi in cui le “politiche sociali” hanno affrontato in maniera differente i problemi legati all’integrazione degli immigrati, la borghesia è posta di fronte a difficoltà che non può risolvere perché derivano dalla crisi economica insormontabile alla quale è confrontata da più di trenta anni.
Oggi, le anime buone della borghesia francese, ed anche il governo che fino ad ora ha brandito più il bastone che la carota, affermano che “bisogna fare qualcosa” per i quartieri più poveri.
Si annuncia un rinnovamento delle città lugubri nelle quali vivono i giovani in rivolta. Si preconizza più lavoro sociale, più luoghi di cultura, di sport e di svago dove i giovani potranno essere occupati piuttosto che andare a bruciare macchine. Tutti i politici sono d’accordo nel riconoscere che una delle cause del malessere attuale dei giovani sta nella disoccupazione di cui sono vittime (più del 50% in questi quartieri).
Quelli di destra invocano facilitazioni alle imprese per installarsi in questi settori (in particolare una riduzione delle imposte). Quelli di sinistra reclamano più insegnanti ed educatori, migliori scuole. Ma né gli uni né gli altri possono risolvere i problemi che si pongono
La disoccupazione non diminuirà perché si mette una fabbrica in un posto anziché in un altro. Il fabbisogno di educatori e di altri lavoratori sociali per occuparsi di centinaia di migliaia di giovani disperati è tale che il budget dello Stato non può farvi fronte, un budget che in tutti i paesi non fa che ridurre l’insieme delle prestazioni “sociali” (sanità, educazione, pensioni, ecc) per garantire la competitività delle imprese nazionali su di un mercato mondiale sempre più saturo. Ed anche se ci fossero più “lavoratori sociali” questo non potrebbe risolvere le contraddizioni fondamentali che pesano sulla società capitalista nel suo insieme e che sono all’origine del malessere crescente di cui soffre la gioventù.
Se i giovani della periferia si rivoltano oggi con dei metodi totalmente assurdi, è perché sono sprofondati in una forte depressione. Nell’aprile 1981 i giovani di Brixton, quartiere derelitto di Londra a forte popolazione di immigrati, diedero origine ad una rivolta simile, e scrissero sui muri questo grido: “no future”. E’ questo “no future”, “nessun futuro”, che avvertono centinaia di migliaia di giovani in Francia, come in tutti i paesi del mondo. E’ sulla loro pelle, nel quotidiano, per la disoccupazione per il disprezzo e la discriminazione che i giovani “casseur” dei quartieri popolari risentono di questa assenza totale di avvenire. Ma non sono i soli. In molte parti del mondo la situazione è ancora peggiore e l’atteggiamento dei giovani assume delle forme ancora più assurde: nei territori palestinesi il sogno di molti bambini è diventare “kamikaze” ed uno dei giochi favoriti dei ragazzi di 10 anni è di circondarsi il corpo con una finta cintura di esplosivi.
Tuttavia questi esempi tra i più estremi non sono che la punta dell’iceberg. Non sono solo i giovani più emarginati, più poveri che sono invasi dalla disperazione. La loro disperazione, i loro atti assurdi non sono che i segni di un’assenza totale di prospettiva, non solamente per loro, ma per l’insieme della società, in tutti i paesi. Una società che, in modo crescente, si dibatte in una crisi economica insormontabile a causa delle contraddizioni insolubili del mondo di produzione capitalista. Una società che, sempre più, subisce le devastazioni della guerra, della fame, delle epidemie incontrollate, di un deterioramento drammatico dell’ambiente, di catastrofi naturali che si trasformano in immensi drammi umani, come lo tsunami dell’inverno scorso o le inondazioni di New Orleans alla fine dell’estate.
Nel 1930 il capitalismo mondiale subì una crisi simile a quella nella quale sprofonda oggi. La sola risposta che il capitalismo è stato capace di dare fu la guerra mondiale. Fu una risposta barbara, ma permise alla borghesia di mobilitare la società e gli animi intorno a questo obiettivo.
Oggi la sola risposta che è capace di dare la classe dominante allo stallo della sua economia è ancora la guerra: è per questo che i conflitti non hanno fine ed implicano sempre più i paesi avanzati o che erano stati risparmiati per un lungo tempo (ad esempio gli Stati Uniti o alcuni paesi dell’Europa come la Jugoslavia negli anni 90). Tuttavia la borghesia non può andare fino in fondo in questo cammino verso la guerra mondiale. In primo luogo perché quando i primi effetti della crisi si sono fatti sentire alla fine degli anni 60, la classe operaia mondiale, ed in particolare nei paesi più industrializzati, ha reagito con un vigore tale (sciopero generale del Maggio 68 in Francia, “autunno caldo” del 69 in Italia, sciopero in Polonia del 70-71, ecc) che ha dato prova di non essere pronta come prima a servire da carne da cannone per le mire imperialiste della borghesia. In secondo luogo perché con la scomparsa dei due blocchi imperialisti, dopo il crollo del blocco dell’Est nel 1989, non esistono più le condizioni militari e diplomatiche per una nuova guerra mondiale, il che non impedisce il moltiplicarsi ed il perpetuarsi dei guerre locali.
La sola prospettiva: la lotta del proletariato
Il capitalismo non ha nessuna prospettiva da offrire all’umanità, se non quella di guerre sempre più barbare, di catastrofi sempre più tragiche, di una miseria crescente per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. La sola possibilità per la società di uscire dalla barbarie del mondo attuale è il rovesciamento del sistema capitalista. E la sola forza che può rovesciare il capitalismo è la classe operaia mondiale. E’ perché, fino ad oggi, la classe non ha ancora trovato la forza di affermare questa prospettiva, attraverso un rafforzamento ed un’estensione delle sue lotte, che centinaia di migliaia di suoi figli sono spinti a sprofondare nella disperazione, esprimendo la loro rivolta in maniera assurda o rifugiandosi nelle chimere delle religioni che promettono loro il paradiso dopo la morte. La vera sola soluzione alla “crisi dei quartieri diseredati” è lo sviluppo delle lotte del proletariato verso la rivoluzione che permetterà di dare un senso ed una prospettiva a tutta la rivolta delle giovani generazioni.
CCI (8/11/05)
La pretesa Frazione Interna della CCI (FICCI) ha pubblicato il 20 maggio sul suo sito Internet un comunicato intitolato "Una nuova aggressione violenta della CCI contro i nostri militanti" che illustra ancora una volta fino a che punto la menzogna e la calunnia costituiscono la sola attività di questa piccola banda di canaglie e spioni. Cosa dice questo comunicato? "Questo sabato 20 maggio, tre militanti della nostra Frazione stavano diffondendo un volantino alla porta del luogo dove si tiene la "Riunione pubblica" della CCI. Di nuovo, una milizia di questo gruppo - che ci ha espulsi nel 2001 - raggiungeva i nostri compagni e con fermezza vietava loro il passaggio sulla strada pubblica. Di nuovo, i nostri compagni hanno subito una vile aggressione fisica; e questa è stata tanto più violenta in quanto essi non hanno voluto "ottemperare", ed hanno cercato di difendersi. Ricordiamo che i nostri militanti erano 3 tra cui una donna, e che dovevano far fronte a 6 o 7 "coraggiosi” energumeni. Se questi miliziani decerebrati hanno smesso di malmenarli e se i nostri compagni se la sono cavata solo con alcuni "lividi", ciò è dovuto unicamente all'intervento di parecchie persone, in strada, venute in loro soccorso. Condanniamo, ancora una volta e nel modo più fermo queste pratiche che non hanno niente a che vedere con il proletariato, ma molto con lo stalinismo di sinistra memoria. Quando si rifiuta il dibattito politico, quando i si sottrae al confronto delle posizioni, la logica dei fatti può solo portavi a dotarvi di mezzi per fare tacere le voci dissonanti. La CCI oggi è a questo"
Noi l’affermiamo in modo categorico: questa versione dei fatti, ancora una volta, è una rete di menzogne!
Nel nostro articolo "Calunnie e delazione, le due espressioni della politica della FICCI verso la CCI" abbiamo messo i puntini sulle i rispetto ad un altro comunicato simile della FICCI dell'11 marzo intitolato “Comunicato della 'Frazione Interna della CCI' a tutti i gruppi e militanti che si rifanno alla Sinistra comunista: Questa volta, ecco fatto! Hanno aggredito e colpito i nostri militanti!” Nel nostro testo denunciamo le menzogne della FICCI che ci accusa di avere “colpito a più riprese” e “continuato a picchiare” i suoi membri e precisiamo che: “In questo senso, possiamo rassicurare la persona che si firma "Bm" e che ha mandato un messaggio alla FICCI dichiarando "La prima cosa è sapere se non siete feriti e se avete bisogno di un qualsiasi aiuto ". Se gli elementi della FICCI hanno esibito delle tumefazioni o dei lividi, queste non sono state fatte dai militanti della CCI".
Questa volta non diremo la stessa cosa al compassionevole "Bm": un flacone di arnica con, in premio, una scatola di cioccolati saranno oggi benvenuti per la FICCI. Effettivamente, se uno dei membri di questa piccola banda di canaglie, il cittadino Juan, è rientrato a casa sua con alcuni lividi, i militanti della CCI ne sanno qualcosa. Ciò detto, il racconto che ne fa la FICCI dell'episodio in cui si è procurato tali "lividi" non ha niente a che vedere con la realtà. Nel nostro articolo "Calunnie e delazione, le due espressioni della politica della FICCI verso la CCI" abbiamo spiegato perché, d'ora in poi, interdiamo ai membri di questa gli accessi del luogo dove si tengono le nostre riunioni pubbliche:
"… in seguito al nostro intervento all’interno della mobilitazione degli studenti contro il CPE, ci aspettiamo la venuta nuovi elementi alla nostra riunione pubblica dell'11 marzo dedicata proprio a questa mobilitazione (ciò che effettivamente è avvenuto a Parigi ed in altre città), e non vogliamo che la FICCI abbia l’occasione di continuare davanti e rispetto a questi nuovi elementi la politica che essa ha condotto per anni: calunnie, provocazioni e soprattutto comportamenti polizieschi. In effetti, i simpatizzanti che già venivano alle nostre riunioni pubbliche erano conosciuti da tempo dai membri della FICCI. In questo senso, il lavoro parassitario e da sbirri, in cui quest’ultima si è specializzata, non poteva applicarsi a loro. Invece, non possiamo tollerare che nuovi elementi che si interessano alla politica comunista siano immediatamente “schedati” dalla FICCI. Nella misura in cui l'arrivo di questi nuovi elementi si conferma e tenderà probabilmente ad aumentare nel futuro, la CCI ha dunque deciso di interdire d’ora in poi ai membri della FICCI, non solo l'accesso nostre riunioni pubbliche, ma anche di gironzolarvi nei pressi".[1]
Per la riunione pubblica del 20 maggio a Parigi, avevamo dunque disposto ad una cinquantina di metri dal portone di entrata della sala della riunione più gruppi di due compagni incaricati di sbarrare la strada ai membri della FICCI. Quando hanno visto arrivare tre membri di quest'ultima, due dei nostri compagni gli hanno detto di cambiare strada. Uno dei nostri compagni, K., si è messo davanti al membro della FICCI che si fa chiamare "Pédoncule" (quello che aveva minacciato uno dei nostri compagni di "tagliargli la gola") e l'altro, F., davanti a Juan, il membro più eminente della FICCI. Il nostro compagno F. ha allargato le braccia dicendo "non si passa!". È in quel momento che Juan, senza intimazione ed approfittando che il gesto del nostro compagno F. gli impediva di proteggersi, gli ha assestato un violento pugno al viso ed un colpo di ginocchio nel basso ventre prima di afferrarlo al collo. È stato talmente evidente che l'aggressore era Juan che una anziana signora asiatica che si trovava lì vicino gli ha preso il braccio per impedirgli di continuare a picchiare. Anche il signor Pédoncule ("il taglia gola" della FICCI) ha tentato di calmare Juan (per timore di rappresaglia o perché aveva capito che il suo complice era diventato folle?). In seguito all'intervento del cittadino Pédoncule e dell’anziana signora, il teppista Juan ha ordinato ai suoi due complici, il "taglia gola" e la sua compagna Aglaé: “Ritiriamoci!”. Alcuni istanti dopo altri nostri compagni sono giunti sul luogo e, constatando che il nostro compagno F. era stato ferito, hanno deciso di partire all'inseguimento del commando della FICCI per fargli capire che la CCI non tollera tali operazioni, "a colpi di pugni", contro i nostri militanti. Quando i nostri compagni hanno raggiunto i tre della FICCI, uno di loro, B. gli ha detto: “non vi lasciamo andare così”. A questo punto Juan ha di nuovo dato un pugno ed un calcio al nostro compagno B. che si è legittimamente difeso restituendogli più pugni (relativamente moderati visto che, secondo gli stessi termini della FICCI, Juan ha riportato solamente "qualche livido"). Parecchie persone sono allora intervenute ma era talmente chiaro che, ancora una volta, era stato il signor Juan a scatenare le ostilità che una di queste persone (un uomo di una quarantina di anni, anche lui d'origine asiatica) ha accompagnato per un centinaio di metri i nostri compagni verso il luogo della riunione pubblica. Questo testimone ha detto loro che era evidente che fossero “gli altri” gli aggressori.
Questi sono i fatti come si sono realmente svolti.
Effettivamente, questa volta, uno dei nostri compagni è stato costretto, per difendersi dalle aggressioni dell'individuo Juan, a dare dei colpi ad un membro della FICCI (contrariamente a ciò che lascia intendere la FICCI, gli altri due, Pédoncule ed Aglaé, non hanno ricevuto alcun colpo). Ciò che il "comunicato" della FICCI si guarda bene dal dire, è che l'atteggiamento del nostro compagno faceva seguito a due aggressioni successive da parte di Juan. Nei fatti, è stata la prima volta che un membro della CCI ha colpito un membro della FICCI (contrariamente a ciò che quest'ultima racconta in modo menzognero in tutti i suoi Bollettini). Per contro, non è la prima volta che il signor Juan aggredisce un militante della CCI. Già il 22 aprile 2002, questo signore aveva dato un calcio ad uno dei nostri compagni con il pretesto (assolutamente falso) che questi aveva “aggredito” un altro membro del FICCI, Jonas (vedere su tale argomento la nota 10 del nostro articolo "Il PCI (Le Prolétaire) a rimorchio della ‘frazione’ interna della CCI" in Révolution Internationale n° 328).
Evidentemente, alcuni potrebbero pensare che non ci sono molte ragioni per credere alla nostra versione dei fatti rispetto a quella della FICCI. Tutto sommato, sarebbe la nostra parola contro la loro. A ciò vogliamo opporre i seguenti fatti:
1. numerosi articoli pubblicati nella nostra stampa e sul nostro sito Internet hanno già denunciato e confutato, con prove e documenti, le menzogne più grossolane della FICCI (non le abbiamo confutate tutte perché ce ne sono talmente tante che correremmo il rischio di sbilanciare completamente le nostre pubblicazioni a scapito delle questioni politiche fondamentali che si pongono alla classe operaia). In particolare, abbiamo smentito nei dettagli la menzogna, reiterata nell'ultimo comunicato della FICCI, secondo la quale noi avremmo "espulso" i suoi membri nel 2001.[2]
2. il fatto che i membri della FICCI si sono comportati come spioni può essere verificato facilmente dalla semplice consultazione del suo Bulletin 14 che si trova ancora sul suo sito Internet, in particolare i testi "L'ultima manovra della CCI nei confronti della nostra frazione: una lettera di Revolución Mundial" e "Chiarificazione sull'articolo di RI n°328 novembre 2002 sul PCI-Le Prolétaire". Abbiamo confutato le sue furbizie su questo argomento nei nostri articoli "I metodi polizieschi della FICCI" (Revolution Internazionale n°330) e "Le riunioni pubbliche della CCI vietate agli spioni" (Révolution internationale n°338).
3. per gli avvenimenti che si sono svolti il 22 gennaio 2005 (minacce di morte contro uno dei nostri militanti da parte del denominato "Pedoncule"), l'11 marzo 2006 (preteso pestaggio dei membri della FICCI da parte di nostri militanti) ed il 20 maggio (pretesa "nuova aggressione violenta della CCI contro i militanti della FICCI"), siamo preparati totalmente ad un confronto dei nostri militanti con i membri della FICCI davanti ad una commissione di membri di organizzazioni della Sinistra comunista. Non è la prima volta che facciamo la proposta di costituire un Jury d’onore di fronte alle accuse della FICCI. Sapendo bene che una tale istanza rischierebbe di smascherare le sue menzogne ed i suoi colpi bassi, la FICCI ne ha sempre rigettato il principio, come fa ancora una volta nel suo ultimo Bulletin con il testo "Su nuovi tentativi della CCI attuale per licenziare compagni attraverso una giuria di onore".
4. un'ultima illustrazione del metodo della FICCI, consistente nel far proprio il motto di Goebbels (capo della propaganda nazista) "Quanto più grande è la menzogna tanto più è credibile", ci è stata data recentemente attraverso il suo articolo del Bulletin 35 "Manifestazioni e scioperi in Francia: La nuova CCI afferma la sua solidarietà ai CRS ed alla polizia antisommossa" al quale abbiamo risposto con il nostro testo "La pretesa ‘solidarietà’ della CCI coi CRS: come la FICCI prova a mascherare i suoi comportamenti polizieschi". (vedi sul nostro sito)
Finora la FICCI, a parte un calcio di Juan nel 2002, aveva limitato (se così possiamo dire) i suoi comportamenti di banda di canaglie al furto, al ricatto, alla calunnia, alla delazione ed alle minacce di morte (scusate se è poco). Questa volta uno dei suoi membri ha aggredito e picchiato due dei nostri compagni. È chiaro che questa aggressione è in linea diretta con i comportamenti precedenti, tanto della FICCI come insieme, che della canaglia Juan in particolare. La sola passione che anima la FICCI non è certamente quella della difesa della lotta della classe operaia, ma l'ODIO per la CCI, e per i suoi militanti [3]. Siamo persuasi che i membri della FICCI non hanno finito di esprimere questo odio che li spinge oggi a comportarsi come bruti, svelando così apertamente la loro appartenenza al sottoproletariato e non al campo politico proletario. Come abbiamo messo a più riprese in evidenza (e in particolare nel nostro articolo "Risposta alle calunnie vergognose di una piccola associazione di malfattori"), i comportamenti di questo trio di mafiosi già da ora sono al servizio delle forze di repressione dello Stato capitalista. A chi, questi tristi figuri, vogliono ancora far credere che la loro preoccupazione è il "confronto politico degli argomenti"? I comportamenti ripugnanti di Juan sulla piazza pubblica il 20 maggio (dopo quelli del suo amico "taglia gola") ci hanno dato ancora un'idea molto chiara della natura dei loro "argomenti" (sic!). La nostra organizzazione non si lascerà intimidire dai comportamenti da canaglia e da altri atti di brutalità del furibondo Juan o di chiunque altro. Più che mai, l'accesso alle nostre riunioni pubbliche rimarrà interdetto agli spioni, ai provocatori, ai "picchiatori" ed altri "taglia gola" della FICCI. Di fronte alle aggressioni fisiche di questa piccola banda di degenerati, la CCI saprà difendersi, saprà difendere i suoi principi e ciascuno dei suoi militanti e dei suoi simpatizzanti con la più grande determinazione come ha fatto il 20 maggio. È questo che abbiamo messo in evidenza nel punto di informazione dato nella nostra ultima riunione pubblica subito dopo questi avvenimenti.
Corrente Comunista Internazionale (2 giugno 2006)
1. La validità della nostra preoccupazione di non permettere alla FICCI di "schedare" gli ultimi arrivati alle nostre riunioni pubbliche si è confermata fin dalla riunione che abbiamo tenuto il 20 maggio. Difatti, alla fine di questa uno studente, che aveva sostenuto un ruolo di primo piano nelle assemblee generali di una delle università della regione parigina, ci ha detto che non ci teneva assolutamente a che la sua presenza alla nostra RP fosse conosciuta in quanto ciò rischiava di “aggravare ancora di più la sua situazione” presso alcuni dei suoi insegnanti da cui temeva delle rappresaglie in seguito alla sua partecipazione alla mobilitazione contro il CPE. Siamo ben coscienti che le misure che prendiamo contro gli spioni della FICCI non possono impedire alla polizia di mandare un infiltrato ad informarsi nelle nostre riunioni pubbliche. Abbiamo già risposto a questa obiezione: "Evidentemente questo è perfettamente vero. Ma ciò significa che dobbiamo far lasciar fare quando delle persone che hanno già dimostrato di esser pronte a pubblicare qualsiasi cosa, che hanno già dichiarato di non si sentirsi tenuti a nessuna lealtà verso la CCI né verso i suoi militanti (né verso i suoi simpatizzanti, possiamo aggiungere) di cui hanno una conoscenza dettagliata, vengono alle nostre riunioni riempiendo i loro taccuini di copiose note? Insomma, dovremmo lasciare venire degli spioni palesi e accettarli con la scusa che non possiamo sondare gli spioni in incognito?" ("Le riunioni pubbliche della CCI vietate agli spioni", Révolution Internationale n°338).
2. La prima esclusione di un membro della FICCI, Jonas, risale a 2002 ed abbiamo spiegato nella nostra stampa i motivi di questa esclusione (vedi il "Comunicato ai nostri lettori" in Rivoluzione Internazionale n°125). In quanto agli altri membri della FICCI, è nella primavera 2003 che sono stati esclusi per delazione al nostro 15° Congresso internazionale (in particolare vedi “15° Congresso della CCI: Rafforzare l'organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo” nella in Rivoluzione Internazionale n°131). Del resto è talmente vero che i membri della FICCI non sono stati esclusi nel 2001 che due di essi erano presenti alla riunione plenaria del nostro organo centrale internazionale che si è tenuto nel gennaio 2002, dove hanno preso conoscenza dei rapporti presentati in quella occasione e hanno preso parte al voto delle risoluzioni adottate da questa riunione (fatti che sono confermati ampiamente da differenti testi della FICCI pubblicati nel suo Bulletin n°6).
3. A che cosa bisogna attribuire la rabbia isterica di Juan che, fino ad ora, si è accontentato di sghignazzare, di "arrotolarsi le maniche" e di provocare i nostri compagni (una delle sue "specialità" è minacciare questo o quello di rompergli "la bocca" il giorno in cui l'avrebbe incontrato da solo)? Si può immaginare che la pubblicazione sul nostro sito Internet, alcuni giorni prima, della nostra presa di posizione "Calunnie e delazione, le due espressioni della politica della FICCI verso la CCI" c'entrino in qualche modo, in particolare per il fatto che in questo testo abbiamo messo in evidenza che la FICCI non aveva niente da dire sulla mobilitazione contro il CPE (ciò che l'obbligava a plagiare le nostre prese di posizione). Si può pensare anche che il nostro intervento e l'impatto in questo movimento le hanno fatto salire il tasso di adrenalina, poiché ha messo in evidenza la totale assenza de "l'intervento" della FICCI. Si può pensare anche che la pubblicazione sul nostro sito di una lettera di A., supporter della FICCI, gli ha fatto perdere la testa poiché A. annunciava che era pronto a sporgere querela alla polizia contro i militanti della CCI (vedi il nostro articolo "La FICCI riceve il tipo di solidarietà che merita" sul nostro sito). A meno che l'affermazione di A. ("contrariamente alla FICCI, io mi difenderei fisicamente molto seriamente"), non abbia punto Juan nel vivo: conoscendo il personaggio da lunga data, non dubitiamo un solo istante che questo eroe da fumetto aveva bisogno di provare ai suoi simpatizzanti che lui evidentemente è un vero "capobanda". I colpi dati ai nostri compagni dal “boss” Juan avrebbero costituito una prova che anche lui, come A., "aveva qualche cosa nel pantalone": ciò sarebbe completamente nella "logica" di questo povero tizio (benché pericoloso) che passo il suo tempo a gonfiare il torace e giocare al gradasso come un bambino di 5 anni che vuole far colpo sui suoi amichetti della scuola materna.
Pubblichiamo una lettera di minacce che c'è stata inviata da un “sostenitore” di una piccola associazione di malfattori autoproclamata “Frazione interna della CCI (composta da alcuni elementi che la CCI ha escluso dai suoi ranghi per i loro comportamenti da spioni), seguita da una breve risposta.
Parigi il 13 marzo 2006
Alla C.C.I.
Avete brillato ancora per il vostro disprezzo per il confronto politico ed anche per la mancanza di buona educazione. Veramente giocate un ruolo che non potrà che rovinare il poco credito politico che vi resta tra i compagni che vi seguono, voi diventate un campo di allenamento per i colpi di mano dopo essere stati quello della stupidità politica. Ciò non mi tocca tanto per i vostri interessi di bottega essendo essi già definitivamente rovinati ai miei occhi, ma per le persone che vi osservano aspettando ingenuamente da voi un'illustrazione di ciò che è una politica proletaria, è un disastro! Non possono avere altro che una sordida ripetizione di ciò che è stata la politica stalinista contro i suoi oppositori in questa sinistra parte del XX° secolo, bell’esempio per la gioventù! Tenetelo a mente: se per disgrazia uno di voi avesse usato le mani in mia presenza su un mio conoscente o su me stesso, io non esiterò un secondo a sporgere querela. Sappiate che non ho nessuno scrupolo e sarò tenace: niente grazia per i maiali! Sono molto bene informato sulla materia. Inoltre, contrariamente alla FICCI, mi difenderò fisicamente con molta serietà.
A buon intenditore, saluti, A.
La nostra risposta
La lettera di questo simpatizzante della FICCI richiede alcune osservazioni.
1) A. si permette di farci una piccola lezione di «morale proletaria» e denuncia con virulenza il nostro disprezzo della «buona educazione». Non si sa quale lettore, i cui neuroni non siano stati distrutti completamente dalla putrefazione della decomposizione capitalista, potrà farsi un'idea chiara di ciò che è la «buona educazione» e la «politica proletaria» raccomandata dal nostro detrattore.
2) A. comincia con l’affermare che non avrà «alcun scrupolo» a «sporgere querela», se uno dei nostri compagni dovesse usare le mani su «un suo conoscente» (cioè i suoi amici della FICCI!). La prima cosa che si deve constatare, è che questo “sostenitore” apporta pubblicamente oggi e senza mezzi termini la sua benedizione agli atteggiamenti da gangster della FICCI (furto, spiate calunnia, menzogne grossolane, minacce di morte contro i nostri compagni)! Ma la «politica proletaria» secondo chi ci dà lezioni non si ferma là. Il signor A. non ha «nessuno scrupolo» ad affermare alto e forte che non esiterà a fare appello alle forze di repressione dello stato borghese contro i nostri compagni. Applausi! Il signor Sarkozy può contare su A. per pulire come una macchina “Kärcher” (1) i militanti della CCI. Può conferire ai tirapiedi della FICCI la medaglia d’oro della «buona educazione»!
3) questa sedicente politica «proletaria» raccomandata da A. non ci sorprende. Quanto si traffica con degli spioni, non è sorprendente che si finisca per... chiamare gli sbirri alla riscossa. Chi si assomiglia si mette insieme! Da parte nostra, abbiamo sempre rigettato la politica tipicamente BORGHESE consistente nel chiamare le forze di repressione dello stato capitalista quando la nostra organizzazione è attaccata. Infatti la CCI non è andata a «sporgere querela» al commissariato quando, nel 1981, il losco individuo Chénier ed i suoi complici ci avevano rubato del materiale. Siamo andati noi stessi a recuperare questo materiale. È nella continuità di questa politica (che è sempre stata quella del movimento operaio) che non abbiamo «sporto querela» quando i piccoli teppisti della FICCI ci hanno, a loro volta, rubato del denaro e del materiale politico (in particolare lo schedario degli indirizzi degli abbonati alla nostra pubblicazione in Francia). Ci teniamo, a questo proposito, ad informare oggi i nostri lettori che, nella primavera 2002, una delegazione della CCI è andata a recuperare una parte del materiale dell'organizzazione (gli archivi dell'organo centrale della CCI) nella seconda casa di un membro della FICCI, Olivier. Sapevamo che l'allarme di questa residenza era collegato direttamente alla gendarmeria (per proteggere gli oggetti di valore contro i furti). È per ciò che abbiamo atteso che Olivier fosse presente per recuperare i nostri archivi che si preparava a «traslocare». Il cittadino Olivier non ha opposto alcuna resistenza e ci ha ridato tutti i documenti interni che erano depositati in questo luogo. Questa operazione di recupero del nostro materiale politico si è svolta senza alcun scontro e nel più grande rispetto delle regole della «buona educazione» (a tal punto che la compagna di Olivier che era presente sul luogo ed è stata testimone della «scena», ci ha anche invitati a prendere l'aperitivo!). È per questo che Olivier non è andato in giro a gridare che è stato brutalizzato dai nostri compagni.
4) questa lettera di minaccia rivela tanto più che la «buona educazione» rivendicata dal suo autore si avvicina più ai costumi degli hooligans e delle bande mafiose che ai metodi della classe operaia: «mi difenderò fisicamente con molta serietà». Questo abbaiare di cane si situa nella piena continuità delle minacce di morte proferite, davanti a parecchi testimoni, dal piccolo malvivente Pédoncule ("eminente" membro della FICCI) ad uno dei nostri compagni: «ti taglierò la gola!». Ecco la bella «morale proletaria» di cui si fa beffa questo «sostenitore» della FICCI! Gli spioni possono contare sulla lealtà indefettibile e senza principio di questo prode cavaliere della «buona educazione»! Da parte sua, la CCI non si lascerà intimidire dai propositi «muscolosi» di A. ed altre minacce di morte dei suoi «amici sgozzatori». Continueremo a difendere i principi del movimento operaio non permettendo che degli elementi provocatori (la cui unica «morale» è quella del lumpen) vengano a sabotare le nostre riunioni pubbliche. Non permetteremo che degli spioni s’infiltrino nelle riunioni pubbliche della CCI per sorvegliare i nostri compagni ed i nostri contatti. In quanto ai nostri pretesi metodi «stalinisti», non possiamo che consigliare ad A. di leggere il nostro articolo intitolato «Risposta alle vergognose calunnie di una piccola associazione di malfattori» in cui denunciamo, nell’autunno 2005, la complicità della FICCI con un cripto stalinista in Argentina, il cittadino B. Ma, su questo sordido affare, A. preferisce probabilmente mettersi la testa nella sabbia, come gli struzzi, per restare fedele ai suoi «conoscenti» della FICCI! Evidentemente, la compagnia dei suoi «conoscenti» l’ha fatto uscir fuor di testa. Se ci tiene realmente a sapere cosa significa “morale proletaria”, possiamo consigliargli solamente di prendere un po’ di distanza da loro.
(1) Kärcher è la ditta leader mondiale nel settore delle pulizie.
Per la FICCI nessuna menzogna è troppo grossa per calunniare la nostra organizzazione. Infatti sul suo sito Internet (Bollettino Comunista 35) si può leggere un testo intitolato “Manifestazioni e scioperi in Francia: la nuova CCI afferma la sua solidarietà con la CRS e la polizia antisommossa!” che si dà come obiettivo di dimostrare che la "nuova CCI" ha commesso un "tradimento aperto, evidente, della vera posizione della CCI, della Sinistra comunista e di tutta la storia del movimento operaio" poiché "nella realtà della lotta delle classi, [essa] solidarizza con la polizia, la CRS e la gendarmeria". Quali sono secondo la FICCI le "prove" di questo "tradimento" della CCI?
"Ancora una volta, la CCI attuale liquida una delle posizioni di principio del movimento operaio. Di fronte alla repressione violenta delle manifestazioni studentesche ed operaie in Francia da parte della polizia borghese, esprime la sua solidarietà con... la CRS: "L'assemblea generale dell'università di Censier ha adottato una mozione "in sostegno agli studenti feriti, contro le distruzioni fatte ai palazzi ed in solidarietà con gli uomini della CRS feriti”. Il punto importante di questa mozione è che non è assolutamente in sostegno alla repressione fatta dalla polizia, ma riconosce che i figli dei poliziotti, che sono mal pagati, sono essi stessi toccati dagli attacchi del governo (come alcuni studenti hanno provato a spiegarlo alla polizia antisommossa durante il confronto non violento (...)”. (Note sulle lotte studentesche in Francia, 19 marzo 2006, apparso solo sul sito inglese della CCI, tradotto e sottolineato da noi).
Che si trattasse di una mozione adottata (e conosciuta solo dalla CCI) in un'assemblea, non cambia niente al fatto che la CCI l'appoggia apertamente, come un esempio da seguire. La CCI dei liquidatori esprime così pubblicamente la sua "solidarietà" con la polizia, con la CRS e le guardie mobili. E quando questi ultimi avevano appena, durante la manifestazione della vigilia, spedito un operaio all'ospedale ancora oggi in coma tra la vita e la morte. E non si tratta là di uno strappo isolato legato ad un semplice opportunismo volgare nei confronti di studenti che non si vorrebbe contraddire per meglio lisciare il pelo e reclutare: "Gli studenti e i giovani in lotta non si fanno alcuna illusione sul ruolo delle pretese “forze dell'ordine”. (...) Tuttavia, alcuni (...) hanno tentato di discutere con le Guardie Mobili (...) Quelli che hanno provato a discutere con le guardie mobili non sono degli ingenui. Al contrario, hanno dato prova di maturità e di coscienza. Sanno che dietro i loro scudi ed i loro manganelli, questi uomini armati fino ai denti sono anche degli esseri umani, dei padri di famiglia i cui figli sono anch’essi colpiti dalla CPE (...) (volantino della CCI dell’11 marzo 2006, sottolineiamo noi).
Qui, la CCI chiama a dialogare, a comprendere ed a solidarizzare colla CRS, la polizia antisommossa, antioperaia sotto il pretesto che sono degli "esseri umani” e “ dei padri di famiglia con bassi salari”!
Al di là di questa denuncia del tradimento della CCI dei principi del movimento operaio, sarebbe necessario che la FICCI denunciasse anche il "tradimento" di Trozkij quando descrive ed approva l'atteggiamento degli operai russi nel febbraio 1917 nei confronti dei cosacchi di cui non nasconde tuttavia “ che erano fortemente impregnati di spirito conservatore” e che erano “eterni protagonisti delle repressioni e delle spedizioni punitive”. (Storia della Rivoluzione russa, Sugarco ed. pag. 101-2). Che ci dice Trozkij? "Tuttavia, i cosacchi attaccarono la folla,anche se non brutalmente (…); i manifestanti si gettavano da una parte e dall’altra, poi si ricomponevano in gruppi serrati. Nessuna paura nella moltitudine. Una voce correva di bocca in bocca: “i cosacchi hanno promesso di non sparare”. Di tutta evidenza, gli operai erano riusciti ad intendersi con un certo numero di cosacchi”. (ibid. pag. 100) (…) I cosacchi cominciarono a rispondere individualmente alle domande degli operai ed ebbero persino qualche breve conversazione. (ibid. pagina 101) (…) Uno dei dirigenti autentici di quelle giornate, l'operaio bolscevico Kajurov racconta che i manifestanti ad un certo punto erano tutti fuggiti, sotto i colpi di scudiscio della polizia a cavallo e di fronte a un plotone di cosacchi. Allora lui, Kajurov ed alcuni altri operai che non avevano seguito i fuggiaschi, si tolsero il berretto, si avvicinarono ai cosacchi con il berretto in mano: "Fratelli cosacchi, venite in aiuto agli operai nella loro lotta per pacifiche rivendicazioni! Guardate come ci trattano, noi, operai affamati, questi faraoni [i poliziotti a cavallo]. Aiutateci!" Che giusto calcolo psicologico, che gesto inimitabile, il tono volutamente ossequioso, i berretti in mano! Tutta la storia delle battaglie di strada e delle vittorie rivoluzionarie pullula di improvvisazioni di questo genere." (ibid. pag. 103).
Gli operai russi sapevano perfettamente quale era la funzione dei cosacchi. Sapevano che erano, per citare la FICCI a proposito della CRS: “un corpo istituzionale organizzato e disciplinato, ben addestrato tanto fisicamente che ideologicamente nell'arte di rompere senza rimorsi i crani di operai e di studenti. Si può dire che il loro unico “ lavoro” , la loro unica funzione [era] di reprimere brutalmente i movimenti delle masse operaie”. Conoscevano il loro stato di servizio nel quale gli assassini di operai non si contavano più. Tuttavia, gli stessi operai erano “riusciti ad intendersi con un certo numero di cosacchi", discutevano con essi e "ponevano loro delle domande", si sono “tolti i berretti” davanti ad essi e hanno parlato loro “con un tono ossequioso”.
Ed il peggio, è che Trozkij saluta il loro atteggiamento! Il traditore! Non è dunque solamente la CCI ma Trozkij stesso che la FICCI deve accusare di voler "nascondere il carattere repressivo dello stato capitalista ed instillare la fiducia nei suoi strumenti”! Aspettiamo con impazienza una tale presa di posizione della FICCI che denuncia questo “tradimento immondo” commesso da Trozkij nel suo libro “La rivoluzione russa”. Facendo ciò, occorrerà che essa si allinei sugli stalinisti che non hanno mai perso un'occasione per affermare che tutta la politica di Trozkij durante la rivoluzione del 1917 è consistita nel tentare di sabotare la vera linea rivoluzionaria rappresentata da Lenin e… Stalin. Occorrerà che essa faccia una critica spietata delle posizioni della Sinistra comunista, particolarmente quella d’Italia, che ha sempre salutato il ruolo di primo piano giocato da Trozkij nella vittoria di questa rivoluzione e la grande qualità politica del libro che ha scritto sull’argomento. Seriamente, non bisogna avere una profonda conoscenza della storia del movimento operaio per sapere che una rivoluzione è possibile solamente quando una parte significativa delle forze di "mantenimento dell'ordine borghese" manifesti la sua "neutralità", cioè rinunci a difendere gli sfruttatori, o passi decisamente dalla parte della classe operaia. È chiaro che un tale processo può avere esito positivo solamente quando sono date le principali condizioni della rivoluzione ma anche in scontri sociali che non sono rivoluzionari, il pericolo di una mancanza di affidabilità delle forze di repressione costituisce una preoccupazione per la borghesia. Così è stato nel 1968, è accaduto in parecchi luoghi (particolarmente nella fabbrica di aerei di Marignane) che gli operai e la CRS si imbarcano in un tipo di "fraternizzazione". Così, gli uomini della CRS che erano di servizio davanti alla fabbrica di Marignane avevano proposto agli operai che la occupavano di andare a mangiare alla loro mensa, ciò dette l'opportunità di lunghe discussioni. Va detto che questa compagnia di CRS è stata trasferita alla fine della settimana a parecchie centinaia di km di distanza. Tutto questo i membri della FICCI dovrebbero saperlo se restasse loro il più piccolo ricordo di ciò che avevano appreso quando erano in un'organizzazione rivoluzionaria, la nostra. Ma da loro i riferimenti alle esperienze del movimento operaio ci sono solo per imbrogliare quelli che vogliono credere ancora alle loro menzogne e per mascherare il loro vero tradimento di queste esperienze. Ciò che li interessa innanzitutto è di "demolire la CCI" per la quale nutrono un odio inespugnabile. E per fare questo tutto è utile, comprese le menzogne più immonde.
È così che la FICCI cerca di far credere che la CCI vuole "nascondere" che "lo stato attuale è l'organo di dominio della classe capitalista, dominio che poggia su due pilastri: la mistificazione ideologica e la repressione (…) che la polizia antisommossa, i CRS e le guardie mobili in Francia sono uno dei principali strumenti di repressione di cui dispone lo stato capitalista. Essa vorrebbe "nascondere" che "la presenza della CRS nelle manifestazioni attuali non ha per scopo di scontrarsi con gruppi minoritari violenti (manipolati spesso dalla polizia lei stessa), né di proteggere le vetrine dei negozi (ed ancora meno di "proteggere" la libertà di manifestazione!), ma innanzitutto di terrorizzare le masse che vogliono lottare, dissuaderli dal cercare di uscire dal quadro dell'ordine stabilito ed imposto dalla borghesia". Ed per quale scopo la CCI farebbe tutti questi misteri? La FICCI ci dà la fine parola della storia: "per nascondere il carattere repressivo dello stato capitalista ed instillare la fiducia nei suoi strumenti! (…) per nascondere che, presto o tardi, in un prossimo movimento, quando le masse operaie si affronteranno e romperanno il controllo ideologico e politico dei sindacati e dei partiti di sinistra del capitale, queste masse (e non i gruppi minoritari) dovranno anche scontrarsi ed opporsi alla repressione attuata dalle istituzioni specializzate dello stato che sono la CRS e le guardie mobili!”
Insomma, la volontà della CCI sarebbe di mandare gli operai allo sbaraglio nascondendo loro la repressione che li aspetta. Bisognava osare!
In effetti, probabilmente per questo scopo abbiamo scritto nei nostri articoli e nei nostri volantini recenti: “Gli studenti e i giovani in lotta non si fanno nessuna illusione sul ruolo delle pretese ‘forze dell'ordine’. Esse sono le ‘milizie del capitale’ (come lo scandivano gli studenti) che difendono, non gli interessi della ‘popolazione’ ma i privilegi della classe borghese. ‘L'ordine repubblicano’, è il ‘disordine’ di una società che condanna alla disoccupazione, alla precarietà ed alla disperazione masse crescenti di giovani che si danno un gran da fare per provare ad avere una vita decente. (…) A quelli che vengono attaccati con misure ignobili come il CPE e che vogliono utilizzare le facoltà come luoghi di discussione e di dibattito per organizzare la loro risposta, si risponde con la repressione, le granate lacrimogene ed i manganelli. Ecco il vero viso della nostra bella ‘democrazia repubblicana’. Ecco il vero viso della famosa ‘libertà, uguaglianza fraternità’ generata dalla rivoluzione borghese del 1789”! (Il nostro volantino del 10 marzo: "La CRS alla Sorbonna: no alla repressione dei figli della classe operaia [18]"!, dietro il sottotitolo “l'ordine” dei manganelli e delle granate lacrimogene).
"Gli studenti e liceali che hanno protestato senza violenze nelle manifestazioni del 7 marzo e del 14 marzo non si battono solo per se stessi. Essi manifestano massicciamente per l'avvenire di TUTTA la società, per tutte le generazioni, per i disoccupati ed i lavoratori precari, per dare una prospettiva ai giovani delle periferie e permetter loro di sormontare la disperazione che li ha spinti in una violenza cieca nell’ultimo novembre. Essi lottano contro la decomposizione del tessuto sociale, contro la concorrenza di tutti contro tutti, contro il ‘ciascuno per sé’! La sola risposta che hanno ricevuto, è la repressione dello stato poliziesco del Signore Sarkozy! ‘L'ordine repubblicano’ che questo Stato si suppone preservare è il ‘disordine’ di una società che condanna alla disoccupazione, alla precarietà ed alla disperazione masse crescenti di giovani che si danno un gran da fare per provare ad avere una vita decente. È l’ordine dell'intimidazione e del manganello! È la provocazione delle bande reazionarie dell'estrema destra alle quali portano un contributo involontario alcuni piccoli gruppi di incoscienti che credono d’indebolire lo Stato bombardando i CRS, agli ordini delle cineprese dei media, di piccole lattine di birra o di barriere metalliche! Un ‘ordine’ che trova un potente sostegno nella manipolazione ed il blackout organizzato dai media, particolarmente dalla televisione. Un ‘ordine’ sostenuto anche dai sindacati dei salariati che si rifiutano di denunciare le menzogne e le manipolazioni del telegiornale, che si rifiutano, malgrado le loro dichiarazioni ufficiali, di fare dei volantini e di chiamare alle assemblee generali di massa nelle imprese per dire la verità ai salariati". (nostro volantino del 16 marzo "Solidarietà di tutti i lavoratori salariati con gli studenti e liceali in lotta contro la CPE [19]!"
Questa [la classe operaia], nella sua lotta contro il capitalismo, è costretta ad usare la violenza. Il capovolgimento del capitalismo sarà necessariamente un'azione violenta poiché la classe dominante, con tutti i mezzi di repressione di cui dispone, difenderà con forza il suo potere ed i suoi privilegi. La storia ci ha insegnato, particolarmente la Comune di Parigi del 1871 tra molti altri esempi, a che punto la borghesia è capace di mettere sotto i piedi i suoi grandi principi di ‘democrazia’ e di ‘libertà-uguaglianza-fraternità’ quando essa si sente minacciata: in una settimana (la ‘settimana insanguinata’) sono stati massacrati 30.000 operai parigini perché avevano tentato di prendere il potere nelle loro mani. E anche nella difesa dei suoi interessi immediati, nelle lotte che non minacciano direttamente il regno della borghesia, la classe operaia è confrontata spesso alla repressione dello stato borghese o delle milizie padronali, repressione alla quale oppone la sua propria violenza di classe.” (‘Moti nelle periferie francesi: di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe è portatrice d’avvenire’ [20] in Révolution Internationale n° 363). "Per rovesciare il capitalismo e costruire la vera comunità umana mondiale, la classe operaia sarà obbligata, nel futuro, a difendersi anche con la violenza contro la violenza dello stato capitalista e di tutte le forze di appoggio del suo apparato repressivo. Ma la violenza di classe del proletariato non ha rigorosamente niente a vedere coi metodi del terrorismo o delle sommosse delle periferie (come vuole far credere la propaganda borghese per giustificare le azioni della polizia , della repressione dei lavoratori, degli studenti e certamente dei veri militanti comunisti)”. (‘Saluto alle giovani generazioni della classe operaia [21]’ in Révolution Internationale). La FICCI vuole farci passare per gli ausiliari della repressione poliziesca. Per fare questo, ‘nasconde’" le nostre vere prese di posizione modificandole (…). Ma ciò che non riesce a nascondere, è la sua volontà di tentare di ritorcere contro la nostra organizzazione l'accusa che le facciamo di fare il gioco della repressione poliziesca con le sue spiate. E per sostenere la nostra accusa, noi non abbiamo bisogno di nascondere nulla. Al contrario, incoraggiamo i lettori a leggere attentamente i testi scritti pubblici della FICCI, e particolarmente il suo Bollettino 14 ed anche i nostri articoli al riguardo (“ I metodi polizieschi della 'FICCI' [22]” in Révolution Internationale n° 330 e “Le riunioni pubbliche della CCI interdette agli spioni [23]" in RI n° 338).
CCI (2 giugno 2006)
(1) CRS: letteralmente “compagnia repubblicana di sicurezza”, polizia usata nelle manifestazioni. i CRS = uomini di questa compagnia
Questo movimento si differenzia dalla maggior parte dei movimenti studenteschi che lo precedevano, poiché non ha un carattere interclassista. La mobilitazione studentesca in Francia contro la CPE (legge di "Contratto di primo impiego") è parte della lotta della classe operaia di tutto il mondo. Siccome all’attacco contro la giovane generazione di operai, l’insicurezza viene istituzionalizzato nel nome della”lotta contro l’insicurezza”, i studenti hanno colto e assunto subito nel sui insieme il carattere di lotta di classe della loro lotta.
Mentre una parte della mobilitazione cercava di promuovere una richiesta specificamente studentesca – per esempio il ritiro della „LMD“ (Licence-Master-Doctorat, la norma europea per il corso di formazione universitario) – volendola collegare con la richiesta centrale del ritiro della CPE, soltanto le richieste che riguardano tutta la classe operaia si sono manifestati di interesse durante le riunioni plenarie.
La forza di queste mobilitazioni si è creata su un terreno di classe di una lotta ormai decisa dai soppressi contro i soppressori. I metodi e i principi di lotta provengono dalla classe operaia. Il primo di questi principi è la solidarietà: al posto del “ognuno per se” e dell’idea di “uno studio di successo, con due anni seguiti con disciplina, e in seguito una vita facile.” Si è manifestato l’unico atteggiamento adeguato della classe operaia per respingere gli attacchi del capitalismo: la lotta unita. I studenti non solidarizzarono solo tra di loro, ma si sono rivolti sin dall’inizio ai lavoratori salariati, non soltanto per vincere la solidarietà, ma perché l’intera classe operaia si trova colpita. Grazie alla loro dinamica, la loro volontà di lotta e i loro appelli, i studenti di varie facoltà sono riusciti a coinvolgere nel movimento anche i professori e il personale di amministrazione e a organizzare insieme delle assemblee generali comuni.
Un’altra tratto chiaro di una mobilitazione proletaria, si trova nella volontà di sviluppare la coscienza dei suoi partecipanti. Agli inizi dello sciopero delle università c’erano dei blocchi, i quali però non son stati intesi come “atti di forza”, dove una minoranza di insensati cercava di imporre alla maggioranza la loro legge. Sono questi dei rimproveri subiti da parte piccoli gruppi di“anti- blocchisti”, formato da persone travestite con un abito di prima comunione che si potevano sentire ogni domenica dopo la messa. Effettivamente però, questi blocchi sono il mezzo dei studenti, che si rendono conto del significato della lotta e vogliono dimostrare la loro determinazione, per vincere più studenti possibili per le loro riunioni. Durante quest’ultimi tanti studenti che esitavano e che non si erano ancora resi conto della gravità degli attacchi del governo sono stati convinti con dibattiti e argomentazioni le quali sottolineavano la necessità di queste lotte.
Le assemblee generali sono mezzi propri della lotta della classe operaia e sono diventati i polmoni della mobilitazione. Queste assemblee si sono sviluppate ed organizzate in modo crescente, formando all’interno dei comitati e delle commissioni di sciopero, responsabili per essa.
Particolare è, che queste assemblee erano aperte verso l'esterno, e non ripiegate su esse stesse come lo sono in generale le assemblee sindacali dove sono autorizzate soltanto le persone della stessa azienda o impresa, al limite dei sindacalisti patentati provenienti da altre aziende o dei sindacalisti di “istanze superiori”.
Molto rapidamente si è vista la partecipazione delle delegazioni di studenti di un’università con altre università, ciò ha, oltre aver rafforzato la sensazione di forza e di solidarietà, permesso a quelle che erano in dietro di ispirarsi dei vantaggi di quelle che erano più in punta.
Questa é anche una delle caratteristiche importanti della dinamica delle assemblee operaie nei movimenti di classe, che hanno raggiunto un livello importante di coscienza e d'organizzazione.
E quest'apertura delle assemblee generali verso l'esterno non si è limitata ai soli studenti di diverse università, ma si è estesa fino alla partecipazione di persone che non erano studenti. In particolare, da lavoratori pensionati, genitori e nonni di studenti e liceali in lotta, hanno ricevuto, in generale, un'accoglienza molto entusiasta ed interessata, soprattutto dal momento che le assemblee si concentrava sul rafforzamento e sull’estensione del movimento, in particolare in favore dei lavoratori.
Di fronte a questa mobilitazione esemplare degli studenti e con i metodi della classe operaia, si è assistito alla costituzione di un'alleanza santa tra i diversi pilastri dell'ordine capitalista: il governo, le forze di repressione, i mass media e le organizzazioni sindacali.
Il governo ha inizialmente provato molti trucchi per far passare con forza la legge scellerata. In particolare, ha cercato di far adottare la legge dal Parlamento durante le vacanze scolastiche. Il colpo ha mancato: anziché demoralizzare e demobilitare la gioventù studentesca, è riuscito a causare la sua rabbia ed un'estensione della mobilitazione. In seguito, il governo, si è appoggiato sulle forze di repressione per impedire che la Sorbonne potesse, all'immagine delle altre università, fungere da luogo di ritrovamento e di riunione per gli studenti in lotta. Così facendo, intendeva polarizzare la combattività degli studenti della regione parigina attorno a questo simbolo. Inizialmente, alcuni studenti sono caduti in questa trappola. Ma, rapidamente, la maggioranza degli studenti ha dato prova della sua maturità ed il movimento ha rifiutato di cadere nella provocazione quotidiana che costituisce queste truppe di CRS armati fino ai denti nel quartiere latino. In seguito, il governo, con la complicità delle organizzazioni sindacali, con le quali si organizzavano i tragitti delle manifestazioni, ha teso una vera trappola ai manifestanti parigini del 16 marzo, i quali si sono trovati intrappolati, alla fine del percorso, dalle forze di polizia. Era una nuova provocazione nella quale non sono caduti gli studenti, ma ha avuto come conseguenza che giovani dei banlieues sono stati filmati e questi ampiamente distribuite alle reti televisive, mostrando violenze che sono continuate attorno alla Sorbonne molto vicina (la scelta del luogo di dispersione non era ovviamente occasionale). Lo scopo era di far timore a quelli che avevano deciso di andare alla grande manifestazione che doveva tenersi due giorni più tardi. Anche questa volta però i conti del governo non sono tornati: la partecipazione alla manifestazione è stata eccezionale. Infine, il 23 marzo, è con la benedizione delle forze di polizia, che i ”vandalici” se la sono presi con i dimostranti per derubarli o semplicemente per picchiarli senza ragione. Molti studenti erano demoralizzati da queste violenze: "Quando sono le CRS che ci menano, questo ci penalizza, se sono però dei giovani dei banlieues, per i quali ci battiamo anche- ha un effetto demoralizzante." Tuttavia, la rabbia si è soprattutto girata contro le autorità, tanto era ovvio che la polizia fosse stata complice di queste violenze. È per questo che Sarkozy ha promesso che ormai la polizia non permetterà più che riavvengano tali aggressioni contro i dimostranti. In realtà, è chiaro che il governo prova a giocare la carta della "putrefazione", appoggiandosi in particolare sulla disperazione e la violenza cieca di alcuni giovani dei banlieues che sono fondamentalmente vittime di un sistema che li schiaccia con una violenza estrema. Anche questa volta la risposta di molti studenti è stata molto matura e responsabile: piuttosto di provare ad organizzare azioni violente contro i giovani “vandalici” hanno deciso, come alla fac di Censier, di costituire una "commissione banlieues " incaricata di andare a discutere con i giovani delle zone svantaggiate, in particolare per spiegare a loro che la lotta degli studenti e dei liceali è anche a favore di questi giovani immersi nella disperazione della disoccupazione massiccia e dell'esclusione.
Diversi tentativi da parte del governo, a demoralizzare i studenti in lotta o a portarli a continue confrontazioni con la polizia, sono stati un buco nell’acqua: I studenti hanno reagito in maniera molto matura e soprattutto con dignità. Non è la stessa dignità che si è vista da parte dei mass media. Questi si sono anche superati nel loro ruolo della propaganda capitalista. Alla televisione, le scene di violenza che si sono create alla fine di alcune manifestazioni si sono viste nelle notizie del giorno, nei “news”, mentre non c'è nulla sulle assemblee generali, sull'organizzazione e la maturità notevole del movimento. Ma ciò che, non è molto convincente mettere assieme i studenti in lotta con i ”vandalici”, anche Sarkozy dichiara e ripete che c’é una differenza molto netta tra gli studenti adeguati ed i “vandalici”. Ciò non impedisce ai mass media di continuare a mostrare delle immagini oscene di violenza e a mostrarli appena prima di altre scene di violenza (come l'attacco da parte dell'esercito israeliano della prigione di Jerico o un attentato terroristico in Iraq). Dopo il fallimento dei grandi trucchi, è l'ora degli specialisti più aguzzi della manipolazione psicologica. Ciò che si vuole causare è il timore, la nausea, l’ansia e l'assimilazione incosciente del messaggio manifestazione=violenza, anche se il messaggio ufficiale pretende l'opposto.
Tutte queste trappole e queste manipolazioni sono state riconosciute come tali dalla grande maggioranza degli studenti e dei lavoratori. È per questo che la quinta colonna dello Stato borghese, i sindacati, hanno dovuto nuovamente agire e confrontarsi con la situazione, facendo uso di metodi più duri. Sottovalutando dapprima le risorse di combattività e di coscienza di unione che portano in sé i giovani lottatori della classe operaia, il governo si è messo in un vicolo cieco. È chiaro che non può arretrare. Raffarin lo aveva già detto nel 2003: "non è la strada che governa". Un governo che entra in difensiva in confronto alla strada perde la sua autorità ed apre la porta a movimenti molto più pericolosi ancora, soprattutto nella situazione attuale in cui si è accumulata un'insoddisfazione enorme nelle file della classe operaia in seguito all'aumento della disoccupazione, della precarietà del lavoro e di tutti gli attacchi che piovono ogni giorno sulle sue condizioni di vita. Dalla fine di gennaio, i sindacati hanno organizzato "giorni d'azione" contro la CPE. E da quando gli studenti sono entrati in lotta e hanno chiesto agli operai salariati di entrare in lotta con loro, i sindacati si presentano con un’unanimità, che non si era vista da qualche tempo, come i migliori alleati del loro movimento. Ma non occorre lasciarsi ingannare: i sindacati non hanno intenzione di mobilitare realmente tutta la classe operaia.
Mentre in televisione possiamo sentire spesso dei toni radicali da parte di Thibault, Mailly e consorte, così nelle aziende regna il silenzio. Molto spesso, gli opuscoli sindacali che chiamano allo sciopero o alle manifestazioni arrivano nelle aziende e nelle fabbriche il giorno stesso, o persino il giorno seguente. Le assemblee generali, rare, organizzate dai sindacati hanno avuto luogo nelle imprese (tali EDF e GDF) dove i sindacati sono particolarmente potenti e non devono così temere di poter straripare. Inoltre, queste assemblee non hanno nulla a che vedere con ciò che abbiamo conosciuto nelle facoltà da un mese: i lavoratori vi sono invitati ad ascoltare come delle pecore i discorsi dei sindacalisti fissi, che vengono a turno a predicare per le loro cappelle e per le prossime elezioni al Comitato d'impresa o dei "delegati del personale". Quando Bernard Thibault, ospite della "grande giuria RTL" del 26 marzo, insisteva molto sul fatto che i lavoratori dipendenti avevano i loro metodi di lotta diversi da quelle degli studenti e che non voleva che gli uni volessero fare la lezione agli altri e reciprocamente, non parlava a vanvera: è fuori questione che se i metodi degli studenti siano ripresi dai lavoratori dipendenti poiché ciò vorrebbe dire che i sindacati non controllerebbero più la situazione e che non potrebbero svolgere più il loro ruolo di vigili del fuoco dell'ordine sociale! Poiché è questa la loro funzione principale nella società capitalista. I loro discorsi, anche i più radicali come quelli d'oggi, li fanno soltanto per conservare la fiducia dei lavoratori e poter così sabotare le loro lotte quando il governo ed i proprietari rischiano di essere messi in difficoltà.
È una lezione che non soltanto gli studenti, ma anche tutti i lavoratori dovranno prendere in considerazione in previsione dei loro combattimenti futuri.
Nel momento che scriviamo, non possiamo ancora prevedere come si evolverà la situazione. Tuttavia, anche se l'alleanza santa tra tutti i difensori dell'ordine capitalista vengono a fine della lotta esemplare degli studenti, questi ultimi, come gli altri settori della classe operaia, non dovranno affondare nella demoralizzazione. Hanno già guadagnato due vittorie molto importanti. Da un lato, la borghesia dovrà per un tempo limitare i suoi attacchi, rischiando altrimenti di essere nuovamente messa in difficoltà come è successo oggi. D'altra parte, e soprattutto, questa lotta costituisce un'esperienza inestimabile per tutta una nuova generazione di combattenti della classe operaia.
Come lo diceva più di un secolo e mezzo fa il "manifesto comunista": "A volte”, gli operai trionfano; ma è un trionfo transitorio. Il risultato vero delle loro lotte è meno il successo immediato e invece l'unione crescente dei lavoratori." La solidarietà ed il dinamismo della lotta," la sua presa in mano collettiva da parte delle assemblee generali, velò acquisizioni della lotta attuale degli studenti che mostrano il cammino ai futuri combattimenti dell'insieme della classe operaia.
Corrente comunista internazionale (28 marzo 2006)
Ancora una volta, il Medio Oriente è in fiamme, gli aerei e le navi da guerra israeliane bombardano sistematicamente Beirut e altri obiettivi nel Sud ed nel Nord Est del Libano. Centinaia di civili sono stati già uccisi o mutilati ed infrastrutture vitali per la popolazione sono state distrutte. I profughi scappano dai luoghi bombardati in numero crescente. Nel momento in cui scriviamo, l'esercito israeliano inizia i preparativi per una prossima invasione terrestre. Più a sud, nella striscia di Gaza, alcuni mesi soltanto dopo il ritiro delle forze israeliane, la regione intera è diventata, più di prima, un campo di battaglia per le truppe israeliane ed i gruppi armati palestinesi. Il blocco militare dei territori palestinesi soffoca l'economia e causa sofferenze senza precedenti tra i civili. La popolazione di Israele è anch'essa terrorizzata da questo conflitto senza fine: i razzi degli Hezbollah hanno già causato molti morti al Nord tra cui 8 persone che sono state uccise dal lancio di un missile su un deposito ferroviario a Haïfa. La ragione ufficiale di questa forte offensiva dello Stato israeliano è la cattura di alcuni dei suoi soldati da parte di Hamas nel Sud e da parte degli Hezbollah al Nord. Ma questo è soltanto un pretesto: Israele ha utilizzato questi sequestri come un alibi per cercare di liquidare Hamas nei territori palestinesi e ridurre gli Hezbollah all'impotenza. Ma si tratta anche per Israele di provocare la Siria e l'Iran e così spingerli a entrare nel conflitto.
Una minaccia d'estensione della guerra a tutta la regione
Il conflitto attuale contiene dunque la minaccia di una escalation verso una guerra che abbraccia tutta la regione. Poiché il Medio Oriente è un posto strategico molto importante per le potenze imperialiste, ogni guerra in questa regione implica che il conflitto non sia soltanto limitato tra Israele ed i gruppi armati palestinesi, o i suoi vicini arabi, ma si allarghi alle grandi potenze mondiali. Nel 1948, i governi russi e americani hanno sostenuto la formazione dello Stato di Israele come mezzo per fare una breccia nel dominio delle vecchie potenze coloniali, la Francia e la Gran Bretagna che controllavano allora questa zona. La guerra iniziata con la nazionalizzazione del canale di Suez da parte dell'Egitto nel 1956 ha confermato che l'America diventava il principale cane da guardia della regione: ha umiliato i francesi e gli inglesi esigendo che mettano fine alla loro spedizione contro l'Egitto di Nasser. Le guerre del 1967,1973 e 1982 si sono in seguito integrate nel conflitto globale tra i blocchi americani e russi, con gli Stati Uniti che sostengono Israele e la Russia l'OLP ed i regimi arabi. Con il crollo del blocco dell'Est nel 1989, la scena era "pronta" per una "Pace Americana" in Medio Oriente. Gli Stati Uniti diventavano così il principale artefice degli accordi di Oslo del 1993. Speravano che ponendo fine al conflitto tra Israele e Palestina avrebbe permesso loro di diventare i padroni incontrastati della regione. L'enorme dimostrazione di potenza militare degli Stati Uniti in Iraq nel 1991 aveva lo stesso scopo.
Tuttavia, tutti gli sforzi dell' imperialismo americano per imporre un "nuovo ordine" nel Medio Oriente non hanno dato esito positivo. Dagli accordi "di pace" di Oslo, ma soprattutto "dalla seconda Intifada" nel 2000, il conflitto permanente tra Israele e la Palestina ha assunto la forma di una spirale interminabile di attentati kamikaze, seguiti da rappresaglie israeliane brutali, che suscitano ancora ulteriori attentati suicidi e sempre più rappresaglie. Parallelamente, gli sforzi degli Stati Uniti per estendere il loro potere in Afganistan ed in Iraq - "la guerra contro il terrorismo" - gli sono esplosi in faccia creando due "nuovi Vietnam" e portando i due paesi in un caos totale. Mentre si assiste ad una escalation in Libano, la popolazione irachena subisce ogni giorno dei massacri spaventosi, mentre in Afganistan, il governo sostenuto dagli Stati Uniti e la Gran Bretagna ha perso il controllo della maggioranza del paese. Molto più, le conseguenze del conflitto militare in Iraq ed in Afganistan hanno ripercussioni sul conflitto israelo-palestinese e viceversa. I discorsi provocatori di Israele riguardo all'Iran fanno eco allo scontro della Casa Bianca con il governo di Teheran sul suo programma nucleare, mentre l'intensificazione del terrorismo islamico in Iraq influenza le azioni di Hamas e degli Hezbollah. E il massacro da parte di bande terroriste di civili a New York, Madrid e Londra, conferma che la guerra in Medio Oriente si è già estesa fino al centro stesso del sistema capitalista. In breve, la situazione in tutto il Medio Oriente dimostra che gli Stati Uniti non controllano la situazione e si trovano dinanzi allo sviluppo di un caos incontrollabile. La fuga in avanti nell'avventura militare è la sola risposta che ogni banda o ogni potenza, dalle più grandi alle più piccole, possa utilizzare per difendere le sue pretese imperialiste di fronte ai suoi rivali. È ciò che mostra l'atteggiamento ultra aggressivo di Israele (1).
I rivali degli Stati Uniti si preparano a trarre vantaggio dalla situazione
Per quanto riguarda le altre grandi potenze, esse agitano bandiere per la pace come hanno fatto prima dell'invasione dell' Iraq. La Francia e la Russia hanno chiaramente condannato l'operazione militare "sproporzionata" di Israele in Libano. La Gran Bretagna ha adottato una linea più indipendente: ha fatto severe critiche alla "punizione collettiva" dei palestinesi a Gaza da parte di Israele ed ha fatto il suo grande show inviando navi militari per evacuare i suoi cittadini dal Libano. Queste potenze, tuttavia, non si interessano alla pace ma al mantenimento della loro sfera d'influenza nella regione. Proveranno certamente ad approfittare della debolezza dell'imperialismo americano, ma nessuno di esse ha la possibilità di assumere il ruolo di gendarme del mondo, in più i loro interessi imperialisti conflittuali rendono impossibile la loro evoluzione verso una qualunque politica comune coerente. È per questo che al recente vertice del G8, se le grandi potenze hanno tenuto un discorso "unitario" sulla crisi in Libano, hanno aperto immediatamente la via a recriminazioni ed a disaccordi tra esse. Tutti gli stati e tutte le forze implicate in questo conflitto sono molto occupate ad elaborare piani militari e diplomatici che corrispondono ai loro interessi. Utilizzano certamente i metodi di calcolo più razionali per elaborare questi piani, ma tutti sono inghiottiti in un processo fondamentalmente irrazionale: l'infossamento inesorabile del sistema capitalista nella guerra imperialista che prende oggi, sempre più, il carattere di una guerra di tutti contro tutti. Anche il potente Zio Sam scivola in questo precipizio. In passato, quando le civilizzazioni agonizzavano, erano sempre più trascinate in guerre senza fine. Il fatto che il capitalismo sia diventato un sistema che vive nella guerra permanente è la prova più ovvia che anch'esso è in uno stato di putrefazione avanzata e che la sua sopravvivenza stessa è diventata un pericolo mortale per l'umanità.
La lotta di classe è la sola uscita
Se tutti i piani di pace del capitalismo sono votati al fallimento, quale può essere l'alternativa al disordine imperialista che li condanna? Certamente non le diverse bande nazionaliste o religiose che pretendono "di resistere" all'imperialismo americano in Palestina, in Iraq o in Afganistan - Hamas, OLP, Hezbollah, Al Qaïda... – anch'esse sono completamente integrate nella logica del imperialismo, sia affermandone il loro, sia allineandosi direttamente sugli stati capitalisti esistenti. I loro obiettivi - che sia la creazione di nuovi stati nazionali o il sogno di un califfato islamico in Medio Oriente - sono possibili soltanto attraverso la guerra imperialista; i loro metodi - che implicano sempre il massacro delle popolazioni civili - sono precisamente gli stessi degli stati ai quali pretendono di opporsi. La sola opposizione all'imperialismo è la resistenza della classe operaia al suo sfruttamento perché è la sola lotta aperta contro il sistema capitalista, una lotta per sostituire questo sistema di guerra e di profitto con una società che mira a soddisfare le necessità dell'umanità. Poiché gli sfruttati hanno ovunque gli stessi interessi, la lotta di classe è internazionale e non ha alcun interesse ad allearsi con uno Stato o il suo rivale. I suoi metodi si oppongono direttamente all'aggravarsi dell'odio tra gruppi etnici o nazionali, perché la lotta richiede l'unione del proletariato di tutte le nazioni in una lotta comune contro il capitale e lo Stato. In Medio Oriente, la spirale dei conflitti nazionali ha reso la lotta di classe molto difficile, ma essa esiste sempre - per prova le manifestazioni di operai palestinesi contro le autorità palestinesi, gli scioperi degli operai del settore pubblico in Israele contro i bilanci d'austerità del governo. Ma la possibilità più probabile di creare una breccia nel muro della guerra e dell'odio in Medio Oriente risiede al di fuori di questa regione: nelle lotte crescenti degli operai dei paesi centrali del capitalismo. Il migliore esempio di solidarietà di classe che possiamo offrire alle popolazioni che soffrono direttamente per gli orrori della guerra imperialista in Medio Oriente è di sviluppare le lotte che hanno iniziato a portare avanti gli studenti in Francia come lavoratori precari o futuri lavoratori dipendenti, i metallurgici di Vigo in Spagna, i postini di Belfast o gli operai dell'aeroporto di Londra.
CCI (17 luglio 2006)
Nota: 1 - la messa in opera diretta della politica guerriera e barbara dello Stato di Israele è stato compito di Amir Peretz, capo della sinistra del partito laburista e ministro della difesa, ex dirigente sindicale ed ex militante del movimento pacifista "la pace ora". Si potrebbe pensare che questa vocazione di massacratore fino in fondo in un "uomo di sinistra" sia un tipo di "specificità israeliana" ma sarebbe un errore. Un anno fa, in occasione dell'assassinio da parte della polizia nella metropolitana di Londra di un giovane operaio brasiliano, uno di quelli che ha giustificato con più fermezza l'atteggiamento dei poliziotti che consiste "nello sparare per uccidere" ogni persona sospettata di potere essere un "terrorista" non è altro che Ken Livingstone, il sindaco molto "a sinistra" di Londra. Nella difesa armata e sanguinante degli interessi del capitale nazionale, la "sinistra" ha sempre fatto la prova della sua determinazione e della sua assenza di scrupoli, indipendentemente dal paese.
Sin dall’inizio delle mobilitazioni, era già evidente l’introduzione di interessi estranei a quelli dei lavoratori ad opera della struttura sindacale. Attraverso il sindacato diverse forze della borghesia hanno tentato di sviare il malcontento dei lavoratori, non solo per smussare la combattività di cui davano prova, ma anche per utilizzare questa forza come carne da cannone nelle loro dispute all’interno della borghesia.Purtroppo, dal punto di vista della manipolazione delle masse, il movimento di Oaxaca tende a somigliare a quello che è stato fatto dal settore della borghesia rappresentato da Obrador (1): questo è riuscito a soffocare il malcontento e la volontà di lottare presenti in numerosi settori ed a farli partecipare alle mobilitazioni “per la difesa del voto”. La tattica è stata quella di implicali in una lotta bidone e di portarli ad una riflessione sbagliata, che si è conclusa con la neutralizzazione totale del malcontento (o il suo incanalamento verso un’altra direzione attraverso l’attività della CND (2) e del suo “governo parallelo”). Dunque il malcontento fu sfruttato per utilizzare le masse per il sostegno di una cricca della borghesia ed è così che la confusione si è estesa ed amplificata.
Nel caso di Oaxaca, la rabbia degli insegnanti che chiamano alla lotta è stata utilizzata e sviata verso la ricerca di una falsa alternativa: la riforma dello Stato. Il risultato di queste mobilitazioni non è l’avanzamento della coscienza e della combattività delle masse lavoratrici (come pretendono i gauchisti) ma la strumentalizzazione di questo malcontento ed il profitto che ne trae una delle frazioni della classe dominante, che usa la mobilitazione per mettere in difficoltà una frazione rivale. Nascondendo gli interessi delle frazioni della borghesia implicate nello scontro interno dietro le manifestazioni e le azioni sincere di migliaia di persone che vivono in questa regione, si è riusciti a trasformare la rabbia dei lavoratori contro il peggioramento delle loro condizioni di vita, in “esigenze democratiche” di una massa di “cittadini” amorfi. Così si incoraggia anche la vana speranza che il capitalismo possa cambiare in meglio, semplicemente rimpiazzando un governatore, sicuramente un “gangster, ladro e corrotto”, con un altro “di buon cuore”. Il proletariato è la sola classe che può farla finita con il capitalismo Le mobilitazioni a cui ha dato impulso l’APPO sono effettivamente state di massa ed hanno dimostrato una volontà di lotta. Ci sono anche state manifestazioni di solidarietà verso gli insegnanti da parte di differenti settori di sfruttati. Tuttavia tutto questo è stato annientato quando gli interessi dei lavoratori sono stati sottomessi ed orientati verso la difesa della democrazia. La struttura sindacale ed i diversi gruppi gauchisti, attraverso l’APPO, hanno molto abilmente condotto le masse in un vicolo cieco. La natura brutale e sanguinaria del sistema si esprime certamente attraverso una repressione sempre più forte della borghesia contro i manifestanti. Ma questo non conferisce un carattere “rivoluzionario” o “insurrezionale” come pretende l’apparato di sinistra del capitale (3), il carattere di classe di un movimento si esprime negli obiettivi che si da la lotta, nella sua organizzazione e direzione, e negli strumenti con i quali si sviluppa la lotta. Si è finito per imporre ai lavoratori degli obiettivi e delle parole d’ordine che non fanno altro che rafforzare il sistema. Gli obiettivi che adesso sono messi avanti mostrano che i proletari non hanno più il minimo controllo su questa mobilitazione. Si può constatare che l’organizzazione di questo movimento, anche se è nata con la volontà di estendere la solidarietà agli insegnanti, alla fine ha finito per sottomettere gli interessi di classe (rappresentati dalle rivendicazioni salariali) agli interessi in quanto “cittadini” portati avanti dai differenti gruppi sociali che costituiscono l’APPO, assecondato dai gruppi dell’apparato di sinistra del capitale (dal PRD, Partido Revolucionario Democratico, ai gruppi trotskisti e stalinisti).I lavoratori nell’APPO sono stati spogliati della loro forza di classe. Essi non possono più esprimervi la loro volontà, il loro coraggio di classe, essendo stati snaturati e deviati i loro obiettivi, ma peggio ancora è stato ridotto il loro potenziale di combattività per l’impossibilità di autoorganizzarsi, facendone una forza sterile, sottomessa alle decisioni ed ai metodi di lotta propri della classe dominante.
Durante un’intervista con l’avvocato dell’APPO, Ochoa Lara (volendo giustificare la spontaneità della sua formazione) spiega il carattere e la natura dell’APPO, segnalando che questa raggruppa formalmente circa 200 gruppi e comunità della regione. Ma la maggior parte di questi sono solo delle sigle senza niente dietro. Il gruppo più numeroso è il Movimento di Unità della Lotta Triqui (4) (MULT), rappresentato all’APPO da Rogelio Pensamiento, che, secondo lo stesso avvocato, è noto per “i suoi agganci con i governi del PRI” (5). Un altro dirigente dell’APPO è Flavio Sosa, che ex-deputato del PRD, “si unisce in seguito alla campagna di Vincente Fox e poi costituisce il partito Unidad Popular, che ha sostenuto il PRI alle elezioni che hanno portato al governo Ulises Ruiz” (Proceso 1560, 24-09-06). Pertanto, malgrado gli assembramenti spettacolari e la repressione contro i suoi membri, le mobilitazioni portate avanti dall’APPO non esprimono la forza del proletariato, ma l’azione disperata di classi e strati medi (che benché sfruttati ed oppressi non hanno prospettiva storica), che vengono largamente usati dalla borghesia. Non c’è niente di più falso delle speculazioni dell’apparato di sinistra del capitale quando afferma che le mobilitazioni dell’APPO sono l’inizio della “rivoluzione”: discorsi simili si sono fatti anche a proposito del movimento piquetero in Argentina e la realtà ha dimostrato che eravamo ben lontani da questa. Non si tratta di condannare chi partecipa a queste mobilitazioni, ma fare chiarezze sul loro significato. Non si tratta di sminuire le espressioni proletarie di questa regione, ma al contrario, spingerle alla riflessione sulla necessità di una organizzazione autonoma, che impedisca alla classe dominante di imporre i suoi obiettivi, o che, grazie ai suoi sindacati ed al suo apparato gauchiste, possa mettere in atto degli strumenti di lotta sterili, che portano alla repressione ed alla sconfitta. In quanto rivoluzionari, abbiamo la responsabilità di definire chiaramente qual è la forza e quali i limiti di questo movimento al quale partecipano i lavoratori, di segnalare senza mentire quali sono i pericoli per l’azione proletaria quando le forze della borghesia entrano in gioco per manipolarle, e indicare quali sono i suoi alleati e quale orientamento dare alle lotte. Sappiamo che questo è un compito difficile per i comunisti perché bisogna andare controcorrente al discorso pragmatico della sinistra del capitale, che guadagna simpatie applaudendo tutto quello “che si muove” e incoraggiando l’impazienza e l’immediatismo. Ma questo non è che un sabotaggio o, nel “migliore dei casi”, un’espressione piccolo-borghese dell’assenza totale di fiducia storica nel proletariato da cui deriva l’entusiasmo per le rivolte interclassiste. Lo sfruttamento, l’oppressione e la miseria non scompariranno con un semplice cambio di funzionari al governo, il proletariato è l’unica classe che può eliminarli e la sua coscienza e la sua organizzazione sono le sole armi sulle quali può contare.1. A.M. Lopez-Obrador, detto AMLO, era il candidato del PRD (sinistra) alle recenti elezioni presidenziali messicane. Il candidato di destra, Calderòn, ha vinto per qualche voto. Obrador ha fatto tutta una campagna sugli imbrogli che avrebbero contaminato queste elezioni, il che non sarebbe strano visto i costumi politici della borghesia messicana. Ma quello che ci interessa è che la sinistra messicana ha approfittato di questa situazione per rafforzare l’idea che sarebbe possibile avere una buona e giusta democrazia, che ci vuole una “nuova costituzione”, ecc. Più il potere della borghesia appare per quello che è, una dittatura quale ne sia l’involucro, più le forze specializzate nell’inquadramento delle classi sfruttate, cioè la sinistra del capitale più o meno radicale, fanno balenare futuri giorni democratici, nuove democrazie, dirette, partecipative ed altre meraviglie simili. In questo senso, il Messico ci ha dato un fulgido anticipo: dalla sinistra che ha messo su un’occupazione simbolica nel centro della capitale federale, fino alla confisca della lotta degli insegnanti da parte dell’APPO a Oaxaca, passando per l’EZLN (movimento zapatista) e la sua VI dichiarazione, molto critica nei confronti della sinistra ufficiale di Obrador, abbiamo avuto diritto a tutto il ventaglio delle “novità” che servono ad evitare che il proletariato si ponga la vera questione del potere.
2. “Convenzione Nazionale Democratica”, coalizione della sinistra messicana che riconosce solo Obrador come presidente “legi ttimo” e organizza forum per mantenere la pressione.3. Vedi a proposito l’ultimo numero di Revoluciòn Mundial, in questo stesso sito, che denuncia le menzogne dei trotskisti. (leggi) [27]
4. Triqui è uno dei popoli indigeni dello Stato di Oaxaca.
5. “PRI”, Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ha governato il Messico per 70 anni.
Queste tesi sono state adottate dalla CCI il 3 aprile 2006 mentre il movimento degli studenti stava ancora svolgendosi. In particolare, la grande manifestazione del 4 aprile, che il governo sperava meno potente della precedente del 28 marzo, ha superato quest’ultima ampiamente con una partecipazione ancora più importante di lavoratori del settore privato. Nel suo discorso del 31 marzo, il presidente Chirac aveva tentato una manovra ridicola: aveva annunciato la promulgazione della legge delle “Pari opportunità” ed aveva chiesto che il suo articolo 8 (il Contratto di Primo Impiego, principale motivo della collera degli studenti) non venisse applicato. Invece di indebolire la mobilitazione questa pietosa contorsione l’ha al contrario rafforzata. Inoltre, il pericolo di un’esplosione spontanea di scioperi nel settore direttamente produttivo, come si era verificato nel maggio1968, è diventato sempre più concreto. Il governo si è dovuto arrendere all’evidenza che le sue meschine manovre non sarebbero riuscite a rompere il movimento, per cui è stato costretto, non senza ulteriori contorsioni, a ritirare il CPE il 10 aprile. In effetti, le tesi prendevano ancora in considerazione la possibilità che il governo non cedesse. Ciò detto, l’epilogo della crisi che ha visto un tale indietreggiamento del governo, conferma e rafforza l’idea centrale delle tesi: l’importanza e la profondità della mobilitazione delle giovani generazioni della classe operaia in questi giorni della primavera 2006. Adesso che il governo ha ceduto sul CPE, il cui ritiro era la rivendicazione faro della mobilitazione, questa ha perso tutta la sua dinamicità. Ciò significa che le cose “ritornano come prima”, come evidentemente spera la borghesia? Certamente no. Come è detto nelle tesi: “questa classe [la borghesia] non potrà sopprimere tutta l’esperienza accumulata per settimane da decine di migliaia di futuri lavoratori, il loro risveglio alla politica e la loro presa di coscienza. È questo il vero tesoro per le lotte future del proletariato, un elemento di primo piano della capacità a proseguire per la propria strada verso la rivoluzione comunista”. E’ necessario che gli attori di questa magnifica lotta facciano fruttare questo tesoro, traendo tutti gli insegnamenti dalla loro esperienza, identificando con chiarezza quali sono state le vere forze ed anche le debolezze della loro lotta. E soprattutto che riescano a delineare la prospettiva che si presenta alla società, una prospettiva che era già inscritta nella loro lotta: di fronte agli attacchi sempre più violenti che un capitalismo in crisi mortale sferra inevitabilmente contro la classe sfruttata, la sola risposta possibile di questa è intensificare la propria lotta di resistenza e prepararsi a capovolgere questo sistema. Questa riflessione, come è stato per la lotta che si è conclusa, deve essere portata avanti in modo collettivo, attraverso dibattiti, nuove assemblee, circoli di discussione aperti, come lo sono state le assemblee generali, a tutti coloro che vogliono associarsi a questa riflessione, ed in particolare alle organizzazioni politiche che sostengono la lotta della classe operaia. Questa riflessione collettiva può essere condotta solo se viene mantenuto lo stesso stato d’animo fraterno, l’unità e la solidarietà che si sono manifestate nel corso della lotta. In questo senso, nel momento in cui la grande maggioranza di quelli che hanno partecipato alla lotta si è resa conto che questa era finita, sotto la sua forma precedente, non è più tempo di lotte di retroguardia, di blocchi ultraminoritari e “ad oltranza” che sono, in ogni caso, votati alla sconfitta e rischiano di provocare divisioni e tensioni tra quelli che, per settimane, hanno condotto una lotta di classe esemplare. (18 aprile 2003)
Il carattere proletario del movimento
1) La mobilitazione attuale degli studenti in Francia si presenta, fin da ora, come uno dei maggiori episodi della lotta di classe in questo paese dagli ultimi 15 anni, un episodio di un’importanza almeno comparabile alle lotte dell’autunno 1995 sul problema della riforma dello Stato sociale e della primavera 2003 nel settore pubblico sul problema delle pensioni. Quest’affermazione può sembrare paradossale nella misura in cui non sono stati i salariati a mobilitarsi come capofila (tranne la loro partecipazione ad un certo numero di giornate d’azione e di manifestazioni: 7 febbraio, 7 marzo, 18 marzo e 28 marzo) ma un settore della società che non è entrato ancora nel mondo del lavoro, la gioventù scolarizzata. Tuttavia, questo fatto non può in alcun modo mettere in discussione il carattere profondamente proletario di questo movimento. E ciò per le seguenti ragioni:
- nel corso degli ultimi decenni l’evoluzione dell’economia capitalista ha sempre più richiesto mano d’opera più formata e qualificata, per cui una forte proporzione di studenti delle Università (ed in queste sono inclusi gli Istituti Universitari di Tecnologia incaricati di dare una formazione relativamente breve a futuri “tecnici”, in realtà agli operai qualificati) alla fine dei suoi studi, andrà a raggiungere i ranghi della classe operaia (che lungi dal limitarsi ai soli operai dell’industria in “tuta blu”, include anche gli impiegati, i quadri medi delle imprese o della funzione pubblica, gli infermieri, la grande maggioranza degli insegnanti - maestri e professori delle secondarie, ecc.);
- parallelamente a questo fenomeno, l’origine sociale degli studenti ha conosciuto un’evoluzione significativa con un incremento importante degli studenti di origine operaia (secondo i criteri sopra enunciati), il che ha determinato l’esistenza di una proporzione molto elevata (nell’ordine della metà) di studenti che sono obbligati a lavorare per proseguire i loro studi o acquisire un minimo di autonomia rispetto alle famiglie;
- la rivendicazione principale intorno alla quale si è fatta la mobilitazione è il ritiro di un attacco economico (l’instaurazione di un Contratto di Primo impiego, CPE) che riguarda l’insieme della classe operaia e non solamente i futuri lavoratori oggi studenti, ma anche i giovani salariati, poiché l’esistenza nelle fabbriche di una mano d’opera sottomessa per due anni alla spada di Damocle di un licenziamento SENZA MOTIVO non può che pesare sugli altri lavoratori. La natura proletaria del movimento si è confermata fin dall’inizio attraverso il fatto che le assemblee generali hanno a maggioranza ritirato dalla lista quelle rivendicazioni che avevano un carattere esclusivamente “studentesco” (come la richiesta di ritirare il LMD - il sistema europeo di diplomi che è stato imposto recentemente in Francia e che penalizza una parte degli studenti di questo paese). Questa decisione corrispondeva alla volontà affermata fin dall’inizio dalla grande maggioranza degli studenti di, non solo ricercare la solidarietà dell’insieme della classe operaia (il termine abitualmente impiegato nelle AG è stato quello di “salariati”), ma anche di coinvolgerla nella lotta.
Le Assemblee Generali, polmone del movimento
2) Il carattere profondamente proletario del movimento si è manifestato anche nelle forme che questo si è dato, in particolare quelle delle assemblee generali sovrane in cui si manifesta una vita reale che non ha niente a che vedere con le caricature “di assemblee generali” convocate abitualmente dai sindacati nei posti di lavoro. E’ evidente che c’è una grande eterogeneità tra le differenti università in questo campo. Certe AG somigliano ancora molto alle assemblee sindacali, mentre altre sono sede di una vita e di una riflessione intensa, manifestando un alto grado di coinvolgimento e di maturità dei partecipanti. Tuttavia, al di là di questa eterogeneità, è notevole che molte assemblee sono riuscite a superare gli scogli dei primi giorni durante i quali si girava intorno a questioni tipo “bisogna votare sul fatto di votare o no su tale questione” (per esempio, la presenza o no nell’AG di persone esterne all’università, o sulla possibilità da parte di quest’ultime di prendere la parola), che aveva come conseguenza l’allontanamento di un gran numero di studenti e il fatto che le ultime decisioni venivano prese dai membri dei sindacati studenteschi o di organizzazioni politiche. Durante le prime due settimane del movimento la tendenza dominante nelle assemblee generali è stata quella di una presenza più numerosa di studenti, di una partecipazione sempre più ampia di questi nel prendere la parola, con una corrispondente riduzione degli interventi dei membri sindacali o delle organizzazioni politiche. La presa in carico crescente da parte dell’insieme delle assemblee della propria vita si è manifestata attraverso una riduzione tendenziale della presenza di quest’ultimi alla tribuna incaricata di organizzare i dibattiti a favore di quella di elementi che non avevano affiliazioni particolari o un’esperienza particolare prima del movimento. Nelle assemblee meglio organizzate si è potuto vedere un rinnovo quotidiano delle squadre (in genere 3 membri) incaricate di organizzare ed animare la vita dell’assemblea, mentre le assemblee meno vive e meno organizzate erano quelle “dirette” tutti i giorni dalla stessa squadra, spesso molto più pletorica delle prime. E’ necessario ancora segnalare come la tendenza delle assemblee sia stata verso la sostituzione di questo secondo modo di organizzazione con il primo. Uno degli elementi importanti di questa evoluzione è stata la partecipazione di delegazioni di studenti di una università alle AG di altre università, che oltre al rafforzamento del sentimento di forza e di solidarietà tra le differenti AG, ha permesso a quelle che si stavano indebolendo di ispirarsi ai punti forti di quelle che era più avanti1. Anche questa è una delle caratteristiche importanti della dinamica delle assemblee operaie in quei movimenti di classe che hanno raggiunto un livello importante di coscienza e di organizzazione.
3) Una delle manifestazioni maggiori del carattere proletario delle assemblee che si sono tenute nelle università durante questo periodo è il fatto che, da subito, la loro apertura verso l’esterno non si è limitata ai solo studenti di altre università ma si è estesa anche alla partecipazione di persone che non erano studenti. Innanzitutto, le AG hanno invitato il personale delle università (insegnante, tecnico e amministrativo – IATOS) non solo a partecipare ma anche a lottare insieme, e sono andate ben oltre. In particolare, lavoratori e pensionati, genitori e nonni di studenti e liceali in lotta, hanno ricevuto in genere un’accoglienza molto calorosa ed attenta da parte delle assemblee dal momento che i loro interventi miravano al rafforzamento ed all’estensione del movimento, in particolare vero i salariati. L’apertura delle assemblee a persone che non appartengono all’impresa o al settore direttamente coinvolto, non solo in quanto osservatori, ma come partecipanti attivi, è una componente estremamente importante del movimento della classe operaia. È chiaro che quando è necessario esprimere un voto per poter prendere una decisione, può essere necessario instaurare delle modalità che permettono alle sole persone che appartengono all’unità produttiva o geografica sulla quale si basa l’assemblea di partecipare a questa decisione, ciò per evitare l’“invasione” dell’assemblea da parte di professionisti della politica borghese o di elementi al suo servizio. A tal fine, uno dei mezzi utilizzati da molte assemblee studentesche è di non contabilizzare le mani levate ma le tessere studentesche presentate (che sono differenti da un’università all’altra). Quella dell’apertura delle assemblee è una questione cruciale per la lotta della classe operaia. Nella misura in cui in tempi “normali”, cioè al di fuori dei periodi di lotta intensa, gli elementi che hanno più audience nelle fila operaie sono quelli che appartengono alle organizzazioni della classe capitalista (sindacati o partiti politici di “sinistra”), la chiusura delle assemblee costituisce un eccellente mezzo per queste organizzazioni di conservare il loro controllo sui lavoratori a scapito della dinamica della lotta ed al servizio, evidentemente, degli interessi della borghesia. Nella storia delle lotte della classe operaia l’apertura delle assemblee, che permette agli elementi più avanzati della classe, ed in particolare alle organizzazioni rivoluzionarie, di contribuire alla presa di coscienza dei lavoratori in lotta, ha sempre costituito una linea di demarcazione tra le correnti che difendono un orientamento proletario e quelle che difendono l’ordine capitalista. Gli esempi sono numerosi. Tra i più significativi, possiamo segnalare quello del Congresso dei Consigli operai che si tenne a metà dicembre 1918 a Berlino dopo che il sollevamento dei soldati e degli operai contro la guerra, iniziato a novembre, costrinse la borghesia tedesca, non solo a mettere fine alla guerra, ma anche a sbarazzarsi del Kaiser ed a rimettere il potere politico nelle mani del partito socialdemocratico. Per l’immaturità della coscienza nella classe operaia e per le modalità di designazione dei delegati, questo Congresso fu dominato dai Socialdemocratici che vietarono sia la partecipazione di rappresentanti dei soviet rivoluzionari della Russia che quella di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, le due più eminenti figure del movimento rivoluzionario, con il pretesto che non erano operai. Questo Congresso decise alla fine di rimettere tutto il suo potere al governo diretto dalla Socialdemocrazia, un governo che un mese più tardi assassinava Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Un altro esempio significativo è quello del Congresso del 1866 dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT- I Internazionale) dove alcuni dirigenti francesi, come Tolain, un operaio cesellatore di bronzo, tentarono di imporre il fatto che “solo gli operai potevano votare al congresso”, una disposizione questa che mirava a colpire principalmente Karl Marx ed i compagni più vicini a lui. Durante La Comune di Parigi nel 1871 Marx fu uno dei più ardenti difensori di questa mentre Tolain era a Versailles tra i ranghi di coloro che organizzarono lo schiacciamento della Comune provocando 30.000 morti nelle fila operaie. Per quanto riguarda il movimento attuale degli studenti, è significativo che le maggiori resistenze all’apertura delle assemblee siano venute dai membri del sindacato studentesco UNEF, diretto dal Partito socialista, e che queste si siano tanto più aperte quanto più si riduceva l’influenza dell’UNEF al loro interno.
Contrariamente al 1995 e al 2003, la borghesia è stata sorpresa dal movimento
4) Una delle caratteristiche più importanti dell’episodio attuale della lotta di classe in Francia, è che questa ha sorpreso quasi totalmente l’insieme dei settori della borghesia e del suo apparato politico (partiti di destra, di sinistra ed organizzazioni sindacali). Questo è uno degli elementi che permette di capire tanto la vitalità e la profondità del movimento, che la situazione estremamente delicata nella quale attualmente si trova la classe dominante in questo paese. In questo senso, bisogna fare una distinzione molto netta tra il presente movimento e le lotte di massa dell’autunno 1995 e della primavera 2003. La mobilitazione dei lavoratori del 1995 contro il “piano Juppé” di riforma dello Stato sociale fu in realtà orchestrata grazie ad una divisione di compiti molto abile tra il governo ed i sindacati. Il primo, con tutta l’arroganza di cui era capace il Primo Ministro dell’epoca Alain Juppé, aveva associò agli attacchi contro lo Stato sociale (riguardante tutti i salariati del settore pubblico e privato) quelli più specifici contro il regime pensionistico dei lavoratori della SNCF e di altre imprese pubbliche di trasporti,. I lavoratori di queste imprese costituirono così la punta di lancia della mobilitazione. Pochi giorni prima di Natale, mentre gli scioperi duravano da settimane, il governo fece qualche passo indietro sulla questione dei regimi speciali di pensionamento il che, in seguito all’appello dei sindacati, determinò la ripresa del lavoro nei settori coinvolti. Il ritorno al lavoro dei settori più all’avanguardia significò, evidentemente, la fine del movimento in tutti gli altri settori. Per quanto riguarda i sindacati, la maggior parte di essi (eccetto il CFDT) si mostrarono molto “combattivi” chiamando all’estensione del movimento ed alla tenuta di frequenti assemblee generali. Malgrado la sua ampiezza, la mobilitazione dei lavoratori non portò ad una vittoria ma, fondamentalmente, ad un insuccesso poiché la principale rivendicazione, il ritiro del “piano Juppé” di riforma dello Stato sociale, non venne soddisfatta. Tuttavia le concessioni del governo sulla questione dei regimi speciali di pensionamento, permisero ai sindacati di presentare questa sconfitta come una “vittoria”, e ciò gli permise di riverniciare il loro blasone alquanto sbiadito dai sabotaggi delle lotte operaie durante gli anni 1980. La mobilitazione del 2003 nella funzione pubblica face seguito alla decisione di prolungare la durata minima di vita lavorativa prima di potere beneficiare di una pensione a tasso pieno. Tutti i lavoratori furono colpiti da questa misura, ma quelli che manifestarono una maggiore combattività furono gli insegnanti e il personale degli istituti scolastici che, oltre che sulle pensioni, subivano un attacco supplementare con la scusa del “decentramento”. Gli insegnanti in generale non venivano presi di mira direttamente da questa misura ma essi si sentivano particolarmente coinvolti dall’attacco che colpiva dei colleghi di lavoro e dalla mobilitazione di questi. Inoltre, la decisione di portare a 40 anni e più il numero minimo di anni di lavoro per i settori della classe operaia che, a causa della durata del periodo di formazione professionale, non potevano cominciare a lavorare prima dei 23 anni (addirittura 25 anni) significava che questi avrebbero dovuto continuare a lavorare in condizioni sempre più faticose ed usuranti al di là dell’età legale della pensione 60 anni. Con uno stile differente da quello di Juppé nel 1995, il Primo Ministro Jean-Pierre Raffarin fece passare un messaggio dello stesso tipo dichiarando che “a governare non era la strada”. Alla fine, malgrado la combattività dei lavoratori dell’educazione e la loro tenacia (alcuni fecero fino a 6 settimane di sciopero), malgrado le manifestazioni tra le più grosse dopo il maggio 68, il movimento non poté far retrocedere il governo. Questo, quando la mobilitazione cominciò a ripiegare, decise di ritornare su alcune misure particolari riguardanti il personale non insegnante degli istituti scolastici al fine di distruggere l’unità che si era sviluppata tra le differenti categorie professionali e dunque la dinamica di mobilitazione. L’inevitabile ripresa del lavoro tra il personale delle scuole significò la fine del movimento che, come nel 1995, non riuscì a respingere l’attacco centrale del governo, quello contro le pensioni. Tuttavia, mentre era stato possibile presentare l’episodio del 1995 come una “vittoria” da parte dei sindacati, ciò che permise di rafforzare il loro ascendente sull’insieme dei lavoratori, quello del 2003 fu avvertito principalmente come un insuccesso (in particolare tra buona parte degli insegnanti che avevano perso quasi 6 settimane di stipendio), cosa che intaccò sensibilmente la fiducia dei lavoratori nei loro riguardi.
La debolezza politica della destra francese
5) Le caratteristiche maggiori degli attacchi della borghesia contro la classe operaia nel 1995 e nel 2003 si possono così riassumere:
- tutti e due corrispondevano alla necessità inevitabile per il capitalismo, di fronte alla crisi mondiale della sua economia ed all’erosione dei deficit pubblici, di perseguire lo smantellamento dei dispositivi dello Stato assistenziale messi in atto all’indomani della Seconda Guerra mondiale e, in particolare, lo Stato sociale e il sistema pensionistico;
- tutti e due sono stati preparati accuratamente dai differenti organi al servizio del capitalismo, in primo luogo il governo di destra e le organizzazioni sindacali, per infliggere una sconfitta alla classe operaia; una sconfitta sul piano economico, ma anche sul piano politico ed ideologico;
- tutti e due hanno utilizzato il metodo che consiste nel cumulare attacchi ad un settore particolare che viene quindi spinto all’avanguardia della mobilitazione, e ad “arretrare” poi su attacchi specifici che riguardano questo stesso settore per disarmare l’insieme del movimento;
- tuttavia pur utilizzando metodi simili, la dimensione politica dell’attacco della borghesia non è stato lo stesso nei due casi perché nel 1995 bisognava presentare il risultato della mobilitazione come una “vittoria” da mettere in conto ai sindacati, mentre nel 2003 l’evidenza della sconfitta rappresentava un elemento di demoralizzazione e di discredito dei sindacati. Per quanto riguarda la mobilitazione attuale è necessario mettere in evidenza che:
- il CPE non era affatto una misura indispensabile per l’economia francese e ciò si è manifestato in particolare col fatto che buona parte del padronato e dei deputati di destra non era favorevole, come d’altronde il resto della maggioranza dei membri del governo, in particolare i due ministri direttamente coinvolti, quello dell’impiego (Gerardo Larcher), e quello della “coesione sociale”, (Jean-Louis Borloo);
- il carattere non indispensabile dal punto di vista capitalista di questa misura si accompagna ad un’assenza quasi completa di preparazione per farla passare; mentre gli attacchi del 1995 e del 2003 erano stati preparati in anticipo attraverso “discussioni” con i sindacati (a tal punto che, nei due casi, uno dei grandi sindacati, la CFDT di colore socialdemocratico, aveva sostenuto i piani del governo), il CPE faceva parte di un lotto di misure raggruppate in una legge chiamata delle “Pari opportunità” sottoposta al Parlamento in modo precipitoso e senza discussione preliminare con i sindacati. Tra gli aspetti più odiosi della legge c’è il fatto che essa è supposta lottare contro la precarietà mentre nei fatti la istituzionalizza per i giovani lavoratori al di sotto dei 26 anni. Inoltre questa viene presentata come un “beneficio” per i giovani dei quartieri “difficili” che si erano rivoltati nell’autunno 2005, mentre contiene una serie di attacchi contro questi stessi giovani come il collocamento al lavoro degli adolescenti a partire da 14 anni, camuffato da apprendistato, ed il lavoro notturno per quelli di età maggiore a 15 anni.
6) Il carattere provocatorio del metodo del governo si è rivelato anche nel tentativo di fare passare la legge “alla selvaggia”, facendo appello a disposizioni della Costituzione che permettessero la sua adozione senza voto del Parlamento e prevedendone il passaggio davanti a questo durante il periodo delle vacanze scolastiche degli studenti e dei liceali. Tuttavia, questa “colossale finezza” del governo e del suo capo Villepin, si è ritorta contro di essi. Lungi dal superare in velocità ogni possibilità di mobilitazione, questa manovra abbastanza grossolana è riuscita solo ad aumentare ancora più la collera degli studenti e dei liceali ed a radicalizzare la loro mobilitazione. Anche nel 1995 il carattere provocatorio delle dichiarazioni e l’atteggiamento arrogante del Primo Ministro Juppé fu un elemento di radicalizzazione del movimento di sciopero. Ma all’epoca questo atteggiamento corrispondeva in pieno agli obiettivi della borghesia che aveva previsto la reazione dei lavoratori e che, in un contesto in cui la classe operaia subiva ancora con forza il peso delle campagne ideologiche seguite al crollo dei regimi sedicenti “socialisti” (che necessariamente limitava le potenzialità della lotta), aveva orchestrato una manovra destinata a ridare credibilità ai sindacati. Oggi, al contrario, è in modo involontario che il Primo Ministro è riuscito a polarizzare la collera della gioventù studentesca e quella di grande parte della classe operaia contro la sua politica. Durante l’estate 2005 Villepin era riuscito a fare passare senza difficoltà il CNE (Contratto Nuovo Impiego) che permette alle imprese con meno di 20 salariati di licenziare entro due anni dall’assunzione il lavoratore, qualunque sia la sua età, senza fornire il minimo motivo. All’inizio dell’inverno, ha creduto che poteva fare lo stesso per il CPE, estendendo a tutte le imprese, pubbliche o private, le stesse disposizioni del CNE ma per i minori di 26 anni. Il seguito gli ha dimostrato di aver fatto un grossolano errore di valutazione poiché, come tutti i media e tutte le forze politiche della borghesia ne convengono, il governo si è messo in una situazione molto delicata. Ad essere estremamente imbarazzato non è solamente il governo ma l’insieme dei partiti politici borghesi, di destra come di sinistra, e dei sindacati che, ognuno a modo suo, rimprovera a Villepin il suo “metodo”. Del resto, quest’ultimo ha riconosciuto in parte i suoi errori affermando d “essersi pentito” del metodo adoperato. È indiscutibile che ci sia stata una carenza di abilità politica da parte del governo e particolarmente da parte del suo capo. Dalla maggior parte delle formazioni di sinistra o sindacali, quest’ultimo è presentato come “autistico”2, un personaggio “arrogante” incapace di comprendere le vere aspirazioni del “popolo”. I suoi “amici” di destra (in particolare i sostenitori del suo grande rivale per le prossime elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy) insistono in particolare sul fatto che, non essendo mai stato eletto (contrariamente a Sarkozy che è stato deputato e sindaco di una città importante3 per lunghi anni) evidentemente fa fatica a tessere dei legami sul territorio, con la base “popolare”. Tra le righe si lascia intendere che il suo gusto per la poesia e le belle lettere rivelano che è una specie di “dilettante”, di “amatore” in politica. Ma il rimprovero che gli si fa in modo unanime (compreso il padronato) è di non aver fatto precedere la sua proposta di legge da una consultazione degli “attori sociali” o “corpi intermediari” (secondo i termini dei sociologi mediatici), in realtà dei sindacati. Questo rimprovero gli viene mosso con molta virulenza anche dal sindacato più “moderato”, il CFDT che nel 1995 e nel 2003 aveva sostenuto gli attacchi del governo. Si può dunque dire che, nelle circostanze presenti, la destra francese ha avuto il merito di guadagnarsi la sua reputazione di “destra più stupida del mondo”. Più in generale, conviene segnalare che la borghesia francese, in un certo senso, dimostra ancora una volta (e paga anche) la sua mancanza di padronanza del gioco politico che l’ha condotta agli “incidenti” elettorali come quello del 1981 e del 2002. Nel primo caso, a causa delle divisioni della destra, la sinistra arrivò al governo in contro tendenza all’orientamento che la borghesia degli altri grandi paesi avanzati si era data di fronte alla situazione sociale (in particolare in Gran Bretagna, in Germania, in Italia o negli Stati Uniti). Nel secondo caso, la sinistra (anche lei per divisioni interne) risultò assente al secondo giro elettorale presidenziale che si giocò tra Le Pen, il capo fila dell’estrema destra, e Chirac la cui rielezione avvenne grazie ai voti di sinistra concentrati su di lui, come “male minore”. In effetti, eletto con questi voti della sinistra, Chirac aveva le mani molto meno libere di come le avrebbe avute se avesse riportato la vittoria sul leader della sinistra, Lionel Jospin. Questa mancanza di legittimità di Chirac fa parte degli elementi che spiegano la debolezza del governo di destra di fronte alla classe operaia e la sua difficoltà ad attaccarlo. Ciò detto, questa debolezza politica della destra (in generale dell’apparato politico della borghesia francese) non le ha impedito di portare a termine nel 2003 un attacco massiccio contro la classe operaia sulle pensioni. Ed in particolare, non permette di spiegare l’ampiezza della lotta attuale, soprattutto la grande mobilitazione di centinaia di migliaia di giovani futuri lavoratori, la dinamica del movimento, le forme di lotta realmente proletarie.
Un’espressione della ripresa delle lotte e dello sviluppo della coscienza della classe operaia7) Anche nel 1968 la mobilitazione degli studenti e poi il formidabile sciopero dei lavoratori (9 milioni di scioperanti per parecchie settimane - più di 150 milioni di giornate di sciopero) risultarono in parte dagli errori commessi dal regime gollista alla fine del suo regno. L’atteggiamento provocatore delle autorità nei confronti degli studenti (entrata della polizia alla Sorbona il 3 maggio per la prima volta da centinaia di anni, fermo ed arresto di parecchi studenti che avevano tentato di opporsi con la forza al suo sgombro) fu un fattore di mobilitazione di massa durante la settimana dal 3 al 10 maggio. In seguito alla repressione feroce della notte tra il 10 e l’11 maggio ed all’emozione che ne era seguita in tutta l’opinione pubblica, il governo decise di fare marcia indietro sulle due rivendicazioni studentesche, la riapertura della Sorbona e la liberazione degli studenti arrestati la settimana precedente. Questo indietreggiamento del governo e l’enorme successo della manifestazione indetta dai sindacati il 13 maggio4 determinarono una serie di scioperi spontanei nelle grandi fabbriche, come alla Renault a Cléon ed alla Sud-Aviation a Nantes. Una delle motivazioni di questi scioperi, sostenuta principalmente dai giovani operai, era che se la determinazione degli studenti che avevano alcun peso nell’economia era riuscita a fare arretrare il governo, questo sarebbe stato obbligato ad indietreggiare anche di fronte a quella degli operai che dispongono di un mezzo di pressione più potente, lo sciopero. L’esempio degli operai di Nantes e di Cléon si propagò come polvere da sparo accesa prendendo di sorpresa i sindacati. Temendo di essere completamente scavalcati, questi furono obbligati a “prendere il treno in corsa” nel giro di due giorni indicendo lo sciopero che riuscì a coinvolgere 9 milioni di operai paralizzando l’economia del paese per parecchie settimane. Tuttavia, da quel momento, bisognava essere ciechi per considerare che un movimento di tale ampiezza poteva aveva solo cause contingenti o “nazionali”. Esso corrispondeva necessariamente ad una sensibile variazione su scala internazionale del rapporto di forze tra borghesia e proletariato a favore di quest’ultimo5. Il che fu confermato un anno dopo dal “Cordobazo” del 29 maggio 1969 in Argentina6, dall’autunno caldo italiano del 1969 (battezzato anche “Maggio rampante”), poi dai grandi scioperi del Baltico de “l’inverno polacco” 1970-71 e da molti altri movimenti, meno spettacolari, ma che confermavano tutti che Maggio 1968 non era stato per niente un fulmine a cielo sereno ma traduceva la ripresa storica del proletariato mondiale dopo più di quattro decenni di controrivoluzione.
8) Anche l’attuale movimento in Francia non può spiegarsi con semplici considerazioni particolari (“gli errori” del governo Villepin) o nazionali. In realtà, esso costituisce una chiara conferma di ciò che la CCI ha messo in evidenza sin dal 2003: una tendenza alla ripresa delle lotte della classe operaia internazionale ed ad uno sviluppo della coscienza al suo interno:
“Le mobilitazioni a grande scala della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nella lotta di classe dopo il 1989. Esse sono un primo passo significativo nel recupero della combattività operaia dopo il più lungo periodo di riflusso dal 1968”. (Revue internationale n°117,”Rapporto sulla lotta di classe”)
“A dispetto di tutte queste difficoltà, il periodo di riflusso non ha significato affatto “la fine della lotta di classe”. Gli anni 1990 sono stati intervallati da un certo numero di movimenti che mostravano che il proletariato aveva ancora riserve di combattività intatta (per esempio, nel 1992 e nel 1997). Tuttavia, nessuno di questi movimenti ha rappresentato un reale cambiamento a livello di coscienza. Da qui l’importanza dei movimenti più recenti che, sebbene non abbiano avuto l’impatto spettacolare come quello del 1968 in Francia, rappresentano tuttavia una svolta nel rapporto di forza tra le classi. Le lotte del 2003-2005 hanno presentato le seguenti caratteristiche:
- hanno coinvolto settori significativi della classe operaia nei paesi del cuore del capitalismo mondiale (come in Francia nel 2003);
- hanno manifestato una preoccupazione per questioni più esplicitamente politiche; in particolare la questione delle pensioni pone il problema del futuro che la società capitalista riserva a tutti noi (…);
- la questione della solidarietà di classe è stata posta in modo più estesa e più esplicita rispetto a qualsiasi momento delle lotte degli anni 1980, in particolare nei recenti movimenti in Germania;
- esse sono state corredate dall’apparizione di una nuova generazione di elementi alla ricerca di chiarezza politica. Questa nuova generazione si è manifestata sia nel nuovo flusso di elementi apertamente politicizzati sia con nuovi strati di operai che entrano in lotta per la prima volta. Come si potuto vedere in certe manifestazioni importanti, si sta forgiando il solco per l’unità tra la nuova generazione e la “generazione del 68” -sia la minoranza politica che ha ricostruito il movimento comunista negli anni 1960 e 1970, sia gli strati più larghi di operai che hanno vissuto la ricca esperienza delle lotte di classe tra il 1968 e 1989”. (Rivista Internazionale n°27, “Risoluzione sulla situazione internazionale del 16 Congresso del CCI”)
Queste caratteristiche, evidenziate all’epoca del nostro 16°Congresso, si sono manifestate pienamente nel movimento attuale degli studenti in Francia:
Il legame tra generazioni di combattenti si è stabilito spontaneamente nelle assemblee studentesche: non solo i lavoratori più vecchi, compreso i pensionati, erano autorizzati a prendere la parola nelle AG, ma erano incoraggiati a farlo, ed i loro interventi, che esprimevano la loro esperienza di lotta, erano accolti con molta attenzione e calore dalla giovane generazione7. Da parte sua, la preoccupazione per l’avvenire (e non solo per una situazione immediata) è al centro stesso della mobilitazione che ingloba dei giovani che dovranno confrontarsi con il CPE solo fra parecchi anni (anche più di 5 anni per molti liceali). Questa preoccupazione per l’avvenire si era manifestata già nel 2003 sulla questione delle pensioni dove si sono potuti vedere numerosi giovani nelle manifestazioni, cosa che era già un indice di questa solidarietà tra generazioni della classe operaia. Attualmente la mobilitazione contro la precarietà e dunque contro la disoccupazione pone in modo implicito, ed esplicito per un numero crescente di studenti e giovani lavoratori, la domanda sull’avvenire che il capitalismo riserva alla società; preoccupazione che è condivisa anche da numerosi vecchi lavoratori chi si chiedono: “Quale società lasciamo ai nostri ragazzi?” Quella della solidarietà, in particolarmente tra generazioni ma anche tra differenti settori della classe operaia, è stata una delle domande chiave del movimento:
- solidarietà degli studenti tra loro, volontà di quelli che erano alla punta del movimento, i meglio organizzati, ad andare ad appoggiare i loro compagni confrontati a situazioni difficili (sensibilizzazione e mobilitazione degli studenti più reticenti, organizzazione e tenuta delle AG, ecc.);
- appello ai lavoratori salariati mettendo avanti il fatto che l’attacco governativo colpiva tutti i settori della classe operaia;
- sentimento di solidarietà tra i lavoratori, anche se questo sentimento non è sfociato in una estensione della lotta, a parte la partecipazione alle giornate d’azione ed alle manifestazioni;
- coscienza tra molti studenti che non sono loro i più minacciati dalla precarietà (che colpisce più pesantemente i giovani non diplomati), ma che la loro lotta riguarda ancora di più i giovani più sfavoriti, particolarmente quelli che abitano le “periferie” che erano “bruciate” l’autunno scorso. Le giovani generazioni riprendono la fiaccola della lotta
9) Una delle caratteristiche maggiori del movimento attuale è che esso è costituito dalle giovani generazioni. E ciò non è affatto un caso. Da alcuni anni la CCI aveva rilevato l’esistenza in seno alle nuove generazioni di un processo di riflessione in profondità, anche se non spettacolare, che si manifestava principalmente attraverso il risveglio ad una politica comunista di un numero molto più importante rispetto a prima di giovani elementi, alcuni dei quali hanno già raggiunto le nostre fila. Essa vi vedeva la “punta dell’iceberg” di un processo di presa di coscienza che interessava larghi settori delle nuove generazioni proletarie che, presto o tardi, sarebbero state impegnate in vaste lotte:
- “La nuova generazione di ‘elementi in ricerca’, la minoranza che si avvicina alle posizioni di classe, avrà un ruolo di un’importanza senza precedenti nelle future lotte della classe che dovranno confrontarsi alle loro implicazioni politiche molto più rapidamente e profondamente rispetto a quelle del 1968-1989. Questi elementi, che esprimono già uno sviluppo lento ma significativo della coscienza in profondità, contribuiranno ad aiutare l’estensione di massa della coscienza in tutta la classe”.(Revue internationale n°113, “Risoluzione sulla situazione internazionale del 15° Congresso della CCI”). Il movimento attuale degli studenti in Francia esprime l’emergere di questo processo sotterraneo iniziato da qualche anno. È il segno che il grosso dell’impatto delle campagne ideologiche orchestrate dal 1989 sulla “fine del comunismo”, “la scomparsa della lotta di classe” (cioè della classe operaia) è ora dietro di noi. All’indomani della ripresa storica del proletariato mondiale, a partire dal 1968, constatavamo che:
- “Il proletariato attuale è differente da quello tra le due guerre. Da una parte, come l’insieme dei pilastri dell’ideologia borghese, le mistificazioni che hanno nel passato schiacciato la coscienza proletaria si sono in parte esaurite progressivamente: il nazionalismo, le illusioni democratiche, l’anti-fascismo, utilizzate intensamente per mezzo secolo, non hanno più l’impatto di ieri. Dall’altra, le nuove generazioni operaie non hanno subito le sconfitte delle precedenti. I proletari che oggi si confrontano con la crisi, se non hanno l’esperienza dei loro genitori, non sono tuttavia prostrati nella stessa demoralizzazione. La formidabile reazione che, fin dal 1968-69, la classe operaia ha opposto alle prime manifestazioni della crisi significa che la borghesia oggi non è in grado di imporre la sola uscita che essa possa trovare per questa crisi: un nuovo olocausto mondiale. Prima deve poter vincere la classe operaia: la prospettiva attuale non è dunque la guerra imperialistica ma la guerra di classe generalizzata”(Manifesto della CCI, adottato al suo 1°Congresso nel gennaio 1976). All’epoca del nostro 8°Congresso, tredici anni più tardi, il rapporto sulla situazione internazionale completava questa analisi nei seguenti termini:
“Era necessario che le generazioni colpite dalla controrivoluzione dagli anni 30 ai 60 cedessero il posto a quelle che non l’avevano conosciuta, affinché il proletariato mondiale trovasse la forza di superarla. In modo simile (sebbene bisogna relativizzare un tale paragone sottolineando che tra le generazioni del 68 e le precedenti c’era stata una rottura storica, mentre tra le generazioni successive vi è stata continuità) la generazione che farà la rivoluzione non potrà essere quella che ha compiuto l’essenziale compito storico di aver aperto al proletariato mondiale una nuova prospettiva dopo la controrivoluzione più profonda della sua storia”. Alcuni mesi più tardi, il crollo dei regimi sedicenti “socialisti” e l’importante riflusso che questo avvenimento provocò nella classe operaia doveva concretizzare questa previsione. In realtà, fatte salve le dovute proporzioni, la ripresa attuale della lotta di classe può avere lo stesso valore della ripresa storica del 1968 dopo 40 anni di contro-rivoluzione: le generazioni che hanno subito la sconfitta e soprattutto la terribile pressione delle mistificazioni borghesi non potevano più animare un nuovo episodio di scontro tra classi. Nei fatti, a riprende oggi per prima la fiaccola della lotta è una generazione che non è stata colpita direttamente da esse perché durante queste campagne stava ancora alla scuola elementare.
La coscienza, ben più profonda di quella del 68, d’appartenere alla classe operaia
10) Il paragone tra le mobilitazioni studentesche di oggi in Francia e gli avvenimenti del maggio ‘68 permette di distinguere un certo numero di caratteristiche importanti del movimento attuale. La maggioranza degli studenti in lotta l’afferma attualmente con molta chiarezza: “la nostra lotta è differente da quella del Maggio 68”. Questo è completamente giusto, ma bisogna capire perché. La prima differenza, che è fondamentale, consiste nel fatto che il movimento del Maggio 1968 si è prodotto agli inizi della crisi aperta dell’economia capitalista mondiale, mentre questa dura ormai da quasi quattro decenni, con un forte aggravamento a partire dal 1974. Dal 1967 si assisteva ad un aumento del numero di disoccupati in parecchi paesi, particolarmente in Germania ed in Francia, il che costituiva una delle basi dell’inquietudine che cominciava ad emergere tra gli studenti ed anche del malcontento che costrinse la classe operaia ad impegnarsi nella lotta. Il numero dei disoccupati in Francia oggi è 10 volte più elevato di quello del maggio 68 e questa disoccupazione di massa (ufficialmente dell’ordine del 10% della popolazione attiva), dura già da parecchi decenni. Ne risulta tutta una serie di differenze. Anche se i primi danni della crisi hanno costituito uno degli elementi all’origine della collera studentesca nel 68, questi oggi non si presentano affatto negli stessi termini. All’epoca non c’era un pericolo maggiore di disoccupazione o di precarietà alla fine degli studi. L’inquietudine principale della gioventù studentesca di allora era di non poter oramai accedere allo stesso status sociale della generazione precedente di laureati. In effetti, la generazione del 68 fu la prima a doversi confrontare, con una certa brutalità, al fenomeno di “proletarizzazione dei quadri” studiato abbondantemente dai sociologi dell’epoca. Questo fenomeno era iniziato qualche anno prima, prima ancora che si manifestasse apertamente la crisi, in seguito al sensibile aumento del numero di studenti nelle università. Questo aumento derivava dai bisogni dell’economia, ma anche dalla volontà e dalla possibilità della generazione dei loro genitori (che aveva subito con la Seconda Guerra mondiale un periodo di privazioni considerevoli) di permettere ai propri figli di raggiungere una situazione economica e sociale superiora alla propria. Questa “massificazione” della popolazione studentesca aveva provocato da alcuni anni un malessere crescente risultante dalla permanenza in seno all’università di strutture e pratiche, in particolare un forte autoritarismo, ereditate da un tempo in cui solo un’elite poteva frequentarla,. Un’altra componente del malessere del mondo studentesco, che si fece sentire a partire dal 1964 negli Stati Uniti, fu la guerra del Vietnam che offuscava il mito del ruolo “civilizzatore” delle grandi democrazie occidentali e favoriva nei settori significativi della gioventù universitaria un’infatuazione per i temi terzomondisti - guevaristi o maoisti. Questi temi erano alimentati dalle teorie di “pensatori” “pseudo-rivoluzionari”, come Herbert Marcuse il quale annunciava “l’integrazione della classe operaia” e la nascita di nuove forze “rivoluzionarie” quali le “minoranze oppresse” (i neri, le donne, ecc.), i contadini del Terzo Mondo, e … gli studenti. Numerosi studenti di questo periodo si consideravano “rivoluzionari” proprio come consideravano “rivoluzionari” personaggi come Che Guevara, Ho Chi Min o Mao. Infine, una delle componenti della situazione dell’epoca era il divario molto importante tra le nuove generazioni e quella dei propri genitori verso cui erano rivolte molteplici critiche. In particolare, poiché questa generazione aveva lavorato duro per uscire dalla miseria e dalla fame, causate dalla Seconda Guerra mondiale, le era rimproverato di preoccuparsi solo del benessere materiale. Da qui il successo delle fantasie sulla “società di consumo” e di slogan come il “rifiuto del lavoro”. Figlia di una generazione che aveva subito con forza la controrivoluzione, la gioventù degli anni 60 le rimproverava il suo conformismo e la sua sottomissione all’esigenze del capitalismo. Reciprocamente, molti genitori non comprendevano e facevano fatica ad accettare il fatto che i loro figli trattavano con disprezzo i sacrifici che facevano per dare loro una situazione economica migliore della propria.
11) Il mondo di oggi è ben differente da quello del 68 e la situazione della gioventù studentesca attuale ha poco a che vedere con quella degli anni “sessanta”:
- Non è semplicemente l’inquietudine verso un deterioramento del loro futuro stato che assilla la maggior parte degli studenti di oggi. Proletari essi lo sono già per una buona metà che è costretta a lavorare per potersi pagare degli studi e non si fanno troppe illusioni su stupefacenti condizioni sociali che li aspetterebbero alla fine di questi. Soprattutto sanno che alla fine il diploma gli darà il “diritto” di raggiungere la condizione proletaria sotto una delle forme più drammatiche, la disoccupazione e la precarietà, l’invio di centinaia di CV senza risposta e le file di attesa alle agenzie di lavoro, e che il loro accesso ad un impiego un poco più stabile, dopo tutto un periodo di “galera” intervallato da stage non pagati e da contratti a durata determinata, si effettuerà in molti casi con posti che hanno poco a che vedere con la loro formazione e le loro aspirazioni.
- In questo senso la solidarietà che provano attualmente gli studenti verso i lavoratori rivela innanzitutto che la maggior parte di essi è cosciente di appartenere allo stesso mondo, quello degli sfruttati, in lotta contro uno stesso nemico, gli sfruttatori. Questo è molto lontano dall’atteggiamento di natura piccolo-borghese degli studenti del 68 verso la classe operaia. Atteggiamento che manifestava una certa condiscendenza nei riguardi di quest’ultima mescolata ad un fascino verso questo essere mitico, l’operaio in tuta blu, eroe delle letture male assimilate dei classici marxisti, quando non erano di autori che hanno poco a che vedere col marxismo, stalinisti o cripto-stalinisti. La moda fiorita dopo il 68 secondo tra quegli intellettuali che scelsero di andare a lavorare in fabbrica per “toccare con mano la classe operaia”, è lontana da noi.
- È anche per questo che temi come la “società dei consumi”, anche se vengono ancora agitati da qualche nostalgico anarchicheggiante, non hanno nessuna eco nella lotta degli studenti. Quanto alla formula del rifiuto del lavoro” del “non lavorare mai”, questa non è più un progetto “radicale” ma una terribile ed angosciosa minaccia.
12) Paradossalmente, è sempre per questi motivi che i temi “radicali” o “rivoluzionari” sono molto poco presenti nelle discussioni e nelle preoccupazioni degli studenti di oggi. Mentre quelli del 68 trasformarono molte facoltà in fori permanenti di dibattito sulla questione della rivoluzione, dei consigli operai, ecc., la maggioranza delle discussioni che si tengono oggi nelle università vertono intorno a questioni più “terra-terra”, come il CPE e le sue implicazioni, la precarietà, le modalità di lotta (blocchi, assemblee generali, coordinamenti, manifestazioni, ecc.). Tuttavia, la polarizzazione intorno al ritiro del CPE che manifesta apparentemente un’ambizione meno “radicale” di quella degli studenti del 68, non significa affatto una minore profondità del movimento attuale rispetto a quello di 38 anni fa. Proprio il contrario. Le preoccupazioni “rivoluzionarie” degli studenti del 68 (in realtà della minoranza che costituiva “l’avanguardia del movimento”) erano indiscutibilmente sincere ma molto segnate dal terzo-mondismo, dal guevarismo, dal maoismo, se non dall’anti-fascismo. Nella migliore delle ipotesi, se così si può dire, erano di natura anarchicheggiante (sulla scia di Cohn-Bendit) o situazioniste. Quando non si trattava di semplici appendici “radicali” dello stalinismo, quello che predominava era una visione romantica piccolo-borghese della rivoluzione. Ma qualunque fossero state le correnti che ostentavano idee “rivoluzionarie”, di natura borghese o piccola-borghese, nessuno di esse aveva la minima idea del processo reale di sviluppo del movimento della classe operaia verso la rivoluzione, ed ancor meno del significato degli scioperi operai di massa come prima manifestazione dell’uscita dal periodo di contro-rivoluzione8. Oggi, le preoccupazioni “rivoluzionarie” non sono ancora presenti in modo significativo nel movimento ma la sua natura di classe incontestabile ed il terreno su cui si fa la mobilitazione (il rifiuto di un futuro di sottomissione alle esigenze ed alle condizioni dello sfruttamento capitalista: la disoccupazione, la precarietà, l’arbitrarietà dei padroni, ecc.), sono portatori di una dinamica che, necessariamente, indurrà in tutta una frangia dei partecipanti alle lotte attuali una presa di coscienza della necessità del capovolgimento del capitalismo. E questa presa di coscienza non sarà basata su delle chimere come quelle che prevalsero nel 68 e che permisero un “riciclaggio” dei leader del movimento nell’apparato politico ufficiale della borghesia (i ministri Bernard Kouchner e Joshka Fischer, il senatore Henri Weber, il porta parola dei verdi al Parlamento europeo Daniele Cohn-Bendit, l’editore Serge July, ecc.) quando non portarono al tragico vicolo cieco del terrorismo (“Brigate rosse” in Italia, “Frazione armata rossa” in Germania, “Azione diretta” in Francia). Al contrario, questa presa di coscienza si svilupperà a partire dalla comprensione delle condizioni fondamentali che rendono la rivoluzione proletaria necessaria e possibile: la crisi economica insormontabile del capitalismo mondiale, il vicolo cieco storico di questo sistema, la necessità di concepire le lotte proletarie di resistenza contro gli attacchi crescenti della borghesia come altrettanti preparativi in vista del capovolgimento finale del capitalismo. Nel 1968 il rapido rifiorire delle preoccupazioni “rivoluzionarie” era in grande parte il segno della superficialità e della mancanza di consistenza teorico-politica corrispondente alla natura fondamentalmente piccolo-borghese del movimento studentesco. Il processo di radicalizzazione delle lotte della classe operaia, anche se può conoscere in certi momenti delle accelerazioni sorprendenti, è un fenomeno molto più lungo, proprio perché è incomparabilmente più profondo. Come diceva Marx, “essere radicale, significa andare alla radice delle cose”, e questo è un percorso che richiede necessariamente del tempo e si basa sulla capitalizzazione di tutta un’esperienza di lotte. La capacità di evitare la trappola della violenza cieca montante provocata dalla borghesia
13) In effetti, non è nella “radicalità” degli obiettivi, né nelle discussioni prodotte che si manifesta la profondità del movimento degli studenti. Tale profondità è data dalle questioni di fondo che la rivendicazione del ritiro del CPE pone implicitamente: l’avvenire di precarietà e di disoccupazione che il capitalismo in crisi riserva alle giovani generazioni e che segna il fallimento storico di questo sistema. Ma ancor più questa profondità si esprime attraverso i metodi e l’organizzazione della lotta di cui abbiamo parlato ai punti 2 e 3: le assemblee generali viventi, aperte, disciplinate, che manifestano una preoccupazione di riflessione e di presa in carico collettiva del movimento, la nomina di commissioni, comitati di sciopero, delegazioni responsabili di fronte alle AG, la volontà di estensione della lotta verso l’insieme dei settori della classe operaia. Ne “La guerra civile in Francia” Marx segnala che il carattere veramente proletario della Comune di Parigi non si esprime tanto attraverso le misure economiche che ha adottato (la soppressione del lavoro di notte dei bambini e la moratoria sulle pigioni) ma attraverso i mezzi ed il modo di organizzazione che essa si è data. Quest’analisi di Marx risponde per intero alla situazione attuale. L’aspetto più importante nelle lotte che pone la classe sul suo terreno non risiede tanto negli obiettivi contingenti che essa può darsi in questo o quel momento, e che saranno superati nelle tappe ulteriori del movimento, ma nella sua capacità a prendere pienamente in mano queste lotte e dunque nei metodi che essa si dà per appropriarsi di queste. Sono questi mezzi e metodi della sua lotta ad essere i migliori garanti della dinamica e della capacità della classe ad avanzare nel futuro. E’ questa una delle insistenze maggiori del libro di Rosa Luxemburg Scioperi di massa, partito e sindacati, che trae le lezioni dalla rivoluzione del 1905 in Russia. In realtà, precisando che il movimento attuale è ben al di qua di quello del 1905 dal punto di vista della sua posta in gioco politica, bisogna sottolineare che i mezzi che si è dato sono, in modo embrionale, quelli dello sciopero di massa, quale si è espresso in particolare nell’agosto 1980 in Polonia.
14) La profondità del movimento degli studenti si esprime anche nella sua capacità a non cadere nella trappola della violenza che la borghesia gli ha teso a più riprese utilizzando e manipolando anche i “casseurs”9: occupazione poliziesca della Sorbona, trappola alla fine della manifestazione del 16 marzo, cariche poliziesche alla fine di quella del 18 marzo, violenze dei “casseurs” contro i manifestanti del 23 marzo. Anche se una piccola minoranza di studenti, principalmente quelli influenzati da ideologie anarchicheggianti, si sono lasciati tentare a scontrarsi con le forze di polizia, la grande maggioranza di essi si è preoccupata di non lasciare frammentare e distruggere il movimento in scontri a ripetizione con le forze di repressione. In questo senso il movimento attuale degli studenti ha dato prova di una maturità ben più grande rispetto a quello del 1968. La violenza - scontri con i corpi di polizia (CRS) e barricate- aveva costituito, tra il 3 maggio ed il 10 maggio 68, una delle componenti del movimento che, in seguito alla repressione della notte tra il 10 e l’11 e alle tergiversazioni del governo, aveva aperto le porte all’immenso sciopero della classe operaia. Ciò detto, nel prosieguo del movimento, le barricate e le violenze divennero uno degli elementi che permise alle differenti forze della borghesia (governo ed sindacati) di riprendere in mano le redini della situazione, in particolare minando la grande simpatia acquisita in un primo tempo dagli studenti nell’insieme della popolazione e soprattutto nella classe operaia. Per i partiti di sinistra e per i sindacati divenne facile mettere su uno stesso piano quelli che parlavano della necessità della rivoluzione e quelli che bruciavano automobili e si scontravano continuamente con i CRS. Tanto più che spesso, in realtà, erano gli stessi. Per gli studenti, che si credevano “rivoluzionari”, il movimento del Maggio 68 era già la Rivoluzione e le barricate che si erigevano giorno dopo giorno erano presentate come le eredi di quelle del 1848 e della Comune. Oggi, anche quando ci si pone la domanda delle prospettive generali del movimento, e dunque della necessità della rivoluzione, gli studenti sono molto coscienti del fatto che non sono gli scontri con le forze di polizia che fanno la forza del movimento. In effetti, anche se è ancora molto lontano dal porsi la questione della rivoluzione e dunque dal riflettere sul problema della violenza di classe del proletariato nella sua lotta per il capovolgimento del capitalismo, il movimento è stato confrontato implicitamente a questo problema ed ha saputo dargli una risposta nel senso della lotta e della natura del proletariato. Quest’ultimo è stato confrontato fin dall’inizio con la violenza estrema della classe sfruttatrice, con la repressione quando ha provato a difendere i suoi interessi, con la guerra imperialista ed anche con la violenza quotidiana dello sfruttamento. Contrariamente alle classi sfruttatrici, la classe portatrice del comunismo non porta in sé violenza, ed anche se non può fare a meno di usarla non deve mai identificarsi con essa. In particolare, la violenza di cui dovrà dare prova per rovesciare il capitalismo e di cui dovrà servirsi con determinazione, è necessariamente una violenza cosciente ed organizzata e dunque deve essere preceduta da tutto un processo di sviluppo della sua coscienza e della sua organizzazione attraverso le differenti lotte contro lo sfruttamento. La mobilitazione attuale degli studenti, proprio per la sua capacità ad organizzarsi ed ad affrontare in modo riflessivo i problemi che le sono posti, compreso quello della violenza, è molto più vicina alla rivoluzione, al capovolgimento violento dell’ordine borghese rispetto a quello delle barricate del Maggio 1968.
15) E’ proprio la questione della violenza che costituisce uno degli elementi essenziali che permette di sottolineare la differenza fondamentale tra le sommosse delle periferie dell’autunno 2005 ed il movimento degli studenti della primavera 2006. All’origine dei due movimenti c’è evidentemente un causa comune: la crisi insormontabile del modo di produzione capitalista, l’avvenire di disoccupazione e di precarietà che questa riserva ai figli della classe operaia. Tuttavia, le sommosse delle periferie, che hanno espresso fondamentalmente una disperazione completa di fronte a questa situazione, non possono in nessuno modo essere considerate come una forma, anche approssimativa, di lotta di classe. In particolare, le componenti essenziali dei movimenti del proletariato, la solidarietà, l’organizzazione, la presa in mano collettiva e cosciente della lotta, sono state totalmente assenti in queste sommosse. Nessuna solidarietà dei giovani esasperati verso i proprietari delle automobili che bruciavano e che erano quelle dei loro vicini, loro stessi proletari, vittime della disoccupazione e della precarietà. Ben poca coscienza da parte di questi ribelli, spesso molto giovani, la cui violenza e le cui distruzioni si esercitavano in modo cieco, e spesso sotto forma di gioco. In quanto all’organizzazione ed all’azione collettiva, queste prendevano la forma di bande di quartiere dirette da un piccolo “capobanda” (che spesso traeva la sua autorità dal fatto di essere il più violento della banda) che facevano a gara a chi bruciava più automobili. In realtà, l’approccio dei giovani insorti nell’ottobre-novembre 2005 non solo si presta ad essere facile preda per ogni tipo di manipolazione poliziesca, ma ci da una prova di come gli effetti della decomposizione della società capitalista possono costituire un ostacolo allo sviluppo della lotta e della coscienza del proletariato.
La persuasione di fronte ai giovani delle periferie
16) Nel corso del movimento attuale le bande dei “duri” hanno ripetutamente approfittato delle manifestazioni per recarsi al centro dalle città dedicandosi al loro sport favorito: “dagli addosso agli sbirri” e “rompere le vetrine”, e ciò con grande soddisfazione dei media stranieri che si erano già distinti alla fine 2005 per le loro immagini shock in prima pagina dei giornali ed in televisione. È chiaro che le immagini delle violenze che, durante tutto un periodo, sono state le uniche presentate ai proletari al di fuori della Francia, hanno costituito un eccellente mezzo per rafforzare il blackout su ciò che accadeva realmente in questo paese, privando la classe operaia mondiale di elementi che potevano contribuire alla sua presa di coscienza. Ma non è solamente nei confronti del proletariato degli altri paesi che sono state sfruttate le violenze delle bande dei “duri”. Nella stessa Francia, in un primo tempo, sono state utilizzate per tentare di presentare la lotta degli studenti come una specie di “prosieguo” delle violenze dell’autunno scorso. Fatica sprecata: nessuno ha creduto ad una tale favola ed è per questo motivo che il Ministro degli Interni, Sarkozy, ha cambiato velocemente atteggiamento dichiarando di essere consapevole della chiara differenza tra gli studenti ed i “teppisti”. Le violenze sono state allora esaltate per tentare di dissuadere la maggior parete dei lavoratori, e naturalmente studenti universitari e liceali, a partecipare alle manifestazioni, specialmente a quella del 18 marzo. La partecipazione eccezionale a questa manifestazione ha dimostrato che queste manovre non funzionavano. Alla fine, il 23 marzo, è con la benedizione delle forze di polizia che i “casseur” hanno aggredito i manifestanti per rapinarli, o semplicemente per pestarli senza ragione. Molti studenti sono stati demoralizzati da questi violenze: “Quando sono i CRS che ci manganellano, ciò ci dà la grinta, ma quando sono i ragazzi delle periferie per i quali anche ci si batte, ciò costituisce un colpo al morale”. Tuttavia, anche su questo gli studenti hanno dimostrato la loro maturità e la loro coscienza. Piuttosto che provare ad organizzare delle azioni violente contro i giovani “casseurs”, come è stato fatto dai servizi d’ordine sindacale che durante la manifestazione del 28 marzo li hanno spinti verso le forze di polizia a forza di manganello, hanno deciso in parecchi luoghi di eleggere delle delegazioni con il mandato di andare a discutere con i giovani dei quartieri periferici, in particolare per spiegare loro che la lotta degli studenti era anche a favore di questi giovani immersi nella disperazione della disoccupazione di massa e dell’esclusione. È in modo intuitivo, senza conoscenza delle esperienze della storia del movimento operaio, che la maggioranza degli studenti ha messo in pratica uno degli insegnamenti essenziali che emerge da queste esperienze: nessuna violenza all’interno della classe operaia. Di fronte ai settori del proletariato che possono lasciarsi trascinare in azioni contrarie ai suoi interessi generali, la persuasione e l’appello alla coscienza costituisce il mezzo essenziale d’azione nei loro confronti, dal momento che questi settori non sono appendici dello Stato borghese (come i commando che vanno a sabotare gli scioperi).
Un’esperienza insostituibile per la politicizzazione delle giovani generazioni
17) Une delle ragioni della grande maturità del movimento attuale, particolarmente nei confronti della questione della violenza, sta nella forte partecipazione delle studentesse universitarie e delle liceali in questo movimento. È noto che a quest’età le ragazze hanno generalmente una maggiore maturità rispetto ai loro compagni di sesso maschile. Inoltre, per quanto riguarda la questione della violenza, le donne si lasciano in genere meno facilmente trascinare su questo terreno rispetto agli uomini. Anche nel 1968 le studentesse hanno partecipato al movimento, ma quando la barricata è diventata il simbolo di questo, il ruolo che è stato loro affidato è stato spesso quello di sostegno agli “eroi” che stavano sulle barricate, di infermiere per quelli che erano feriti e di portatrici di panini per farli ristorare tra uno scontro con i CRS e l’altro. Niente di tutto questo nel movimento di oggi. Nei “blocchi” alle porte delle università, le studentesse sono numerose ed il loro atteggiamento è significativo del senso che il movimento ha dato finora a questi picchetti: non il “bastone” nei confronti di coloro che vogliono seguire i corsi, ma la spiegazione, l’argomentazione e la persuasione. Nelle assemblee generali e nelle differenti commissioni, anche se spesso non sono “grandi oratrici” e sono meno impegnate nelle organizzazioni politiche rispetto ai ragazzi, le studentesse costituiscono un elemento di prim’ordine nell’organizzazione, la disciplina e l’efficacia di queste così come nella capacità di riflessione collettiva. La storia delle lotte del proletariato ha messo in evidenza che la profondità di un movimento poteva essere valutata in parte dalla proporzione delle operaie che vi venivano coinvolte. In “tempi normali” le donne proletarie, poiché subiscono un’oppressione ancora più soffocante dei proletari maschi, sono in linea di massima meno coinvolte rispetto a quest’ultimi nei conflitti sociali. È solamente al momento in cui questi conflitti raggiungono una grande profondità, che gli strati più oppressi del proletariato, particolarmente le operaie, si lanciano nella lotta e la riflessione di classe. La grande partecipazione delle studentesse universitarie e liceali nel movimento attuale, il ruolo di primo piano che giocano, costituiscono non solo un indizio supplementare della sua natura autenticamente proletaria, ma anche della sua profondità.
18) Come abbiamo visto, il movimento attuale degli studenti in Francia costituisce un’espressione di primo piano della nuova vitalità del proletariato mondiale da tre anni a questa parte, una nuova vitalità ed una maggiore capacità di presa di coscienza. La borghesia farà evidentemente tutto il possibile per limitare al massimo l’impatto di questo movimento per l’avvenire. Se ne ha i mezzi, cercherà di non cedere sulle sue rivendicazioni principali per mantenere nella classe operaia in Francia il sentimento di impotenza che è riuscita ad imporle nel 2003. Ad ogni modo, si adopererà affinché la classe operaia non tragga le ricche lezioni da questo movimento, in particolare provocando un deterioramento del lotta (che è un fattore di demoralizzazione) o un recupero attraverso i sindacati ed i partiti di sinistra. Tuttavia, qualunque siano le manovre della borghesia, questa classe non potrà sopprimere tutta l’esperienza accumulata durante le settimane dalle decine di migliaia dei futuri lavoratori, il loro risveglio alla politica e la loro presa di coscienza. È questo il vero tesoro per le lotte future del proletariato, un elemento di primo piano della loro capacità a proseguire il cammino verso la rivoluzione comunista. E’ compito dei rivoluzionari partecipare pienamente, tanto nel far fruttare l’esperienza presente che al suo utilizzo nelle lotte future.
CCI (3 aprile 2004)
1. Al fine di permettere alla lotta di avere il maggiore potere ed unità possibili, gli studenti hanno avuto la necessità di costituire un “coordinamento nazionale” di delegati delle differenti assemblee. In sé il fatto è assolutamente corretto. Tuttavia, nella misura in cui una buona parte dei delegati è costituita da elementi di organizzazioni politiche borghesi (come la “Lega comunista rivoluzionaria”, trotskista) che sono presenti nel mondo studentesco, le riunioni settimanali del coordinamento sono state spesso il teatro di manovre politiche di queste organizzazioni che hanno tentato in particolare, finora senza successo, di costituire un “Bureau del Coordinamento” che sarebbe diventato uno strumento della loro politica. Come spesso abbiamo riportato negli articoli della nostra stampa (in particolare durante gli scioperi in Italia del 1987 e durante lo sciopero degli ospedalieri in Francia del 1988) la centralizzazione, che è una necessità in una lotta di grande ampiezza, non può contribuire realmente allo sviluppo del movimento se non si basa su un alto grado di gestione di quest’ultimo e di vigilanza alla base, nelle assemblee generali. Bisogna anche notare che un’organizzazione come la LCR ha tentato di dare al movimento degli studenti dei “porta voce” presso i media. Il fatto che non sia apparso alcuno “leader” mediatico del movimento non è un segno di debolezza ma al contrario della sua grande profondità.
2. Abbiamo anche potuto ascoltare alla televisione uno “specialista” della psicologia dei politici dichiarare che questi faceva parte della categoria degli “ostinati narcisistici”.
3. Bisogna precisare che il comune in questione è Neuilly-su-Seine, il simbolo delle città a popolazione borghese. Non è certamente con i suoi elettori che Sarkozy ha imparato a “parlare al popolo”.
4. Questa era una data simbolica poiché segnava il decimo anniversario del colpo di Stato del 13 maggio 1958 che aveva visto il ritorno di De Gaulle al potere. Uno dei principali slogan della manifestazione era “Dieci anni, basta così!”
5. Così, nel gennaio 1968, la nostra pubblicazione Internacionalismo del Venezuela, la sola pubblicazione della nostra corrente esistente all’epoca, annunciava l’inizio di un nuovo periodo di scontri di classe a scala internazionale: “non siamo dei profeti, e non pretendiamo di indovinare quando ed in che modo si svolgeranno gli avvenimenti futuri. Ma quello di cui siamo effettivamente sicuri e coscienti per quanto riguarda il processo in cui è immerso il capitalismo attualmente, è che non è possibile fermarlo con le riforme, le svalutazioni, né con altri tipi di misure economiche capitaliste e che esso conduce direttamente alla crisi. E siamo anche sicuri che il processo inverso di sviluppo della combattività della classe, che attualmente viviamo in modo generale, condurrà la classe operaia ad una lotta sanguinosa e diretta per la distruzione dello Stato borghese”.
6. In quel giorno, dopo tutta una serie di mobilitazioni nelle città operaie contro i violenti attacchi economici e la repressione della giunta militare, gli operai di Cordoba riuscirono a scavalcare completamente le forze di polizia e l’esercito (pertanto equipaggiati di carri armati) e si impadronirono della città, la seconda del paese. Il governo poté “ristabilire l’ordine” solo l’indomani grazie all’invio massiccio dell’esercito.
7. Siamo ben lontano dall’atteggiamento di molti studenti del 1968 che consideravano i loro genitori come “vecchi coglioni”, mentre quest’ultimi li trattavano spesso da “piccoli coglioni”).
8. Vale la pena segnalare che questa cecità sul significato vero del Maggio 1968 non colpiva solo le correnti di estrazione stalinista o trotskista per le quali, evidentemente, non c’era stata controrivoluzione ma una progressione della “rivoluzione” con la comparsa, in seguito alla Seconda Guerra mondiale, di tutta una serie di Stati “socialisti” o “operai degenerati” e con le “lotte di liberazione nazionale” che erano iniziate nello stesso periodo e che si sono prolungate per parecchi decenni. In effetti, la maggior parte delle correnti ed elementi che si ricongiungevano alla Sinistra comunista, ed in particolare alla Sinistra italiana, non hanno compreso gran che di ciò che accadeva nel 68 poiché, ancora oggi, tanto per i bordighisti che per Battaglia comunista non siamo ancora usciti della controrivoluzione.
9. Letteralmente coloro che rompono, distruggono.
Già qualche mese fa, abbiamo ricevuto sul nostro sito Internet due messaggi su Che Guevara da un compagno firmatosi E.K. Pubblichiamo la lettera che gli abbiamo mandato all’inizio d’aprile cogliendo l’occasione per completare ed allargare la nostra risposta alle domande restate allora in sospeso. Rendiamo pubblica questa corrispondenza perché, come lo stesso EK dice, si è "nelle celebrazioni dei 40 anni della sua morte di combattente" e si tratta per noi, CCI, non di aggiungerci alle cerimonie celebrative ma, al contrario, di provare a comprendere se Che Guevara è stato realmente un rivoluzionario e se la classe operaia e le giovani generazioni devono o non rivendicarsi alla sua azione.
Alcuni brani del messaggio di EK
Per il compagno EK, Che Guevara è un autentico combattente per la causa dei popoli oppressi. Infatti, per lui, "l'internazionalismo del Che è fuori discussione. È il modello del combattente internazionale e della solidarietà tra i popoli". Sarebbe così uno dei rari rivoluzionari ad avere osato criticare il regime dell'URSS: "all'epoca del secondo seminario di solidarietà afro-asiatica, il Che critica senza mezzi termini le posizioni conservatrici e sfruttatrici dell'URSS". Infine, EK espone in questa prima lettera la sua visione del proletariato e del ruolo dei rivoluzionario: "in quanto all'agente storico della trasformazione sociale, non c'è, mi sembra, ragione di ridurre il concetto di proletariato ai soli operai, negazione assoluta della condizione umana. (...) Il compito degli intellettuali è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione attraverso mezzi eminentemente politici".
In seguito alla nostra risposta, il compagno E.K ci ha mandato velocemente un secondo messaggio in cui tiene a smarcarsi innanzitutto da tutti quelli che trasformano il Che in icona, moltiplicando le T-shirts ed altri poster alla sua effige: "Rendere Che un mito attraverso la duplicazione della sua immagine tende ad occultare la sua vita e la sua opera". Ma soprattutto afferma che "perseguendo obiettivi distinti, il Che è stato portato con forza a sganciarsi logicamente dal modello social-imperialistico dell'URSS. La CIA ed il KGB hanno anche cooperato per sbarazzarsi di lui all'epoca del suo tentativo rivoluzionario in Bolivia". Ed il compagno conclude: "Ernesto Che Guevara ha pagato la probità intellettuale della sua vita. Rendergli omaggio significa leggere i suoi testi; perpetuare la sua memoria, continuare la lotta; rendergli giustizia, sostenere i suoi valori. All'alba delle celebrazioni dei 40 anni della sua morte di combattente, è tempo di restituire più vigore al suo pensiero e vita alle sue idee".
Ti ringraziamo per il tuo messaggio d’inizio aprile. Scusaci per il ritardo di questo supplemento di risposta. Vogliamo fare qui una critica su ciò che ci scrivi. Questa critica non significa per noi una "fine della nostra corrispondenza", ma proprio il contrario. Siamo sempre pronti a rispondere alle tue domande ed ai tuoi punti di vista. Vorremmo rispondere su ciò che dici a proposito di Che Guevara studiando quanto più sinceramente e seriamente possibile ciò che furono realmente, come tu chiedi, "i suoi valori", "le sue idee" e "la sua lotta".
Che Guevara è un esempio per la gioventù rivoluzionaria di oggi?
In questo mese di ottobre, si celebra il 40mo anniversario della morte di Che Guevara, ucciso dall'esercito boliviano, diretto dalla CIA americana.
Dal 1967, "il Che" è diventato il simbolo dell'eterna "gioventù rivoluzionaria romantica" : morto giovane, armi alla mano, lottando contro l'imperialismo americano, grande "difensore delle masse povere dell'America latina". Tutti hanno in testa l’immagine del Che col suo basco stellato, sguardo triste e lontano.
I suoi famosi Appunti di viaggio hanno contribuito notevolmente a divulgare la storia di questo ribelle, proveniente da una buona famiglia argentina, un poco bohémien, che si lancia in un avventuroso viaggio in moto sulle strade del Sud America, utilizzando le sue conoscenze mediche per aiutare i poveri... Vive in Guatemala in un momento (1956) in cui gli Stati Uniti fomentano un ennesimo colpo di Stato contro un governo che non è di loro gradimento. Questo dominio permanente sui paesi dell'America latina da parte degli Stati Uniti nutre tutta la sua vita di un odio implacabile contro questi ultimi. In seguito, raggiunge in Messico il gruppo cubano di Castro, rifugiatosi in questo paese dopo un tentativo abortito di capovolgere il dittatore cubano, Batista, da tempo sostenuto dagli Stati-Uniti[1]. Dopo una serie di avventure, questo gruppo si installa nelle montagne di Cuba fino alla sconfitta di Batista, inizio gennaio 1959. Il nocciolo ideologico di questo gruppo è il nazionalismo, il "marxismo" è solamente una coperta di circostanza ad un’aspra "resistenza" anti-yankee, anche se alcuni elementi tra cui lo stesso Guevara, si considerano "marxisti". Il Partito comunista cubano, che del resto a suo tempo aveva sostenuto Batista, manda uno dei suoi dirigenti, Carlos Rafael Rodríguez, da Castro nel 1958, solamente alcuni mesi prima della vittoria di quest’ultimo.
Questa guerriglia non è affatto l'espressione di una qualsiasi rivolta contadina, ancora meno della classe operaia. È l'espressione militare di una frazione della borghesia cubana che vuole rovesciare un'altra frazione per prendere il suo posto. Non c'è nessuno "sollevamento popolare" nella presa di potere da parte della guerriglia castrista. Questa si presenta, come spesso accade in America latina, sotto forma della sostituzione di una cricca militare attraverso un'altra formazione armata nella quale gli strati sfruttati e miseri della popolazione dell'isola, arruolati o non dai combattenti golpisti della guerriglia, non giocano un ruolo importante, se non quello di acclamare i nuovi padroni del potere. Di fronte alla resistenza piuttosto debole della soldatesca di Batista, Guevara appare come un intrepido guerrigliero la cui determinazione ed il carisma crescente appaiono velocemente suscettibili di fare ombra al suo maestro Fidel. Dopo la vittoria su Batista, Fidel Castro incarica il Che di formare i "tribunali rivoluzionari", una sanguinosa mascherata nella migliore tradizione del regolamento dei conti tra frazioni delle differenti borghesie nazionali, in particolare in America latina. Che Guevara prende veramente il suo ruolo a cuore, per convinzione e con zelo, adottando una giustizia "popolare" dove, a guisa di sfogo collettivo, si giudicano i vecchi torturatori di Batista, ma viene preso "chiunque capiti" su semplice denuncia. Del resto, Guevara rivendicherà più tardi all'ONU, in risposta ai rappresentanti latino-americani, buone anime "democratiche" che si ritengono indignati da questi metodi, dicendo: "abbiamo fucilato, fuciliamo e continueremo a fucilare finché sarà necessario". Queste pratiche non hanno niente a che vedere con la difesa maldestra di una qualsiasi giustizia rivoluzionaria. Lo ripetiamo, sono proprio questi i metodi tipici di una frazione della borghesia che ha preso il sopravvento su un'altra con la forza delle armi.
Possiamo allora identificarci all’ideale de "l’eroe" austero della Sierra Maestra, al "guerrigliero eroico" che morrà alcuni anni più tardi nella montagna boliviana ma che, nel mondo reale, non ha tenuto in effetti che un ruolo di esecutore di basse opere nell’aiutare l’insediamento di un regime che di comunista ha solo il nome?Tu dici: "l'internazionalismo del Che è fuori discussione" e "all'epoca del secondo seminario di solidarietà afro-asiatica, il Che critica senza mezzi termini le posizioni conservatrici e sfruttatrici dell'URSS" per affermare infine "il Che sarà portato con forza e logicamente a sganciarsi dal modello social-imperialistico dell'URSS".
Il regime nazionalista di Castro si è rivestito rapidamente dell'epiteto "comunista", in altre parole, questo regime si è unito… al campo imperialista retto dall'URSS. Essendo Cuba localizzata ad alcune miglia dalle coste americane, ciò non poteva evidentemente che inquietare il capofila del blocco dell'Ovest. Il processo di stalinizzazione dell'isola, con una presenza importante di personale civile, militare e servizi segreti dei paesi del blocco dell'Est, troverà il suo coronamento nel 1962 al momento della “crisi dei missili”.
In questo processo, Che Guevara, ora ministro dell'industria (1960-61), per saldare la nuova alleanza col "campo socialista", è inviato da Castro nei paesi di questo campo, dove si esibisce in un discorso elogiativo dell'URSS: "Questo paese che ama così profondamente la pace", "dove regna la libertà di pensiero", "la madre della libertà". Egli celebra molto anche "la straordinaria" Corea del Nord o la Cina di Mao dove "tutti sono pieni di entusiasmo, tutti fanno delle ore di straordinario" e così via per l'insieme dei paesi dell'Est: "le realizzazioni dei paesi socialisti sono straordinarie. Non c'è paragone possibile tra i loro sistemi di vita, i loro sistemi di sviluppo e quelli dei paesi capitalisti". Un vero appassionato del modello stalinista! Ritorneremo dopo sul "disamore" di Guevara con l'URSS. Contrariamente a ciò che affermi, il Che non ha emesso mai il benché minimo dubbio di principio sul sistema stalinista. Per lui, l'URSS ed il suo blocco erano il campo "socialista, progressista" e la sua lotta si integrava pienamente in quella del blocco russo contro il blocco occidentale. La parola d’ordine lanciata da Guevara "Creare uno, due, mille Vietnam", non è una parola d’ordine "internazionalista" ma molto nazionalista e favorevole al blocco russo! Il suo criterio reale non è il cambiamento sociale, ma l'odio verso il capofila dell’altro blocco, gli Stati Uniti. In effetti, dopo la Seconda Guerra mondiale, il mondo si è trovato diviso in due blocchi antagonisti, uno sotto la potenza americana, l'altro dell'URSS. La "liberazione nazionale" si rivelò allora una perfetta mistificazione ideologica per giustificare il regolare reclutamento militare delle popolazioni. In queste guerre, né la classe operaia né le altre classi sfruttate avevano niente da guadagnare, servendo da massa di manovra per le differenti frazioni della classe dominante e dei loro padrini imperialisti. La divisione del mondo in due blocchi imperialisti dopo gli accordi di Yalta ha significato che qualsiasi uscita da un blocco significava la caduta nel blocco avverso. E, proprio, non c'è migliore esempio di quello di Cuba: questo paese è passato dalla dittatura corrotta di Batista, sotto il controllo diretto di Washington, dei suoi servizi segreti e di ogni tipo di mafie, al dominio del blocco stalinista. La storia di Cuba è un concentrato della storia tragica delle "lotte di liberazione nazionale" per circa mezzo secolo!
Allora, prima di dire quando e come Guevara si è falsamente più o meno "sganciato" dall'URSS, bisogna essere ben chiari sulla natura dell'URSS e del suo blocco. Dietro la difesa di un Che Guevara rivoluzionario, c'è l'idea che l'URSS, più o meno, che lo si voglia o no, malgrado i suoi difetti… era il "blocco socialista, progressista". E questa è la più grande menzogna del ventesimo secolo. Una rivoluzione proletaria in Russia c'è ben stata, ma è stata sconfitta. La forma stalinista della controrivoluzione si è data una parola d’ordine: la "costruzione del socialismo in un solo paese", parola d’ordine che si trova all'esatto opposto della base naturale e fondamentale del marxismo. Per il marxismo "i proletari non hanno patria"[2]! È questo internazionalismo, molto reale che è servito da bussola all'ondata rivoluzionaria mondiale che si è sviluppata nel 1917 ed a tutti i rivoluzionari dell'epoca, da Lenin e i bolscevichi a Rosa Luxemburg e gli Spartakisti[3]. L'adozione aberrante di questa "teoria" di una "patria socialista" da difendere ha avuto per corollario il ricorso sistematico ad un metodo borghese: il terrore ed il capitalismo di Stato, questo tallone di ferro, l’espressione più totalitaria e più feroce dello sfruttamento capitalista!Il Che “si è sganciato dal modello social-imperialistico dell'URSS”?
All'origine delle critiche del Che nei confronti dell'URSS, c'è "la crisi dei missili", nel 1962. Per l'URSS, il suo dominio sulla Cuba fu una fortuna. Finalmente, avrebbe potuto eguagliare gli Stati Uniti che minacciavano direttamente l'URSS dai paesi vicini a quest’ultima, come la Turchia. L'URSS cominciò ad installare rampe di lancio di missili a testata nucleare ad alcune miglia dalle coste americane. Gli Stati Uniti risposero mettendo in opera un embargo totale dell'isola, costringendo le navi russe a fare marcia indietro. Krusciov, il padrone del Cremlino dell'epoca, fu obbligato infine a ritirare i suoi missili. Per alcuni giorni dell’ottobre 1962, gli scontri imperialisti tra quelli che si presentavano come "il mondo libero" e quelli che si presentavano come il "mondo socialista progressista" hanno rischiato di mettere tutta l'umanità sul bordo dell'abisso. Krusciov fu considerato allora dai dirigenti castristi come uno "smidollato", uno che non aveva i "coglioni" per attaccare gli Stati Uniti. In un eccesso di isteria patriottica, dove lo slogan castrista "Patria o morte" prende il suo senso più sinistro, essi sono preparati a sacrificare il popolo (diranno che è il popolo che è preparato a sacrificarsi) sull'altare della guerra atomica. In questo delirio perverso, Guevara non può essere che all'avanguardia. Scrive: "hanno ragione [i paesi dell'OEA[4] ad avere paura della “sovversione cubana”], è l'esempio spaventoso di un popolo che è preparato ad immolarsi attraverso le armi atomiche affinché le sue ceneri servano a cementare le nuove società, e che, quando si è concluso un accordo sul ritiro dei razzi atomici senza che lo si sia consultato, non emette un sospiro di sollievo, non accoglie la tregua con riconoscenza. Si getta nell'arena per […] affermare [...] la sua decisione di lottare, anche da solo, contro tutti i pericoli e contro la stessa minaccia atomica dell'imperialismo yankee"[5]. Questo "eroe" ha deciso che il popolo cubano fosse preparato ad immolarsi per la patria. Così, la base della "delusione", della critica nei confronti l'URSS non è la perdita di fede nelle virtù del "comunismo sovietico" (in termini veri capitalismo stalinista) ma al contrario, il fatto che questo sistema non spingeva fino in fondo la sua logica guerriera di scontro, il parossismo del periodo della "guerra fredda". Ed il discorso di Algeri di Che Guevara a cui tu fai riferimento per affermare che il Che "si è sganciato del modello social-imperialistico dell'URSS" non cambia realmente niente a quest’attaccamento di Guevara alle posizioni staliniste. Al contrario! Durante questo famoso discorso, certamente mise in causa il "mercantilismo" nei rapporti tra i paesi del blocco dell'URSS ma li chiamò sempre socialisti e "popoli amici": "I paesi socialisti sono, in una certa misura, i complici dello sfruttamento imperialista […]. [Essi] hanno il dovere morale di liquidare la loro complicità tacita coi paesi sfruttatori dell'Ovest". Al di là della sua apparenza radicale, una tale critica è dunque proprio quella di qualcuno integrato al sistema stalinista. Peggio, essa è espressione di un responsabile che ha partecipato con tutte le sue forze alla realizzazione di un tale sistema di capitalismo di Stato a Cuba! Del resto, Guevara, in seguito, non farà mai più ufficialmente la minima critica all'URSS.
In effetti, Che Guevara, assassinato dalla CIA e dall'esercito boliviano nel 1967, non fu la vittima solo dell'imperialismo americano, ma anche del nuovo orientamento politico del Cremlino detto di "coesistenza pacifica" col blocco occidentale. Non tratteremo qui le ragioni che hanno spinto la direzione dell'URSS ed il suo blocco a prendere questa "svolta". Ma questa "svolta" non ha niente a che vedere con un qualsiasi "tradimento" verso i popoli che volevano "liberarsi" dall'imperialismo, e verso il proletariato. La politica della classe dominante stalinista ha cambiato spesso rotta in funzione dei suoi interessi come classe dominante e, proprio, l'affare dei missili ha mostrato ai dirigenti dell'imperialismo stalinista la loro impotenza a sfidare il capofila dell'altro blocco alle sue porte e che quindi avrebbero dovuto essere prudenti in America latina. È questo che non hanno compreso Guevara ed una frazione dei dirigenti cubani, al punto di diventare non solo imbarazzanti per l'URSS, ma anche per i loro amici cubani. Da quel momento, il destino di Che Guevara era segnato: dopo la disastrosa avventura nel Congo[6], finirà per ritrovarsi solo in Bolivia, con un pugno di commilitoni, abbandonato dal PC boliviano che, alla fine, si ritrovò sulla linea di Mosca. Per le fazioni più "moscovite", i sostenitori della tattica del "fuoco" (fuoco di guerriglia) erano dei piccoli-borghesi in cerca di avventure, "estranei alle masse". Per le fazioni dei PC favorevoli alla lotta armata, con i loro sostegni critici di ogni tipo, i "capi" dei PC erano dei "rivoluzionari da salotto", dei burocrati imborghesiti… anch’essi "estranei alle masse". Per noi che ci rifacciamo alla Sinistra Comunista, consideriamo queste due forme della stessa controrivoluzione, due varianti della stessa grande menzogna del secolo, quella di avere fatto passare la controrivoluzione stalinista per la continuatrice della rivoluzione di ottobre e l'URSS come comunista.
Quale visione aveva Che Guevara della classe operaia?
Per te, il compito degli intellettuali sarebbe "di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione...". Sembri riprendere la visione di Che Guevara su "l'élite rivoluzionaria". Ma queste posizioni del Che non nascondono in realtà un profondo disprezzo per la classe operaia? Che cosa rivelano realmente i sui voli da poeta lirico su “l'uomo nuovo nella rivoluzione cubana?”
L'unità proletaria rivoluzionaria ha una base pratica molto concreta: la solidarietà di classe. È questa solidarietà spontanea nell'organizzazione della lotta, fatta di reciproco aiuto e di fraternità, a nutrire le qualità di abnegazione del proletariato rivoluzionario. Ma questa "abnegazione" nelle parole di Guevara, suona, nel migliore dei casi, come un appello quasi mistico al martirio supremo (bisogna riconoscergli come sia stato sempre pronto al sacrificio, e probabilmente era preparato a diventare un "martire" della causa imperialista che difendeva con tutto il popolo cubano "volontario" al momento della crisi dei missili)... Al di là del suo comportamento "esemplare", resta la sua visione del "sacrificio" o de "l'eroismo" (della stessa specie dell'idealismo patriottico esaltato e diffuso dagli stalinisti nella "Resistenza" durante la Seconda Guerra mondiale) che dovrebbe essere imposto dall'alto, per i bisogni dello Stato e sotto la ferula di un "lider maximo". Questa visione si basa sul disprezzo dell'intellettuale piccolo-borghese nei confronti della "massa proletaria" guardata dall’alto, il quale pretende "educarla" affinché comprenda i "benefici della rivoluzione". "La massa, ha dichiarato con condiscendenza Guevara, non agisce come un dolce gregge. È vero che segue senza esitare i suoi dirigenti, soprattutto Fidel Castro…". "Se guardiamo le cose superficialmente, potremmo pensare che quelli che parlano di sottomissione dell'individuo allo Stato hanno ragione, ma le masse realizzano, con entusiasmo e disciplina senza uguale, i compiti che il governo stabilisce, che siano economici, culturali, di difesa o sportivi... L'iniziativa viene in generale da Fidel o dall'alto comando della Rivoluzione ed è spiegata al popolo che la fa sua" (Il socialismo e l'uomo a Cuba, 1965).
In effetti, quando dici "che non c'è ragione di ridurre il concetto di proletariato ai soli operai", il tuo ragionamento attinge certamente ed involontariamente le sue radici in questa visione sprezzante della classe operaia[7]. Infatti, una delle caratteristiche comuni dei trasformismi dello stalinismo (dal maoismo al castrismo) sta nella loro diffidenza ed il loro disprezzo nei confronti della classe operaia, facendo di una mitica classe contadina povera “l'agente della rivoluzione” diretta dagli intellettuali che, in quanto tali, possiedono la coscienza e "l'introducono" nei cervelli delle masse. Nel migliore dei casi, la classe operaia era, per questi neo-stalinisti, una massa di manovra che serviva loro da riferimento storico, una comparsa della loro rivoluzione. Non troviamo mai negli scritti di questi pseudo-rivoluzionari il minimo riferimento ad una classe operaia organizzata come tale ed alle organizzazioni del potere di classe, i soviet. Questi cloni dello stalinismo non hanno più bisogno di camuffare la loro ideologia capitalista di Stato e di parlare dei consigli operai o di altre espressioni della vita proletaria nella rivoluzione russa. Non c'è niente di più dello Stato diretto da persone "illuminate" ed in basso la massa, a cui talvolta si lascia dare prova "d’iniziativa", inquadrata nei "comitati di difesa della rivoluzione" ed altri organismi di sorveglianza sociale.
Ed a Cuba, uno dei primi organi di inquadramento e di direzione della classe operaia sono stati ancora una volta e senza sorpresa i sindacati. I sindacati cubani (CTC) erano già dei sindacati alla maniera americana, perfettamente integrati al "capitalismo liberale" ed alla sua corruzione. Vanno così ad essere velocemente trasformati dalla direzione cubana, nel 1960, in sindacati in salsa stalinista, su un modello burocratico e statale. Le prime decisioni del regime castrista incaricheranno questi ultimi ad impegnarsi a livellare verso il basso i salari e a fare rispettare l'interdizione dello sciopero nelle imprese, da buoni sbirri patentati! E quest’attacco contro la classe operaia sarà giustificato ancora una volta, dall'ideologia anti-americana e dalla "difesa del popolo cubano". Durante uno sciopero contro gli abbassamenti dei salari di operai di imprese appartenenti ai capitali americani, i dirigenti castristi stigmatizzarono questo sciopero come uno sciopero di "benestanti" e ne approfittarono per dichiarare "sciopero allo sciopero" per bocca del nuovo dirigente castrista del CTC.
Nelle scorse settimane sono state servite opere in controversia sulla vita e l'opera del Che. Da un lato, nella scia degli apostoli della "morte del comunismo", le frazioni di destra della borghesia hanno riscaldato questo piatto con l'aiuto servile di alcuni storici, sempre pronti a mettere in evidenza il ruolo "anti-democratico" del Che, il suo ruolo di comandante in capo in quanto responsabile dei tribunali "rivoluzionari" dell’inizio dell'era castrista, blaterando gli uni e gli altri per porsi il problema se queste esecuzioni sono state "eccessive", se c'è stato o non "un bagno di sangue", se c’è stata una giustizia "moderata" o "arbitraria". Per noi, come dicevamo sopra, Guevara ha sostenuto semplicemente bene il suo ruolo necessario per la realizzazione di un nuovo regime tanto borghese e repressivo quanto il precedente. Dall’altro lato, hanno prodotto delle menzogne e delle mezze-verità alla sua gloria. Basta vedere come la Ligue Communiste Révolutionnaire che, con la sua volontà di sostituire il Partito Comunista francese e diventare il primo partito "anticapitalista" della Francia, porta oggi alle stelle "Il Che" e sfrutta la sua immagine "giovane e ribelle”[8].
Caro compagno EK, la realtà è questa: in tutti questi giovani che portano un T-shirt con l'effige del Che, c'è certamente un cuore generoso e sincero, che vuole combattere le ingiustizie e gli orrori di questo mondo. Del resto, se si pubblicizza il Che, è proprio per sterilizzare l'entusiasmo che nutre la passione rivoluzionaria. Ma lo stesso Che è solamente una delle figure della lunga coorte dei dirigenti nazionalisti e stalinisti, forse più affabile degli altri, ma rappresentativa di questa versione tropicale della controrivoluzione stalinista qual è il castrismo.
Malgrado tutte le nostre divergenze, compagno EK, la discussione resta evidentemente aperta… ben oltre questo; ti incoraggiamo calorosamente a continuarla.
Corrente Comunista Internazionale
(Da Révolution Internationale, ottobre 2007)
[1] In effetti, l'impresa coronata da successo del capovolgimento di Batista da parte di Castro e Guevara ha beneficiato dell'appoggio degli Stati Uniti e della benevolenza di una parte della destra che denunciava la corruzione del regime. L'embargo sulle armi deciso dal governo americano contro Cuba ha privato in modo decisivo Batista dei mezzi di lottare contro la guerriglia. È solamente alla fine di alcuni mesi di esercizio del nuovo potere che le relazioni con gli Stati Uniti si sono deteriorate ed è di fronte alla minaccia dell’intervento di questi ultimi che Castro si è affidato al blocco russo.
[2] Celebre citazione del Manifesto comunista del 1848, scritto da Marx ed Engels.
[3] Leggere i nostri articoli su "Ottobre 1917", particolarmente: "Le masse operaie prendono il loro destino in mano", Révue Internationale n. 131, e "Lo stalinismo è il becchino della Rivoluzione russa" Révolution Internationale n. 383.
[4] Organizzazione degli Stati americani, istanza continentale al servizio degli interessi dello "zio Sam" per esercitare il suo controllo sugli altri Stati d’America latina, da cui la Cuba castrista è stata esclusa.
[5] Scritti al momento de "la crisi dei missili", sarà pubblicato solamente nel 1968 da una rivista dell'esercito cubano. Riprodotto nella biografia del Che di Pierre Kalfon.
[6] Nel 1965, forse per mettere in pratica lo slogan "Due, tre, mille Vietnam…", alcune decine di cubani puntano all'Est della Repubblica del Congo (ex-Zaire) per organizzare un "fuoco anti-imperialistico", il tutto patrocinato dai servizi segreti cubani in accordo con l'URSS (forse anche per sbarazzarsi del Che…). Dopo l'inizio, un disastro annunciato: Guevara si ritrova sotto gli ordini politici di una banda di dirigenti congolesi (tra cui Kabila, futuro presidente-dittatore sanguinario dello Zaire negli anni 1990), avventurieri che conducono un elevato tenore di vita grazie ai sussidi sovietici e cinesi. In quanto alla popolazione, supposta ricevere i suoi liberatori a braccia aperte, resta piuttosto sconcertata alla vista di queste persone che venivano da non si sa dove. Era un anticipo di ciò che sarebbe accaduto in Bolivia l’anno seguente. Bisogna notare anche che, sempre per conto dell'imperialismo russo, migliaia di cubani hanno continuato a servire "da istruttori militari" in numerose "guerre di liberazione nazionale" sul suolo africano (Guinea-Bissau, Mozambico, Angola.) fino al crollo dell'URSS e del suo blocco all'inizio degli anni 1990.
[7] Non svilupperemo qui ciò che è il proletariato o la classe operaia, per noi due espressioni equivalenti. Diciamo, tuttavia, che la nostra visione della classe operaia non ha niente a che vedere con la sociologia né con le immagini folcloristiche dell'operaio in tuta blu.
[8] Il leader della LCR, Olivier Besancenot, ha affermato che oggi il suo partito si identifica più al Che che a Trotsky, mentre dalla sua nascita, quest’organizzazione legittimava fraudolentemente la sua appartenenza alla classe operaia rifacendosi innanzitutto a questo grande militante bolscevico.
Marx amava sottolineare le ironie della storia. E una delle più pungenti è constatare che questa nuova propaganda della LCR, che, volendo a ogni costo agire in modo giovanile ed essere alla moda per attirarsi le nuove generazioni della classe operaia, sta rivendicandosi ad un erede dichiarato della cricca stalinista e della sua ideologia, questa stessa cricca che assassinò più di sessant'anni fa un rivoluzionario, veramente autentico, un certo … Leon Trotsky!
Dopo l’apertura dei siti in lingua giapponese [30], coreana [31], portoghese [32] e filippina [33], annunciamo ai nostri lettori l’apertura dei nuovi siti in lingua cinese [34], turca [35] e ungherese [36].
Invitiamo i nostri lettori in Cina o di lingua cinese a visitare il nuovo sito in questa lingua [34]. Data l’importanza della Cina per il movimento operaio mondiale, l'apertura di questo sito è un momento importante per tutta la CCI, anche se il momento non abbiamo potuto pubblicare che le nostre posizioni di base. Ci auguriamo di poter pubblicare altri testi ulteriormente.
Ringraziamo il compagno responsabile della traduzione per il suo lavoro.
I siti web in lingua turca e ungherese contengono per il momento la nostra Piattaforma e le nostre Posizioni di Base. Noi desideriamo ringraziare i compagni dei gruppi Enternasyonalist Komünist Sol [37] e di Barikád Kollektíva per le traduzioni che ci hanno permesso di rendere più accessibili le posizioni della sinistra comunista ai nostri lettori in queste lingue.
Vogliamo ugualmente ringraziare i compagni del gruppo Internasyonalismo per aver reso disponibile la traduzione in Filippino della brochure della CCI sulla decadenza del capitalismo (Pagbulusok-pababa ng kapitalismo [38]).
A fine settembre, negli Stati Uniti, il sindacato UAW (United Auto Workers) ha chiamato i 73.000 salariati della General Motors allo sciopero. Un tale movimento non si vedeva in Canada ed in Messico 1988, e, dal 1970 a livello nazionale americano. I media, specializzati nel blackout dei conflitti sociali, questa volta si sono presi la briga di sottolineare questa spettacolare iniziativa sindacale, presentandola come uno dei momenti più illuminanti di difesa dei lavoratori. Qual'è invece la realtà?
Tutto ci mostra che questo sciopero, sfruttando un autentico sentimento di malcontento e di collera, è stato scatenato per essere strumentalizzato dal sindacato UAW e dalla direzione della General Motors, al fine di portare nuovi attacchi contro gli operai. Mentre il precedente accordo salariale era da poco scaduto, si doveva arrivare alla chiusura di un giro di negoziati, iniziato da mesi, per un nuovo accordo valido per tutto il settore automobilistico, che prevedeva di abbassare i costi della forza lavoro: licenziamenti, riduzione delle pensioni di anzianità ed abbassamento drastico dei salari, forte deterioramento della copertura sanitaria... Alcune misure del nuovo accordo fatte passare con molta discrezione, rivelano le vere intenzioni del sindacato e della direzione della General Motors: "Greg Shotwell, un membro dissidente dell'UAW, ha diffuso sul sito Internet Soldiers of Solidarity, dei brani del progetto dell'accordo UAW-GM contro cui si batte. Così si scopre che l'UAW si è accordata per la chiusura di due fabbriche situate ad Indianapolis ed a Livonia, vicino a Detroit[1]".
Questa pugnalata alla schiena degli operai non ha niente di sorprendente e corrisponde proprio alla pratica dei sindacati. Dal 2005, i "big three", cioè le tre più grandi imprese automobilistiche, Generale Motors, Ford e Chrysler, sono in rosso e registrano perdite che attualmente arrivano a 26 miliardi di dollari. Di fronte ad una crisi economica più acuta, all'aggressività ed alla penetrazione nel mercato di concorrenti asiatici, in particolare la giapponese Toyota, diventa più che urgente per il padronato americano abbassare ulteriormente i costi della forza lavoro in nome della sacrosanta competitività. Tanto più che si profila una nuova recessione all'orizzonte avente per corollario un ulteriore indebolimento di tutto l'edificio industriale. Il momento era dunque cruciale per "rimettere le cose a posto", per mettere sul tavolo un dossier particolarmente "spinoso" con la complicità dei sindacati! È questa necessità impellente che spiega perché in questa industria è stata scatenata una manovra di tale ampiezza sotto la copertura sindacale.
Lo sciopero scatenato a fine settembre alla General Motors doveva servire da test, da pallone sonda, per far passare misure di austerità nelle altre due grandi industrie: la Ford e la Chrysler. Test riuscito!Tutto è cominciato con una sorte di "ultimatum" dove un comunicato sindacale si è fatto carico di polarizzare l'attenzione su "la sicurezza dell'impiego". L'ultimatum pretendeva di "fare pressione" su questa sola questione per "accelerare il processo dei negoziati", mentre tutto il resto dell'attacco (il finanziamento delle pensioni, la coperta sanitaria ed i salari) veniva messo accuratamente in secondo piano. Da questo momento la direzione sindacale poteva dare le sue direttive per lanciare lo sciopero ed organizzarne le modalità. La "pressione" sindacale è stata tale che la direzione della General Motors ... ha minacciato di chiudere una decina di stabilimenti e di "decentrarli" in Asia!A questo punto, i media, hanno potuto sottolineare la "posizione delicata del sindacato" che consigliava di "non correre il rischio del decentramento". In nome del "male minore", il sindacato ha potuto quindi sostenere comodamente la posizione de "l'accordo accettato" dai lavoratori (le cui modalità erano previste ed organizzate già da tempo).Approfittando del malcontento degli operai, direzione e sindacato hanno puntato sulla questa questione del decentramento per incastrare i salariati costringendoli ad accettare i sacrifici sulle pensioni, sulla sanità ed un abbassamento del salario orario, in "cambio" di un premio e della creazione di un fondo gestito dal sindacato UAW. Fondo destinato ad assicurare una coperta delle spese di malattia e delle pensioni, che si pretende essere "a basso costo". Avete letto bene: d'ora in poi saranno direttamente i sindacati a gestire l'accesso alle cure mediche e le pensioni dei lavoratori! In altre parole, essi avranno la responsabilità diretta di ridurre il costo delle spese per la sanità e quello delle pensioni d'anzianità!Per l'impresa questo inizio di trasferimento di gestione di fondi (chiamati VEBA) al sindacato UAW, mediante il versamento di una somma iniziale, le permette di ridurre i suoi costi annui di 3 miliardi di dollari. Invece, per i salariati, ciò implica da una parte una maggiore incertezza, essendo già fallita altrove l'esperienza dei VEBA[2], dall'altra, un rialzo delle quote di assicurazione contro le malattie. Allo stesso tempo, questa misura ha permesso di accelerare l'allontanamento anticipato dal lavoro e di reclutare dei giovani a costi ancora minori, con il vero obiettivo di un abbassamento effettivo degli stipendi per tutti. La tariffa oraria della forza lavoro passa così da 25 a 6 dollari. Quale esempio di avanzamento! Ecco la realtà di questo nuovo "accordo collettivo!".Forte della clamorosa vittoria e di una così abile manovra, la borghesia americana non poteva fermarsi un volta trovato una strada così propizia. Una volta collaudata all'inizio d'ottobre, l'operazione è stata riprodotta alla Chrysler dove, grazie ad uno "sciopero lampo di 7 ore", è stato possibile "stappare un accordo" dello stesso tipo.In questo affare gli operai hanno perso tutto. Lungi dall'essere una sinecura, la nuova gestione sindacale coi VEBA sarà sottomessa inesorabilmente agli imperativi del capitalismo in crisi. Ciò che hanno guadagnato gli operai col sindacato, è che bisognerà pagare di più per avere meno garanzie! Nei fatti l'accordo ratifica la politica di ristrutturazione iniziata con le soppressioni di posti di lavoro: Chrysler ha già annunciato che sta per sopprimere 1.500 posti in più del previsto. E non è tutto! L'attacco avrà necessariamente delle ripercussioni sull'insieme degli operai, particolarmente su quelli delle imprese in subappalto. Si tratta quindi di un incoraggiamento per tutta la borghesia a portare attacchi sempre più pesanti, pur sapendo che ci sono dei pericoli, in particolare il pericolo che, oltre alla loro rabbia, si sviluppi tra gli operai una riflessione.Il sindacato UAW è stato lo strumento privilegiato per far passare un attacco violento. Ha saputo creare una cortina di fumo sulle vere intenzioni della borghesia e delle aziende automobilistiche, e si è servito del forte e legittimo malcontento dei salariati per renderlo inoffensivo spingendo quest'ultimi nella trappola di un accordo bidone.WH (11 ottobre 2007)
[1] Le Figaro
[2] Si è visto quanto valevano questi VEBA con il loro crollo nel 2005 nell'impresa Caterpillar.
Il largo seguito avuto dal “Vaffa Day” promosso da Beppe Grillo è un’espressione significativa del forte malcontento e della sfiducia crescente verso il mondo della politica che esprime una parte significativa della popolazione ed in particolare quella giovanile, la cui prospettiva appare sempre più nera. Riflettere quindi su cosa esprime questo movimento e quali sono i suoi obiettivi è importante per comprendere se la direzione che questo propone ci permette di incamminarci verso una prospettiva diversa da quella che ci impone questa società oppure no.
Qui di seguito pubblichiamo estratti di un testo inviatoci da un nostro lettore - di cui condividiamo l’impostazione di fondo - che cerca di sviluppare due aspetti centrali del problema: la natura di questo movimento ed i suoi obiettivi di lotta.
Segue un nostro testo dove, ritornando su questi aspetti, cercheremo di sviluppare ulteriormente perché il Vaffa Day non può essere una risposta all’indignazione, alla rabbia ed alla necessità di cambiare questo sistema.
Il testo del compagno
I partiti e i (nuovi) arrivati ed arrivisti
(…) Certo, anch’io avverto un moto istintivo e irrefrenabile di avversione, repulsione, rabbia e disprezzo nei confronti di un sistema pseudopolitico sempre più laido, corrotto ed affarista, nel quale i (presunti) furbetti, impostori e ciarlatani, i peggiori carrieristi e gli arrivisti più cinici e spregiudicati la fanno da padroni assoluti e incontrastati. Per non dire cose peggiori... Comprendo (…) l’ondata di rigetto, di protesta e sdegno popolare, che si è manifestata in modo dilagante in occasione del V-Day (…).
In passato, abbiamo già conosciuto altre manifestazioni e movimenti (ben più vasti e potenti) di rigetto antipartitocratico-antiburocratico (…). Abbiamo assistito ad altri “fenomeni” del genere, quali: (…) il Fronte dell’Uomo Qualunque, fondato a Roma nel 1944 dal commediografo, giornalista e (guarda caso) uomo di spettacolo Guglielmo Giannini; successivamente si affacciarono i Radicali liberi(sti) di Marco Pannella ed Emma Bonino, veri cani da guardia dell’ultraliberismo (…) di stampo anglosassone; molti anni dopo (in)sorse la Lega Nord (…) (di) Umberto Bossi, dei vari Castelli (…), dei Maroni (…).
Insomma, l’elenco è ben nutrito. Tutti i suddetti movimenti, (in)sorti con premesse più o meno analoghe, mossi da ispirazioni e motivazioni abbastanza affini, sono infine approdati al medesimo sbocco finale: inserirsi nell’alveo della (…) Casta partitocratica. Infine, rammento che lo stesso Cavaliere (rossonero) Silvio Berlusconi (…) si presentò in illo tempore con le fattezze del “nuovo che avanza”, quale monumento simbolico dell’Antipolitica. Egli seppe interpretare ed incarnare in modo magistrale il diffuso malcontento popolare diretto contro i partiti, cavalcando abilmente l’onda (…) sentimentale dell’Antipolitica, ergendosi ad emblema e paladino dell’Antisistema e della battaglia antipartitocratica, per poi diventare l’esponente negativo per eccellenza del potere (bi)partitico-istituzionale, (…).
Tuttavia, mi chiedo se tali accostamenti storici possano davvero servire ad inquadrare e comprendere fino in fondo un movimento che per certi versi risulta “inedito”, quantomeno perché generatosi attraverso la rete web (…). Un fenomeno storicamente determinato (e su questo non possono esserci dubbi) dalla grave crisi di consensi e credibilità in cui versa da tempo l’apparato del potere politico (ri)costituitosi in Italia dopo la “bufera” politico-giudiziaria di Tangentopoli che investì i partiti della Prima Repubblica durante la prima metà degli anni '90 (…) il parallelismo che mi pare più logico e scontato (…), indubbiamente corretto dal punto di vista storico-politico, è quello con il “leghismo”, di cui il “grillismo” si configura come il più degno erede, ancorché in una versione inedita di “sinistra”, vale a dire come un revival delle istanze forcaiole e leghiste sorte negli anni ‘80 e ‘90, spostate e proiettate a “sinistra” in quanto adottate da una piazza popolare che è orientata prevalentemente a “sinistra”, vale a dire collocata nell’area della “sinistra scontenta e delusa” dal governo in carica. In tal senso, (…) il “grillismo” si rappresenta come una sorta di “leghismo di sinistra”, ovvero un “leghismo di marca girotondista”. Ma qui vorrei soffermarmi per invitarvi a riflettere meglio su un punto.
Il massiccio movimento di protesta che Grillo è riuscito a radunare e catalizzare attorno a sé, benché possa pretendere di aver ragione, accampando una serie di giuste rivendicazioni e motivazioni contro un (a)ceto politico assolutamente inadempiente, inetto, corrotto, inadeguato ed inefficiente (…) non riesce ad occultare e camuffare la sua vera natura moralista-inquisitoria-poliziesca. Mi spiego meglio facendo un esplicito richiamo a quell’ipotesi di riforma che è diventata il principale cavallo di battaglia del movimento “grillista”. Mi riferisco esattamente al disegno di legge popolare articolato in tre punti per un “Parlamento Pulito”.
I tre punti della proposta sono:
- No ai parlamentari condannati. No ai 25 parlamentari condannati in Parlamento -Nessun cittadino italiano può candidarsi in Parlamento se condannato in via definitiva, o in primo e secondo grado e in attesa di giudizio finale.
- Due legislature. No ai parlamentari di professione da 20 e 30 anni in Parlamento - Nessun cittadino italiano può essere eletto in parlamento per più di due legislature. La regola è valida retroattivamente.
- Elezione diretta. No ai parlamentari scelti dai segretari di partito - I candidati al parlamento devono essere votati dai cittadini con la preferenza diretta.
Ebbene, soffermiamoci a ragionare un po’ sulla condizione (sine qua non) che per fare parte delle liste civiche occorre (oltre a non avere tessere di partito) essere “incensurati”. Questo piccolo, all’apparenza insignificante dettaglio è estremamente rivelatore, è una spia che denuncia la reale natura (reazionaria e poliziesca) del movimento "grillista". Questo è senza dubbio un elemento essenziale che conta molto più del folclore, delle manifestazioni di protesta, delle boutade, delle battute ad effetto e dei "vaffanculo" urlati contro la Casta partitocratica. Nel postulare una norma tanto rigida, il progetto "grillista" esprime e denota non solo un eccessivo timore reverenziale, un deferente e servile ossequio nei confronti dell’azione classista e repressiva della magistratura, bensì tradisce un rigoroso e farisaico perbenismo piccolo-borghese, un legalitarismo e un giustizialismo "giacobino-girotondino” a dir poco inquietante.
Nelle società classiste, la Legge, la Giustizia e il Diritto non sono mai imparziali. La Legge non è affatto "uguale per tutti", anzi. In un ordinamento giuridico-politico ed economico-materiale strutturato sulla divisione sociale del lavoro, incentrato sullo sfruttamento delle mansioni produttive ridotte e costrette in un regime salariale, costruito sull'esistenza e sulla tutela della proprietà privata, le leggi dello Stato non sono mai asettiche e neutrali, ma sono viziate e pregiudicate, dunque corrotte e compromesse, schierate ed applicate a beneficio del più forte, del ricco e del potente di turno, sono il prodotto storicamente determinato dai rapporti di forza e di potere insiti in una data formazione sociale in un dato momento storico. Oggi si può incappare facilmente ed ingiustamente nelle maglie della (in)Giustizia repressiva borghese, per cui si può essere "censurati" per molteplici e diverse ragioni, tra cui i "reati d'opinione", i "delitti" contro la proprietà privata e contro l’ordine costituito. La conseguenza immediata e drammaticamente concreta del disegno di legge proposto dal movimento "grillista" è proprio quella di bollare come "colpevoli", "rei" o "delinquenti", tutte le vittime del sistema carcerario e repressivo della (in)Giustizia di classe, negandogli ogni diritto politico, espellendoli e segregandoli dalla "comunità politica", ossia escludendoli dall'alveo della cittadinanza.
(…) Io credo che il tema della corruzione non appartenga solo e semplicemente alla vita politica italiana, non investa solo la classe politica "digerente" (…) del nostro paese, ma costituisce una questione più ampia e complessa (direi globale) della politica così come viene concepita e praticata negli attuali ordinamenti (…)capitalistici. La corruzione è ormai un tratto costituzionale complessivo e distintivo di tutti gli Stati borghesi, un aspetto organico ed insito negli assetti politico-statali contemporanei. Ridotti ormai a veri e propri comitati d’affari. La corruzione non è una prerogativa esclusiva dei partiti politici italiani, ossia del Parlamento italiano pieno zeppo di inquisiti, di gente spregiudicata e senza scrupoli (…).
Del resto, lo stesso Lenin scrisse quasi un secolo fa "Stato e rivoluzione", (…) in cui Lenin si propose di indagare e conoscere la reale natura dello Stato, partendo da un'analisi scientifica delle forme e dei meccanismi che regolano la "democrazia capitalistico-borghese", intesa e definita come "dittatura di classe della borghesia". (…) una critica radicale volta a spezzare ed abbattere la macchina statale della borghesia imperialista, non solo nella veste della "Repubblica democratico-parlamentare", ma dello Stato capitalistico tout-court. Un apparato statale criticato e rifiutato integralmente, nella sua totalità, quindi da capovolgere e rovesciare, se necessario, anche con metodi violenti. Che non sono certo quelli del "grillismo".
L.G.
Il nostro articolo
Di cosa è espressione il V Day?
Nel testo del compagno si ricorda come nei tempi recenti abbiamo assistito allo sviluppo di vari movimenti che hanno cercato di sopperire alle carenze dell’apparato politico istituzionale attraverso un appello ai “cittadini” a farsi essi stessi interpreti della vita politica italiana. Dal movimento referendario di Mario Segni ai girotondini di Nanni Moretti, passando per le varie liste civiche create intorno a nomi di persone stimate sul piano personale piuttosto che per il loro colore politico, questa sequenza di fenomeni è stata la risposta di volta in volta trovata al “fallimento della politica”, al “disgusto crescente nella gente comune per il mondo della politica”. E, come giustamente sottolinea il compagno, non sono mancate le espressioni di destra dello stesso fenomeno (quello di Berlusconi) o addirittura di avventurieri (come Bossi). Il fenomeno Grillo quindi è solo l’ultima espressione, in ordine di tempo, di un processo in cui, alla decomposizione del quadro politico della borghesia subentra una tendenza “spontanea”, “popolare”, a farsi partito, a mostrare che una maniera alternativa di governare il paese c’è. Ma con Grillo le cose sembrano aver toccato dei livelli particolarmente aspri: è riuscito niente di meno ad organizzare un Vaffa Day con un milione di persone in piazza e 300.000 firme, in cui ha mandato a quel paese tutto e tutti, ricevendo un’audience incredibilmente mediatizzata.
Come è potuto succedere? In effetti neanche l’ampiezza che può assumere un tale fenomeno deve sorprenderci, né dobbiamo pensare che si tratti di una peculiarità tutta nostrana. Nel 1981 il comico Coluche in Francia, svolse un ruolo analogo. Con il suo atteggiamento irriverente verso la politica e la sua contrapposizione a tutti i partiti, ottenne una grande popolarità arrivando a concorrere alle elezioni presidenziali francesi (alle quali secondo i sondaggi dell’epoca sarebbe stato votato da 2 francesi su 10), da cui però finì per ritirarsi a causa delle forti tensioni scatenatesi nell’apparato politico francese, nonché delle minacce personali ricevute. Ma forse ancora più importante, per capire la natura del fenomeno, è il confronto con il movimento dell’“uomo qualunque”, che a ragione viene ricordato dal compagno nel suo testo. Il Fronte dell’Uomo Qualunque acquistò un prestigio e una popolarità inattese, il suo giornale in soli sei mesi raggiunse una tiratura di 850.000 copie e nelle votazioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946 ottenne più di 1.200.000 voti, piazzandosi come quinto partito a livello nazionale. La popolarità di questo finì quando il suo fondatore, Giannini, non poté negare, nel 1947, di dare una mano per la costituzione del terzo governo De Gasperi e per estromettere da questo sia i “socialisti” che i “comunisti”.
Qual è dunque la vera natura di questi fenomeni? I movimenti antipartito, di quelli che insorgono contro la politica dei profittatori e dei corrotti, sono tipici delle fasi di crisi politica della borghesia. Non è un caso che in Italia questi fenomeni si siano presentati, sotto spoglie diverse, soprattutto a partire dalla fase di Tangentopoli, ovvero da quando metà del quadro politico della borghesia, quello che aveva dominato per circa mezzo secolo, era stato praticamente azzerato dalle lotte interne alla borghesia. Non è ugualmente un caso che un fenomeno simile si sia presentato all’indomani della II guerra mondiale con l’Uomo Qualunque, quando le distruzioni della guerra, la caduta del fascismo e l’orgia omicida del partigianesimo, con la coscrizione forzata nel sud Italia e le faide incrociate al nord, avevano disseminato una profonda prostrazione nella popolazione ed una sensibile mancanza di fiducia nella classe politica italiana.
Anche oggi esiste un profondo malessere per delle condizioni di vita sempre più difficili su tutti i piani (quello economico, quello sociale, quello ambientale); anche oggi c’è un processo importante di sfiducia nelle istanze istituzionali che sempre più difficilmente riescono a mascherare la loro ipocrisia ed il loro marciume, essendo costrette a colpire duramente la stragrande maggioranza della popolazione per mantenere in piedi il loro sistema economico.
Ma oggi ci sono due elementi nuovi rispetto agli anni precedenti che caratterizzano il quadro internazionale del rapporto di forza tra la classe che detiene il potere e il proletariato che subisce questo potere:
- oggi ci sono meno illusioni. Inizia ad emergere tra i lavoratori, i proletari ed i giovani la consapevolezza che il futuro può essere ancora peggiore. Non è un caso se al Vaffa Day, la maggioranza erano giovani. Erano quelli che Grillo chiama la V Generation, che avverte con sempre maggiore chiarezza che questa società non le offre niente, non le dà alcuna prospettiva;
- questa consapevolezza inizia a tradursi in momenti di reazione aperta in varie parti del mondo: dal movimento degli studenti in Francia contro il CPE, allo sciopero nelle poste in Gran Bretagna, alle lotte in Perù, Cile, Africa del sud, ecc. (1). Ed anche se in Italia fino ad ora non ci sono ancora stati grossi episodi di lotta, la disillusione, il senso di insicurezza per il futuro, la rabbia e la volontà di non restare inerti di fronte ai continui attacchi, si toccano con mano.
Non è un caso se la borghesia italiana (comprese le sue frange più “radicali”, da Rifondazione agli ex-leader del movimento no-global come Caruso), mentre si vede costretta dalla crisi economica a tartassare ulteriormente i lavoratori e a non offrire niente di sostanziale alla massa crescente di precari e futuri precari, da una parte, getta fumo negli occhi con illusori guadagni di 100-150 euro annui per 18.000 famiglie e - di fronte al Vaffa Day - riconosce la necessità di “moralizzare” la politica. Esemplare la presa di posizione del “destro” Fini “Non voglio enfatizzare il fenomeno Grillo, ma il suo successo è lo specchio di un diffuso sentimento di rifiuto verso il sistema”, di fronte al quale bisogna “agire in anticipo: aggredire la cattiva politica dei privilegi e degli sprechi con una risposta netta, senza eccessive prudenze. Dobbiamo incarnare la buona politica” (La Repubblica on line 12/9/07).
In questo contesto è abbastanza facile attirare grandi folle puntando il dito contro le espressioni più sfacciate dei privilegi e dei soprusi di una casta politica. Come ha detto lo stesso Grillo, lui non ha fatto altro che convogliare e dar sfogo al malcontento esistente puntando in una certa direzione.
Ma la questione è proprio questa: in quale direzione?
Dove portano i movimenti come il V Day?
Come chiaramente mostrato nel testo del compagno LG, il disegno di legge popolare promosso da Grillo non solo si inscrive perfettamente nel quadro della legge capitalista (cioè di quello strumento attraverso il quale la classe dominante controlla e giustifica il suo potere sulla società), ma per certi versi ne rivendica addirittura un rafforzamento.
Ma più che entrare nel merito del disegno di legge, cerchiamo di capire che cosa veramente rivendica il movimento del V Day, al di là di Grillo, al di là della spinta sicuramente combattiva e genuina di una parte consistente di chi era in piazza l’8 settembre.
Probabilmente molti tra il milione di persone che hanno aderito al V Day e molti tra quelli che seguono il blog di Grillo non si fanno molte illusioni sul fatto che questo disegno di legge possa cambiare chissà cosa e potranno obiettare: va bene, il V Day non cambia le nostre condizioni economiche, né il degrado di questa società, ma almeno può smascherare il malcostume e l’ipocrisia di chi ci governa e fa leggi che applica solo agli altri, può eliminare parte dei privilegi, può toglierci finalmente dai piedi dei veri e propri farabutti che campano sulle nostre spalle. Come dice Grillo rispetto al suo blog, può permetterci di incontrarci, scambiarci le idee, sentirci parte di un qualcosa che cerca di cambiare le cose. Perché quindi starne fuori? Male non può fare.
In effetti questo “movimento”, come quelli che l’hanno preceduto nel passato, ed il suo blog possono fare e fanno molto di più. Portano avanti una politica ben precisa. Oggettivamente ci ingabbiano nella difesa di questo sistema sociale ed in particolare dello Stato italiano e delle sue istituzioni.
“Il milione di persone che è sceso in piazza, in modo composto, senza bandiere, senza il più piccolo incidente dovrebbe essere ringraziato. E’ la valvola di sfogo di una pentola a pressione che potrebbe scoppiare. Un momento di tregua per riflettere sul futuro di questo Paese. La V-generation è aria pura, condivisione, futuro. Gaber direbbe: ‘la libertà è partecipazione’ ” (Blog di Grillo).
E, l’altro uomo del momento, il giornalista Travaglio, alla trasmissione Primo Piano dopo il V Day alla domanda se questo sia un movimento apolitico o meno, risponde “quello della gente che stava sotto il palco è superpolitico… è un movimento non contro il parlamento, ma a favore del parlamento, per difendere l’onore del parlamento infangato dai pregiudicati e dagli imputati … per assicurare alla politica il ricambio generazionale... per restituire ai cittadini il diritto a scegliere i suoi rappresentanti”.
Ed è estremamente significativo quello che Travaglio dice rispetto al ruolo di Grillo: “Grillo fa il politico senza farlo… il fatto che lui dica sul blog non votate questi qui o votate quello è infinitamente più efficace di Grillo che entra con una pattuglia di due tre grillini in un’aula del parlamento” (video della trasmissione Primo Piano su YouTube)
Beppe Grillo ha pienamente ragione, la borghesia dovrebbe ringraziare il V Day, perché non è altro che un appello a difendere il parlamento dello Stato italiano, quello stesso Stato che sta gettando milioni di proletari nella miseria, che getta milioni di giovani in una esistenza precaria senza via d’uscita, che partecipa pienamente ai massacri della guerra imperialista in Iraq, in Afghanistan, ed altrove, che sta contribuendo a distruggere l’ecosistema del pianeta per le sue esigenze di Stato capitalista.
Un appello rivolto soprattutto alla nuova generazione che invece di sviluppare una comprensione della barbarie di questa società e trovare la via per combatterla, è chiamata a soccorrerla partecipando alla sua gestione, spacciando la partecipazione per libertà. E’ chiamata a difendere la democrazia, cioè l’arma di mistificazione più potente che ha in mano la borghesia, rivendicando la libertà di scegliere i propri rappresentanti alla farsa parlamentare borghese, quando l’unica possibilità per cambiare veramente le cose è la lotta autonoma e gestita in prima persona dai proletari di oggi e di domani.
Certo i vari politici possono essere infastiditi da un Grillo, ma quello che fa veramente paura alla borghesia è, come ha detto Fini, l’emergere “di un diffuso sentimento di rifiuto verso il sistema”. Quello che può far retrocedere i suoi attacchi è un movimento come quello dei giovani in Francia dello scorso anno contro il CPE (2), non certo i vaffanculo gridati da un palco.
Eva, 14-10-07
1. Vedi “I proletari rispondono agli attacchi della crisi” sul sito in italiano e altri articoli sulle lotte nei vari paesi alle pagine in altre lingue.
2. Vedi “Tesi sul movimento degli studenti in Francia”, sul nostro sito.
Recentemente abbiamo tenuto due conferenze sul tema Socialismo e decadenza del capitalismo in due università del paese: Santiago de los Caballeros (seconda città del paese) e Santo Domingo (la capitale). Questi dibattiti sono stati possibili grazie alla volontà ed allo sforzo organizzativo di un nucleo di discussione internazionalista che ringraziamo calorosamente per il lavoro realizzato. Queste riunioni non hanno avuto niente di accademico. Come in occasione di una simile esperienza in una università del Brasile [1], sono state espresse delle inquietudini e delle preoccupazioni sul futuro che ci offre il capitalismo, sul modo di lottare per una nuova società che superi le contraddizioni in cui si trova immerso il sistema attuale, sulle forze sociali capaci di realizzare questo cambiamento...
Questi dibattiti sono un momento dello sforzo di presa di coscienza da parte di minoranze del proletariato. La dimensione internazionale di questo sforzo è indiscutibile. Pubblicare una sintesi delle discussioni condotte nella Repubblica dominicana risponde ad un doppio obiettivo: partecipare allo sviluppo di un dibattito internazionale e contribuire a che i dibattiti e le discussioni che si sviluppano in un paese si inseriscano nel solo quadro che può farlo fruttare: il quadro internazionale ed internazionalista [2].
Dopo la presentazione [3], molte domande sono state poste; alcune delle quali hanno suscitato la discussione nella sala. Nella sintesi che proponiamo qui, le abbiamo organizzate tematicamente e presentate sotto forma di questionario con relative risposte.
Ci sono state molte rivoluzioni nel XX secolo. Tuttavia voi le condannate tutte, tranne la Rivoluzione russa di cui dite che fu un insuccesso. Siete ingiusti verso gli sforzi dei popoli che lottano per la loro liberazione.
Non si tratta di denigrare le lotte delle classi sfruttate ed oppresse, ma di comprendere qual è realmente la rivoluzione all’ordine del giorno a partire dal XX secolo. Da questo punto di vista si è avuto un cambiamento fondamentale con l’esplosione della Prima Guerra mondiale. Questa guerra, che raggiunse dei record incredibili di barbarie, mostrò al mondo che il capitalismo era diventato un sistema sociale decadente e che non poteva offrire più all’umanità che guerre, carestie, distruzioni e miseria. Essa mise fine al periodo delle rivoluzioni borghesi, le rivoluzioni popolari democratiche, riformistiche e nazionali. Da allora, questi movimenti sono diventati semplici restauri di facciata dello Stato. A partire da questa guerra, la sola rivoluzione capace di portare un progresso per l’umanità è la rivoluzione proletaria il cui obiettivo è instaurare il comunismo nel mondo intero. La Rivoluzione russa del 1917 e tutta l’ondata rivoluzionaria che la seguì hanno espresso questo stato di fatto. Del resto, il Primo congresso dell’Internazionale Comunista, nel marzo 1919, affermava: “Un nuovo periodo comincia. Periodo di decomposizione del capitalismo, del suo crollo. Periodo di rivoluzione comunista proletaria” [4].
Perché vi ostinate a restare nel dogma di una rivoluzione mondiale e rigettate gli avanzamenti graduali attraverso le rivoluzioni nazionali?
Le rivoluzioni borghesi avevano un carattere nazionale e potevano sopravvivere a lungo all’interno delle loro frontiere. E’ così che la rivoluzione inglese trionfò nel 1640 e poté sopravvivere in un mondo ancora feudale fino alle rivoluzioni borghesi della fine del XVIII secolo. La rivoluzione proletaria, invece, o sarà mondiale o fallirà. Innanzitutto perché la produzione è oggi mondiale. La classe operaia è mondiale. Ma anche perché il capitalismo ha creato un mercato mondiale e le leggi di questo mercato sono uniche in tutto il mondo. I problemi dovuti al capitalismo hanno un carattere mondiale e possono essere risolti solo dalla lotta unificata di tutto il proletariato mondiale.
Quale è la vostra posizione su Trotsky ed il trotskismo?
Trotsky fu per tutta la sua vita un militante rivoluzionario. Ebbe un ruolo molto importante durante la Rivoluzione russa del 1917. Ma lottò anche contro la degenerazione della Rivoluzione russa difendendo posizioni internazionaliste. Fu il principale animatore dell’Opposizione di sinistra, che condusse una lotta eroica di opposizione alla controrivoluzione stalinista sia in Russia che all’interno dei differenti partiti comunisti nel mondo. Tuttavia, Trotsky e l’Opposizione di sinistra non compresero mai la natura dell’URSS, considerandola come uno “Stato operaio con delle deformazioni burocratiche” che di conseguenza occorreva, malgrado tutto, difendere. Le conseguenze di questo errore furono tragiche. Dopo il suo vile assassinio da parte di Ramon Mercader, sicario al soldo di Stalin, quelli che pretendevano essere gli eredi di Trotsky lanciarono un appello a partecipare alla Seconda Guerra mondiale e, da allora, sono diventati una corrente politica che difende, certo in modo “critico” e con un linguaggio “radicale”, gli stessi postulati dei partiti stalinisti e socialdemocratici [5].
Siete ingiusti con Chavez, ma c'è di peggio: non considerate il processo rivoluzionario che Chavez ha innescato e che si sta sviluppando in tutta l'America latina, dando luogo ad una effervescenza rivoluzionaria.
Il dilemma chavismo-antichavismo è una trappola, come hanno dimostrato recentemente le mobilitazioni degli studenti in Venezuela che cercano di liberarsi da questa polarizzazione sterile e distruttiva tra chavismo ed Opposizione [6].
Chavez sostiene sia il rafforzamento dell’intervento dello Stato nell’economia che la concentrazione dei poteri nelle mani di una sola persona (la Riforma costituzionale per favorire la sua rielezione permanente). Lancia dei programmi “sociali” che, se migliorano momentaneamente la situazione di alcuni strati emarginati, si iscrivono in realtà in un programma di rafforzamento dello sfruttamento dei lavoratori e di impoverimento della grande maggioranza della popolazione. Questo tipo di programmi serve solo a fare accettare alla popolazione la miseria più degradante. Si tratta di formule che si sono spesso ripetute per tutto il XX secolo e che si sono rivelate delle cocenti sconfitte. Non hanno cambiato per niente il capitalismo, hanno contribuito semplicemente a mantenerlo in vita e di conseguenza a mantenere le sofferenze dell’immensa maggioranza [7].
Chavez pretende di essere “antimperialista” perché si oppone vigorosamente al “diavolo Bush”. Il sedicente “antimperialismo” di Chavez non è altro che un camuffamento per portare avanti i propri disegni imperialisti. I lavoratori e gli oppressi non possono basare la loro lotta su un sentimento di odio o di rivincita contro un impero onnipotente come gli Stati Uniti, perché questo sentimento è manipolato dalle borghesie latino-americane - sia dalle frazioni al governo che da quelle all’opposizione - per fare in modo che la popolazione si sacrifichi per i loro interessi.
Non c’è sbocco nazionale ad una crisi del capitalismo che è mondiale. La soluzione non può che essere internazionale e si deve basare sulla solidarietà internazionale del proletariato, nello sviluppo delle sue lotte autonome.
Perché parlate solo degli operai e non dei contadini o di altri strati popolari?
Qualunque sia la sua importanza numerica in ogni paese, la classe operaia è l’unica classe mondiale i cui interessi sono mondiali. La sua lotta di classe rappresenta gli interessi e l’avvenire per tutta l’umanità oppressa e sfruttata. La classe operaia cerca di guadagnare i contadini e gli strati emarginati delle grandi città alla sua lotta. Non si tratta per niente di formare un “fronte di movimenti sociali” perché l’interesse profondo, la liberazione autentica degli operai, dei contadini, degli emarginati delle città non è una somma di rivendicazioni corporative ma la distruzione comune del giogo dello sfruttamento salariale e mercantile.
Non pensate di usare ricette e formule superate? La classe operaia non esiste più e qui, in America, non ci sono quasi più fabbriche.
La classe operaia non è mai stata limitata ai lavoratori industriali. Ciò che caratterizza la classe operaia è il rapporto sociale basato sullo sfruttamento del lavoro salariato. La classe operaia non è una categoria sociologica. I lavoratori dell’industria, i lavoratori dei campi, gli impiegati pubblici e molti lavoratori “intellettuali”, fanno parte del proletariato. Bisogna contare anche su tutti i lavoratori che restano senza un posto di lavoro e che, per sopravvivere, sono costretti ad esempio a fare i venditori ambulanti non autorizzati agli incroci stradali.
Non è necessario un cambiamento di mentalità perché le masse operaie facciano la rivoluzione?
Certamente! La rivoluzione proletaria non è il semplice risultato di fattori obiettivi ineluttabili, ma si basa essenzialmente sull’azione cosciente, collettiva e solidale delle grandi masse di lavoratori. Nell’Ideologia Tedesca, Marx ed Engels sostengono che la rivoluzione non è necessaria solamente per distruggere lo Stato che opprime la maggioranza, ma anche perché questa maggioranza si emancipi liberandosi dagli orpelli ideologici del passato che le sono incollati addosso. La rivoluzione proletaria si prepara attraverso una trasformazione gigantesca della mentalità delle masse. Sarà il prodotto dello sforzo autonomo delle masse che passa non solo attraverso le lotte, ma anche dei dibattiti appassionati.
CCI
Presentazione su Socialismo e decadenza del capitalismo
Cari compagni, noi siamo venuti non per imporre le nostre posizioni e per dirvi “ecco la verità, inginocchiatevi”. La nostra intenzione è invece quella di animare un dibattito, che si sviluppi non solo qui ma che prosegua animato da tutti quelli che sono interessati. Come avete potuto vedere dalla convocazione, il soggetto proposto è: socialismo e decadenza del capitalismo. Questa questione è attualmente dibattuta nei circoli di giovani, operai, studenti, elementi interessati, in numerosi paesi. Qui nella Repubblica Dominicana ma anche in altri paesi dell’America latina, nelle Filippine, in Germania, in Corea, …
Perché un tale interesse per questo tema? La sensazione che il futuro che ci prepara la società capitalista è sempre più inquietante si estende ogni giorno di più. Dovunque si guardi, gli elementi che provocano la preoccupazione verso l’avvenire così come l’indignazione contro il sistema sociale si accumulano. I giovani si vedono condannati ad una precarietà senza fine, alla disoccupazione, all’impossibilità di trovare un alloggio; i più grandi tra loro sono condannati alla disoccupazione o a una pensione da fame; masse gigantesche fuggono disperati dalla campagna per raggiungere le bidonville delle grandi città senza trovare alcuna soluzione; le guerre imperialiste come quella in Iraq si radicalizzano, mettendo in evidenza un’ulteriore impasse; è sempre più evidente che un disastro ecologico minaccia il pianeta; i disastri, le catastrofi si moltiplicano dappertutto, mettendo in evidenza la totale incapacità degli Stati; la decomposizione della società e la perdita di ogni etica diventano ogni giorno più evidenti…
Queste condizioni rendono necessario il dibattito, la riflessione su ciò che dovrebbe essere una nuova società, come raggiungerla, quali sono le forze che possono edificarla, sulle lezioni da tirare dalle esperienze storiche delle rivoluzioni o dai tentativi rivoluzionari del passato.
Cos’è il socialismo
Noi proponiamo una risposta storica e dinamica: il socialismo è la società che supera e risolve le contraddizioni che provocano il caos e il disastro all’interno della vecchia società capitalista. Due grandi contraddizioni conducono il capitalismo alla rovina e provocano le sofferenze estreme della gran parte dell’umanità. Da una parte, il capitalismo è un sistema in cui la produzione non è destinata a soddisfare i bisogni umani ma a realizzare del plus-valore che si traduce in danaro sonante. Dall’altra, la produzione sotto il capitalismo raggiunge un carattere sempre più sociale e mondiale mentre l’organizzazione e il sistema di produzione hanno un carattere privato e nazionale. Queste due contraddizioni provocano sia la tendenza inesorabile alla sovrapproduzione (per la prima volta nella storia gli uomini muoiono di fame non a causa della penuria di alimenti ma a causa della loro abbondanza) che la guerra a morte, l’imperialismo, tra i diversi capitali nazionali per la divisione dei mercati, cioè del mondo.
Perché il socialismo risolve queste contraddizioni?
Il socialismo è l’organizzazione della produzione non in funzione del mercato o del lavoro salariato, ma in funzione del pieno e consapevole soddisfacimento dei bisogni umani. Il socialismo non può che essere una società mondiale, una comunità umana mondiale che lavora collettivamente e fraternamente per sé stessa.
E’ possibile il socialismo in un solo paese?
NO! E’ la risposta categorica che ha sempre dato il movimento operaio. Il socialismo o sarà mondiale o non si farà. Questa affermazione ci permette di chiarire quello che noi pensiamo del regime dell’URSS, che pretendeva di essere la continuatrice della grande rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917: non si trattava di socialismo, non era una “via al socialismo”, era invece una forma particolare di capitalismo di stato. Regimi come quelli della Cina, di Cuba, della Corea del Nord, in cui regna una dittatura feroce e militarizzata sulla classe operaia e sulla popolazione in generale, non possono essere né “socialisti” né “comunisti”.
Noi dobbiamo essere molto chiari su questo punto: bisogna stare attenti a non confondere socialismo con capitalismo di stato. Quest’ultimo è una tendenza generale che riguarda l’insieme del capitalismo mondiale lungo tutto il XX secolo. Questa tendenza si è concretizzata in due maniere: nella forma detta “liberale”, in cui lo Stato controlla e interviene nell’economia in maniera indiretta e rispettando la proprietà privata; e quella che viene presentata demagogicamente come “socialista”, in cui lo Stato controlla l’economia attraverso delle nazionalizzazioni e la statalizzazione diretta. La grande menzogna del XX secolo è stata quella di presentare come “socialismo” dei regimi in cui l’economia era statizzata più o meno completamente e dove regnava un sistema di partito unico, auodenominatosi cinicamente “dittatura del proletariato”, che viceversa non era altro che la dittatura dello Stato sul proletariato.
Ciò detto, cos’è il socialismo? Per rispondere, dobbiamo riprendere le idee che sono state sviluppate dal movimento operaio. Non si tratta di ripetere semplicemente delle vecchie formule, ma di analizzarle in maniera critica integrandole alla situazione attuale e alla prospettiva del futuro. Dunque, il socialismo…
1) è un sistema mondiale. Il socialismo è impossibile in un solo paese. Sta qui a nostro avviso la causa fondamentale del fallimento della Rivoluzione del 1917;
2) implica la partecipazione attiva e cosciente delle masse operaie e sfruttate organizzate in Consigli operai. Il socialismo non può essere imposto per decreto per via amministrativa, ma è il frutto della forza collettiva del proletariato;
3) non si costruisce attraverso il rafforzamento dello Stato ma attraverso la sua estinzione progressiva. E’ certo che uno Stato di transizione esisterà ancora dopo la distruzione politica del capitalismo, ma questo dovrà essere progressivamente smantellato. E’ dunque uno Stato destinato ad estinguersi.
Questa breve sintesi dei principi del socialismo ci conduce a mettere l’accento sul fatto che il socialismo non può che essere il prodotto dell’azione collettiva, organizzata e cosciente del proletariato mondiale, rafforzata e sostenuta da tutti gli oppressi e sfruttati del pianeta. Il “socialismo” realizzato dallo Stato, basato sul partito unico, è una immonda mistificazione che non ha niente a che fare con il socialismo ma che è solo una delle forme di capitalismo di Stato.
Il socialismo sorge dalla lotta mondiale del proletariato. Ma oggi, dove è questa lotta?
La Rivoluzione russa era stata il frutto di numerose lotte che si erano prodotte non solo in Russia, ma anche in Germania, Austria e in numerosi paesi d’Europa, d’Asia, d’America… Essa fu la punta di lancia di grandi movimenti mondiali delle masse operaie. Noi non siamo degli idealisti, non pretendiamo di vendere delle illusioni. Noi sappiamo perfettamente che siamo ancora lontano da una situazione in cui la presenza generalizzata di lotte di massa del proletariato dominerà la scena mondiale. Noi pensiamo tuttavia che la situazione attuale si caratterizzi per una maturazione delle condizioni che può condurre ad una situazione rivoluzionaria come quella del 1917.
Su cosa basiamo questa prospettiva? Essenzialmente su due fattori: da una parte, le lotte attuali (malgrado il loro carattere ancora molto limitato) tendono a moltiplicarsi in numerosi paesi d’Europa, dell’Asia, dell’America. Noi facciamo riferimento a dei movimenti significativi in diversi paesi: Francia 2006, Gran Bretagna 2005, Spagna 2006, Dubai 2006, Bangladesh 2006, Egitto 2007, Perù 2007, Germania 2007… Noi non descriviamo qui in dettaglio questi movimenti ma un’analisi seria mostra un potenziale importante. D’altra parte, comincia ad apparire un reale processo di presa di coscienza. Minoranze di proletari in molti paesi si pongono una serie di questioni, cercano con energia ed entusiasmo delle posizioni teoriche rivoluzionarie e – cosa che va di pari passo – un’attività rivoluzionaria. Inoltre appaiono dei gruppi internazionalisti che tendono a difendere delle posizioni rivoluzionarie, ampliando e approfondendo così l’azione delle organizzazioni rivoluzionarie internazionaliste come la CCI: nelle Filippine, in Corea, in Brasile, in Turchia, in Argentina, in Cecoslovacchia, in Germania, ecc.
Noi non possiamo considerare in maniera isolata ognuno di queste espressioni della classe. Noi pensiamo che nel loro insieme questi sforzi annuncino e preparino un cambiamento formidabile nella mentalità delle masse dei lavoratori. Concentriamoci sulla riflessione e sull’azione di queste minoranze. Essendo alla ricerca di posizioni rivoluzionarie, esse incrociano inevitabilmente innumerevoli partiti, organizzazioni e movimenti che rivendicano di portare avanti il comunismo e il socialismo, di essere espressione della classe operaia, della rivoluzione, ecc. Come orientarsi? Come distinguere tra queste correnti di origine comunista o che si pretendono tali quelli che non sono che un inganno e una mistificazione? Rispondere a questa questione condurrebbe ad un dibattito dettagliato nel quale non possiamo entrare qui. Vogliamo tuttavia apportare un inizio di risposta che deriva dall’insieme delle cose che abbiamo detto sul socialismo e sul suo processo di costruzione.
Tutte queste organizzazioni che pretendono che il socialismo in un solo paese sia possibile e che difendono la nazione, che pretendono di essere antimperialisti e che difendono un’azione nazionale imperialista, che presentano come socialista la statalizzazione e la nazionalizzazione dell’economia, che difendono il rafforzamento dello stato capitalista sotto la forma democratica o totalitaria che sia, tutte queste organizzazioni non hanno niente di socialista né di comunista ma difendono, al contrario, in fin dei conti, proprio il capitalismo.
Questa è la realtà, nonostante tutta la buona volontà o la sincerità di tanti militanti di queste organizzazioni, rispetto ai quali noi auspichiamo un dibattito sincero e profondo per comprendere se è possibile lottare per il socialismo all’interno di queste organizzazioni o se al contrario queste non siano un ostacolo a questa lotta.
Cari compagni, la nostra presentazione, come avevamo annunciato, non pretendeva di dare una risposta esauriente e sistematica, ma solo di aprire il dibattito. E’ perciò che concludiamo invitandovi a porre senza esitazioni le questioni, i problemi, gli argomenti, gli accordi e i disaccordi, in modo che noi possiamo chiudere questa riunione arricchiti dall’idea che avremo, assieme, lanciato una dinamica verso la chiarificazione sui problemi che assillano l’umanità.
1. Consultare es.internationalism.org/cci-online/200602/434/cuatro-intervenciones-publicas-de-la-cci-en-brasil-un-reforzamiento-de-las-pos [41].
2. Naturalmente, se dei compagni sono interessati ad organizzare dibattiti di questo tipo nella loro città o nel loro paese, siamo disposti a collaborare alla loro organizzazione. Ogni iniziativa in questo senso è vitale.
3. Questa presentazione è presente sotto forma di allegato dopo questo articolo.
4. Vedi sul nostro sito la brochure su la Rivoluzione russa [42].
5. Vedi sul nostro sito la brochure su Trotsky e lo stalinismo [43].
6. Vedi, tra gli altri testi, il più recente [44].
7. Vedi es.internationalism.org/cci-online/200706/1928/chavez-explota-a-favor-del-capital-los-suenos-de-las-capas-mas-necesitadas [45] e es.internationalism.org/cci-online/200706/1934/acentuacion-de-la-precariedad-en-nombre-del-socialismo [46].
Lo sciopero dei minatori in Perù è una realtà. Iniziata dai lavoratori della compagnia cinese Shougang tre settimane fa la lotta si è estesa a tutti i centri minerari del paese. Inevitabilmente, per il momento, i sindacati hanno svolto il loro ruolo reazionario, in particolare il sindacato della miniera più grande del paese: Yanacocha (miniera d’oro del nord del Perù, nella Cajamarca, con un fatturato di 800-1000 milioni di dollari all’anno). Questo sindacato ha intavolato delle discussioni isolate con la compagnia e non ha chiamato allo sciopero. A Oroya i sindacati sono stati denunciati dalla stampa per il fatto che sono andati al lavoro. Chiaramente si voleva rompere un minimo di unità dato che la Federazione dei Minatori aveva detto che 33 basi sindacali avevano scioperato.
A Chimbote, dove c’era stata una lotta di contadini e disoccupati durata alcune settimane, la compagnia Sider Perù è stata completamente paralizzata. Le mogli sono scese a manifestare con i minatori insieme a gran parte della popolazione di questa città. Le strade della città di Ilo sono state bloccate, a Cerro de Pasco sono stati arrestati 15 minatori accusati di aver tirato sassi contro i locali del governo regionale.
La stampa ha svolto il suo ruolo reazionario dicendo che lo sciopero era stato un fallimento. Agendo da portavoce dello Stato, i mezzi di disinformazione hanno detto, in accordo col Ministro delle Miniere (Pinilla), che solo 5.700 minatori su un totale di 120.000 erano in sciopero. La Federazione delle Miniere dichiara che i minatori in sciopero sono 22.000.
Nella miniera di Casapalca, sulla Sierra de Lima, i minatori hanno resistito agli ingegneri della miniera che li minacciavano di licenziamento se avessero abbandonato il loro posto di lavoro. Il ministro Pinilla ha dichiarato illegale lo sciopero, perché annunciato con quattro giorni di anticipo invece dei cinque previsti dalla legge. Le miniere assumono un certo numero di lavoratori temporanei e il ministro minaccia il licenziamento se i minatori non ritornano al lavoro entro il giovedì successivo.
Un altro aspetto di questa lotta è stato il coinvolgimento nello sciopero dei minatori assunti dalle compagnie in sub-appalto. Un minatore assunto direttamente dalla compagnia mineraria guadagna 23 dollari al giorno, mentre un minatore assunto in sub-appalto, da una di queste compagnie, guadagna 9 dollari al giorno. La protesta della moglie di un minatore ricordava che il presidente Alan Garcia aveva promesso nei suoi discorsi elettorali di eliminare queste imprese intermediarie.
In un telegiornale è stato mostrato un minatore demoralizzato dell’impresa Shougang che diceva che erano passate già tre settimane e che non aveva più da mangiare. Le lacrime di questo minatore che raccontava la povertà sua e della sua famiglia diffuse per la provincia avevano lo scopo di demoralizzare gli altri minatori in sciopero. Alcuni studenti dell’Università di San Marcos a Lima hanno espresso la loro solidarietà con i minatori ed hanno portato del cibo per la “cucina della comunità”, una pratica questa comune in tutti gli scioperi (insegnanti, infermiere, operai, ecc.). Il cibo viene condiviso tra le famiglie, mentre ci si scambiano esperienze e valutazioni sulla lotta del giorno.
Il governo da parte sua aggiungere un altro demoralizzante colpo annunciando la privatizzazione della miniera Michiquillay di Cajamarca, partita con il prezzo di 47 milioni di dollari e conclusa con più di 400 milioni di dollari.
Questo sciopero nazionale a tempo indeterminato, il primo dopo 20 anni che non paralizzava questo settore.
Un compagno di Lima, 30/4/07
Tre morti al Technocentre di Renault di Guyancourt in quattro mesi, quattro nella centrale di Chinon dell’EDF-GDF in tre anni, una presso il ristorante Sodexho all'inizio aprile, ancora una in una fabbrica PSA del Nord della Francia nello stesso mese. Questo è il bilancio di quell'ondata di suicidi che recentemente hanno conosciuto alcune imprese. Per ognuno di essi sono stati invocati la pressione e l'assillo dei capi, la paura della disoccupazione ed il ricatto al licenziamento sistematico, il sovraccarico di lavoro crescente. Non c’è da meravigliarsi. Accanto ai licenziamenti massicci degli anni ‘80 e ‘90, in tutte le fabbriche e nei servizi, i ritmi sono stati moltiplicati per due o per tre, e, con questa "grande vittoria" della sinistra rappresentata dalla legge sulle 35 ore, si è avuto solo un peggioramento. Perché quest'ultima ha permesso di giustificare un'accelerazione terribile dello sfruttamento ed un aggravamento senza precedenti delle condizioni di lavoro. I centri di produzione capitalista sono sempre stati delle carceri, oggi chiaramente sono degli inferni dove gli operai sono più che mai condannati ad arrostire per poi essere gettati nella spazzatura. "Marcia o crepa"!, ecco l'immutabile motto di questa società di sfruttamento e di miseria.
Al Technocentre di Renault-Billancourt per esempio, il "contratto 2009" deciso dall'impresa esige dai salariati, quadri, tecnici, operai alla catena, ritmi di lavoro infernali, con la minaccia di licenziamenti secchi se gli "obiettivi" non sono rispettati. Tutto è buono per ridurre i costi di produzione. Così, un progetto battezzato "nuovi ambienti naturali di lavoro", adottato all'unisono dai sindacati CFDT, CGC, CFTC e FO, ha ideato il telelavoro legato ad una nuova classificazione di compiti, da cui dipende lo stipendio, che raddoppia in funzione dei risultati di ogni salariato e del "modo" con cui li ha ottenuti. Si tratta in effetti di una vera militarizzazione la cui pressione su ciascuno è enorme e per certi portatrice di disastri psicologici.
All’EDF-GDF, è la concorrenza tra i CDD e gli impiegati in CDI che è la regola, con la direzione che chiede agli impiegati "fissi" di allinearsi sul ritmo di lavoro richiesto a quelli che sperano di essere assunti e che "danno dunque il meglio di sé stessi".
Ma al di là di queste imprese particolari, gli esempi dell’aggravamento delle condizioni di sfruttamento dovunque, in tutti i settori, sono innumerevoli. Le pressioni delle direzioni e dei piccoli capi per costringere gli operai ad accettare di rendersi disponibili si trasformano in vero assillo, con l’utilizzazione sempre più generalizzata di metodi disprezzabili come la minaccia aperta della disoccupazione o “la messa a riposo” per fare pressione sui ricalcitranti. È il regno della paura, la regola è ancora dividere per regnare meglio, che mette certi impiegati all’indice ed in quarantena, a costo di spingerli al suicidio, per spaventare meglio gli altri e renderli più docili. In certe imprese, l’insulto quotidiano, quasi la minaccia fisica, sono arrivati ad essere la pratica corrente dell’inquadramento.
Secondo l’Inserm, 12.000 persone si suicidano ogni anno in Francia, sui 160.000 tentativi nell’insieme della popolazione. Tra questi, da 300 a 400 lo fanno sul loro posto di lavoro, senza escludere che numerosi altri suicidi “fuori dal lavoro” sono legati direttamente alle condizioni di lavoro e più generalmente alla loro ripercussione immediata sulle condizioni di vita. Fino a poco fa, gli studi effettuati dagli specialisti dei rischi suicidi si rivolgevano essenzialmente verso le “popolazioni a rischio”, principalmente i tossicodipendenti, gli omosessuali, i disoccupati o ancora gli adolescenti. Il fenomeno di sfinimento professionale descritto da uno psicanalista americano, o “burn out” (1), apparso alla fine degli anni 1970 ed all’inizio degli anni 1980, non è più una curiosità di ricercatore, è una realtà endemica.
Mentre, grazie alle reti di circoli medico-sociali che permettono una individuazione del rischio più precoce nella popolazione, non c'è aumento globale del suicidio, il numero di suicidi al lavoro e di quelli legati direttamente alle condizioni di lavoro è in costante aumento. Così, l’undicesima giornata nazionale per la prevenzione del suicidio, che ha avuto luogo all’inizio di febbraio 2007, si è interessata particolarmente a questo “fenomeno nuovo” apparso ufficialmente circa una ventina di anni fa, e “in aumento da dieci anni ed in crescita regolare da quattro a cinque anni”, secondo il vicepresidente del Consiglio economico e sociale, Christian Larose.
Altro fatto “nuovo”: mentre fino a dieci anni fa, solo certe professioni erano particolarmente toccate, come gli agricoltori ed i salariati agricoli che capitolavano sotto i debiti, oggi tutte le categorie professionali sono coinvolte, con un’esposizione più frequente per i quadri, gli insegnanti, il personale della sanità, le guardie carcerarie, i poliziotti, o ancora i pompieri, ed i salariati del settore privato, cioè la maggior parte dei salariati di Francia.
Questa ondata di suicidi legati al lavoro non è una specificità francese, lungi da ciò. Se è difficile potere ottenere delle stime precise, si sa per esempio che in Europa, il 28% delle persone confessano che il loro lavoro è fonte di grave stress. In Cina, il numero di suicidi è esploso letteralmente con l’industrializzazione selvaggia e le condizioni di vita disumane degli operai. Così, 250.000 persone tra i 18 ed i 35 anni si sono suicidate nel 2006, e cioè una parte rappresentativa delle forze vive in seno alla classe operaia cinese.
La borghesia prova certamente a servirsi di questo “malessere sociale” per demoralizzare la classe operaia: vuole farci credere che la disperazione e la concorrenza fanno parte della “natura umana” e che la classe operaia non può accettare questa situazione che come una fatalità. I rivoluzionari, invece, devono sostenere che è la barbarie del capitalismo ad essere la responsabile dei suicidi. Il fatto che i proletari siano oggi costretti a darsi la morte a causa delle condizioni di lavoro è una protesta esasperata contro la ferocia delle loro condizioni di sfruttamento. Tuttavia, non dobbiamo vedere nella miseria solo miseria: le condizioni di sfruttamento e la concorrenza che il proletariato conosce oggi nel mondo non hanno come sola prospettiva la disperazione individuale, i suicidi o le depressioni. Perché il degrado vertiginoso delle condizioni di vita dei proletari porta con sé la rivolta collettiva e lo sviluppo della solidarietà in seno alla classe sfruttata. L’avvenire non è nella concorrenza tra i lavoratori ma nella loro unione crescente contro la miseria e lo sfruttamento. L’avvenire è nelle lotte operaie sempre più aperte, massicce e solidali.
Così, nel Manifesto Comunista del 1848, Marx ed Engels scrivevano: “Talvolta gli operai trionfano; ma è un trionfo effimero. Il risultato vero delle loro lotte più che il successo immediato è l’unione crescente dei lavoratori. (...) Questa unione crescente del proletariato in classe (…) è distrutta di nuovo continuamente dalla concorrenza che gli operai si fanno tra loro. Così essa rinasce sempre ogni giorno più forte, più ferma, più potente".
Mulan, 28 aprile, (da Révolution Internationale n.379)
1. Fenomeno depressivo grave: “incendio interiore”, in riferimento ad un fuoco nato dall’interno e che non lascia che il vuoto.
Quest’anno la borghesia ha pensato bene di “festeggiare” il 1° Maggio con la parola d’ordine “contro le morti bianche”. Già nei giorni precedenti, ed anche successivi, abbiamo visto tanto di titoloni sulle pagine dei giornali su operai morti sul posto di lavoro (a Napoli, a Genova, a Sorrento…), con la consueta profusione di “indignazione” da parte di uomini di governo, partiti e sindacati e, naturalmente, con tanto di buoni propositi di fare qualcosa per la sicurezza dei lavoratori.
Veramente la faccia tosta e l’ipocrisia di questa gente non ha limiti. Scoprono adesso che ogni giorno in Italia si muore sul lavoro? Basta cliccare “morti bianche” su internet per avere tutta una lista di posti dove è morto un operaio. E’ da anni che il numero delle vittime del lavoro aumenta costantemente, e del resto come potrebbe essere diversamente se il lavoro precario, saltuario, a nero è diventato ormai la norma di utilizzo della forza lavoro? E le cifre ufficiali uscite in questi giorni sui giornali non sono che una parte della realtà. Quante sono le vittime sul lavoro, soprattutto tra gli extracomunitari e gli immigrati in genere, che vengono abbandonati per strada lontano dal cantiere o portati davanti agli ospedali dai datori di lavoro1, per evitare che si sappia dove e come si sono feriti o sono morti?
Ma al 1° Maggio abbiamo dovuto subire i bei discorsi di sindaci, sindacalisti, preti e gente di spettacolo, come il premio Nobel Dario Fo, o il “compagno” Bertinotti che ci hanno detto che queste morti sono “ingiuste”, segno di “inciviltà”, di “degrado” e cose simili.
In effetti tutto questo gran parlare, adesso, delle morti bianche serve a distogliere l’attenzione dei proletari dal fatto che è questo governo di sinistra, al pari di tutti i governi che lo hanno preceduto, che sta degradando ulteriormente la nostra esistenza. Non a caso tutta l’attenzione nei comizi del 1° Maggio, nelle dichiarazioni di Prodi, nei commenti dei mass media, sono sul fatto che le leggi per la sicurezza sui posti di lavoro ci sono, ma non vengono rispettate, la responsabilità dunque non è del governo ma del datore di lavoro che non rispetta le leggi. In altri termini, e nulla togliendo alle responsabilità degli stessi datori di lavoro, l’idea che si vuol fare passare è che la responsabilità non è dello Stato capitalista, del suo governo e dei suoi sindacati se per sopravvivere in una città come Napoli o diventi un malvivente o accetti di lavorare per quattro soldi sulle impalcature dei palazzi senza la minima protezione e magari fino all’età di 74 anni. Non è responsabilità di questo sistema capitalista, dove la concorrenza sfrenata porta ogni azienda a tagliare sui costi della manodopera e sulle norme di sicurezza, se nel porto di Genova sei costretto a lavorare ben sapendo che da un momento all’altro puoi rimanere schiacciato da quintali di carta. E neanche se sei costretto a condurre un treno con la preoccupazione che un tuo momento di stanchezza, per i ritmi a cui sei sottoposto, potrebbe provocare la tua morte e quella di decine o centinaia di altre persone.
In realtà la borghesia lo sa che questa consapevolezza si fa strada tra i proletari ed allora, prima che sfoci in lotta aperta e rischi di diventare un potente fattore di unità e di solidarietà nella classe operaia, prende le sue precauzioni cogliendo l’occasione delle ultime disgrazie per puntare il dito sul singolo “padrone senza coscienza”. E quale momento migliore di giocarsi questa carta se non la “festa dei lavoratori”.
Eva 4/5/2007
1. “Di lavoro si muore. In continuazione: La velocità di costruzioni, la necessità di risparmiare su ogni tipo di sicurezza e su ogni rispetto d’orario. Turni disumani nove-dodici ore al giorno compreso sabato e domenica. Cento euro a settimana la paga con lo straordinario notturno e domenicale di cinquanta euro ogni dieci ore. I più giovani se ne fanno anche quindici. Magari tirando coca. Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in un’auto che poi fanno cadere in scarpate o dirupi, non dimenticando di incendiarla prima. (…) Quando il mastro è assente spesso il panico attanaglia gli operai. E allora si prende il ferito grave, il quasi cadavere e lo si lascia quasi sempre vicino a una strada che porta all’ospedale. (…) Chiunque prende parte alla scomparsa o all’abbandono del corpo quasi cadavere sa che lo stesso faranno i colleghi qualora dovesse accadere al suo corpo di sfracellarsi o infilzarsi. Sai per certo che chi ti è a fianco in caso di pericolo ti soccorrerà nell’immediato per sbarazzarsi di te, ti darà il colpo di grazia. E così si ha una specie di diffidenza nei cantieri. Chi ti è a fianco potrebbe essere il tuo boia, o tu il suo. Non ti farà soffrire, ma sarà colui che ti lascerà crepare da solo su un marciapiede o ti darà fuoco in un’auto.” (da Roberto Saviano, Gomorra, viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondatori, pag. 237-238).
ICConline - 2008
Politici ed economisti non sanno più come esprimere la gravità della situazione: “Sull’orlo del baratro”, “Una Pearl Harbor economica”, “Uno tzunami che si avvicina”, “Un 11 settembre della finanza”[1]… all’appello manca solo l’allusione al Titanic!
Che sta succedendo veramente? Di fronte alla tempesta economica che si scatena, ognuno esprime la propria angoscia attraverso numerose domande. Stiamo forse vivendo un nuovo crac come nel 1929? E come si siamo arrivati? Che si può fare per difendersi? Ed in che tipo di mondo viviamo?
Verso una degradazione brutale delle nostre condizioni di vita
Non bisogna farsi nessuna illusione. L’umanità subirà nei mesi a venire una terribile degradazione delle sue condizioni di vita a livello di tutto il pianeta. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha appena annunciato, nel suo ultimo rapporto, che “cinquanta paesi” andranno ad aggiungersi, “da qui all’inizio del 2009”, alla macabra lista dei paesi colpiti dalla fame. Tra questi, molti pesi dell’Africa, dell’America Latina, della zona caraibica e anche dell’Asia. In Etiopia, per esempio, dodici milioni di persone stanno già ufficialmente morendo di fame. In India ed in Cina, questi pretesi nuovi Eldorado capitalisti, centinaia di milioni di lavoratori saranno colpiti dalla miseria più nera. Anche negli Stai Uniti ed in Europa gran parte della popolazione sta cadendo in una miseria intollerabile.
Saranno toccati tutti i settori e i licenziamenti riguarderanno milioni di lavoratori negli uffici, nelle banche, le fabbriche, gli ospedali, nei settori di alta tecnologia come l’elettronica, nel settore automobilistico, l’edilizia e la distribuzione. Ci sarà un’esplosione della disoccupazione! Già dall’inizio del 2008 e soltanto negli Stati Uniti, circa un milione di lavoratori è stato gettato sulla strada. E questo è solo l’inizio. Questa ondata di licenziamenti significa che alloggiare, curarsi e nutrirsi sarà sempre più difficile per le famiglie operaie. Ciò significa pure che per i giovani di oggi questo mondo capitalista non ha più nessun avvenire da offrire loro!
Quelli che ci mentivano ieri continuano a mentirci oggi!
I dirigenti del mondo capitalista, i politici, i giornalisti agli ordini della classe dominante non cercano neanche più di nasconderla questa prospettiva catastrofica. D’altra parte come potrebbero? Le più grandi banche del mondo sono in stato di fallimento e se sono sopravvissute è solo grazie alle centinaia di miliardi di dollari e di euro iniettati dalle banche centrali, vale a dire dagli Stati. Per le Borse d’America, d’Asia e d’Europa, é una caduta senza fine: queste hanno perduto 25.000 miliardi di dollari dal gennaio 2008, ovvero l’equivalente di due anni della produzione totale degli Stati Uniti. Tutto ciò mostra il vero panico che si è impadronito della classe dominante, ovunque nel mondo. Se oggi le Borse crollano, ciò non è dovuto solamente alla situazione catastrofica delle banche, ma anche al fatto che i capitalisti si aspettano una caduta vertiginosa dei loro profitti in seguito a un ripiegamento massiccio dell’attività economica, ad una esplosione dei fallimenti di impresa, ad una recessione molto peggiore di tutte quelle che abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi quaranta anni.
I principali dirigenti del mondo, Bush, Merkel, Brown, Sarkozy, Hu Jintao moltiplicano gli incontri ed i “vertici” (G4, G7, G8, G16, G27, G40) per cercare di limitare i danni, di impedire il peggio. Per metà novembre si pianifica un nuovo “vertice” destinato, secondo alcuni, a “rifondare il capitalismo”. L’agitazione dei dirigenti del mondo ha uguali solo in quella dei giornalisti e degli “esperti”: televisione, radio e giornali … la crisi è onnipresente nei mass media.
C’è da chiedersi il perché di un tale battage!
Di fatto, se la borghesia non può più nascondere lo stato disastroso della sua economia, essa cerca in compenso di farci credere che, in tutta questa storia, il sistema capitalista non è assolutamente da mettere in discussione, che si tratta semplicemente di lottare contro degli “sbandamenti” e degli “eccessi”. Che è colpa degli speculatori! Che è colpa dell’avidità degli “impresari mascalzoni”! Che è colpa dei paradisi fiscali! O ancora del “liberalismo”!
Per farci ingoiare questa favola, hanno chiamato alla riscossa tutti gli imbonitori professionali. Gli stessi "specialisti" che ancora ieri affermavano che l’economia era sana, che le banche erano solide … si precipitano oggi alla televisione per riversare le loro nuove grosse menzogne. Gli stessi che ieri ci raccontavano che il "liberalismo" era LA soluzione, che lo Stato non doveva intervenire nell’economia, oggi fanno appello ai governi a intervenire ancora di più.
Più Stato e maggiore "moralità", e il capitalismo potrà ripartire ancora meglio di prima! Ecco la menzogna che vorrebbero farci bere!
Può il capitalismo superare la sua crisi?
La crisi che s’infrange oggi sul capitalismo mondiale non è cominciata dall’estate del 2007, con la crisi del settore immobiliare negli Stati Uniti. E’ infatti da più di quarant’anni che le recessioni si sono succedute le une alle altre: 1967, 1974, 1981, 1991, 2001. Sono ormai decenni che la disoccupazione è diventata una piaga permanente della società, che gli sfruttati subiscono degli attacchi crescenti contro le loro condizioni di vita. Perché?
Perché il capitalismo è un sistema che non produce in funzione dei bisogni umani ma per il mercato e il profitto. I bisogni non soddisfatti sono immensi ma non sono solvibili vale a dire che la grande maggioranza della popolazione mondiale non ha i mezzi per comprare le merci prodotte. Se il capitalismo è in crisi, se centinaia di milioni di esseri umani – e presto dei miliardi – sono gettati nella fame e in una miseria intollerabile, questo non è dovuto al fatto che questo sistema non produce abbastanza, ma al fatto che produce più merci di quante riesca a vendere. Ogni volta, la borghesia se ne esce temporaneamente con un ricorso massiccio al credito e la creazione di un mercato artificiale. E’ per ciò che questi “rilanci” preparano sempre delle conseguenze più dolorose poiché, in fin dei conti, occorre pure rimborsare tutti questi crediti, fare fronte a tutti questi debiti. E’ esattamente quello che si passa oggi. Tutta la “favolosa crescita” di questi ultimi anni era esclusivamente basata sull’indebitamento. L’economia mondiale ha vissuto a credito e adesso che viene il momento di rimborsare, tutto crolla come un semplice castello di carte! Le convulsioni attuali dell’economia capitalista non sono dovute a una “cattiva gestione” dei dirigenti politici, alla speculazione dei “commercianti” o al comportamento irresponsabile dei banchieri. Tutti questi personaggi non hanno fatto che applicare le leggi del capitalismo e sono giustamente queste leggi che conducono questo sistema alla sua perdita. E’ per questo che le migliaia di miliardi iniettati sui mercati da tutti gli Stati e dalle loro Banche centrali non cambieranno niente. Anzi, peggio ancora, queste operazioni vanno ad aggiungere debiti su debiti, come se uno volesse spegnere un incendio buttandovi sopra della benzina! Attraverso queste misure disperate e sterili, la borghesia fa prova della sua impotenza. Tutti i suoi piani di salvataggio sono condannati, presto o tardi, al fallimento. Non vi sarà un vero rilancio dell’economia capitalista. Nessuna politica, di sinistra o di destra, potrà salvare il capitalismo perché questo sistema è minato da una malattia mortale e incurabile.
Allo sviluppo della miseria opponiamo la nostra lotta e la nostra solidarietà
Ovunque fioriscono i paragoni con il crac del 1929 e la Grande Depressione degli anni ’30. Le immagini di quell’epoca sono ancora impresse nella memoria: le interminabili fila di lavoratori disoccupati, i poveri che chiedono l’elemosina per avere semplicemente di che mangiare, le fabbriche disperatamente chiuse … Ma la situazione attuale è veramente identica? La risposta è chiaramente NO! In realtà è molto più grave, anche se il capitalismo, che ha imparato dall’esperienza, è riuscito ad evitarsi un crollo brutale grazie all’intervento degli Stati e ad una migliore coordinazione internazionale!
Ma c’è ancora un’altra differenza. La terribile depressione degli anni ’30 sfociò nella Seconda Guerra mondiale. La depressione attuale sfocerà in una terza guerra mondiale? La fuga in avanti nella guerra è la sola risposta che la borghesia sia capace di dare alla crisi insormontabile del capitalismo. E la sola forza che si può opporre a questa è il suo nemico irriducibile, la classe operaia mondiale. Negli anni ’30 la classe operaia aveva subito una terribile sconfitta in seguito all’isolamento della rivoluzione del 1917 in Russia e si era di conseguenza lasciata imbrigliare nel massacro imperialista. Ma il proletariato di oggi ha dato prova, a partire dalle grandi lotte iniziate nel 1968, di non essere disposto a versare di nuovo il suo sangue per i suoi sfruttatori. In questi 40 anni ha potuto subire sconfitte spesso dolorose, ma è ancora in piedi e soprattutto, dal 2003, si batte sempre di più in tutto il mondo. Lo scatenamento della crisi del capitalismo provocherà per centinaia di milioni di lavoratori, sia nei paesi sottosviluppati che avanzati, sofferenze terribili, disoccupazione, miseria fame, ma provocherà necessariamente anche delle lotte di resistenza da parte degli sfruttati.
Queste lotte sono indispensabili per limitare gli attacchi economici della borghesia, per impedirle di gettare i proletari nella miseria assoluta. Ma è chiaro che non potranno impedire al capitalismo di sprofondare sempre più nella crisi. Ed è per questo che le lotte di resistenza della classe operaia rispondono ad un’altra necessità ben più importante. Esse permettono agli sfruttati di sviluppare la loro forza collettiva, la loro unità, la loro solidarietà, la loro coscienza in vista della sola alternativa che possa dare un avvenire all’umanità: il rovesciamento del sistema capitalista e la sua sostituzione con una società che funzioni su delle basi completamente diverse. Una società non più basata sullo sfruttamento ed il profitto, sulla produzione per un mercato, ma basata sulla produzione per i bisogni umani; una società diretta dai lavoratori stessi e non da una minoranza di privilegiati: la società comunista.
Per ottant’anni, tutti i settori della borghesia, di destra come di sinistra, si sono dati da fare per presentare come “comunisti” i regimi che dominavano l’Europa dell’Est e la Cina e che invece non erano altro che una forma particolarmente barbara di capitalismo di Stato. Bisognava convincere gli sfruttati che era inutile sognare un mondo diverso, che non c’era un altro orizzonte oltre al capitalismo. Oggi che il capitalismo dà prova del suo fallimento storico, è la prospettiva della società comunista che deve animare con sempre maggior forza le lotte del proletariato.
Di fronte agli attacchi di un capitalismo agli sgoccioli, per mettere fine allo sfruttamento, alla miseria, alla barbarie della guerra del capitalismo:
Viva le lotte della classe operaia mondiale!
Proletari di tutti i paesi, unitevi!
Corrente Comunista Internazionale (25/10/2008)[1] Rispettivamente: Paul Krugman, ultimo premio Nobel per l’economia, Warren Buffet, investitore americano soprannominato “l’oracolo d’Omaha” tanto è rispettata l’opinione di questo miliardario della piccola città americana del Nebraska dal mondo finanziario, Jacques Attali, economista e consigliere del presidente francese Nicolas Sarkozy e Laurence Parisot, presidente dell’associazione del padronato francese.
“Bisogna rifondare il capitalismo su basi etiche” proclama oggi Sarkozy. La signora Merkel insulta gli speculatori. Zapatero punta il dito accusatorio contro i “fondamentalisti del mercato” che pretendono che quest’ultimo sia in grado di auto controllarsi senza intervento dello Stato. Tutti ci dicono che questa crisi dimostra l’insuccesso del capitalismo “neoliberale” e che la speranza dovrebbe essere posta oggi in un “altro capitalismo”. Un capitalismo nuovo basato sulla produzione e non sulla finanza, staccato dallo strato parassitario degli squali finanzieri e speculatori i quali sarebbero spuntati come funghi col pretesto della “deregulation”, “del meno Stato”, della prevalenza dell’interesse privato su “l’interesse pubblico”, ecc. A sentirli, non è il capitalismo che starebbe crollando ma solo una sua particolare forma. I gruppi della sinistra del capitale (stalinisti, trotskisti, alter-mondialisti...) esultando proclamano: “I fatti ci danno ragione. A provocare questi disastri sono state le derive neoliberiste!” Ci ricordano la loro opposizione alla “globalizzazione” ed al “liberalismo selvaggio”, esigendo misure di controllo statale per combattere le multinazionali, gli speculatori ed altre canaglie che avrebbero provocato questo disastro per la loro eccessiva sete di profitti. Proclamano che la soluzione passa attraverso “il socialismo”, un socialismo che consisterebbe nel fatto che lo Stato dovrebbe controllare “i capitalisti” a beneficio del “popolo” e della “povera gente”.
Ma queste spiegazioni sono valide? È possibile un “altro capitalismo”? L’intervento benefattore dello Stato potrebbe essere una soluzione per il capitalismo in crisi? Cercheremo di dare degli elementi di risposta a queste questioni di scottante attualità. Ma prima di tutto è necessario chiarire una questione di fondo: il socialismo è una maggiore presenza dello Stato?
Chavez, il notorio paladino del “socialismo del 21° secolo”, sta facendo sorprendenti dichiarazioni: “Il compagno Bush sta prendendo misure che avrebbe preso il compagno Lenin. Gli Stati Uniti diverranno un giorno socialisti, perché i popoli non si suicidano”. Per una volta (senza che ciò costituisca un precedente) siamo d’accordo con Chavez. Innanzitutto sul fatto che Bush sia un suo degno compagno. In effetti, anche se sono rivali nell’accanita competizione sul piano imperialista, essi si ritrovano degni compari nella difesa del capitalismo e nell’uso dello Stato per salvare il sistema. E siamo anche d’accordo nel dire che “gli Stati Uniti diverranno un giorno socialisti”, anche se questo socialismo non avrà niente a che vedere con quello che preconizza Chavez.
Il vero socialismo difeso dal marxismo e dai rivoluzionari lungo tutta la storia del movimento operaio non ha niente a che vedere con lo Stato. Il socialismo è soprattutto la negazione dello Stato. L’edificazione di una società socialista richiede come prima cosa la distruzione dello Stato in tutti i paesi. Dopo si apre un periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, essendo impossibile un passaggio dall’oggi al domani. Questo periodo di transizione dovrà ancora essere assoggettato alla legge del valore che è tipicamente capitalista in quanto la borghesia non sarà completamente estinta e, affianco al proletariato, sussisteranno ancora strati non sfruttatori: contadini, artigiani, piccola-borghesia[1]. Come prodotto di questa situazione di transizione, lo Stato continuerà ad essere necessario ma non avrà più niente a che vedere con gli altri Stati della storia; esso, secondo la formulazione di Engels, sarà un semi-Stato, uno Stato in via d’estinzione. Per avanzare verso il comunismo in una situazione storica di transizione, periodo complesso ed instabile, pieno di pericoli e contraddizioni, il proletariato dovrà continuare ad attaccare questo semi-Stato, fino a smantellarlo completamente pezzo per pezzo. Il processo rivoluzionario dovrà passare per queste condizioni sotto pena di bloccarsi e di vedere allontanarsi, se non perdere definitivamente, la prospettiva del comunismo.
Friedrich Engels, uno tra quelli che più ha affrontato questa questione all’interno del movimento operaio, è stato molto chiaro su questo aspetto: “Sarebbe ora di farla finita con tutte queste chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune, che non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci hanno abbastanza rinfacciato lo “Stato popolare”, benchè già il libro di Marx contro Proudhon e in seguito il Manifesto comunista dicano esplicitamente che con l’instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare. Non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno “Stato popolare libero” è pura assurdità: finchè il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dello schiacciamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere”[2].
L’intervento dello Stato per regolare l’economia, metterla al “servizio dei cittadini”, ecc., non ha niente a che vedere col socialismo. Lo Stato non sarà mai “al servizio di tutti i cittadini”. Lo Stato è un organo della classe dominante ed è strutturato, organizzato e configurato per difendere la classe dominante e mantenere il sistema di produzione che la sostiene. Lo Stato “più democratico del mondo” non sarà meno Stato al servizio della borghesia che difenderà, con le unghie ed i denti, il sistema di produzione capitalista. Inoltre l’intervento specifico dello Stato sul terreno economico ha lo scopo specifico di preservare gli interessi generali della riproduzione del capitalismo e della classe capitalistica. Engels nel suo libro L’Anti-Dühring, afferma con chiarezza: “lo Stato moderno a sua volta non è che l’organizzazione di cui la società borghese si è dotata per mantenere le condizioni esterne generali del modo di produzione capitalista contro gli abusi che vengono sia dai lavoratori che dagli stessi capitalisti isolati. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica: lo Stato dei capitalisti non è altro che il capitalista collettivo idealizzato. Più fa passare le forze produttive nella sua proprietà, più nei fatti diviene il capitalista collettivo, e più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non è soppresso, è spinto al contrario al suo culmine”.
Durante tutto il 20° secolo, con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza[3], lo Stato è stato il suo bastione principale per affrontare l’esacerbarsi delle sue contraddizioni sociali, belliche ed economiche. I secoli 20° e 21° sono caratterizzati dalla tendenza universale al capitalismo di Stato. Questa tendenza non risparmia alcun paese, qualunque sia il suo regime politico. In linea di massima troviamo due modi con cui viene realizzato il capitalismo statale:
- La nazionalizzazione più o meno totale dell’economia (quella esistita in Russia e che esiste ancora in Cina, a Cuba, nella Corea del nord ...);
- La combinazione tra la burocrazia statale e la grande borghesia privata (come negli Stati Uniti o in Spagna, per esempio).
In entrambi i casi è sempre lo Stato che controlla l’economia. Nel primo lo Stato ostenta la sua proprietà di gran parte dei mezzi di produzione e dei servizi. Nel secondo esso interviene nell’economia attraverso una serie di meccanismi indiretti: imposte, fisco, acquisti di imprese[4], fissando i tassi d’interesse bancari, regolamentando i prezzi, attraverso norme di contabilità, agenzie statali di concertazione, di ispezione, di investimenti, ecc.[5]
Ci martellano con due menzogne gemelle: la prima è che il socialismo si identificherebbe con il socialismo di Stato, mentre la seconda è l’identificazione del capitalismo con il liberismo, con la deregolamentazione ed il libero mercato. Nel suo periodo storico di decadenza (secoli XX e XXI), il capitalismo non avrebbe potuto sussistere senza gli artigli onnipresenti dello Stato. Il “libero” mercato è guidato, controllato e sostenuto dalla ferrea mano dello Stato. Adam Smith[6] diceva che il mercato è controllato da una “mano invisibile”. Questa mano invisibile è lo Stato[7]! Quando Bush si precipita a salvare le banche e le compagnie assicurative non fa niente di eccezionale, né sta prendendo delle misure “che prenderebbe il compagno Lenin”. Semplicemente fa il lavoro di controllo e regolamentazione dell’economia del quale quotidianamente si incarica lo Stato.
In altri testi abbiamo già esposto la nostra posizione sulle ragioni della crisi[8]
Dopo un periodo di relativa prosperità dal 1945 al 1967, il capitalismo mondiale è ricaduto in crisi ricorrenti, episodi di convulsione si sono susseguiti un dopo l’altro come terremoti spingendo l’economia mondiale sull’orlo dell’abisso. Ricordiamo la crisi del 1971 che obbligò a rendere indipendente il dollaro dal valore dell’oro; quella del 1974-75 che sfociò in un’inflazione incontrollabile del più del 10%; la crisi del debito del 1982, quando il Messico e l’Argentina si dichiararono in sospensione di pagamento; l’autunno di Wall Street nel 1987; la crisi del 1992-93 che ha comportato la caduta di numerose valute europee; quella del 1997-98 che riduce a mal partito il mito delle tigri e dei dragoni asiatici; quella dell’esplosione della bolla Internet nel 2001...
“… quello che caratterizza globalmente il 20° e il 21° secolo è la tendenza alla sovrapproduzione – temporanea e facilmente superabile nel 19° – che diventa cronica, sottomettendo l’economia mondiale a un rischio quasi permanente di instabilità e distruzione. Inoltre la concorrenza – tratto congenito del capitalismo – diventa estrema e, scontrandosi con un mercato mondiale che tende costantemente alla saturazione, perde il suo carattere di stimolo all’espansione mentre sviluppa il suo carattere negativo e distruttore di caos e scontro”[9]. Le differenti tappe delle diverse crisi che si sono susseguite durante gli ultimi quarant’anni sono il prodotto di questa sovrapproduzione cronica e della competizione esacerbata. Gli Stati hanno tentato di combattere i suoi effetti usando dei palliativi, primo fra tutti l’indebitamento. Gli Stati più forti hanno in tal modo respinto le conseguenze più nefaste “esportando” i suoi peggiori effetti sui paesi più deboli[10].
La politica adottata negli anni ‘70 è stata quella, classica, dell’indebitamento statale rafforzato da un intervento aperto dello Stato nell’economia: nazionalizzazioni, controllo delle imprese, supervisione rigida del commercio estero, ecc. Cioè una politica “keynesiana”[11]. È necessario ricordare agli smemorati che vogliono imporci il falso dilemma neoliberismo/intervento statale che all’epoca tutti i partiti, di destra come di sinistra, erano “keynesiani” e peroravano i benefici di un “liberal-socialismo” (come ad esempio il modello svedese socialdemocratico). Questa politica ha avuto come disastrose conseguenze lo sviluppo dell’inflazione e dunque la destabilizzazione dell’economia e la tendenza alla paralisi del commercio internazionale. Per porvi rimedio è stato allora adottato durante gli anni ‘80 quella che fu retoricamente battezzata “la rivoluzione neoliberale” le cui figure prominenti sono state la Signora di ferro Thatcher in Gran Bretagna ed il cowboy Reagan negli Stati Uniti. Queste politiche statali avevano due obiettivi:
- eliminare come zavorra un’importante parte dell’apparato produttivo non redditizio, cosa che comportò un’ondata di licenziamenti senza precedenti organizzati e pianificati dallo Stato, innescando in tal modo un processo di deterioramento irreversibile delle condizioni di vita dei lavoratori: inizio della precarietà, smantellamento delle prestazioni sociali, ecc.[12];
- attutire il debito che aveva strangolato lo Stato attraverso politiche di privatizzazione, di subappalto dei servizi e di incarichi (“esternalizzazione”) e di rinviare sistematico del debito pubblico verso gli individui, le banche, gli speculatori, (“titolizzazione”). Questo seconda tappa delle politiche “neoliberali” tendeva in particolare ad estendere il debito dello Stato al settore finanziario. Il mercato venne inondato da ogni genere di titoli, obbligazioni, buoni e altro, che presero proporzioni mostruose, scatenando la speculazione. Da allora l’economia mondiale sembra un immenso casinò dove governanti, banchieri ed esperti “broker” (gli intermediari) si lanciano in operazioni complicate per trovare profitti spettacolari ed immediati... al prezzo di terribili sequele di fallimenti ed instabilità.
Il fatto che “l’iniziativa privata” incoraggerebbe il “neoliberismo” è una perfetta frottola: i suoi meccanismi non sono nati spontaneamente dal mercato ma sono stati il frutto e la conseguenza di una politica economica statale che mirava a sopprimere l’inflazione. Tale politica non ha fatto che rinviarla nel futuro pagandone fortemente il prezzo: attraverso oscuri meccanismi finanziari, i debiti si sono trasformati in crediti speculativi ad alto tasso di interesse, determinando in un primo tempo succosi profitti ma di cui era necessario sbarazzarsi il più presto possibile perché, prima o poi, nessuno avrebbe più potuto pagarli... Questi crediti sono stati in un primo tempo le più attraenti “star” del mercato disputate da le banche, speculatori e governi... ma rapidamente si sono trasformati in crediti a rischio, totalmente deprezzati e da cui bisognava allontanarsi come ci si allontana dalla peste.
Il fallimento di questa politica è stato rivelato dal crac brutale di Wall Street del 1987 e la caduta delle casse di risparmio americane nel 1989. Questa politica “neoliberale” è continuata per tutti gli anni 90 ma, in considerazione delle montagne di debiti che pesavano sull’economia, era necessario alleggerire i costi di produzione attraverso politiche di sviluppo della produttività e... attraverso le delocalizzazioni, consistenti nell’esportare interi pezzi della produzione verso paesi come la Cina, con i suoi salari di miseria e le sue condizioni di lavoro spietato, cosa che ha avuto come conseguenza un aggravamento generale e considerevole delle condizioni di vita di tutto il proletariato mondiale. Il concetto di “globalizzazione” si è sviluppato in questo momento: i grandi Stati hanno imposto ai piccoli la soppressione delle barriere protezionistiche, inondandoli poi di merci per alleviare la propria sovrapproduzione cronica.
Ancora una volta, queste “medicine” non hanno fatto che aggravare il male e la crisi dei dragoni e delle tigri asiatiche del 1997-98 ha dimostrato l’inefficienza di queste politiche così come i numerosi pericoli in esse contenute. Ma il capitalismo a questo punto ha tirato fuori dal suo cilindro il classico coniglio, il nuovo secolo aveva apportato quella che è stata chiamata la “net-economy”, cioè una speculazione ad oltranza sulle imprese informatiche ed Internet. Rapidamente, fin dal 2001, questa si è risolta in un fragoroso fallimento. Il capitalismo tenta allora un’altra magia e dal 2003 si butta in una speculazione immobiliare senza freni, riempiendo il pianeta di costruzioni ed immobili (accelerando en passant i problemi ambientali) provocando una terribile fiammata del prezzo degli immobili. Il tutto è sfociato nel... terribile fiasco attuale!
… o il capitalismo?
La crisi presente può essere paragonata ad un gigantesco campo minato. La prima mina ad esplodere è stata la crisi dei subprime durante l’estate del 2007; all’inizio si era convinti che il problema sarebbe rientrato attraverso il versamento di alcuni miliardi. Non era stato sempre così? Ma il crollo degli istituti bancari iniziato a fine dicembre ha costituito la nuova mina che ha mandato in frantumi tutte queste illusioni. L’estate 2008 è stata vertiginosa, con una successione di fallimenti di banche negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna. Non siamo arrivati ad ottobre ed un’altra delle illusioni con le quali la borghesia voleva mitigare le nostre preoccupazioni è andata in fumo: si diceva che i problemi erano immensi negli Stati Uniti ma che l’economia europea non aveva niente da temere. Attualmente però le mine cominciano ad esplodere anche nell’economia europea a partire dal suo più potente Stato, la Germania, che senza reagire contempla la caduta della sua principale banca ipotecaria.
Da dove vengono queste brutali esplosioni mentre tutto sembra “calmo e sereno”? Esse sono il risultato di 40 anni di accompagnamento della crisi, attraverso palliativi che se da un lato sono riusciti a celare i problemi e a mantenere più o meno in piedi un sistema alle prese con problemi insolubili, dall’altro non solo non hanno risolto niente, ma al contrario, hanno aggravato le contraddizioni del capitalismo fino ai suoi limiti estremi ed ora, con questa crisi, le conseguenze vengono fuori una dopo l’altra.
Questa è una falsa consolazione:
- I precedenti episodi della crisi sono stati “risolti” dalle banche centrali con l’immissione di alcuni miliardi di dollari (un centinaio durante la crisi delle Tigri asiatiche nel 1998). In epoca più recente, da circa un anno e mezzo, gli Stati hanno investito 3.000 miliardi di dollari senza che si sia vista una via d’uscita[13].
- Fino a qualche tempo fa i peggiori effetti della crisi sono stati circoscritti ad alcuni paesi limitrofi (Sud-est asiatico, Messico, Argentina, Russia), mentre oggi l’epicentro dei peggiori effetti è situato proprio nei paesi centrali: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania... e obbligatoriamente si irradiano nel resto del mondo.
- In generale, gli episodi precedenti, ad eccezione di quelli della fine degli anni ‘70, erano poco duraturi, era sufficiente un periodo di 6 mesi - un anno per vedere la “fine del tunnel”. Oramai è da un anno e mezzo che viviamo questa crisi e non vediamo il minimo barlume. Al contrario, ogni giorno la crisi è più grave e il tracollo più profondo!
- Oltretutto, questa crisi sta lasciando il sistema bancario mondiale molto indebolito. Il meccanismo del credito si ritrova paralizzato a causa della sfiducia generalizzata, nessuno sa veramente se gli attivi presentati dalle banche (e le imprese) nei loro bilanci siano veritieri. Gli immobili, le proprietà sono deprezzate. Quanto agli attivi finanziari, questi sono in realtà, secondo l’espressione dello stesso Bush, degli “attivi tossici”, carta che rappresenta incredibili debiti irrecuperabili. Il capitalismo di Stato “liberale” non può funzionare se non ha banche forti e solide. Attualmente l’economia capitalista si è talmente arroccata alla terapia del debito che, se il sistema del credito si dimostra incapace di portare un abbondante flusso di soldi, la produzione rimarrà paralizzata. Il rubinetto del credito resta chiuso nonostante le enormi somme stanziate dai governi alle banche centrali. Nessuno vede chiaramente come si possa recuperare un sistema che fa acqua da tutte le parti e che perde organi vitali come le banche una dopo l’altra. La folle corsa tra gli Stati europei per vedere chi tra loro possa dare più garanzie ai depositi bancari è un sinistro augurio che rivela solo una ricerca disperata di fondi. Questa eccessiva offerta di “garanzie” significa che proprio nulla è garantito!
Le cose sono dunque chiare: oggi il capitalismo conosce la sua più grave crisi economica. La storia si sta accelerando brutalmente. Dopo 40 anni di sviluppo lento e non lineare della crisi, questo sistema sta per cadere in una recessione terribile ed estremamente profonda dalla quale non si alzerà indenne. Ma soprattutto, da ora in poi, le condizioni di vita di miliardi di persone sono colpite duramente e in maniera durevole. La disoccupazione colpisce molte famiglie, in meno di un anno 600.000 in Spagna, 180.000 ad agosto 2008 negli Stati Uniti. L’inflazione colpisce i prodotti alimentari di base e la fame devasta il mondo ad una velocità vertiginosa da circa un anno. I tagli ai salari, i blocchi parziali di produzione con gli attacchi che conseguono, i rischi che pesano sulle pensioni... Non c'è il minimo dubbio che questa crisi avrà ripercussioni di una brutalità straordinaria. Noi non sappiamo se il capitalismo ne uscirà, ma ciò di cui siamo fortemente convinti è che milioni di esseri umani non ne usciranno. Il “nuovo” capitalismo che “verrà fuori” da questa crisi sarà una società molto più povera, con molti proletari che verranno spinti nella precarietà, in un contesto di confusione e caos. Ognuna delle convulsioni precedenti, durante gli ultimi 40 anni, si è conclusa con un deterioramento delle condizioni di vita della classe operaia e con amputazioni più o meno ampie dell’apparato produttivo; il nuovo periodo che si apre porterà questa tendenza ad un livello ben più elevato.
Il capitalismo non getterà la spugna. Mai una classe sfruttatrice ha riconosciuto la realtà del suo fallimento ed ha ceduto il potere di sua volontà. Ma possiamo constatare che dopo più di cento anni di disastri e convulsioni, tutte le politiche economiche con le quali lo Stato capitalista ha tentato di risolvere i suoi problemi non solo sono fallite, ma hanno maggiormente aggravato i problemi. Non possiamo aspettarci nulla dalle pretese “nuove soluzioni” che il capitalismo sta cercando per “venire fuori dalla crisi”. Possiamo essere sicuri che esse ci costeranno sempre più sofferenze e miseria e dobbiamo prepararci a conoscere nuove convulsioni ancora più violente.
È perciò utopistico avere fiducia in tutto ciò che ci viene presentato come una “via d’uscita” dalla crisi del capitalismo. Non c’è alcuna via d’uscita. Ed è il sistema intero ad essere incapace di celare il suo fallimento. Essere realista significa partecipare ad aiutare il proletariato a riprendere fiducia in se stesso, a riprendere fiducia nella forza che gli può dare la sua lotta come classe ed a costruire pazientemente attraverso le sue lotte, i suoi dibattiti, il suo sforzo di auto-organizzazione, la forza sociale che gli permetterà di erigersi, di fronte all’attuale società, in alternativa rivoluzionaria capace di rovesciare questo sistema putrescente.
CCI (8 ottobre 2008)
(tradotto da Acciòn Proletaria, organo della CCI in Spagna)
[1] Non possiamo qui affrontare nel dettaglio questa questione. Per approfondimenti ulteriori leggi sul nostro sito: “La prospettiva del comunismo”, “Il comunismo non è un bell’ideale, ma è all’ordine del giorno della storia”, “Il comunismo non è un bell’ideale ma una necessità materiale”, in inglese, francese e spagnolo.
[2] Engels, Lettera ad August Bebel, 1875.
[3] La Prima Guerra mondiale (1914) mette fine al carattere progressista del capitalismo e determina la sua trasformazione in un sistema che non porta che guerre, crisi e barbarie senza fine. Vedi la Revue internationale n. 134.
[4] Per farsene un’idea, negli Stati Uniti, presentati come La Mecca del neoliberismo, lo Stato è il principale cliente delle imprese, e quelle informatiche sono obbligate ad inviare al Pentagono una copia dei programmi che creano e dei componenti di hardware che costruiscono.
[5] È una frottola dire che l’economia americana non è regolamenta, che il suo Stato ne è fuori, ecc.: la borsa è controllata da un’agenzia federale specifica, la banca è controllata dalla SEC, la FED determina la politica economica attraverso meccanismi come i tassi d’interesse.
[6] “Adam Smith (5 giugno 1723 - 17 luglio 1790) era un filosofo ed economista scozzese illuminista. Esso rimane nella storia come il padre della scienza moderna e la sua opera principale, Sulla ricchezza delle nazioni, è uno dei testi di base del liberismo economico. Professore di filosofia all’università di Glasgoow, dedicò dieci anni della sua vita a questo testo che ha inspirato i grandi economisti che vennero dopo, coloro che Karl Marx chiamerà i “classici” e che porranno i grandi principi del liberismo economico” (wikipedia.org).
[7] Il flagello della corruzione non è altro che la prova evidente dell’onnipresenza dello Stato. Negli Stati Uniti come in Spagna o in Cina, l’Abc della cultura di impresa è che gli affari possono prosperare solo passando dagli uffici della burocrazia statale ed ingrassando gli uomini politici del momento.
[8] Vedi “Stati Uniti, locomotiva dell’economia mondiale … verso il baratro” Revue internationale n. 133 e gli altri articoli sulla crisi finanziaria su questa stessa pagina web
[9] “Esiste una via d'uscita alla crisi?” Rivoluzione Internazionale n.156
[10] Nella serie di articoli “30 anni di crisi capitalista”, pubblicati nei nostri 96, 97 e 98 nella Rivista Internazionale 96,97 e 98 (in francese, inglese e spagnolo) analizziamo le tecniche ed i metodi con cui il capitalismo di Stato ha accompagnato questa caduta nel baratro per rallentarla, arrivando alla situazione attuale.
[11] Keynes è particolarmente celebre per i suoi incoraggiamenti ad una politica di interventismo statale, nel quale lo Stato impiega misure fiscali e valutarie avente per obiettivo quello di fermare gli effetti sfavorevoli dei periodi di recessione ciclici dell’attività economica. Gli economisti ritengono che questi sia stato uno dei fondatori della macroeconomia moderna.
[12] Ricordiamo che, contrariamente a quanto affermano i bugiardi di ogni risma, questa politica non è stata una caratteristica dei governi “neoliberali” ma fu approvata al cento per cento dai governi “socialisti” o “progressisti”. In Francia il governo Mitterrand, sostenuto dai Comunisti fino al 1984 adottò misure dure come quelle di Reagan e della Thatcher. In Spagna il governo “socialista” di González organizzò una riconversione che determinò la scomparsa di un milione di posti di lavoro.
[13] Inoltre è stupido pensare che questo diluvio di miliardi non avrà conseguenze. Al contrario prepara un futuro ancora più nero. Lo scetticismo generalizzato con cui è stato accolto il più gigantesco piano di salvataggio finanziario della storia (700miliardi di dollari!) attraverso il “piano Paulson” dimostra che il rimedio sta creando un nuovo campo minato, più potente e devastante nel sottosuolo di una economia capitalista già malmenata e il cui crollo, alla fine, sarà inevitabile.
Ecco un articolo ripreso da Internationalism, sezione della CCI negli Stati Uniti, che denuncia la propaganda menzognera che ha accompagnato l’elezione di Obama.
La tempesta mediatica intorno alla campagna elettorale è infine cessata dopo circa due anni. I mezzi di comunicazione agli ordini della classe dominante ci dicono che si tratta delle elezioni più importanti della storia degli Stati Uniti, che dimostrano ancora una volta la potenza e la superiorità della “democrazia”. Questa propaganda grida alto e forte non solamente che abbiamo per la prima volta nella storia americana un presidente afro-americano, ma che – soprattutto - la vittoria di Obama porta con sé un profondo desiderio di cambiamento. Ci dicono ancora che il “popolo ha parlato” e che “Washington ha ascoltato”, grazie all’opera miracolosa delle urne. Ci dicono anche che l’America ha già da adesso superato il razzismo e che è diventata una vera terra della fratellanza. Così, oggi, Obama è diventato presidente. Ma che significa ciò nella realtà? Obama ha promesso il cambiamento, ma questa promessa non è altro che un’illusione. Tutta questa campagna è stata solo una menzogna ipocrita, che si è servita delle speranze di una popolazione, e soprattutto di una classe operaia terribilmente provata dalla miseria e dalla guerra.
I veri vincitori di queste elezioni non sono i “Joe l’idraulico”, simbolo de “l’Americano medio” più di quanto non lo siano gli Afro-americani che fanno parte della classe operaia americana, quanto piuttosto la borghesia americana e i suoi rappresentanti. Non c’è dubbio che gli attacchi incessanti che si sono finora abbattuti sugli operai non cesseranno. Così la miseria continuerà ad aggravarsi inesorabilmente. Peraltro Obama non è stato neanche un candidato della “pace”. La sua critica essenziale verso Bush riguarda l’impantanamento in Iraq e la sua politica che ha lasciato l’imperialismo americano incapace di rispondere in maniera appropriata alle sfide poste alla sua dominazione. Obama prevede di inviare più truppe in Afghanistan ed ha chiaramente dichiarato che gli Stati Uniti dovevano essere pronti a rispondere militarmente a qualunque minaccia contro i suoi interessi imperialisti. E’ stato inoltre estremamente critico di fronte all’incapacità dell’amministrazione Bush di rispondere al livello richiesto all’invasione della Georgia da parte della Russia l’estate scorsa. Ecco quale campione della pace si appresta a governare gli USA!
Durante i dibattiti presidenziali, Obama ha spiegato che lui era a favore di un rafforzamento del settore dell’educazione negli Stati Uniti, perché una forza lavoro ben educata era vitale per un’economia forte e che nessun paese può restare una potenza dominante senza un’economia forte. In altri termini, lui vede le spese per la scuola come una precondizione alla dominazione imperialista. Quale idealismo!
I lavoratori, i disoccupati non hanno dunque nulla da attendersi dalla venuta al potere di Obama. Per la classe dominante invece queste elezioni rappresentano un successo quasi al di là di ogni aspettativa.
Anzitutto queste hanno permesso di restaurare la vecchia facciata dell’elettoralismo e del mito democratico, che avevano subito un tracollo dopo il 2000 e che avevano condotto ad un sentimento di delusione nei confronti del “sistema” in tantissime persone. L’euforia postelettorale – espressa ad esempio dalla gente che ballava nelle strade per salutare la vittoria di Obama – è una testimonianza dell’estensione della vittoria politica della borghesia. L’impatto di queste elezioni è paragonabile alla vittoria ideologica che si è espressa subito dopo l’ 11 settembre 2001. Subito dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle infatti la borghesia aveva fatto profitto dell’isterismo nazionalista che si era prodotto per lanciare la classe operaia nelle braccia dello Stato borghese. Oggi, la speranza nella democrazia e nella magia di un leader carismatico fa sprofondare larghi settori di popolazione nell’illusione che esista uno Stato protettore. Tra la popolazione di colore il peso di questa euforia è particolarmente pesante; esiste attualmente une convinzione largamente diffusa secondo cui la minoranza oppressa avrebbe preso il potere. I mass-media borghesi celebrano anche il superamento in America del razzismo, cosa che è perfettamente falsa e anche ridicola. La popolazione nera degli Stati Uniti fa parte dei settori più sfruttati e più disillusi della popolazione.
A livello internazionale, la borghesia ha beneficiato quasi immediatamente di una presa di distanze della nuova amministrazione rispetto agli errori del regime di Bush sulla politica imperialista e di un’apertura opportuna verso il ristabilimento dell’autorità politica, della credibilità e della leadership dell’America nell’arena internazionale.
Al livello della politica economica, gli sforzi della nuova amministrazione Obama per mettere in opera le necessarie misure di capitalismo di Stato allo scopo di consolidare il sistema di oppressione e di sfruttamento si sviluppano ad un livello ineguagliato. Se da oggi i governatori di tutti gli Stati, come dello Stato federale, attaccano i servizi e i programmi sociali a causa della crisi economica, Obama non promette niente di meglio per il futuro. Egli è al contrario il primo avvocato della necessità di sostenere o rimettere in sesto... le più grandi imprese, le banche e le compagnie di assicurazioni, e di farle finanziare attraverso degli ulteriori sacrifici de... la classe operaia!
Malgrado l’ebbrezza prodotta dal suo successo, cosciente del fatto che essa non potrà mettere in opera i cambiamenti promessi durante la campagna elettorale, la borghesia sviluppa già una campagna in modo da “temprare l’entusiasmo”. Si cominciano così a sentire delle affermazioni secondo cui “Obama non può che rimettere ordine nella politica catastrofica e disonesta di Bush”, e che “vi è una eredità degli errori del passato”, o ancora che “il cambiamento non verrà immediatamente”, “i sacrifici saranno necessari”.
Di fronte a tutto ciò, dobbiamo ricordare le posizioni storiche della nostra classe:
L’euforia attuale non può che essere di breve durata. I programmi di austerità che ogni Stato dell’Unione così come quello centrale devono mettere in moto chiamano necessariamente ad uno sviluppo della lotta di classe. Il prevedibile fallimento dell’amministrazione Obama nel realizzare i “cambiamenti promessi”, un miglioramento delle condizioni di vita e un “programma più sociale”, condurrà inevitabilmente alla delusione e allo sviluppo di un malcontento ancora più forte all’interno della classe dei lavoratori.
Internationalism, organo della CCI negli Stati Uniti (11 novembre 2008)
Nella prima parte di questo articolo, abbiamo tentato di capire che cosa ha scatenato l’attuale crisi economica. Abbiamo visto che essa ha rappresentato solo un nuovo episodio, anche se particolarmente grave, della lenta agonia del capitalismo decadente. In particolare, abbiamo dimostrato che il capitalismo per sopravvivere ha fatto ricorso ad una sorte di droga: l’indebitamento. “L’indebitamento è per il capitalismo quello che l’eroina è per il tossicodipendente. La droga del debito fa si che il capitalismo si mantenga ancora in piedi [...]. Con la droga, esso raggiunge momenti d’euforia [...] ma, sempre più frequentemente, appaiono [...] dei periodi di convulsioni e di crisi, come quella che stiamo vivendo dall’estate 2007. Nella misura in cui si aumentano le dosi, la droga ha un effetto minore sul tossicodipendente. È necessario una dose maggiore per raggiungere uno stimolo sempre più piccolo. È questo che oggi capita al capitalismo!”. Sono però rimaste in sospeso due questioni: in che modo, nel concreto, il debito sostiene da 40 anni l’economia preparando ogni volta nuove crisi più violente? E soprattutto, esiste una via d’uscita alla crisi?
Dagli anni ‘70 il debito ha devastato i paesi del “terzo mondo” ai quali erano stati prestati soldi a profusione per trasformarli in sbocchi solvibili per le merci dei principali paesi industrializzati. Il sogno non è durato a lungo: nel 1982, prima il Messico e poi l’Argentina si sono ritrovati prossimi al fallimento. Per il capitalismo si chiudeva una strada. Quale è stata allora la nuova fuga in avanti? L’indebitamento degli Stati Uniti! Dal 1985 questo paese, dopo essere stato il creditore del mondo, ne è diventato poco a poco il maggior debitore. Con una tale manovra il capitalismo è riuscito ad assicurare la sua sopravvivenza, ma ha minato le basi economiche della principale potenza del pianeta. Questa strategia si è rivelata insostenibile durante le convulsioni che si sono susseguite tra il 1987 ed il 1991. Da allora, l’economia mondiale si è orientata verso quella che è stata chiamata “delocalizzazione”: per alleggerire gli alti costi di produzione che stavano affondando le principali economie, pezzi interi di produzione sono stati spostati verso le famose “tigri e dragoni asiatici”. Ma, di nuovo, le forti convulsioni del 1997-98 - la famosa “crisi asiatica” - si sono concluse con il crollo di tutti questi paesi che erano stati indicati come prova vivente della prosperità capitalistica. Solo la Cina è riuscita a salvarsi essenzialmente grazie ai suoi salari di miseria. Adesso è diventata anche un diretto concorrente dei maggiori paesi capitalisti. Questa corsa folgorante della Cina è apparsa come “la soluzione” della contraddizione flagrante dell’economia mondiale - il peso dei costi di produzione che era divenuto insopportabile – ma ha anche innalzato la concorrenza a livelli ben più intollerabili.
In questi ultimi anni il capitalismo è riuscito a darsi una parvenza di “prosperità” grazie alla gigantesca speculazione di beni immobili che ha toccato gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Spagna ed una quarantina di altri paesi. Il “boom del mattone” è un’espressione palese del grado di aberrazione che il sistema sta raggiungendo. Lo scopo della costruzione delle case non è stato affatto dare un alloggio alle persone... il numero dei “senza tetto” ha continuato ad aumentare in questi ultimi anni, in particolare negli Stati Uniti! L’obiettivo era solo la speculazione di beni immobili. A Dubaï il deserto è stato disseminato di grattacieli, senza altra vocazione che quella di placare la sete degli investitori internazionali, avidi di ottenere enormi profitti comprando degli alloggi per rivenderli tre mesi dopo. In Spagna le regioni costiere che non erano ancora troppo sovraffollate, sono state coperte da lottizzazioni, grattacieli e campi da golf. Tutto questo ha potuto riempire le tasche di una minoranza ma, la maggior parte di queste costruzioni sono rimaste drammaticamente vuote. Una delle conseguenze di questa follia speculativa è che la casa è diventata un qualcosa di inaccessibile per la maggior parte delle famiglie operaie. Milioni di esseri umani hanno dovuto chiedere prestiti ipotecari, anche della durata di 50 anni! In altre termini, hanno dovuto gettare una quantità enorme di soldi nel “pozzo senza fondo degli interessi”. Centinaia di migliaia di giovani coppie sono obbligate a vivere in subaffitto in bassifondi o ospitati in ristrettezza dai loro parenti. Oggi la bolla è scoppiata e la già debole economia, tenuta assieme con le spillette della speculazione, delle frodi contabili, dei pagamenti aggiornati sine die per un fantomatico “mercato futuro”, crolla in violente convulsioni.
La sola risposta possibile del capitalismo: far ricadere gli effetti della crisi sulle spalle dei lavoratori
Dieci anni fa in un articolo intitolato “Trent’anni di crisi aperta del capitalismo”1, abbiamo tracciato un bilancio di questa fuga in avanti nel credito: “Quest’intervento dello Stato per accompagnare la crisi, adattarsi ad essa per rallentarla e se possibile ritardarne gli effetti, ha permesso alle grandi potenze industriali di evitare una caduta brutale, una sconfitta generale dell’apparato economico. Essa, tuttavia, non è riuscita a trovare una soluzione alla crisi, né a risolvere nemmeno una delle sue espressioni più acute come la disoccupazione e l'inflazione. Trent’anni di questa politica di palliativi alla crisi ha permesso solo una specie di caduta paracadutata verso il fondo dell’abisso, una caduta pianificata il cui unico vero risultato è prolungare la dominazione del suo sistema con il suo seguito di sofferenze, incertezza e disperazione per la classe operaia e per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Da parte sua, la classe operaia dei grandi centri industriali è stata sottoposta ad una politica sistematica di attacchi graduali e successivi contro il suo potere di acquisto, le sue condizioni di vita, i suoi salari, il suo posto di lavoro, la sua stessa sopravvivenza. Quanto alla maggioranza della popolazione mondiale, quella che sopravvive miseramente ed agonizza nell’enorme periferia che circonda i centri vitali del capitalismo, questa in linea di massima ha conosciuto solo la barbarie crescente, la carestia e la morte, ad un livello tale che oggi si parla del più gigantesco genocidio che l’umanità abbia mai conosciuto”.
In effetti, il bilancio di questi ultimi quarant’anni è terrificante. Negli anni ‘60 molti lavoratori, anche quelli dei paesi meno ricchi, avevano un posto di lavoro fisso; oggi la precarietà è dappertutto una tendenza dominante. Da più di 20 anni il salario reale dei lavoratori dei paesi più ricchi continua a diminuire. E nei paesi più poveri, oggi, il salario medio difficilmente raggiunge i 100$!2. La disoccupazione è divenuta cronica. Il meglio che gli Stati sono riusciti a fare è renderla socialmente meno visibile. La borghesia è riuscita a far si che i disoccupati vivano la loro situazione come una stigma vergognosa; l’idea che si fa passare è che questi sono dei parassiti, degli inutili, dei perdenti incapaci di trarre profitto dalle “meravigliose possibilità di lavoro” che sarebbero loro offerte. E che dire delle pensioni? La generazione più anziana al lavoro (50-60 anni) vede le pensioni dileguarsi come neve al sole, pensioni già più basse rispetto alla generazione precedente, ed una parte considerevole di questi futuri pensionati sa che per sopravvivere dovrà cercare piccoli lavoretti dopo i 60 o i 65 anni. Ed è sicuro che i giovani di oggi non avranno mai neanche il minimo di pensione.
Perché l’umanità possa vivere, è necessario che il capitalismo muoia
Queste prospettive catastrofiche sono presenti da oltre 40 anni. Ma il capitalismo ha avuto la straordinaria capacità di seminare illusioni e fare credere che il famoso ciclo “crisi-prosperità” sia eterno. Tuttavia, oggi, la capacità dello Stato capitalistico di “accompagnare” la crisi con palliativi si è indebolita. La nuova caduta che si annuncia sarà di conseguenza ancora più brutale e ripida della precedente. Gli attacchi contro il proletariato e l’umanità intera saranno quindi ancora più crudeli e distruttivi: proliferazione delle guerre imperialiste, attacchi ai salari, aumento della disoccupazione e della precarietà, aumento della miseria. In tutti i paesi i governi invitano alla calma e fingono di avere delle soluzioni per riavviare il motore economico. E dappertutto l’opposizione partecipa alla mistificazione, attribuendo la catastrofe alla cattiva gestione del partito al potere e promettendo una “nuova politica”.
Non stiamo esagerando! L’esperienza di questi ultimi mesi è molto istruttiva: i governanti di questo mondo, di ogni latitudine e di tutti i colori, armati delle loro coorti “di esperti” e guru della finanza, hanno tentato tutta una serie di formule per “venir fuori dalla crisi”. Possiamo affermare che tutte le loro manovre sono inevitabilmente votate al fallimento. Il proletariato, i lavoratori di tutto il mondo, non devono avere fiducia in loro. Noi dobbiamo avere fiducia solo nelle nostre forze! Noi dobbiamo sviluppare la nostra esperienza di lotta, di solidarietà, di dibattito per sviluppare la nostra coscienza ed acquisire così- dopo uno sforzo che sarà duro e difficile - la capacità di distruggere il capitalismo divenuto un ostacolo per la sopravvivenza dell’umanità. Il motto dell’Internazionale Comunista del 1919 “perché l’umanità possa sopravvivere, il capitalismo deve perire!” è più che mai d’attualità.
Acción Proletaria, 23 gennaio 2008
organo della CCI in Spagna
(*) La prima parte di questo articolo è apparsa su Rivoluzione Internazionale n° 156
1. Articolo disponibile alla pagina francese del nostro sito
2. Bisogna qui includere la situazione dell’immensa maggioranza degli operai sedicenti “beneficiari” del “miracolo cinese”.
Il 19 aprile scorso si è tenuta a Napoli una giornata di discussione tra compagni animati dall’esigenza di confrontarsi su questioni di fondo.
Questa iniziativa è stata promossa dalla CCI sulla base di esperienze analoghe promosse a Londra, a Bruxelles ed a Marsiglia[1] con l’intento di creare un luogo di incontro e di confronto per tutti quelli che avvertono la necessità di chiarirsi le idee su questa società e sui numerosi problemi che premono sull’insieme dei proletari e sulla nuova generazione. Avere la possibilità di ritrovarsi per discutere in un clima aperto, fraterno, dove è possibile esprimere i propri dubbi, le proprie preoccupazioni, ma anche la propria voglia di reagire di fronte allo sfacelo in cui si è costretti a vivere, è particolarmente importante oggi dove la nuova fase di ripresa della lotta di classe si manifesta non solo con la lotta aperta in vari paesi[2], ma soprattutto con l’emergere di una riflessione su quello che è questo mondo, in particolare su quale futuro ci aspetta, su quale potrebbe essere una prospettiva diversa.
La partecipazione dei compagni intervenuti è stata convinta e piena di entusiasmo. Diversi di loro hanno anche partecipato a tutta la fase preparatoria, ad esempio cercando la sala per la riunione, organizzando il buffet per il pranzo, preparando le introduzioni sui due temi, o assumendosi specifici compiti durante la riunione, come la preparazione delle conclusioni delle discussioni svolte sui due singoli temi. Tutti i compagni intervenuti hanno contribuito alle spese e, naturalmente, hanno partecipato attivamente al dibattito. La CCI ha messo a disposizione la sua esperienza politica ed organizzativa affinché la discussione potesse svilupparsi pienamente ed in maniera fruttuosa senza trascurare al contempo dei momenti conviviali per permettere ai diversi compagni di conoscersi.
I temi che i compagni, attraverso un sondaggio preventivo, hanno scelto di discutere, sono i seguenti:
Sarebbe difficile riportare per intero il dibattito. Ci limiteremo dunque a sintetizzare gli elementi essenziali emersi sui due temi in discussione, accludendo ovviamente le presentazioni delle due singole presentazioni. Aggiungeremo dunque un contributo di un compagno su una questione specifica che è sorta nella discussione a proposito del “microcredito” e un bilancio personale dello stesso compagno sulla riunione. Accludiamo infine una lettera della CCI inviata ai compagni che hanno partecipato alla riunione del 19 aprile che, per i suoi contenuti, è valida per tutti i compagni.
In conclusione l’elenco del materiale che pubblichiamo è il seguente:
[1] Vedi sul nostro sito web gli articoli: “WR Day of Study: Presentations and discussions”, “Journée d'étude du CCI en Grande-Bretagne: un débat vivant et fraternel”, “Journée de rencontre et de discussion avec le CCI d'août 2007: chercher ensemble une alternative pour cette société agonisante” e “Journée de discussion à Marseille: un débat ouvert et fraternel sur un autre monde est-il possible?”
[2] I compagni possono trovare sulle diverse pagine del nostro sito numerosi articoli sulle lotte nel mondo.
1° tema: Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?
La prospettiva capitalista
La breve ma ricca introduzione[1] ha ben sintetizzato le conseguenze catastrofiche del degrado del capitalismo sui vari piani della vita economica, politica e sociale della stragrande maggioranza dell’umanità e vari interventi successivi hanno confermato questo quadro. In particolare un compagno ha ricordato come la miseria, la guerra e il degrado sociale estremo siano ormai la realtà quotidiana in molti paesi, dal Pakistan al Kosovo, dalla Somalia allo Zimbawe, e come la barbarie “arriva fino al punto che in Iran prima fucilano le donne negli stadi e poi giocano a pallone con le loro teste”. Un altro compagno ha sottolineato come tutto questo non sia il frutto di una cattiva volontà o gestione di chi comanda, ma la conseguenza della fase di declino di questo sistema: “viviamo in un mondo strangolato dal mondo finanziario internazionale, che domina il capitale industriale…. Per garantirsi il saggio di profitto il sistema raddoppia il prezzo del pane e la gente non riesce più a comprarsi un pezzo di pane …. Per sopravvivere è costretto a smantellare tutto il sistema sociale. Esiste una contraddizione tra l’umanità da una parte ed il sistema dall’altra. Tra il moderno proletariato ed il capitale attuale. Alla borghesia farebbe comodo che le cose funzionassero, ma questa è una crisi strutturale epocale o meglio l’accelerazione della crisi storica del capitalismo”. Il compagno ha aggiunto che secondo lui questa contraddizione inizia ad essere avvertita con maggiore chiarezza: “La gente si domanda ‘ma perché non siamo in grado di impedire che la metà dell’umanità muoia di fame?’ La risposta è che i mezzi per impedirlo ci sarebbero, ma quello che domina è la legge del profitto e questa consapevolezza si sta facendo strada…perché si vivono contraddizioni non più compatibili: milioni di famiglie non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e ci sono due generazioni di precari disperati”.
Come ha giustamente sottolineato un’altra compagna, non è solo sul piano economico che questo sistema ci sta stritolando: “Il denaro influenza la nostra vita, senza lavoro si muore. Ma questa società ci sta levando la cosa più importante: la dignità umana. E come? Impedendoci di pensare e spingendoci a vedere il nostro vicino, l’altro essere umano, come il nostro nemico o quello dei nostri figli, come quello che domani ci fotterà. Essendo mamma spero che ci sia un futuro per i miei figli e credo che ci dobbiamo dare da fare e riflettere su come farlo. Nella storia dell’umanità ci sono stati tentativi di ribaltare questa società. Ci sono stati anche errori. Ma non c’è alternativa, questo dobbiamo fare. Non si può vivere in una società dove si gioca a pallone con le teste delle persone”.
Altri compagni sono intervenuti nello stesso senso insistendo sul fatto che la borghesia ha “giocato” fino ad ora anche con le nostre teste facendoci illudere che una sinistra al governo potesse portare qualche beneficio per i lavoratori tanto è vero che “ancora nelle ultime elezioni molte persone hanno avuto paura che cadesse la sinistra e tornasse Berlusconi”, quando l’esperienza, secondo questi compagni, ha ampiamente dimostrato che “chiunque è andato al governo ha portato avanti sempre la stessa politica di batoste”.
Cambiare la società, ma come?
Se sulla prospettiva catastrofica che ci riserva il capitalismo è emersa una certa omogeneità di pensiero tra i partecipanti, delle opinioni diverse e dei dubbi sono invece stati espressi rispetto ad una possibile alternativa a questo stato di cose. Secondo molti dei compagni presenti l’unica alternativa possibile è abbattere il capitalismo e costruire una società basata sui reali bisogni umani: “esiste forse uno solo dei problemi dell’umanità che possa essere risolto all’interno del contesto capitalista?”, “l’umanità sarebbe in grado di costruire un mondo diverso, con la scienza e la tecnica cui si è giunti. Dovremmo da tempo essere oltre questo orizzonte sociale”. Ma come operare questo cambiamento? Su quali forze poter contare? Rispetto ad interventi che alludevano al ruolo mistificatorio di forze come Rifondazione comunista o i Verdi, due compagne hanno esplicitato i loro dubbi: “non capisco qual è questo lato positivo del fatto che la sinistra non sta in parlamento”, “se le avanguardie rivoluzionarie non sono visibili e se la sinistra borghese fa solo chiacchiere, come si divulga quest’idea di cambiamento?”. Nel rispondere a queste questioni altri compagni hanno sviluppato l’idea che, a differenza del secolo scorso, oggi il parlamento non è più un’arma di difesa o di cambiamento per i proletari perché il sistema non è più in grado di concedere dei reali miglioramenti né sul piano economico né sul piano sociale. Secondo una compagna infatti ci si deve chiedere come mai tutte le volte che la sinistra è andata al governo la nostra condizione è peggiorata: “Perché lo fanno? Sono scemi o c’è un motivo? Il motivo è che non possono darci più niente”. Secondo un altro compagno “non cambia comunque niente anche cambiando chi ci rappresenta in parlamento. Il fatto è che la crisi è tale che chiunque va al governo non può che fare certe scelte …. Non è quindi con le elezioni che si può cambiare”. Più compagni hanno inoltre insistito sull’idea che questo cambiamento bisogna farlo in prima persona, che non può essere delegato a nessuno, tanto meno alla sinistra parlamentare o radicale perché come ha detto uno di loro: “Quello che esprimono queste forze è una visione del “meno peggio”. Io non voglio il “meno peggio”. Oggi io lascio in eredità a mio figlio una società decisamente peggiore di quella che mi ha lasciato mio padre e con una prospettiva ancora peggiore. … Non è vero che [queste forze] hanno rappresentato la classe operaia ma un concetto di società che si accontenta, una visione di un capitalismo dal volto nuovo … Quel tipo di delega non funziona. Per me si è fatta chiarezza… non hanno un concetto di società diversa [dal capitalismo]”.
La conclusione di questa parte della discussione è stata dunque che il capitalismo va eliminato e sostituito con una società diversa. Questa è la prospettiva verso cui dobbiamo andare. Ma, si sono chiesti dei compagni, in attesa che si possa sviluppare la possibilità della rivoluzione, è possibile operare dei cambiamenti all’interno del capitalismo che ne attenuino gli effetti nefasti e preparino la prospettiva più generale? Tanto più che “in questa società ci viviamo e agiamo quotidianamente, e sarebbe dunque il caso di cominciare a fare qualcosa”. Ma per fare questo, ha suggerito un altro compagno, “il futuro lo dobbiamo costruire capendo anche che cosa vogliamo costruire”. In particolare questi compagni avevano in mente il desiderio di poter cominciare a costruire qualcosa di alternativo all’interno di questa società, che potesse opporsi progressivamente al capitalismo e costituire, sul piano materiale come su quello ideale, una base per la prossima società. A tale riguardo la riunione ha discusso di due diverse idee che sono state avanzate: quella del microcredito e quella delle coabitazioni.
Sulla prima idea del microcredito, un compagno ha evocato l’esperienza della banca del premio Nobel Yunus che avrebbe permesso, in Bangla Desh, di elargire credito anche agli strati più poveri della popolazione, costituendo così un possibile modello da sviluppare e propagare per assicurare, quanto meno, la sopravvivenza alle popolazioni più povere del mondo, “non perché Yunus sia meglio delle banche capitaliste, ma si potrebbe partire da qui per vedere cosa possiamo prendere di buono per poi andare avanti”.
Nell’esperienza delle coabitazioni - le co-housing, già citate nella introduzione alla discussione - una compagna vede invece “non la risposta ai problemi del capitalismo”, ma l’espressione di un “bisogno di comunità anche se surrogato”, “l’esempio di solidarietà, di un modo diverso di rapportarsi, che è quello che dovremo andare a fare nel comunismo”.
Dei compagni sono intervenuti per sottolineare che è la stessa dinamica della società che porta in sé delle potenzialità verso una prospettiva comunista che bisogna saper cogliere e sviluppare, come appunto il bisogno di comunità insito nelle co-housing, o anche il fatto che “una realtà come la precarietà - che è in sé un elemento negativo - si porta dietro delle potenzialità di sviluppo di una altra società” in quanto “libera i proletari dal legame stretto con la propria fabbrica”.
Nel merito delle singole questioni poste, pur comprendendo ed in parte condividendo molte delle preoccupazioni presenti nella discussione, altri compagni hanno espresso dei disaccordi e dei dubbi sugli esempi specifici riportati. Rispetto al microprestito di Yunus, un compagno ha sostenuto che “questo è nei fatti una sorta di auto-sfruttamento” che “serve al capitale nazionale a rastrellare risorse nelle condizioni di estrema povertà di quel paese”. Un altro ha ricordato come anche il “commercio equo e solidale” viene spacciato come un modo per sostenere i lavoratori più poveri del terzo mondo, ma in realtà non cambia in niente la loro sorte. Un’altra compagna ha detto che nel capitalismo “qualcosa di meno peggio ci può sempre essere, ma questo non risolve il problema. Il fatto è che anche noi stiamo arrivando alla situazione della povera donna del Bangla Desh che non sa come mangiare e anche noi dovremo chiedere il microprestito per sopravvivere”.
Rispetto alle coabitazioni un compagno ha risposto: “potrei essere d’accordo con la definizione della coabitazione come potenzialità, ma non come proposta tattica … soprattutto questa potenzialità deve essere collegata alla lotta di classe” nel senso che solo in un movimento ampio di scontro di classe queste potenzialità possono diventare degli elementi di avanzamento. Un altro intervento ha ricordato che le comunità agricole organizzate da Tolstoi non ebbero alcun futuro proprio perché secondo il compagno erano, come quelle di oggi, “solo associazioni di difesa, non possono essere una configurazione di socialismo”. Ad una compagna infine la coabitazione non sembrava una forma innovativa, perché “è la società che ci sta obbligando alla coabitazione”.
Data l’importanza delle due tematiche sollevate, la nostra organizzazione ha invitato i partecipanti a continuare la discussione attraverso dei contributi scritti da scambiare tra i compagni. Un compagno ha immediatamente ascoltato il nostro appello inviandoci un contributo sulla questione del microprestito che noi pubblichiamo in sequenza.[2]
2° tema: Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?
La discussione su questo secondo tema è stata meno sviluppata rispetto alla precedente per motivi di tempo e di stanchezza, ma probabilmente anche perché si è troppo focalizzata su di un solo aspetto della questione, “chi appartiene alla classe operaia?”, a scapito dell’aspetto politico più generale di cosa è la classe operaia e del perché essa è l’unica che potrà operare il cambiamento di società di cui si parlava nel primo punto. Una migliore definizione del tema ed un più stretto legame tra questo ed il primo tema della giornata in sede di programmazione, avrebbero potuto evitare una tale debolezza.
L’introduzione, anch’essa sintetica ma molto efficace nel riprendere gli elementi essenziali della questione[3], è stata subito ripresa da un compagno su diversi punti: “Occorre capire che la differenza tra classe operaia, cioè quella industriale, e proletariato, scompare se ci riferiamo al criterio fondamentale che è la vendita della forza lavoro. Una volta si usava di più il termine classe operaia perché il rapporto di lavoro salariato era concentrato soprattutto nel settore industriale. Oggi ci sono strati una volta intermedi tra proletariato e borghesia che sono ormai proletari per il rapporto che hanno con il capitale. Bisogna capire bene come si presenta il moderno proletariato: se facciamo riferimento agli studenti francesi, vediamo che le questioni poste, e il loro modo di organizzarsi ne dimostrano la natura proletaria. La stessa cosa la possiamo dire per la manifestazione dei precari che si è avuta a Roma nell’ottobre scorso. E sarebbe un errore grave sottovalutare il potenziale enorme che esiste in questo proletariato. Se la borghesia sviluppa tante teorie per negare l’esistenza della classe operaia, è proprio per disinnescare questo potenziale. Noi invece dobbiamo porci la questione di come si unisce questa classe, e la risposta la possiamo trovare se ci riferiamo alla storia”. Il compagno ha ricordato come la classe operaia nel ’17 in Russia abbia trovato nei Soviet la sua unità e la capacità di sviluppare la sua coscienza aggiungendo che “Il problema del proletariato è costruire la sua coscienza, ed è in questo processo che il partito può e deve giocare un ruolo. I bolscevichi inizialmente erano minoranza nei soviet, perché all’inizio la coscienza del proletariato non era ancora sviluppata fino in fondo, cosa che avvenne nei mesi successivi. Quindi la classe operaia ha in sé questa capacità e non bisogna farsi ingannare dalla situazione contingente”.
Un altro compagno ha detto che a lui, sulle prime, definire chi fa parte della classe “… sembrava inutile, perché a me, proletario da 40 anni, sembra chiaro”, ma che è invece vero che il peso della propaganda borghese fa sì che “a volte gli stessi proletari non si riconoscono tali, e bisogna spiegarglielo, per non farci dividere dalla borghesia. Il proletariato potrà essere più diffuso sul territorio rispetto a prima, almeno in occidente, ma è ancora maggioranza”.
La discussione si è quindi sviluppata animatamente su chi fa parte della classe operaia. Diverse le obiezioni e le osservazioni fatte a proposito.
Nella discussione sono stati avanzati diversi elementi di risposta:
Ciò detto, è stato ricordato che questo non significa che la classe operaia in lotta non possa e non debba cercare un dialogo con i poliziotti e con i soldati per farli riflettere sulla loro condizione e chiamarli ad unirsi alla lotta, come fecero gli operai russi durante la rivoluzione del ’17 o come hanno fatto gli studenti in Francia nel 2005 di fronte ai poliziotti mandati a sfollarli dalle università.
Un primo bilancio
Alla fine della discussione sui temi previsti è stato lasciato uno spazio perché i partecipanti potessero esprimere una prima valutazione sulla giornata, suggerire eventuali correzioni per iniziative future ed altro.
In generale tutti i compagni hanno dato un apprezzamento positivo per la giornata trascorsa, con un’insistenza particolare sull’importanza di avere opportunità come queste per poter rompere l’isolamento, incontrarsi e discutere insieme delle preoccupazioni comuni. Diversi compagni hanno quindi espresso la necessità di dare seguito a questa iniziativa con altri incontri. Un compagno ha suggerito come possibile tema “il movimento del ’68 ed i successivi 40 anni di lotta di classe”. Alcuni hanno notato che la discussione sul secondo punto era piaciuta di meno rispetto alla prima, mentre una compagna ha espresso una valutazione critica su questa seconda parte perché la questione di cosa è la classe operaia le era sembrata “troppo astratta” mentre avrebbe preferito “chiarire di più degli aspetti concreti”.
Un’altra compagna ha suggerito, per il futuro, di scegliere “più attualità e meno teoria, come primo impatto”, nel senso di partire “dalla interpretazione e spiegazione concreta di fenomeni di attualità”. Un altro compagno ha osservato che, se va senz’altro recepito questo suggerimento, è anche vero però che “almeno il primo punto è nato dall’esigenza concreta, ricordiamo i No-global, i ragazzi di Genova che si sono fatti picchiare su questo tipo di questioni”. Infine è stato osservato che bisogna stare attenti nella discussione a non dare per scontato certi termini o certi concetti. Questa preoccupazione è molto importante perché, come abbiamo detto nel nostro intervento finale “il metodo non è partire da conclusioni già bell’e fatte, ma cercare di costruire queste conclusioni man mano, partendo proprio dagli elementi che escono dalla discussione; Il contrario potrebbe scoraggiare dei compagni, soprattutto quelli che partecipano per la prima volta ad un dibattito del genere. Inoltre partire dalle questioni basilari, soffermandosi nel confronto su concetti che troppo spesso diamo per scontati, significa sviluppare un reale approfondimento politico e teorico”.
Da parte nostra, come abbiamo già espresso alla fine della riunione, il bilancio di questa giornata è molto positivo non solo per la ricchezza di elementi di riflessione che sono emersi e che potranno costituire il punto di partenza per ulteriori discussioni tra i compagni, ma anche ed in particolar modo per il clima di discussione collettiva e solidale che si è sviluppato, dove ognuno ha partecipato, esprimendo i propri dubbi e i propri disaccordi, ad una reale chiarificazione politica. Il che non significa aver raggiunto un accordo sulle questioni dibattute, né tanto meno aver dissipato tutti i dubbi e le perplessità, ma significa essenzialmente avere una visione più chiara di quali sono i reali problemi che si trova ad affrontare l’umanità.
Questa discussione ha costituito un passo in avanti in questa direzione.
La CCI, 16 agosto 2008
[1] Vedi il testo dell’introduzione “Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?”, su questo sito
[2] Vedi il testo “Appunti sulla questione del microprestito”, scritto dal compagno P.
[3] Vedi il testo dell’introduzione “Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?”
Dalla fine degli anni ’60 ad oggi il sistema economico internazionale si trova in una diffusa fase di crisi, ma i tassi di crescita del PIL globale sono positivi dal secondo dopoguerra. Non è un paradosso se si scopre che dietro la crescita si nasconde l’ammontare crescente del debito. Un’economia basata sul debito permette agli operatori, pubblici o privati che siano, di creare liquidità e quindi di speculare. È il caso in cui il denaro genera denaro.
Oggi, essendo il capitalismo un sistema complesso, il battito d’ali di una farfalla in Brasile genera uno tsunami in Giappone. Lo abbiamo visto alla fine del 2006 con la crisi del settore edilizio negli Stati Uniti: l’insolvenza dei mutui subprime (ad alto tasso di interesse) ha innescato una reazione a catena provocando il fallimento di numerose agenzie di credito. Da allora la parola catastrofe è circolata tra politici ed economisti, e la stima delle cifre non ha smesso di aumentare. L’ultima stima che gli economisti del Fondo Monetario Internazionale fanno della perdita potenziale è 945 miliardi di dollari. (Il Sole 24 Ore, 9 Aprile 2008).
Sull’altra faccia della medaglia si trova il capitale industriale. Il sistema di produzione attuale non prevede un rapporto razionale tra i bisogni umani e le merci effettivamente prodotte. Potremmo immaginare un gruppo di imprenditori in concorrenza che cercano di produrre la stessa merce ma ad un costo minore per venderla meglio, ma per fare ciò devono aumentare le unità prodotte senza tener conto della richiesta, entrando quindi in sovrapproduzione. Si avranno così una quantità di merci invendute che peseranno sul Capitale come profitto non realizzato. Siamo in regime di completa irrazionalità, in cui vengono disattesi i reali bisogni dell’umanità per la realizzazione di un profitto cieco e pericoloso.
Un’espressione diretta dell’irrazionalità del sistema produttivo sono le trasformazioni irreversibili imposte dall’uomo al sistema Terra. Da quando l’uomo è diventato agricoltore ha sempre trasformato la terra fecondandola e rendendola rigogliosa, disegnando paesaggi e creando luoghi bellissimi. Quello che si è fatto in epoca industriale assomiglia invece ad un tentativo di avvelenamento. Un disastro ecologico rappresenterebbe per l’economia umana la scomparsa di uno dei due termini fondamentali del rapporto: la natura. Di conseguenza si avrebbe la scomparsa del secondo che è l’uomo.
La risposta politica a questa serie di problemi diventa necessaria, ma non è sufficiente. Si veda il caso del protocollo di Kyoto. Una regolamentazione tra gli Stati per l’emissione degli elementi nocivi dove i paesi più inquinanti o non firmano, gli Stati Uniti, oppure sono esonerati dagli standard perché non partecipi dell’inquinamento del primo periodo industriale, Cina e India. La realtà è che industria, energia, trasporti e abitazioni, sono settori economici che trainano gli investimenti statali e privati, ma che se dovessero adattarsi a non inquinare sarebbero puniti dalla competizione sul mercato internazionale. Senza poi contare la “borsa delle emissioni”, dove al mercato si può comprare la possibilità di inquinare.
La marea distruttiva non interessa solo l’ambiente. Con la dissoluzione del blocco dell’Est, cominciata nel 1989, è venuto a mancare quell’equilibrio tra le potenze imperialiste che reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale. Dal 1991 in poi abbiamo avuto una serie di conflitti sanguinosi, in cui gli Stati Uniti hanno tentato di affermare la loro supremazia militare nel mondo cercando, di volta in volta, l’aiuto dei vecchi alleati occidentali. Il primo tentativo si ebbe con la guerra del Golfo a cui è seguita subito dopo la carneficina dell’ex-Jugoslavia, in cui Usa, Germania, Francia e Inghilterra non ricucirono la vecchia alleanza. Di seguito si sono diffusi numerosi conflitti su tutto il pianeta (Somalia, Kosovo, Albania) in cui tutte le maggiori potenze hanno cercato di far valere i propri interessi imperialisti. Affinché gli alleati si trovassero di nuovo al fronte tutti insieme ci volle l’attentato alle Torri Gemelle del 2001. È stata un ottima scusa per invadere quella che già era stata una zona calda, l’Afghanistan, e per continuare, con lo spauracchio delle armi di distruzione di massa, in Iraq due anni dopo.
La violenza utilizzata per l’affermazione della libertà democratica è la stessa che intercorre nei rapporti umani. Le condizioni dello sfruttamento hanno reso il lavoro bestiale, agiscono su quel campo che distingueva l’uomo dall’animale invertendone completamente i termini. È nel lavoro che l’uomo potrebbe esprimere i caratteri sociali della propria specie, nel lavoro potrebbe sfruttare la propria forza in modo volontario e cosciente; ma, dato lo stato dei rapporti umani, è nel lavoro che invece diventa un appendice della macchina produttiva del Capitale, una merce speciale, che vive e soprattutto muore sul lavoro. Marx, nei “Manoscritti” giovanili, mostra come la merce suprema, il denaro, influenzi la vita umana. Questo, con la sua “potenza sovvertitrice”, agisce sull’immagine del possessore che si rispecchia nel denaro stesso e diventa ciò che può pagare. Agisce inoltre sull’individuo e sui vincoli sociali apparentemente immutabili, “muta l’amore in odio e l’odio in amore”( K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pag. 120).
Con la dissoluzione della comunità, del vivere comune, l’uomo è votato alla depressione, all’angoscia. L’isolamento sociale lede la dignità umana e la fiducia in se stessi al punto di generare la scomparsa di una prospettiva futura e far nascere un culto esasperato del presente. Si tende a negare la possibilità di un progetto capace di edificare una società superiore e si afferma una propensione relativistica che porta all’abbandono di uno spazio etico comune.
La rinuncia ad una prospettiva comune porta ad interessarsi ad una serie di progetti. Uno è l’ecologismo, che si basa sulla convinzione della possibilità di un mantenimento dello sviluppo economico compatibile con l’equità sociale e con il rispetto del pianeta. Dall’altra parte ci sono invece i sostenitori della Decrescita, secondo i quali la crescita economica comporterebbe sempre un maggiore impatto ecologico. In generale, entrambi cercano una qualità di vita migliore di quella attuale, un maggiore egualitarismo tra i membri della società: affrontano il presente in maniera problematica cercando una possibile strada per il futuro nell’ecologia.
Esistono, poi, degli episodi in cui gruppi di individui si aggregano per la coabitazione a diverse scale. In tutte le megalopoli odierne i casi di co-abitazione coatta, per far fronte a tasse ed affitti, sono molto numerosi. Non mancano però esempi di vere e proprie città di fondazione, diffuse soprattutto negli Usa, organizzate con l’intento di ottimizzare gli spazi ed alcune attività collettive. Queste intentional comunity (comunità intenzionali) si basano appunto sull’intenzione di risolvere problemi pratici che lo Stato non può risolvere. È quello che succede anche nelle periferie delle città francesi, dove gruppi di famiglie agiate si chiudono in quartieri-bunker e lasciano fuori la porta la violenza urbana.
Sono un po’ differenti gli esperimenti moderni di co-housing (co-abitazione), diffusi ormai in Europa come in America, che non assomigliano né alle comunità del socialismo-utopista (Fourier, Owen) e né tanto meno alle comunità hippie degli anni sessanta, entrambe fallimentari perché cercavano un tentativo di isolamento dalla società e dal sistema. In quelle moderne invece la pratica della coabitazione prevede la condivisione (possibile intorno alle 30 famiglie) di spazi comuni, come cucine, biblioteche, palestre, laboratori, spazi per i bambini, ecc.; pur sorgendo all’interno del sistema capitalistico come rifiuto dello stesso, ma allo stesso tempo sfruttandone i vantaggi. Le abitazioni sfruttano le tecnologie per il risparmio energetico e gli abitanti fanno la loro vita lavorativa fuori da questo tipo di unità-di-vicinato.
Viene da chiedersi se da questo tipo di esperienze possa venir fuori una soluzione in grado di abolire le odierne contraddizioni della società, e infine, che dia la possibilità di soddisfare i bisogni dell’intera popolazione del pianeta.
È sempre nelle città che compaiono altri tipi di reazioni alla patologia sociale, sintetizzabile nel non-senso della vita, un moderno nichilismo, ma che i filosofi idealisti elevano ad angoscia esistenziale. Si tratta di risposte individuali o collettive, distruttive o autodistruttive, esasperate dal carattere totalizzante di una società fondamentalmente ingiusta. Senza affrontare i pur importanti casi individuali del suicidio e dell’omicidio, o della droga, i quali hanno cifre statistiche terribilmente alte, si faranno due esempi molto vicini a noi. Il primo è la rivolta delle banlieu francesi nel 2005, dove il disagio dei giovani proletari delle periferie si e trasformato in una incondizionata violenza verso obbiettivi che nulla avevano a che vedere con la causa della loro condizione. L’incendio di automobili, l’attacco ad asili e stazioni dei pompieri quali simboli istituzionali, o peggio, i raid a scopo di rapina nelle manifestazioni degli studenti in lotta contro il CPE.
Un altro caso è l’intreccio tra la mafia e la popolazione giovanile del sud Italia. Potendo affermare che la disoccupazione è funzionale ad un sistema che non ha una domanda di lavoro costante, e inoltre, che tra i disoccupati si include il ceto dei non lavoratori (vagabondi, delinquenti, ecc.), allora al crescere della disoccupazione cresce anche la criminalità. Un area dove la disoccupazione raggiunge quote del 50% è un serbatoio dove gli eserciti criminali attingono manodopera. Comunque in entrambi i casi la violenza è frutto di un rapporto logoro instaurato tra gli uomini ed il lavoro e di conseguenza tra gli uomini e la comunità.
Di fronte a questa situazione complessiva che la maggioranza dell’umanità è costretta a vivere, di fronte alla mancanza di una prospettiva diversa dalla distruzione morale e fisica che questo sistema ci impone, come si può reagire?
È possibile prospettare una società diversa? E che tipo di società?
Per chiudere, una possibile risposta a questa serie di domande sta nella natura stessa dell’uomo, nella sua capacità di progettare, che lo distingue della bestia. Secondo Marx, l’uomo, con le sue azioni, non si limita solo a produrre un cambiamento di forma della realtà, ma realizza in essa il proprio scopo, che conosce già e che determina il suo operare, “e al quale egli deve subordinare la propria volontà” (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. V). Cos’è allora che limita l’uomo, che non gli permette di raggiungere la consapevolezza del cambiamento? Per reintegrare l’uomo nella natura, bisogna ridargli quella dignità negatagli da un sistema di sfruttamento e di appropriazione che incatena le forze potenziali dell’umanità.
19 aprile 2008, F.
Nel 1848 Marx ed Engels pubblicando il Manifesto del partito comunista indicano nella lotta delle classi il perno attorno al quale si muove da sempre la storia delle società umane:
“Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta”.
La propaganda borghese più volte si è rivolta contro questo assunto dell’analisi marxista della storia cercando di negare la sua verità. E gli avvenimenti degli ultimi anni hanno costituito un comodo trampolino di lancio da cui sferrare l’attacco ideologico contro la classe operaia. Fidando nello scoramento generale in cui il proletariato occidentale è caduto dopo il crollo dell’Unione sovietica, immediatamente presentato come la fine del comunismo, e nei rivolgimenti a cui le nuove tecnologie hanno sottoposto il sistema produttivo - rivolgimenti che hanno favorito la scomparsa delle grandi concentrazioni industriali, eccezion fatta per alcuni comparti tradizionali come quello dell’auto della petrolchimica o della cantieristica - si è voluto sostenere un mutamento delle forme sociali che vedrebbe una drastica diminuzione del proletariato. Così ad esempio dagli anni ’80 fino al recente passato abbiamo assistito al proliferare di ogni genere di teorie sul ridimensionamento della forza della classe operaia. C’è chi ha parlato di “frammentazione” dei lavoratori, chi di imborghesimento della classe e chi addirittura di “fine del lavoro”. Basti dire che, per quanto varie, ciascuna di queste teorie sottintende lo stesso identico assunto: venuto meno il ruolo centrale del proletariato, Marx è superato e non ha più senso parlare di lotta di classe.
L’idea che il proletariato, a differenza di quanto prospettato da Marx, sia in diminuzione viene sostenuta sulla base della falsa equazione tra proletariato e classe operaia industriale. Ma questa equazione è corretta? Il concetto di proletariato non coincide con quello di “classe operaia industriale”. Una classe è un gruppo di persone accomunate dal proprio rapporto con i mezzi di produzione ed il proletariato in particolare è quella classe che, non possedendo mezzi di produzione, è costretta a vendere la propria forza lavoro per vivere. Da questo punto di vista non solo il proletariato è enormemente più numeroso rispetto ai tempi di Marx, ma anche rispetto agli stessi anni ’60.
Per chiarire meglio quanto detto è opportuno rivolgere l’attenzione alla differenza che Marx pone tra il lavoro produttivo e quello improduttivo. Ricordiamo che nel sistema capitalistico i prodotti del lavoro umano assumono la forma di merci. Un prodotto in quanto merce assume un valore che non dipende dalla sua mera utilità ma dalla possibilità di essere scambiato con altre merci sul mercato. La determinazione del valore di una merce è data dalla quantità di forza lavoro occorsa per la produzione di quella merce. Una parte di questo valore viene corrisposta all’operaio sotto forma di salario, mentre l’altra costituisce il profitto del capitalista, o per meglio dire del capitale. Il lavoro produttivo è dunque quel lavoro che scambiato contro capitale produce plusvalore. Ciò significa che esso riproduce, accresciuta, la somma di valore che è stata spesa in esso, ossia che produce più lavoro di quanto ne riceve in forma di salario. Il lavoro improduttivo, invece, è lavoro che scambiato con denaro non produce un aumento del capitale. L’operaio di fabbrica, dunque è senz’altro un lavoratore produttivo. Ma che dire di tutte quelle figure, medici, insegnanti, gente impiegata nel terziario che a prima vista non sembrano direttamente collegate alla produzione di plusvalore e dunque di profitto per il capitale? Possono essere inclusi nell’alveo della classe operaia o devono restarne fuori?
Innanzitutto vorrei far notare come la differenza che intercorre tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo non è assolutamente una discriminante per dividere i proletari dalle altre classi sociali. Questa distinzione viene fatta dal punto di vista dell’accrescimento del capitale e non dal punto di vista di chi vende la propria forza lavoro. Ma quali possono essere i criteri per definire l’appartenenza alla classe operaia?
1) Bisogna arricchire direttamente un padrone per farne parte? Volgendo lo sguardo ad alcune attività lavorative ci si accorge immediatamente che la risposta ad una simile domanda deve essere negativa: gli insegnanti, gli infermieri, gli operatori di call center, anche quando non lavorano per alcun un padrone, appartengo alla classe perché a) sono costretti a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere e b) contribuiscono alla produzione complessiva della ricchezza, risultato dello sforzo di tutti i lavoratori. L’istruzione o la cura della forza lavoro sono attività assolutamente necessarie perché la produzione delle merci possa essere realizzata.
2) Tutti gli sfruttati appartengono alla classe operaia? Basta pensare ai contadini poveri molto numerosi nei paesi sottosviluppati che non posseggono la terra per rispondere negativamente anche questa volta.
3) Poliziotti e preti non sono proprietari dei loro mezzi di produzione e sono salariati, appartengono, forse, alla classe? Ovviamente no, queste figure non producono ricchezza in alcun modo, mentre svolgono un ruolo di difesa dei privilegi della classe dominante e di conservazione del suo dominio.
Riassumendo, si può dire che la classe operaia è composta da tutti quei lavoratori che vendendo la propria forza lavoro per vivere, partecipano direttamente o indirettamente alla produzione complessiva della ricchezza sociale. Ma questo non è tutto. Una classe ha senso solo se contrapposta ad un’altra, solo se posta nella condizione di partecipare attivamente al divenire della storia. Definire e comprendere cosa è la classe operaia, capire chi ne fa parte, è, dunque, una questione della massima importanza, non solo per liberarsi dalle false ideologie che tentano di distogliere il proletariato dal suo compito storico e perpetuarne, così, lo sfruttamento, ma soprattutto perché, l’identità di classe è il maggior elemento di forza della classe stessa. Vedersi come proletari, sentire di non essere soli con la propria angoscia, la propria paura per il futuro, ma sapere di appartenere ad un corpo collettivo è l’elemento fondamentale che permette di scorgere una prospettiva alternativa al capitalismo e di sviluppare le armi necessarie che seppelliranno un sistema ormai in putrefazione, ossia la solidarietà e l’unità dei proletari.
19 aprile 2008 E.
Recentemente è stato assegnato il Premio Nobel per la pace a Mohammad Junus, un banchiere-filantropo che ha inventato un modo per rendere accessibili i prestiti a coloro che, a causa della loro povertà, non possono fornire garanzie alle banche normali. Junus è effettivamente un filantropo ed effettivamente le sue iniziative hanno portato un qualche sollievo alle disperate condizioni di povertà del Bangla Desh e di alcuni altri stati asiatici. Sta tentando di estendere queste iniziative in tutti i paesi poveri.
Come funziona? Prendiamo ad esempio un prestito fatto ad una donna del Bangla Desh per consentirle di comprare un telaio per tessere tela o per fabbricare indumenti di lana. Le garanzie di restituzione del prestito sono del tutto assenti; cionondimeno Junus concede il prestito sulla parola. L'interesse richiesto è minimo, 1-2% annuo e, spesso, questi prestiti vengono concessi senza scadenza. LA donna in questione lavora a casa sua, produce, si rivolge alla stessa banca per commercializzare i suoi manufatti e, spesso, è incoraggiata a mettersi in filiera con altre donne al fine di ottenere una efficace divisione del lavoro, in quanto ciascuna di esse realizza una parte del manufatto o anche provvede ad alcune operazioni indispensabili quali il lavaggio, la stiratura, l'appretto, ecc.
Una condizione per la concessione del prestito è quella che la donna di cui parliamo divenga poi azionista della stessa banca; in effetti, se ha ricevuto un prestito, poniamo di 100 dollari, dopo avere pagato lo stesso ed il piccolo interesse, deve impegnarsi a diventare azionista per l'importo del prestito ricevuto comprando azioni della banca per altri 100 dollari che le daranno un profitto pari all'interesse pagato.
In sostanza la donna ha ricevuto dalla banca 100 dollari e ne verserà alla stessa 201, 100 n restituzione, 1 di interesse, 100 di azioni.
Il meccanismo funziona perché richiama sul capitale della banca il lavoro di centinaia di migliaia di persone, forse milioni.
In passato anche in Italia esisteva il lavoro a domicilio. Molte casalinghe aiutavano il bilancio familiare fabbricando in casa capi di abbigliamento che poi andavano alle grandi ditte; queste, molto spesso, finanziavano l'acquisto della macchina necessaria e talvolta addirittura la davano in fitto alle lavoratrici. La ragione era che costava meno produrre i capi in questo modo, non vi erano spese di gestione (stabilimenti, energia, tasse, ecc.) il lavoro era al nero, puro cottimo e basta, i prezzi li faceva solo la ditta committente, prendere o lasciare. Tuttora il sistema è ancora in vigore (le cosiddette confezioniste a domicilio) alle stesse condizioni. Si producono in tal modo guanti di pelle, capi di abbigliamento, manufatti di lana, parti da assemblare di scarpe, borse, fiori di carta, spadini per capelli, ecc. Il livelli di sfruttamento sono pressoché disumani, in quanto i lavoranti a domicilio sono vincolati a quote di produzione ed a tempi di consegna che spesso li obbligano a lavorare fino a 14 ore al giorno. Vengono retribuiti a capo con un compenso spesso irrisorio e sotto ricatto di perdere questo lavoro in qualsivoglia momento.
Forse applicati alla miseria inenarrabile del Bangla Desh anche queste condizioni posso sembrare una fortuna, ma il fatto è che i livelli di auto-sfruttamento sono intensissimi.
Tuttavia i prestiti vengono quasi sempre restituiti ed le azioni della banca quasi sempre acquistate.
Il prestito viene anche concesso per piccole attività agricole come l'acquisto di galline, di un maiale, sementi, attrezzi agricoli minuti, ecc. Qui le condizioni sono un pò diverse, ancor più favorevoli, ma di poco.
E' difficile calcolare la massa-capitali della banca di Juus, diventata una delle 10 banche più floride al mondo. In un paese povero, come si comprende, non vi è liquidità perché non vi è risparmio. Ma con questo sistema di costituisce una considerevole massa li moneta liquida, disponibile sia ad allargare il campo di controllo della banca stessa si per investimenti di altro tipo.
Junus segue la filosofia Yogi e l'insegnamento di SRi Yukteswar, che fu il maestro di Yogananda (vedi sul web): vive poveramente, non possiede ville, yacht, auto, non ostenta ricchezza, non ha amanti o vizi: il personaggio è questo. Egli è effettivamente convinto di fare del bene ai poveri del mondo: il suo orizzonte economico è comunque il capitalismo. Forse spiritualmente è l'opposto del "Banchiere anarchico" descritto in un meraviglioso racconto di Fernando Pessoa (che vi invito a leggere); tuttavia egli agisce all'interno del campo del capitale finanziario, non può essere altrimenti. Forse la situazione in parte ancora pre-capitalistica dell'economia del Bangla Desh gli fa vedere tutto questo come un progresso. Ma, raggiunta una certa dimensione, la sua finanza entra in conflitto col capitale finanziario internazionale, ed è evidente che i suoi metodi non sono estendibili a paesi ad economia più avanzata. Finora è stato tollerato "a consolazione ed a mistificazione degli oppressi", come direbbe Lenin, ma le sue iniziative in America Latina si sono arrestate, mentre sono respinte in India ed in Cina.
Il fatto è che esse, pur estraendo parecchio plusvalore, sono meno efficaci dei metodi di sfruttamento applicati nel mondo. Quest'uomo, sotto molti aspetti, ricorda Tolstoij e la sua illusione di sfuggire al capitalismo mediante l'organizzazione di piccoli villaggi agricoli comunitari.
Su richiesta dei compagni della CCI di Napoli
19 aprile 2008, P.
20 aprile 2008
Cari Compagni, un’eccellente discussione-ricerca tenuta ieri a Napoli ha posto in chiaro due questioni vitali: carattere della crisi e la morfologia sociale del moderno proletariato. Non è poco, perché si tratta di acquisire due strumenti di lavoro politico indispensabili. Un terzo elemento che è emerso dalla discussione è il riconoscimento dei processi di autoformazione di elementi, ancora allo stato embrionale, di coscienza e di organizzazione.
Orbene, da ciò conseguono alcune questioni, la prima delle quali riguarda il modo in cui diviene possibile saldare i settori del proletariato industriale tradizionale a quelli nuovi che si sono venuti formando in questa fase. Una seconda questione riguarda le forme di lotta del moderno proletariato. Una terza riguarda la forma-partito, cioè come il partito dei comunisti deve attrezzarsi per intervenire all’interno del nuovo proletariato. L'incedere della crisi recessiva, le sue devastanti conseguenze, lo sconvolgimento che ne consegue ecc. pongono urgenza a dare risposte a queste domande, sia pure sotto forma sperimentale. I quesiti, come si vede non sono affatto di mera natura tecnico-tattica, anche se questo aspetto è importantissimo. Inoltre dalla stessa discussione è emersa la necessità di adottare linguaggi e forme di comunicazioni in grado di essere chiaramente percepiti dall’attuale proletariato.
Il fondo di queste domande è la preoccupazione che, in seguito alla crisi ed alle misure sempre più dure che i governi adotteranno per scaricarla sul proletariato, si possano avere fenomeni di ribellismo che, in assenza della funzione pedagogica del partito, possano o degenerare o subire disastrose sconfitte. Inoltre, in simili circostanze, è prevedibile che si ripresentino i partiti della sinistra borghese che sono stati estromessi dal parlamento in seguito alle elezioni, sempre con lo scopo di disarticolare le lotte ed indirizzarle verso obiettivi posticci. Infine bisogna considerare che molti elementi in buona fede che hanno militato in questa sinistra e che hanno compreso in parte il suo ruolo funzionale alla strategia generale di controllo del proletariato da parte della borghesia, si trovano in uno stato di demoralizzazione e di perplessità sul quale sarebbe necessario intervenire energicamente al fine di riqualificarli e recuperarli al campo proletario. Siamo ad un nuovo "Che fare?" e bisogna rispondere.
Saluti fraterni, P.
Cari compagni, grazie a tutti voi, alla vostra partecipazione e al vostro contributo, la giornata del 19 aprile scorso è stata veramente un momento di incontro, di discussione e di confronto tra proletari, (lavoratori, futuri lavoratori o pensionati). Un momento a cui noi attribuiamo una grande importanza per i motivi che vi abbiamo già detto e che vogliamo riprendere in questa lettera a tutti voi. Oggi, lentamente, ma con sempre maggiore forza, spinti da condizioni di vita e di lavoro sempre più intollerabili, minoranze di proletari escono allo scoperto con l’intento di capire in che mondo vivono, quali sono le prospettive, chi sono i naturali alleati in una eventuale lotta da assumere, chi sono i nemici da affrontare in questa lotta. In altri termini la stessa discussione che si è sviluppata tra di voi nella giornata del 19 aprile. Dunque la prima cosa di cui dobbiamo prendere coscienza è che in quella sala noi non eravamo soli, ma eravamo virtualmente in compagnia di migliaia e migliaia di individui presenti in tutto il mondo che stanno facendo esattamente la stessa cosa. Ma ancora possiamo dire che queste migliaia di persone sono l’espressione di milioni di persone che vivono esattamente lo stesso sentimento di insofferenza e che trovano ancora qualche difficoltà per emergere dal torpore dell’ideologia borghese e dal controllo dei mass media. In altri termini dobbiamo vivere questi momenti come l’espressione di una classe che riprende consapevolezza del suo destino storico e che cerca di forgiare le sue armi autentiche, la sua unità e la sua coscienza, per affrontare la lotta storica del futuro. A tale riguardo noi vi invitiamo a dare uno sguardo a quello che succede al di fuori del nostro piccolo steccato e a prendere conoscenza non solo delle lotte ma anche di tutte le iniziative che si producono in altri paesi del mondo. In tal senso vi suggeriamo la lettura di alcuni articoli che abbiamo di recente pubblicato ma che non sono per il momento disponibili in lingua italiana. Cercheremo col tempo di fare delle traduzioni per rendere questi testi meglio fruibili.[1]
Abbiamo anche insistito, in occasione dell’incontro del 19 aprile, sul fatto che quella era una riunione vostra e che la funzione della CCI era solo di rendere possibile quella riunione e di lavorare alla sua migliore riuscita. Anche su questo pensiamo che dobbiamo esprimere una insistenza. Che significa che la CCI si dà da fare, mette in moto le sue risorse, le sue energie, per realizzare una riunione che definisce una riunione “non della CCI ma dei singoli partecipanti”? Non c’è qualcosa di strano in tutto questo? Effettivamente è alquanto inedito, nel periodo attuale, sentire cose di questo tipo e - se non fosse per la stima che i vari compagni hanno nella CCI - questa operazione risulterebbe, alla luce delle pratiche politiche a cui assistiamo oggi anche tra alcune organizzazioni di una certa sinistra, alquanto sospetta. In realtà invece questa iniziativa intende rispondere, da una parte, a quella richiesta di chiarezza politica che è stata evocata prima, dall’altra riprendere quella tradizione che è stata sempre presente nei partiti operai e che corrisponde al fatto di rendere disponibili le sedi di partito come punto di incontro per i proletari per discussioni o incontri di vario genere. Quindi il fatto che la riunione abbia avuto luogo per iniziativa della CCI risponde al fatto che, oggi come oggi, la classe è ancora intimidita, fa ancora fatica a cacciare la testa fuori dal sacco in cui l’hanno rinchiusa. Noi certamente torneremo a intraprendere tali iniziative, ma va da sé che, a mano a mano che il proletariato prenderà fiducia in sé stesso e comincerà a organizzare riunioni di sue iniziativa, queste riunioni promosse dalla CCI potranno perdere di significato fino a rendersi del tutto inutili.
Come è andata dunque questa riunione del 19 aprile? Diciamo senz’altro bene o anche benissimo, se si considera che è solo la prima esperienza di questo tipo in Italia. La riunione ha visto una fase preparatoria in cui una serie di compagni esterni alla CCI si sono implicati - assieme alla CCI - a preparare le presentazioni politiche, organizzare la scaletta della giornata, organizzare i team responsabili delle conclusioni, provvedere materialmente a preparare del cibo cucinato da consumare nella pausa pranzo della giornata. Su questi vari piani abbiamo potuto verificare la presenza di un autentico spirito militante da parte dei compagni nel senso che l’iniziativa è stata vissuta veramente come una iniziativa di tutti e il lavoro che ognuno ha svolto è stato dato a piene mani e con grande spirito di dedizione perché si avvertiva effettivamente l’importanza di quanto si stava compiendo. Naturalmente siamo anche molto soddisfatti della discussione, svolta a partire, lo ripetiamo, da presentazioni preparate da compagni non facenti parte della CCI e che, a quanto ne sappiamo, non hanno alcuna esperienza politica organizzata alle spalle. Ottime le presentazioni, ottima la discussione, che ha visto la partecipazione di tutti i partecipanti. Sulla discussione però si è notato un divario tra il primo tema e il secondo, dovuto forse in parte alla stanchezza che è subentrata ad un certo punto della giornata, ma forse, come è stato detto nelle conclusioni della CCI alla riunione, anche al fatto che il tema sulla classe operaia, per come era stato formulato nell’elenco proposto dalla CCI, poteva dare spunto ad una lettura in chiave esclusivamente sociologica e non politica. Per cui non crediamo che questa debolezza che ha avuto la discussione nella seconda parte sia da attribuire ai compagni presenti ma piuttosto ad una formulazione non felice di un tema che resta tuttavia importante.
Un elemento che noi della CCI abbiamo potuto apprezzare in questa riunione è il fatto che - grazie all’organizzazione dell’evento, che si è svolto in un posto gradevole, dove è stato possibile fare uno spuntino all’aperto nel giardino esterno con tutte le cose buone preparate dalle compagne, con delle pause durante le quali i compagni si sono potuti rilassare e chiacchierare tra di loro, concludendo il tutto con una passeggiata e una pizza per tutti - si è stabilita tra tutti un’atmosfera di cordialità e di fratellanza. Questo non è un aspetto minore nella misura in cui il proletariato, per realizzare la sua missione storica, dovrà sì realizzare la sua unità e la sua coscienza, ma questo lo potrà fare recuperando pienamente la sua identità di classe, ritrovando lo spirito di solidarietà e di fiducia reciproca che esisteva al suo interno nel XIX secolo e che è stato distrutto dallo stalinismo e dalla controrivoluzione.
Per finire: come continuare? Tanti compagni ci hanno chiesto subito di promuovere a breve un’altra riunione di questo tipo. Noi siamo orgogliosi naturalmente di come è stata recepita questa iniziativa e sicuramente promuoveremo una prossima riunione analoga a quella di aprile, anche se è preferibile aspettare ottobre prossimo per permettere una buona preparazione. Ma vogliamo pure dire che la stessa riunione del 19 aprile non è finita lì: occorre infatti che tutta la ricchezza della riunione sia pienamente sfruttata dai compagni. Come? Anzitutto ricordiamo che molti punti della discussione non sono stati del tutto sviluppati, alcune cose sono state accennate ma richiedono obiettivamente delle argomentazioni più sostanziose. Ricorderete che, durante la discussione, noi abbiamo stimolato tutti i compagni presenti a non fermarsi alle affermazioni o alle citazioni di Tizio o di Caio, ma a portare delle argomentazioni convincenti a sostegno delle diverse tesi sostenute. E’ chiaro che questo non è sempre facile sul momento, ma ciò non toglie che la discussione non possa continuare al di là di quella specifica giornata. Ad esempio ricorderete che si è sviluppata tutta una discussione sulla questione del microcredito e della banca di Yunus, discussione sulla quale c’era una difficoltà a convincersi fino in fondo per mancanza di elementi di conoscenza. E’ perciò che abbiamo chiesto al compagno che aveva portato avanti la critica al microcredito di produrre un piccolo testo da mettere a disposizione di tutti gli altri. Sulla base della discussione effettuata e di questo testo, altri compagni potranno sviluppare le loro riflessioni così che la discussione potrà continuare tramite scambio di mail. Un’altra questione su cui varrebbe la pena di tornare è quella delle coabitazioni, su cui ci sono stati degli interventi non sempre del tutto omogenei. A tal proposito sarebbe opportuno tornare sul tema a partire da una migliore definizione delle reciproche posizioni (…) A presto rivederci (…)
25 maggio 2008 Un abbraccio a tutti, i compagni della CCI.
[1] Vedi « Salut au "Comité Communiste de Réflexion" de Toulouse [53] »
Ancora una volta il Caucaso è stato messo a ferro e fuoco. Nello stesso momento in cui Bush e Putin assaggiavano dei dolci a Pechino e assistevano praticamente fianco a fianco alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici, preteso simbolo di pace e di riconciliazione tra i popoli, il presidente georgiano Saakachvili da una parte - protetto dalla Casa bianca - e la borghesia russa dall’altra, inviavano i loro soldati per compiere un terribile massacro di popolazioni. Questa guerra ha dato luogo ad una nuova quasi-«epurazione etnica» da ognuno dei due lati di cui è impossibile valutare esattamente il numero di vittime (diverse migliaia di morti) di cui buona parte popolazione civile.
Una nuova dimostrazione della barbarie guerriera del capitalismo
Ognuno dei due campi accusa l’altro di essere il fautore della guerra o si giustifica di aver agito in quanto posto con le spalle al muro. E’ in risposta ad una serie di provocazioni della borghesia russa e delle sue frazioni separatiste in Ossezia che il presidente georgiano Saakachvili ha creduto di poter scatenare impunemente la brutale invasione della minuscola provincia di Ossezia del sud nella notte tra il 7 e l’8 agosto con le truppe georgiane appoggiate dall’aviazione ed ha ridotto in un batter d’occhio in cenere la città di Tskhinvali, “capitale” della provincia separatista filo-russa.
Intanto Mosca ha fatto entrare in scena delle milizie ai suoi ordini nell’altro focolare separatista della Georgia, l’Abhasia che hanno investito la valle di Kodori; le forze russe hanno direttamente replicato in modo così selvaggio e barbaro bombardando intensamente molte città georgiane (fra cui il porto di Poti sul Mar Nero, interamente distrutto e saccheggiato, come pure la sua base navale e soprattutto Gori, di cui la maggior parte degli abitanti ha dovuto fuggire sotto un bombardamento a tappeto).
In un lampo, i carri armati russi hanno occupato un terzo del territorio georgiano, minacciando anche la capitale, con i blindati che avanzavano pavoneggiandosi parecchi di loro a qualche decina di chilometri da Tbilisi, senza che - alcuni giorni dopo la tregua - abbiano anche solo accennato al minimo ritiro delle truppe. Da entrambi i lati, si riproducono le stesse scene di orrore e di macelli. La quasi totalità della popolazione di Tskhinvali e dei suoi dintorni (30.000 profughi) è stata costretta a fuggire dalla zona dei combattimenti. Secondo il portavoce dell’Alto commissariato ai profughi, nell’insieme del paese il numero di profughi, spaventati e privati di tutto (fra cui la maggioranza degli abitanti di Gori), arriva in una settimana 115.000 persone.
Il conflitto covava da tempo. L’Ossezia del sud come l’Abhasia, regioni infestate di contrabbandieri e di trafficanti di tutti i tipi, sono due minuscole repubbliche autoproclamate filo-russe, sulle quali la Russia esercita un controllo permanente. Esse sono diventate, da quasi da 20 anni, a partire dalla proclamazione di indipendenza della Georgia ed in modo crescente con le guerre successive, il teatro di pressioni come di conflitti incessanti e di macelli tra i due stati vicini. La strumentalizzazione di minoranze russe in Georgia per giustificare una politica imperialista aggressiva non è certamente una pratica politica che si può far risalire alla sola Germania dell’epoca nazista (come per l’episodio dei Sudeti in Cecoslovacchia), perché è stata la pratica di tutto il 20° secolo. Come dichiarava uno specialista nel numero di Le Monde del 10 agosto “L’Ossezia del sud non è né un paese, né un regime. E’ una società mista che s’è costituita tra i generali russi e dei banditi osseti per fare denaro sullo sfondo del conflitto con la Georgia”.
Il ricorso al nazionalismo più esasperato e all’avventurismo militare è, per la borghesia, sempre il mezzo favorito per tentare di regolare i problemi di politica interna. Mentre il presidente georgiano era stato trionfalmente eletto con il 95% dei voti all’indomani della “rivoluzione delle rose” dell’autunno 2003 diretta contro l’ex ministro “sovietico” Shevardnadze, è stato rieletto con difficoltà all’inizio del 2008, malgrado il sostegno attivo degli Stati Uniti, essendo fortemente screditato dalle sue frodi e dal suo regime autocratico. Questo partigiano incondizionato di Washington ereditava d’altronde uno Stato interamente sostenuto fin dalla sua creazione nel 1991 dagli Stati Uniti come testa di ponte “del nuovo ordine mondiale” da parte di Bush padre. Ciò l’ha probabilmente condotto a sovrastimare il sostegno che avrebbero potuto portargli le potenze occidentali nella sua impresa, a cominciare dagli Stati Uniti. Se la Russia de Putin, tendendo una trappola a Saakachvili in cui quest'ultimo è caduto, ha colto un’occasione formidabile per mostrare i muscoli e restaurare la sua autorità nel Caucaso (che costituisce una vera scheggia piantata nel tallone di ferro russo), questa è in risposta all’accerchiamento della Russia con le forze della NATO che si è prodotto dal 1991 in poi. Questo accerchiamento ha raggiunto un livello inaccettabile per la Russia con la recente richiesta della Georgia e dell’Ucraina, appoggiata dagli Stati Uniti, di raggiungere la NATO. Ugualmente e soprattutto la Russia non può tollerare il programma di installazione dello scudo anti-missili previsto in particolare in Polonia e nella Repubblica Ceca, programma che essa considera, non senza ragioni, diretto in realtà non contro l’Iran ma contro la Russia. La Russia ha approfittato del fatto che la Casa Bianca, le cui forze militari si trovano impantanate in Iraq ed in Afghanistan, ha le mani legate per lanciare una controffensiva militare nel Caucaso, qualche tempo dopo aver ristabilito a gran pena la sua autorità nelle guerre atrocemente sanguinose in Cecenia
Ma la responsabilità di questa guerra e di queste carneficine non si limita ai suoi protagonisti più diretti. Tutte le potenze imperialiste che oggi ipocritamente fingono di piangere sulla sorte della Georgia hanno tutte le mani inzuppate nel sangue per le peggiori atrocità, sia che si tratti degli Stati Uniti riguardo all’Iraq nelle due guerre del Golfo, o della Francia per il genocidio in Ruanda nel 1994 o ancora della Germania che ha avuto un ruolo determinante nello scoppio della terribile guerra dei Balcani del 1992.
Ovviamente, la fine della guerra fredda e della politica dei blocchi non ha visto da nessuna parte “l’era di pace e di stabilità” nel mondo, dall’Africa al Medio Oriente, passando per i Balcani e adesso per il Caucaso. Lo smantellamento dell’ex-impero del blocco staliniano non ha portato che allo scatenarsi di nuovi appetiti imperialisti ed ad un caos guerriero crescente.
La Georgia ha costituito, d’altra parte, una sfida strategica importante che ha spinto molte potenze a corteggiarla in modo interessato nel corso di questi ultimi anni. In precedenza semplice corridoio di transito del petrolio russo dal Volga e dagli Urali sotto l’era staliniana, il Mar Nero è diventato dopo il 1989 la via reale di sfruttamento delle ricchezze del Mar Caspio. Nel bel mezzo di questa zona, la Georgia è così diventata un centro principale per il petrolio ed il gas del Mar Caspio dell’Azerbaigian, del Kazakistan e del Turkmenistan e, dal 2005, i 1800 km dell’oleodotto BTC costruiti sotto il patronato diretto degli americani collega il porto azero di Baku al terminal turco di Ceyhan passando per Tbilisi, mettendo così fuori gioco la Russia dai processi di incanalamento del petrolio del Caspio. Per Mosca, c'è la minaccia imminente di vedere l’Asia centrale, che concentra il 5% delle riserve mondiali di petrolio e di gas, porsi in alternativa alla sovranità della Russia a proposito dell’approvvigionamento di gas per l’Europa. Tanto più che l’Unione Europea sogna a sua volta di realizzare un progetto di gasdotto di 330 chilometri battezzato Nabucco, parallelo al tracciato dell’oleodotto BTC, che colleghi direttamente i campi di gas dell’Iran e dell’Azerbaigian all’Europa attraverso la Turchia, mentre la Russia, il cui nuovo presidente Medvedev è un vecchio proprietario della Gazprom, architetta in risposta un progetto titanico concorrente che attraverserebbe il Mar Nero per raggiungere l’Europa, il cui costo è stimato in 20 miliardi di dollari.
Verso una nuova guerra fredda?
Le due ex-teste di blocco, la Russia e gli Stati Uniti, si ritrovano così di nuovo pericolosamente faccia a faccia, ma in un quadro di relazioni interimperialiste completamente diverso dal periodo della guerra fredda quando la disciplina di blocco non falliva. All’epoca, ci avevano a lungo fatto credere che il conflitto tra i due blocchi rivali fosse anzitutto l’espressione di una lotta ideologica: la lotta delle forze della libertà e della democrazia contro il totalitarismo, assimilato al comunismo. Oggi, si vede bene come quelli che ci avevano promesso “una nuova era di pace e di stabilità” ci hanno ingannato, e che lo scontro che esiste oggi tra le varie potenze esprime solo una concorrenza bestiale e mortale per dei sordidi e meschini interessi imperialisti che sorgono senza più mascheramenti.
Oggi, le relazioni tra nazioni sono dominate dal ciascuno per sé. In effetti, “la tregua” non fa che ratificare il trionfo dei padroni del Cremlino e la superiorità della Russia sul terreno militare in Georgia, comportando una quasi capitolazione che umilia la Georgia (la cui integrità territoriale non è più garantita) alle condizioni dettate da Mosca. Così, questa parodia delle “forze di pace” installate in Ossezia del sud ed in Abhasia esclusivamente riservate allo stesso esercito russo, equivale ad un riconoscimento ufficiale dell’installazione permanente di reali truppe di occupazione russa in pieno territorio georgiano. La Russia ha d’altronde profittato del suo vantaggio militare per reinstallarsi in Georgia con le sue truppe dispiegate su quasi tutto il territorio georgiano, a scapito della “Comunità internazionale”.
E’ dunque un nuovo clamoroso insuccesso che subisce “il padrino” della Georgia, la borghesia americana. Mentre la Georgia ha pagato un tributo pesante (un contingente forte di 2000 uomini inviati in Iraq ed in Afganistan) per la sua fedeltà agli Stati Uniti, in cambio lo zio Sam non ha saputo servire altro al suo alleato che un sostegno morale e prodigare inutili condanne verbali alla Russia senza potere levare neanche un dito per difenderla. L’aspetto più significativo di questo indebolimento è che la Casa Bianca non ha alcun altro piano da proporre in alternativa a questo accordo bislacco “di tregua” costruito in maniera raffazzonata e che è costretta ad avallare “il piano europeo”, e peggio ancora un piano le cui condizioni sono dettate dagli stessi Russi. Più umiliante ancora è il fatto che la sua rappresentante, Condoleeza Rice, si è dovuta spostare per forzare il presidente georgiano a firmarlo. Tutto ciò la dice lunga sull’impotenza americana e sul declino della prima potenza mondiale. Questa nuova tappa del suo indebolimento non può che contribuire a discreditarla ulteriormente agli occhi del mondo e preoccupare gli stati che sono costretti a far conto sul suo appoggio, come la Polonia o l’Ucraina.
Se gli Stati Uniti mostrano la loro impotenza, l’Europa illustra in occasione di questo conflitto il livello raggiunto dal ciascuno per sé. Così, di fronte alla paralisi americana, è la “diplomazia europea” che è entrata in azione. Ma è significativo che sia il presidente francese Sarkozy ad esserne il portavoce come presidente in carica dell’Unione europea, laddove questi non rappresenta spesso che sé stesso nelle sue prestazioni esasperanti, privo di ogni coerenza e campione della navigazione a vista sulla scena internazionale. Ancora una volta Sarkozy si è affrettato a ficcare il suo naso nel conflitto soprattutto per vanagloria. Ma il famoso “piano di pace francese” (egli non ha potuto mantenere a lungo l’illusione di farlo passare per un grande successo diplomatico nazionale o europeo) non è che un ridicolo simulacro che maschera male il fatto che le sue condizioni sono puramente e semplicemente imposte dai Russi.
Quanto all’Europa, come potrebbe trarre profitto dal momento che vi si ritrovano posizioni ed interessi diametralmente opposti. Come potrebbe avere un minimo di unità nelle sue file con la Polonia e gli stati baltici - difensori entusiasti della Georgia per condizionamento viscerale anti-russo da un lato - e la Germania dall’altro che, per opporsi alla volontà di dominio americano nella regione, è stata fra gli oppositori più risolti all’integrazione della Georgia e dell’Ucraina nella NATO? Se recentemente Angela Merkel ha fatto uno spettacolare voltafaccia andando a garantire al presidente georgiano il proprio sostegno a questa candidatura, è perché vi è stata costretta dall’impopolarità crescente della Russia che si comporta con tracotanza in tutta la Georgia come se fosse un territorio conquistato, ormai in balia della riprovazione generale “della Comunità internazionale”. In qualche modo l’Europa fa pensare ad un canestro di granchi, con la Francia che cerca di fare cavaliere solo e che, cercando di salvare capra e cavolo, ha appena reso un grande servizio a Putin e la Gran Bretagna, che ha preso subito la difesa della Georgia per meglio opporsi al suo grande rivale, la Germania.
Quanto al vantaggio tirato dalla Russia stessa, questo risulta molto limitato. Certamente, questa rafforza a breve termine la sua posizione imperialista non solo nel Caucaso e si fa temere di nuovo sulla scena mondiale. La flotta russa si è resa padrona dei mari e minaccia di colare a picco tutte le imbarcazioni che se la dovessero prendere con lei nella regione. Benché la Russia sia riuscita a serrare le sue posizioni nel Caucaso, questa vittoria militare è insufficiente a dissuadere gli USA a portare avanti il suo progetto di scudo anti-missili sul suolo europeo: al contrario, essa spinge la Casa Bianca ad accelerarne lo sviluppo, come provato dall’accordo con la Polonia per una loro installazione sul suolo polacco. D’altronde, come rappresaglia, il vice capo di stato maggiore russo ha minacciato la Polonia designandola come obiettivo prioritario del suo arsenale nucleare.
Di fatto, l’imperialismo russo non è tanto interessato all’indipendenza o all’annessione dell’Ossezia del sud e dell’Abhasia, quanto a ritrovarsi in posizione di forza per tirare i fili dei negoziati che si dovranno condurre sull’avvenire della Georgia. Ma al fondo, la sua aggressività bellicosa e l’enormità dei mezzi militari messi in campo in Georgia risvegliano i vecchi timori che essa ispirava ai suoi rivali imperialisti e si ritrova diplomaticamente più isolata che mai per rompere il suo accerchiamento.
Ormai nessuna potenza può pretendere di essere padrona o di controllare la situazione e le oscillazioni o le inversioni di alleanze alle quali assistiamo e che traducono bene una destabilizzazione pericolosa delle relazioni imperialiste.
Non vi è possibilità di pace nel capitalismo
Viceversa, quello su cui non c’è alcun dubbio è che tutte le potenze, grandi o piccole, mostrano lo stesso interesse e la stessa sollecitudine per svolgere un ruolo ed occupare un posto sul terreno diplomatico in una regione del mondo che concentra interessi geostrategici di grande importanza. Ciò sottolinea la responsabilità di tutte le potenze, grandi o piccole che siano, in questa situazione. Con il petrolio ed il gas del Caspio o dei paesi dell’Asia centrale spesso di lingua turca, sono impegnati gli interessi vitali della Turchia e dell’Iran in questa regione del mondo, ma in realtà è il mondo intero ad essere coinvolto nel conflitto. Ci si può tanto più facilmente servire di uomini come carne da cannone nel Caucaso visto che questa regione è un mosaico di grovigli multietnici: per esempio, gli Osseti sono di origine iraniana … Con tale frazionamento non è difficile per questa o quella potenza interessata attizzare il fuoco guerriero del nazionalismo. Anche il passato di dominio della Russia pesa fortemente e prefigura altre tensioni imperialiste più gravi e più ampie ancora per il futuro: vedi ad esempio l’inquietudine e la mobilitazione degli stati baltici e soprattutto dell’Ucraina, potenza militare con il suo arsenale nucleare di tutt’altra importanza che quello della Georgia.
Questa guerra aumenta il rischio di infiammare e destabilizzare paesi interi - e non solo a livello regionale - perché avrà in avvenire conseguenze inevitabili a livello mondiale sull’equilibrio delle forze imperialiste. “Il piano di pace” è pura finzione, è della polvere negli occhi che concentra in realtà tutti gli ingredienti di una nuova pericolosa scalata guerriera per in futuro, minacciando così di aprire una catena continua di focolai di guerra dal Caucaso al Medio Oriente.
Si assiste ad un accumulo di rischi esplosivi in molte zone molto popolate del pianeta: il Caucaso, il Kurdistan, il Pakistan, il Medio Oriente, ecc. E non basta: le potenze imperialiste dimostrano ancora una volta la loro incapacità a regolare i problemi ed attizzano al contrario i focolai di guerra, ma ogni nuovo conflitto aperto esprime una dimensione superiore a livello di sfide e di scontri. Ciò viene a dimostrare ancora una volta che il capitalismo non ha più nulla da offrire oltre allo scatenarsi della barbarie guerriera e delle carneficine di cui frazioni sempre più ampie di popolazione sono ostaggio e fanno le spese. Il balletto degli sciacalli sulla Georgia non è che un anello nella catena del sanguinoso e mostruoso sabba guerriero che il capitalismo non cessa di ballare nel mondo.
W. (17 agosto 2008)
In realtà c'è stato un cambiamento di periodo storico dal Maggio ‘68 dove lo sciopero di massa di più di 9 milioni di operai ha espresso la fine del lungo periodo di controrivoluzione subito dal proletariato dopo lo schiacciamento dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23. Gli avvenimenti del Maggio ‘68 hanno aperto una nuova prospettiva di sviluppo internazionale della lotta di classe.
Su questo tema invitiamo i compagni a partecipare ad una RIUNIONE PUBBLICA che si terrà:
▪ a Milano sabato 17 maggio, ore 16.00, presso la libreria Calusca, via Conchetta 18
▪ a Napoli sabato 31 maggio, ore 17 presso la libreria Jamm, via San Giovanni Maggiore Pignatelli 35Beppe Grillo è soddisfatto! “Il V2-day è stato un successo perché quasi 500 piazze in Italia e all’estero hanno partecipato, perché sono state raccolte 1.300.000 firme in un giorno, perché 120.000 persone hanno ascoltato per sei ore in piedi sotto un caldo estivo economisti, ambientalisti, operai metalmeccanici e anche Beppe Grillo” (da La Settimana sul blog di B. Grillo). Effettivamente può ben essere soddisfatto! E’ riuscito ancora una volta a fungere da valvola di sfogo alla rabbia e alla sfiducia di migliaia e migliaia di lavoratori e di giovani verso una classe politica il cui marciume e la cui incapacità a dare un minimo di stabilità sociale ed economica alla stragrande maggioranza della popolazione diventa sempre più evidente.
Anzi, ha fatto molto di più. E’ riuscito, temporaneamente, da una parte ad incanalare questa rabbia sui binari della legalità borghese, dall’altra a convertirla in rinnovata fiducia verso la classe dirigente e le sue istituzioni. Qual è infatti la “grande battaglia” che Grillo porta avanti con i tre referendum sull’informazione? “Libera informazione in libero Stato” perché, come ci spiega Grillo a proposito delle emittenti televisive, “le frequenze radiotelevisive sono in concessione, significa che sono di proprietà dello Stato, che può decidere, liberamente, a chi assegnarle. Le frequenze sono quindi dei cittadini, di nostra proprietà”. Per cui, come ci spiega anche Travaglio sullo stesso blog, noi “cittadini” dovremmo essere solidali e batterci a fianco di un Di Stefano, proprietario dell’emittente Europa7 che, poverino, “continua a rimanere al palo con la sua televisione, per la quale ha investito una marea di soldi per creare un centro di produzione di 22.000 metri sulla Tiburtina, otto studi di registrazione, gli uffici, le tecnologie, la library con tremila ore di programmi”, perché non ha ottenuto la concessione, mentre Rete4 di Berlusconi trasmette senza aver avuto la concessione. Quale ingiustizia!
Dovremmo batterci per abolire l’albo dei giornalisti in modo da “essere tutti giornalisti” e avere così la possibilità di dire ognuno la sua. Questa è democrazia!
E come dovremmo fare questa battaglia? Mettendo nelle mani della Corte di Cassazione le nostre firme confidando nella giustizia e nel rigore delle leggi dello Stato.
Qualcuno potrebbe obbiettare: “ma voi sottovalutate l’importanza dell’informazione nella presa di coscienza del marciume di questa società e della necessità di reagire a questo”.
Niente affatto! Ci chiediamo solo come mai, mentre sul blog di Grillo, su quello di Travaglio e su quello della “compagna” Franca Rame si spendono ogni giorno milioni di parole sulle malefatte di questo o quel politico, sulle loro magagne e gli affari loschi, sulla “giustizia” che non funziona, mentre si fa tanto clamore sul fatto che Berlusconi vuole abolire le intercettazioni telefoniche, non si spende mezza parola sulle lotte dei lavoratori che in Germania, in Inghilterra, in Francia, in Egitto, in Turchia, in Cina stanno effettivamente reagendo contro le insostenibili condizioni economiche in cui questo sistema ci costringe a vivere?
D’altro canto, mai come in questo momento ci sono state tante trasmissioni di denuncia del malcostume politico, delle menzogne o delle verità occultate sulla gestione criminale da parte delle istituzioni pubbliche pagate a caro prezzo dalla popolazione sia in termini economici che di salute. Da Report ad Ambiente Italia, da Annozero a Matrix e persino da una trasmissione come Le Iene, senza contare i libri e la stampa “alternativa”, siamo quotidianamente bombardati dalle “denunce”. Tutto questo, contrariamente alle aspettative, va benissimo alla classe dominante perché il messaggio che ne viene fuori è: risolvere i problemi si può individuando i responsabili, e per fare questo occorre stringersi intorno al nostro Stato, perché lo Stato siamo noi cittadini; per cui difendiamo la vera democrazia contro gli egoismi ed il malaffare di una classe politica di corrotti. E la democrazia serve proprio a questo: tutti possono dire tutto, tranne che mettere in discussione il sistema, il suo Stato con la sua Costituzione e le sue leggi.
Travaglio, nel suo intervento critico sul discorso di Napolitano per il 25 aprile, ha detto che in questo discorso: “… è tutto sconvolto, non solo il vocabolario delle nostre istituzioni. È sconvolta la logica, è sconvolto l’ordine pubblico, è sconvolta la Costituzione. Di fatto vengono sospese le garanzie costituzionali, vengono vietate le manifestazioni come simboli di complicità con la monnezza e viene espropriata la magistratura del suo diritto-dovere di perseguire i reati e presto non avremo più nemmeno il controllo delle intercettazioni” (riportato sul blog di Grillo). Dov’è la menzogna? Nel far credere che in questo momento la borghesia stia sconvolgendo la sua stessa logica, che sia in atto una “virata fascista”. La logica borghese è invece ben salda: le “garanzie costituzionali” di cui parla Travaglio sono appunto lo strumento che giustifica l’uso della polizia quando le proteste, come a Chiaiano, diventano “eccessive”, mandando all’ospedale e in galera chi manifesta, in nome della salvaguardia dell’ordine pubblico e degli interessi dei “cittadini”[1]. Cosa ci chiede Travaglio? Di identificarci con queste “garanzie costituzionali” e di farci difensori del “diritto-dovere di perseguire i reati” della magistratura, in altri termini di farci difensori di quest’altro strumento di repressione dello Stato che condanna, mette in galera e perseguita anche chi cerca di difendersi dagli attacchi sul posto di lavoro, come gli operai della Fiat di Pomigliano recentemente.
Come abbiamo già detto nel nostro articolo sul V-day dello scorso ottobre[2], anche il V-day del 25 aprile e questo “movimento” che vi ruota intorno non è che: “Un appello rivolto soprattutto alla nuova generazione che invece di sviluppare una comprensione della barbarie di questa società e trovare la via per combatterla, è chiamata a soccorrerla partecipando alla sua gestione, spacciando la partecipazione per libertà. E’ chiamata a difendere la democrazia, cioè l’arma di mistificazione più potente che ha in mano la borghesia, …, quando l’unica possibilità per cambiare veramente le cose è la lotta autonoma e gestita in prima persona dai proletari di oggi e di domani.”
Eva, 11 giugno 2008
[1] Ricordiamoci del G8 del 2001 a Genova quando mentre si lasciavano indisturbati i Black block a spaccare vetrine e bruciare auto, si pestavano a sangue giovani inermi e un giovane venne ucciso, o quando nel marzo dello stesso anno a Napoli la manifestazione contro il Global Forum fu strategicamente ingabbiata dalla polizia in piazza Municipio per poter pestare con calci e pugni chi capitava, senza neanche avere la scusa delle “provocazioni esterne”, e qui c’era anche allora una giunta di “sinistra”.
Questa estate è stata segnata da un nuovo scatenamento della barbarie guerriera del capitalismo. In Georgia, Afganistan, Libano, Algeria, Pakistan, sono state essenzialmente le popolazioni civili che sono state selvaggiamente massacrate nei conflitti armati tra le differenti bande imperialiste. E sono dei giovani, appena usciti dall’adolescenza, che sono stati inquadrati per servire da carne da cannone negli attentati terroristi e negli interventi militari delle piccole e grandi potenze. Dappertutto il capitalismo semina la morte! Dappertutto la classe dominante ci trascina, giorno dopo giorno, nel fango e nel sangue!
E una volta ancora è in nome della «pace», della lotta contro il «terrorismo», della difesa della «civilizzazione», dei «diritti dell’uomo» e della «democrazia», che la borghesia, negli Stati Uniti come nei paesi europei, partecipa allo scatenamento di questo caos sanguinoso. Pretendendo di fare i giustizieri in Georgia, in Iraq o in Afganistan, le grandi potenze non hanno altro obiettivo, in realtà, che difendere i propri interessi di banditi imperialisti sulla scena internazionale.
Le promesse di Bush padre su un «nuovo ordine mondiale», che avrebbe dovuto aprire una nuova epoca di «pace» e di «prosperità» dopo il crollo del blocco dell’est, appaiono ora sempre più chiaramente per quello che erano: una enorme menzogna! E’ in nome di questo «nuovo ordine mondiale» che fu scatenata la prima crociata dell’Occidente «civilizzato» contro la «barbarie» del regime di Saddam Hussein: l’operazione «Tempesta nel deserto» del 1991, che ha permesso allo Stato americano di sperimentare i suoi nuovi armamenti (in particolare le bombe a decompressione che rivoltavano i soldati irakeni come dei guanti). In realtà, questo intervento militare massiccio delle grandi potenze «democratiche» non ha fatto che aprire un vaso di Pandora e aggravare il caos mondiale.
La follia mortale del capitalismo non può che continuare a svilupparsi. Poiché questo sistema decadente è basato sulla divisione del mondo in nazioni concorrenti, con interessi antagonisti, esso porta con sé la guerra. Il solo mezzo per mettere fine alla barbarie guerriera è farla finita con il capitalismo. E questa prospettiva di rovesciamento del capitalismo non è un compito impossibile da realizzare.
La guerra non è una fatalità di fronte a cui l’umanità sarebbe impotente. Il capitalismo non è un sistema eterno. Esso non porta solo nel suo seno la guerra, esso ha in sé le condizioni del suo superamento, i germi di una nuova società senza frontiere nazionali, e dunque senza guerre.
Creando una classe operaia mondiale, il capitalismo ha fatto nascere il suo affossatore. Poiché la classe sfruttata, contrariamente alla borghesia, non ha interessi antagonisti da difendere, essa è la sola forza della società che possa unificare l’umanità. Essa è la sola forza che possa edificare un mondo basato non sulla concorrenza, lo sfruttamento e la ricerca del profitto, ma sulla solidarietà e sulla soddisfazione dei bisogni di tutta la specie umana. E questa prospettiva non è una utopia! Contrariamente a quello che sostengono gli scettici di ogni tipo e gli ideologi della classe dominante, la classe operaia può finirla con la guerra e aprire le porte all’avvenire. Essa ha potuto mettere fine alla prima carneficina mondiale grazie alla rivoluzione dell’Ottobre 1917 in Russia e alla rivoluzione in Germania del 1918.
Dalla fine degli anni ’60, è la ripresa delle lotte operaie contro gli effetti della crisi economica che ha impedito alla classe dominante di trascinare i proletari dei paesi centrali in una terza guerra mondiale.
Oggi, di fronte all’aggravarsi della crisi economica e agli attacchi contro tutte le loro condizioni di vita, di fronte al vicolo cieco del sistema capitalista, i proletari non sono pronti ad accettare passivamente il rafforzamento della miseria e dello sfruttamento, come testimoniano le lotte operaie che sono sorte ai quattro angoli del mondo in questi ultimi anni.
Il cammino è ancora lungo prima che il proletariato mondiale possa alzare le sue lotte al livello della posta in gioco nella situazione attuale. Ma la dinamica delle attuali lotte, marcate dalla ricerca della solidarietà, così come l’entrata di nuove generazioni nella lotta della classe, mostra che il proletariato è sulla buona strada.
Di fronte alla barbarie guerriera, gli operai dei paesi centrali non possono restare indifferenti. Sono i loro fratelli di classe che cadono ogni giorno sui campi di battaglia. Sono le popolazioni civili (uomini, donne, bambini, vecchi) che in ogni conflitto sono decimati dai peggiori atti di barbarie che il capitalismo in agonia produce.
Di fronte agli orrori della guerra, il proletariato non ha che un solo atteggiamento da assumere: la solidarietà.
Questa solidarietà con le vittime di questo bagno di sangue deve manifestarla innanzitutto rifiutando di scegliere uno dei campi in guerra contro un altro. Deve manifestarla sviluppando le sue lotte contro gli attacchi del capitale, contro i suoi sfruttatori e i suoi massacratori. Esso deve sviluppare la sua unità e la sua solidarietà di classe internazionale facendo vivere la sua vecchia parola d’ordine: «I proletari non hanno patria. Proletari di tutti i paesi unitevi!»
Sylvestre (26 agosto)
Di fronte all'angoscia dell'avvenire, alla paura della disoccupazione, allo stillicidio dell'austerità e della precarietà, la borghesia utilizza le elezioni allo scopo di impedire la riflessione degli operai, sfruttando le fortissime illusioni che ancora esistono nel proletariato.
Il rifiuto di partecipare al circo elettorale non si impone in maniera evidente al proletariato per il fatto che questa mistificazione è strettamente legata a ciò che costituisce il cuore dell'ideologia della classe dominante, la democrazia. Tutta la vita sociale nel capitalismo viene organizzata dalla borghesia attorno al mito dello Stato "democratico". Questo mito è fondato sull'idea menzognera secondo la quale tutti i cittadini sono "uguali" e "liberi" di "scegliere", attraverso il voto, i loro rappresentanti politici e il parlamento viene presentato come il riflesso della "volontà popolare". Questa frode ideologica è difficile da evitare per la classe operaia per il fatto che la mistificazione elettorale si appoggia in parte su alcune verità. La borghesia utilizza, falsificandola, la storia del movimento operaio ricordando le lotte eroiche del proletariato per conquistare il diritto di voto. Di fronte alle grossolane menzogne propagandiste, è necessario tornare alle vere posizioni difese dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rivoluzionarie. E mostreremo come queste posizioni non siano una verità astratta, ma la risposta data in funzione dei diversi periodi di evoluzione del capitalismo e dei bisogni della lotta rivoluzionaria del proletariato.
Il 19° secolo è il periodo di pieno sviluppo del capitalismo durante il quale la borghesia utilizza il suffragio universale e il Parlamento per lottare contro la nobiltà e le sue frazioni retrograde. Come lo sottolinea Rosa Luxemburg nel 1904 nel suo testo Socialdemocrazia e parlamentarismo: "Il parlamentarismo, lungi dall'essere un prodotto assoluto dello sviluppo democratico, del progresso dell'umanità e di altre belle cose di questo genere, è al contrario una forma storica determinata della dominazione di classe della borghesia e un'espressione della sua lotta contro il feudalesimo. Il parlamentarismo borghese è una forma vivente solo fino a quando dura il conflitto tra la borghesia e il feudalesimo". Con lo sviluppo del modo di produzione capitalista, la borghesia abolisce la servitù ed estende il salariato per i bisogni della sua economia. Il Parlamento diventa l'arena in cui i diversi partiti borghesi si scontrano per decidere sulla composizione e sugli orientamenti del governo in carica. Il Parlamento diviene così il centro della vita politica borghese ma, in questo sistema democratico parlamentare, solo i notabili sono elettori. I proletari non hanno diritto di parola, né il diritto di organizzarsi.
Sotto l'impulso della I e poi della II Internazionale, gli operai ingaggiano delle lotte sociali molto importanti, spesso a prezzo della loro vita, per ottenere dei miglioramenti delle loro condizioni di vita (riduzione del tempo di lavoro da 14 a 10 ore, divieto di lavoro per i bambini e di lavori pesanti per le donne...). Nella misura in cui il capitalismo era allora un sistema in piena espansione, il suo rovesciamento tramite la rivoluzione proletaria non era ancora all'ordine del giorno. E' il motivo per cui la lotta rivendicativa sul terreno economico con l'ausilio dei sindacati e la lotta dei suoi partiti politici sul terreno parlamentare permettevano al proletariato di strappare delle riforme a suo vantaggio. "Una tale partecipazione gli permetteva sia di fare pressione a favore di queste riforme, di utilizzare le campagne elettorali come mezzo di propaganda e di agitazione sul programma proletario sia di impiegare il Parlamento come tribuna per denunciare le ignominie della politica borghese. E' per questo che la lotta per il suffragio universale ha costituito, per tutto il 19° secolo, in un gran numero di paesi, una delle occasioni più importanti di mobilitazione del proletariato".(1) Sono queste le posizioni che Marx ed Engels difenderanno lungo tutto questo periodo di ascesa del capitalismo per spiegare il loro appoggio alla partecipazione del proletariato alle elezioni.
All'alba del XX secolo il capitalismo ha ormai conquistato il mondo. Una volta arrivati ai limiti della sua espansione geografica, esso incontra il limite oggettivo dei mercati: gli sbocchi alla sua produzione diventano sempre più insufficienti. I rapporti di produzione capitalisti si trasformano da quel momento in ostacoli allo sviluppo delle forze produttive. Il capitalismo, nel suo insieme, entra in un periodo di crisi e di guerre di dimensioni mondiali.
Un tale rovesciamento va a produrre una modificazione profonda del modo di esistenza politica della borghesia, del funzionamento del suo apparato statale e, a maggior ragione, delle condizioni e dei mezzi della lotta del proletariato. Il ruolo dello Stato diviene preponderante perché questo è il solo capace di assumere "l'ordine", il mantenimento della coesione di una società capitalista dilaniata dalle sue contraddizioni. I partiti borghesi diventano, in maniera sempre più evidente, degli strumenti dello Stato incaricati di fare accettare la politica di questo. Il potere politico tende allora a spostarsi dal legislativo all'esecutivo e il Parlamento borghese diventa un guscio vuoto che non possiede più alcun ruolo decisionale. E' questa realtà che nel 1920, in occasione del suo II Congresso, l'Internazionale comunista caratterizza chiaramente: "L'atteggiamento della III Internazionale verso il parlamentarismo non è determinato da una nuova dottrina, ma dalla modificazione del ruolo del Parlamento stesso. Nell'epoca precedente, il Parlamento, in quanto strumento del capitalismo in via di sviluppo ha, in un certo senso, lavorato al progresso storico. Ma nelle condizioni attuali, nell'epoca dello scatenamento imperialista, il Parlamento è diventato uno strumento di menzogna, di frode, di violenza, e un esasperante mulino di parole... Nell'ora attuale, il Parlamento non può essere in nessun caso, per i comunisti, il terreno di una lotta per delle riforme e per il miglioramento della sorte della classe operaia, come fu il caso nel passato. Il centro di gravità della vita politica si è spostata al di fuori del Parlamento, e in maniera definitiva".
Ormai, è fuori questione che la borghesia possa accordare delle riforme reali e durevoli delle condizioni di vita della classe operaia. E' invece l'inverso che succede: sempre più sacrifici, miseria e sfruttamento. I rivoluzionari sono allora unanimi nel riconoscere che il capitalismo ha raggiunto dei limiti storici e che è entrato nel suo periodo di declino, come viene testimoniato dallo scoppio della Prima Guerra mondiale. L'alternativa era ormai: socialismo o barbarie. L'era delle riforme era definitivamente chiusa e gli operai non avevano più nulla da conquistare sul terreno delle elezioni.
Tuttavia un dibattito centrale si sviluppa nel corso degli anni ‘20 all'interno dell'Internazionale comunista sulla possibilità, difesa da Lenin e dal partito bolscevico, di utilizzare la "tattica" del "parlamentarismo rivoluzionario". Di fronte alle innumerevoli questioni suscitate dall'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza, il peso del passato continuava a pesare sulla classe operaia e le sue organizzazioni. La guerra imperialista, la rivoluzione proletaria in Russia, e poi il riflusso dell'ondata di lotte proletarie a livello mondiale degli anni '20 hanno condotto Lenin e i suoi compagni a pensare che il Parlamento si potesse distruggere dall'interno o che si potesse utilizzare la tribuna parlamentare in maniera rivoluzionaria. Di fatto questa tattica "sbagliata" condurrà la III Internazionale sempre più verso compromessi con l'ideologia della classe dominante. D'altra parte, l'isolamento della rivoluzione russa, l'impossibilità della sua estensione verso il resto dell'Europa con lo schiacciamento della rivoluzione in Germania, spingono i bolscevichi e l'Internazionale, e poi i vari partiti comunisti, verso un opportunismo sfrenato. E' questo opportunismo che portava a rimettere in questione le posizioni rivoluzionarie del I e del II Congresso dell'Internazionale Comunista per andare verso la degenerazione nei Congressi successivi, fino al tradimento e all'avvento dello stalinismo che fu il ferro di lancia della controrivoluzione trionfante.
E' contro questo abbandono dei principi proletari che reagirono le frazioni più di sinistra nei partiti comunisti (2). A cominciare dalla Sinistra italiana con Bordiga alla sua testa che, già prima del 1918, preconizzava il rigetto dell'azione elettorale. Conosciuta all'inizio come "Frazione comunista astensionista", questa si è costituita formalmente dopo il Congresso di Bologna nell'ottobre del 1919 e, in una lettera inviata da Napoli a Mosca, questa affermava che un vero partito, che doveva aderire all'Internazionale comunista, non poteva costituirsi che su delle basi antiparlamentariste. Le sinistre tedesca e olandese svilupperanno a loro volta la critica del parlamentarismo. Anton Pannekoek denuncia chiaramente la possibilità di utilizzare il Parlamento da parte dei rivoluzionari, perché una tale tattica non poteva che condurli a fare dei compromessi, delle concessioni all'ideologia dominante. Questa tattica mirava soltanto a trasmettere un sembiante di vita a queste istituzioni moribonde, a incoraggiare la passività dei lavoratori mentre invece la rivoluzione ha bisogno della partecipazione attiva e cosciente dell'insieme del proletariato.
Negli anni '30 la Sinistra italiana, attraverso la sua rivista Bilan, mostrerà concretamente come le lotte dei proletari francesi e spagnoli erano state deviate su di un terreno elettorale. Bilan affermava a giusto titolo che fu la "tattica" dei fronti popolari nel 1936 a permettere di imbrigliare il proletariato come carne da cannone nella seconda carneficina imperialista mondiale. Alla fine di questo indicibile olocausto, è la Sinistra comunista di Francia (da cui deriva la CCI) che pubblicava la rivista Internationalisme a fare la denuncia più chiara della "tattica" del parlamentarismo rivoluzionario: "La politica del parlamentarismo rivoluzionario ha contribuito largamente a corrompere i partiti della III Internazionale e le frazioni parlamentari sono servite da fortezze per l'opportunismo (...). La verità è che il proletariato non può utilizzare per la sua lotta di emancipazione "i mezzi di lotta politica" propri della borghesia e destinati al suo asservimento. Il parlamentarismo rivoluzionario in quanto attività reale non è, nei fatti, mai esistito per la semplice ragione che l'azione rivoluzionaria del proletariato quando sorge, presuppone la mobilitazione di classe sul piano extra-capitalista e non una presa di posizione all'interno della società capitalista" (3). Ormai, la non partecipazione alle elezioni è una frontiera di classe tra organizzazioni proletarie e organizzazioni borghesi. In queste condizioni, dopo più di 80 anni, le elezioni vengono utilizzate, a livello mondiale, da tutti i governi, quale che sia il loro colore politico, per deviare il malcontento operaio su un terreno sterile e credibilizzare il mito della "democrazia". Non è d'altra parte un caso se oggi, contrariamente al 19° secolo, gli Stati "democratici" conducano una lotta accanita contro l'astensionismo e la disaffezione dai partiti, perché la partecipazione degli operai alle elezioni è essenziale alla perpetuazione dell'illusione democratica.
Contrariamente alla propaganda che vuole convincerci che sono le urne a decidere chi governa, bisogna riaffermare che le elezioni sono una pura farsa. Certo possono esserci delle divergenze tra le frazioni che compongono lo Stato borghese sul modo di difendere al meglio gli interessi del capitale nazionale ma, fondamentalmente, la borghesia organizza e controlla il carnevale elettorale perché il risultato sia conforme ai suoi bisogni di classe dominante. A tale scopo lo Stato capitalista organizza, manipola, usa tutti i mezzi di comunicazione che sono a sua disposizione. Dalla fine degli anni '20 ad oggi, quale che sia il risultato delle elezioni, che sia la destra o la sinistra ad uscire vittoriosa dalle urne, in fin dei conti è sempre la stessa politica anti operaia che viene portata avanti.
In questi ultimi mesi la borghesia, focalizzando l'attenzione sulle elezioni vuole convincere i proletari che da queste può dipende il loro avvenire e quello dei loro figli. Non solo li getta nella miseria, ma li umilia col giochino del circo elettorale. Oggi il proletariato non ha scelta. O si lascia trascinare sul terreno elettorale, sul terreno degli Stati borghesi che gestiscono il suo sfruttamento e la sua oppressione, terreno sul quale può solo ritrovarsi atomizzato e impotente a resistere agli attacchi del capitalismo in crisi. Oppure sviluppa le sue lotte collettive, in maniera solidale ed unita, per difendere le proprie condizioni di vita. Solo così potrà ritrovare la sua forza in quanto classe rivoluzionaria che sta nella sua unità e nella capacità di lottare al di fuori e contro le istituzioni borghesi (parlamento ed elezioni) in vista del rovesciamento del capitalismo. D'altra parte, di fronte all'intensificazione degli attacchi e nonostante il battage elettorale che si ripropone periodicamente in ogni paese, il proletariato sta sviluppando a livello internazionale una riflessione profonda sul significato della disoccupazione di massa, degli attacchi a ripetizione, dello smantellamento del sistema pensionistico e di assistenza sociale. La politica anti operaia della borghesia e la risposta proletaria non possono che sfociare, ad un certo punto, in una presa di coscienza crescente, all'interno della classe operaia, del fallimento storico del capitalismo.
Il proletariato non deve partecipare alla costruzione delle proprie catene, ma deve spezzarle! Al rafforzamento dello Stato capitalista gli operai devono rispondere con la volontà della sua distruzione! L'alternativa che si pone oggi è la stessa di quella evidenziata dalle sinistre marxiste negli anni ‘20: elettoralismo e mistificazione della classe operaia o sviluppo della coscienza di classe ed estensione delle lotte verso la rivoluzione!
D.
1. Piattaforma della CCI.
2. La CCI è l'erede di questa Sinistra comunista e le nostre posizioni ne sono il prolungamento.
3. Leggere questo articolo di Internationalisme n°36 del luglio 1948, riprodotto nella nostra Rivista Internazionale n°36 (versioni in inglese, francese e spagnolo).
L'estensione dello sciopero
A Nantes, sono i giovani operai, della stessa età degli studenti, che lanciano il movimento; il loro ragionamento è semplice: "Se gli studenti, che non possono esercitare pressioni con lo sciopero, hanno avuto la forza di fare indietreggiare il governo, anche gli operai potranno farlo arretrare". Da parte loro, gli studenti della città vanno a portare la loro solidarietà agli operai, si mescolano ai loro picchetti di sciopero: fraternizzano. A questo punto, è chiaro che le campagne del PCF e della CGT che mettono in guardia contro i "gauchisti provocatori al soldo dei padroni e del ministero degli interni", che avrebbero infiltrato l'ambiente studentesco, hanno un impatto ben debole.
La sera del 14 maggio si contano in tutto 3.100 scioperanti.
Il 15 maggio il movimento guadagna la fabbrica Renault di Cléon; in Normandia altre due fabbriche della regione: sciopero totale, occupazione permanente, sequestro della Direzione, bandiere rosse ai cancelli. A fine giornata vi sono 11.000 scioperanti.
Il 16 maggio, le officine Renault entrano nel movimento: bandiere rosse a Flins, le Mans e a Billancourt. Quella sera, vi sono in tutto 75.000 scioperanti, ma l'entrata di Renault-Billancourt nella lotta è un segnale: "Quando Renault starnutisce, la Francia ha il raffreddore".
Il 17 maggio si contano 215.000 scioperanti: lo sciopero comincia ad interessare tutta la Francia, soprattutto la provincia. E' un movimento completamente spontaneo; i sindacati non fanno che seguire. Dappertutto troviamo giovani operai all'avanguardia. Si assistono numerose fraternizzazioni tra studenti e giovani operai: questi ultimi vanno nelle facoltà occupate ed invitano gli studenti a pranzare alla loro mensa.
Non ci sono rivendicazioni precise: si esprime soprattutto il malcontento accumulato; sul muro di un'officina in Normandia c'è scritto "Il tempo di vivere e più degnamente!”. Quel giorno, temendo di essere "scavalcati dalla base" ed anche dalla CFDT molto presente durante i primi giorni di sciopero, la CGT chiama all'astensione dello sciopero: essa "ha preso il tram in corsa" come si diceva all'epoca. Il suo comunicato non sarà conosciuto che il giorno dopo.
Il 18 maggio, a mezzogiorno sono un milione di lavoratori a scioperare, prima ancora che fossero rese pubbliche le consegne della CGT. In serata gli scioperanti saranno 2 milioni.
Essi saranno 4 milioni lunedì 20 maggio e 6 milioni e mezzo all'indomani.
Il 22 maggio, 8 milioni di lavoratori sono in sciopero illimitato. E' il più grande sciopero della storia del movimento operaio internazionale. E' molto più massiccio dei due precedenti: lo "sciopero generale" del maggio 1926 in Gran Bretagna (che durò una settimana) e gli scioperi di maggio-giugno 1936 in Francia.
Tutti i settori sono coinvolti: industria, energia, poste e telecomunicazioni, insegnanti, amministrazione pubblica (parecchi ministeri sono completamente paralizzati), i mezzi di informazione (la televisione nazionale è in sciopero, i lavoratori denunciano in particolar modo la censura che viene loro imposta), laboratori di ricerca, ecc. Anche le pompe funebri sono paralizzate (è una cattiva idea morire a Maggio 68). Si assisterà anche all'entrata nel movimento di sportivi professionisti: la bandiera rossa sventola sugli stabilimenti della Federazione francese di calcio. Gli artisti non sono da meno ed il Festival di Cannes è interrotto su istigazione dei registi.
In questo periodo le facoltà occupate (come anche altri edifici pubblici, per es. il teatro dell'Odeon di Parigi) diventano luoghi di discussioni politiche permanenti. Molti operai, principalmente i giovani, e non solo, partecipano a queste discussioni. Alcuni operai invitano coloro che difendono l'idea della rivoluzione a recarsi a difendere il loro punto di vista nella fabbrica occupata. E' così che, a Tolosa, il piccolo nucleo che fonderà in seguito la sezione della CCI in Francia è invitato ad esporre l'idea dei consigli operai nella fabbrica JOB occupata. E la cosa più significativa è che questo invito proviene dai militanti… della CGT e del PCF. Questi dovranno parlamentare per un'ora con dei funzionari della CGT della grande fabbrica Sud-Aviation venuti a "rafforzare" il picchetto di sciopero di JOB per ottenere l'autorizzazione a lasciare entrare dei "gauchisti" nella fabbrica. Per sei ore, operai e rivoluzionari, seduti su balle di cartone, discuteranno della rivoluzione, della storia del movimento operaio, dei soviet ed anche del tradimento… del PCF e della CGT…
Molte discussioni sorgono anche nelle strade e sui marciapiedi (in tutta la Francia c’è stato bel tempo a maggio del 68!). Esse sorgono spontaneamente, ognuno ha qualche cosa da dire ("Si parla e si ascolta" è uno slogan). Dappertutto regna un ambiente di festa, salvo nei "quartieri-bene" dove si accumulano paura e odio.
In tutta la Francia, nei quartieri, in alcune grandi imprese o intorno ad esse, sorgono "Comitati d'azione": si discute di come continuare la lotta, della prospettiva rivoluzionaria. In genere questi sono animati da gruppi gauchisti o anarchici ma essi raggruppano molta più gente degli stessi membri di queste organizzazioni. Anche all' ORTF, la radiotelevisione di Stato, si crea un Comitato d'azione animato principalmente da Michel Drucker ed al quale partecipa anche l'indescrivibile Thierry Rolland.
La reazione della borghesia
Davanti ad una tale situazione, la classe dominante vive un periodo di smarrimento che si esprime attraverso iniziative scombinate ed inefficaci.
Così, il 22 maggio, l'Assemblea nazionale, dominata dalla destra, discute (per alla fine rigettarla) una mozione di censura presentata dalla sinistra due settimane prima: le istituzioni ufficiali della Repubblica francese sembrano vivere in un altro mondo. Proprio in quel giorno il governo prende la decisione di vietare il ritorno di Cohn-Bendit che era andato in Germania. Questa decisione non fa che accrescere il malcontento: il 24 maggio assistiamo a molteplici manifestazioni, principalmente per denunciare l'interdizione di soggiorno di Cohn-Bendit : "Ce ne freghiamo delle frontiere!, "Siamo tutti ebrei tedeschi!" Malgrado il cordone sanitario della CGT contro gli "avventurieri" ed i "provocatori" (e cioè gli studenti "radicali") molti giovani operai si uniscono a tali manifestazioni.
La sera, il Presidente della Repubblica, il generale de Gaulle fa un discorso: propone un referendum perché i francesi si pronuncino sulla "partecipazione" (una sorta di associazione capitale-lavoro). Non si potrebbe essere più lontani dalla realtà. Questo discorso è un fiasco completo che rivela il disorientamento del governo ed in generale della borghesia (2).
Nella strada, i manifestanti ascoltano il discorso sulle radio portatili, la collera aumenta ancora: "Del suo discorso ce ne freghiamo!". Si vedono scontri e barricate tutta la notte a Parigi ed in parecchie città di provincia. Vengono rotte numerose vetrine, incendiate vetture, e ciò provoca un rivolgersi di una parte dell'opinione contro gli studenti considerati ormai dei "vandali". E' probabile, d'altronde, che tra i manifestanti ci siano infiltrati elementi delle milizie gaulliste o poliziotti in borghese per "attizzare il fuoco" e incutere paura alla popolazione. E' anche noto che numerosi studenti immaginano di "fare la rivoluzione" innalzando barricate o bruciando vetture, simboli della "società dei consumi". Ma questi atti esprimono soprattutto la collera dei manifestanti, studenti e giovani operai, davanti alle risposte ridicole e provocatorie date dalle autorità di fronte al più grande sciopero della storia. Dimostrazione di questa collera contro il sistema: il simbolo del capitalismo, la Borsa di Parigi, è incendiata.
Solo il giorno seguente la borghesia comincia a riprendere iniziative efficaci: sabato 25 maggio si aprono al ministero del Lavoro (via di Grenelle) dei negoziati tra sindacati, padronato e governo.
All'inizio, i padroni sono disposti a concedere molto più di ciò che i sindacati immaginano: risulta evidente che la borghesia ha paura. A presiedere è il primo ministro, Pompidou; la domenica mattina ha un incontro privato per circa un ora con Séguy, leader della CGT: i due principali responsabili del mantenimento dell'ordine sociale in Francia hanno bisogno di discutere senza testimoni di come ristabilire quest'ultimo (3).
Nella notte tra il 26 ed il 27 maggio vengono conclusi gli "accordi di Grenelle":
- aumenti dei salari per tutti del 7% il 1°giugno, più il 3% il 1°ottobre;
- aumento del salario minimo dell'ordine del 25%;
- riduzione del "ticket sanitario" dal 30% al 25% ;
- riconoscimento della sezione sindacale all'interno della fabbrica;
- più una serie di promesse vaghe di apertura di negoziati, in particolare sulla durata del lavoro (che in media è dell'ordine di 47 ore settimanali).
Vista l'importanza e la forza del movimento, questa è una vera provocazione:
- il 10 % sarà annullato dall'inflazione (consistente in quell'epoca);
- niente sulla compensazione salariale dell'inflazione;
- niente di concreto sulla riduzione del tempo di lavoro; ci si limita ad annunciare l'obbiettivo del "ritorno progressivo alle 40 ore" (già ottenute ufficialmente nel 1936!); al ritmo proposto dal governo, ci si sarebbe arrivati nel...2008!;
- i soli a guadagnare qualcosa di significativo sono gli operai pù poveri (si vuole dividere la classe operaia spingendola a riprendere il lavoro) ed i sindacati (che vengono retribuiti per il loro ruolo di sabotatori).
Il lunedi 27 maggio gli "accordi di Grenelle" sono rigettati in modo unanime dalle assemblee operaie.
Alla Renault Billancourt, i sindacati organizzano un grande "show" ampiamente ripreso dalla televisione e la radio: uscendo dai negoziati, Séguy dice ai giornalisti "La ripresa non potrà tardare" e lui è ben speranzoso che gli operai di Billancourt daranno l'esempio. Tuttavia, 10.000 di questi si riuniscono dopo l'alba e decidono di proseguire il movimento prima dell'arrivo dei dirigenti sindacali.
Benoît Frachon, dirigente "storico" della CGT (già presente ai negoziati del 1936) dichiara: "gli accordi di via Grenelle vanno ad apportare a milioni di lavoratori un benessere che essi non speravano"; silenzio di tomba!
André Jeanson, della CFDT, si felicita del voto iniziale in favore del proseguimento dello sciopero e parla di solidarietà degli operai con gli studenti ed i liceali in lotta: applausi fragorosi.
Séguy, infine, presenta un "resoconto obiettivo" di ciò che "è stato conquistato à Grenelle": fischi e schiamazzo generale per parecchi minuti. Séguy effettua allora una piroetta: "A giudicare da quello che ho capito, voi non vi lascerete fare"; applausi ma dalla folla si sente: "lui se ne frega di noi!".
La migliore prova del rigetto degli "accordi di Grenelle": il numero degli scioperanti aumenta ancora il 27 maggio fino a raggiungere i 9 milioni.
Questo stesso giorno si tiene allo stadio Charléty a Parigi una grande manifestazione indetta dal sindacato studentesco UNEF, dalla CFDT (che rincara la dose rispetto alla CGT) e da gruppi gauchisti. La tonalità dei discorsi è molto rivoluzionaria: si tratta in effetti di dare uno sbocco allo scontento in aumento verso la CGT ed il PCF. Affianco ai gauscisti, si nota la presenza di politici socialdemocratici come Mendès-France (vecchio capo di governo negli anni 50). Cohn-Bendit, con i capelli tinti in nero, fa un'apparizione (era già stato visto alla vigilia alla Sorbona).
Il 28 maggio è quello degli intrallazzi dei partiti di sinistra:
- in mattinata, François Mitterrand, presidente della Federazione della sinistra democratica e socialista (che raggruppa il Partito socialista, il Partito radicale e vari piccoli ragruppamenti di sinistra) tiene una conferenza stampa: considerando che c'è vuoto di potere, annuncia la sua candidatura alla presidenza della Repubblica. Di pomeriggio, Waldeck-Rochet, capo del PCF propone un governo "a partecipazione comunista": si tratta di evitare che i socialdemocratici sfruttino la situazione solo a loro vantaggio. Il giorno seguente, 29 maggio, una grande dimostrazione indetta dalla CGT chiede un "governo popolare". La destra immediatamente grida al "complotto comunista".
Questo stesso giorno, si nota la "scomparsa" del Generale de Gaulle. Alcuni spargono la voce che si sia ritirato, in realtà si è recato in Germania ad assicurarsi presso il generale Massu, che è a capo delle truppe francesi d'occupazione, della fedeltà degli eserciti.
Contemporaneamente si tiene a Parigi, sugli Champs-Elysées, un'enorme dimostrazione di sostegno a De Gaulle. Venuto dai quartieri bene, dalle periferie benestanti ed anche dalla "Francia profonda" grazie agli autocarri dell'esercito, il "popolo" della paura e dei soldi, i borghesi e le istituzioni religiose dei loro bambini, gli alti dirigenti d'azienda pieni della loro "superiorità", i piccoli negozianti timorosi della propria vetrina, i vecchi combattenti indignati per gli insulti alla bandiera tricolore, le "spie" in combutta con la malavita, ma anche veterani dell'Algeria francese e dell'OAS, i giovani membri del gruppo fascistizzante Occidente, i vecchi nostalgici di Vichy (che detestano ancora De Gaulle); tutto questo bel mondo viene a reclamare il suo odio verso la classe operaia ed il suo "amore per l'ordine". Dalla folla, vicino ai vecchi combattenti della "Francia libera", si sente gridare "Cohn-Bendit a Dachau!".
Ma il "Partito dell'ordine" non si limita a quelli che manifestano sugli Champs-Elysées. Lo stesso giorno, la CGT rivendica negoziati settore per settore per "migliorare le conquiste di Grenelle": è il modo per dividere il movimento e quindi liquidarlo.
La ripresa del lavoro
A partire da questa data (è un giovedì), il lavoro comincia a riprendere, ma lentamente perché il 6 giugno, ci saranno di nuovo 6 milioni di scioperanti. La ripresa del lavoro avviene in modo disperso:
- 31 Maggio: siderurgia della Lorena, tessili del nord;
- 4 Giugno: arsenali, assicurazioni;
- 5 Giugno: EDF, miniere di carbone;
- 6 Giugno: poste, telecomunicazioni, trasporti (a Parigi, la CGT fa pressione per fare riprendere: in ogni deposito i dirigenti sindacali annunciano che negli altri depositi il lavoro e ripreso, la qualcosa è falsa);
- 7 Giugno: istruzione primaria;
- 10 Giugno: occupazione della fabbrica Renault di Flins da parte delle forze di polizia: uno studente liceale caricato dai poliziotti cade nella Senna ed annega;
- 11 Giugno: intervento dei CRS (celerini) alla fabbrica Peugeot di Sochaux (2a fabbrica della Francia): 2 lavoratori sono uccisi.
Si assiste allora a nuove manifestazioni violente in tutta la Francia: "Hanno ucciso i nostri compagni!" A Sochaux, davanti alla resistenza determinata degli operai, i CRS evacuano la fabbrica: il lavoro riprenderà solo 10 giorni più tardi.
Temendo che l'indignazione rilanci lo sciopero (rimangono ancora 3 milioni di scioperanti), i sindacati (CGT in testa) ed i partiti di sinistra guidati dal PCF chiamano insistentemente alla ripresa del lavoro "affinché possano essere svolte le elezioni e completare la vittoria della classe operaia". Il quotidiano del PCF, l'Umanité, esce col titolo: "Forte della loro vittoria, milioni di lavoratori riprendono il lavoro".
L'appello sistematico allo sciopero da parte dei sindacati a partire dal 20 maggio trova ora la sua spiegazione: era necessario controllare il movimento per poter provocare la ripresa dei settori meno combattivi e demoralizzare gli altri.
Waldeck-Rochet, nei suoi discorsi di campagna elettorale dichiara che "Il Partito comunista è un partito d'ordine". E "l'ordine" borghese ritorna poco a poco:
- 12 Giugno: ripresa nella scuola secondaria;
- 14 Giugno: Air France e Marina mercantile;
- 16 Giugno: la Sorbona è occupata dalla polizia;
- 17 Giugno: ripresa caotica alla Renault Billancourt;
- 18 Giugno: De Gaulle fa liberare i dirigenti dell'OAS che erano ancora in prigione;
- 23 Giugno: 1°turno delle elezioni legislative con un forte avanzamento della destra;
- 24 Giugno: ripresa del lavoro alla fabbrica Citroën Javel, a Parigi (Krasucki, numero 2 della CGT, interviene nell'assemblea generale per chiamare alla fine dello sciopero);
- 26 Giugno: Usinor Dunkerque;
- 30 Giugno: 2°turno delle elezioni con una vittoria storica della destra.
Una delle ultime imprese a riprendere il lavoro, il 12 luglio, è l'ORTF: molti giornalisti non vogliono che venga reintrodotto il controllo e la censura che loro hanno subito prima da parte del governo. Dopo la "ripresa in mano", molti di loro saranno licenziati. L'ordine ritorna dappertutto, incluso nelle informazioni che vengono giudicate utili diffondere nella popolazione.
Così, il più grande sciopero della storia è finito con una sconfitta, contrariamente alle affermazioni della CGT e del PCF. Una sconfitta cocente sanzionata dal ritorno in forza dei partiti e delle "autorità" che erano state svilite durante il movimento. Ma il movimento operaio sa da lungo tempo che: "Il vero risultato delle loro lotte non è tanto il successo immediato ma l'unione crescente dei lavoratori" (il Manifesto Comunista). Così, dietro alla loro immediata sconfitta, gli operai hanno riportato nel 1968 in Francia una grande vittoria, non per loro ma per il proletariato del mondo intero. È quello che vedremo nel prossimo articolo dove tenteremo di mettere in evidenza le cause profonde ed il significato storico e mondiale del "bel mese di Maggio" francese.
Fabienne (27/04/2008)
1. Il primo articolo è stato pubblicato su Rivoluzione Internazionale n. 155, il secondo su questo stesso sito
2. All'indomani di questo discorso, gli impiegati municipali annunciano in molti luoghi che loro si rifiuteranno di organizzare il referendum. Allo stesso modo, le autorità non sanno come stampare le schede elettorali: la tipografia nazionale è in sciopero e quelle private che non lo sono si rifiutano: i loro padroni non vogliono avere noie supplementari con i loro operai.
3. Si apprenderà più tardi che Chirac, segretario di Stato agli Affari sociali, ha anche incontrato (in una soffitta !) Krasucki, numero 2 della CGT.
Ormai in Italia non passa giorno senza che si sappia che più di un operaio è morto mentre lavorava cadendo da una impalcatura, asfissiato o annegato in un pozzo, bruciato vivo … ed ogni volta dobbiamo subirci l’ipocrisia di politici, sindacati e media che “costernati” invocano le “le leggi sulla sicurezza sul lavoro” siano rispettate. La realtà è che in tutto il mondo più di 6.000 di lavoratori muoiono ogni giorno perché l’unica cosa che interessa a questo sistema di sfruttamento, in Italia, in America, in Germania, in Russia, ovunque è fare profitto al minor costo possibile.
Nel 1984, abbiamo scoperto con orrore il terribile bilancio umano dell’esplosione della fabbrica Union Carbide à Bhopal in India. Nello spazio di tre giorni, 8.000 operai sono morti! 350.000 nelle settimane e nei mesi seguenti, in seguito alle ferite o agli effetti dell’inquinamento chimico! Le condizioni di sfruttamento spaventoso che regnano in questa vera “galera industriale” sono state la prima ragione di quest’ecatombe. La deflagrazione ha avuto luogo durante la notte mentre gli operai e le loro famiglie dormivano ammassati alla fabbrica, in un immensa bidonville. Già all’epoca la pelle di un lavoratore non valeva gran che, da allora queste galere industriali sono proliferate ai quattro angoli del mondo, in Asia, in Medio Oriente ed ancora in Africa.
Oggi, in India, nel Bangladesh ed in Turchia, decine di migliaia di operai lavorano incessantemente in giganteschi cantieri navali, ribattezzati “cantieri della morte”. La tecnica è semplice ed identica dappertutto. Le navi da distruggere sono lanciate a tutta velocità verso la spiaggia! Una volta arenatesi, questi giganti del mare vengono smantellati a mani nude da centinaia di lavoratori... qualche volta con la fiamma ossidrica. Nessuna protezione, nessuna misura della sicurezza. Queste carcasse sono inoltre ancora imbottite di pericolosi prodotti chimici, anche mortali, il più delle volte sono cariche di amianto. Ma se tutte le nazioni del mondo vi spediscono la loro flotta a morire, è proprio perché queste condizioni di sfruttamento inumano assicurano “prezzi imbattibili”. D’altra parte, è in un simile “cantiere della morte” che è andata a finire la portaerei le Clemenceau e che uno dei fiori della marina mercantile francese, le France, sta finendo i suoi giorni. In un rapporto del 1995 sul più grande cimitero di battelli del mondo - il cantiere d’Alang in India – l’ingegnere Maresh Panda descriveva così le condizioni di vita e di lavoro degli operai: “Questi avevano problemi di pelle e problemi respiratori dovuti al contatto con materiali tossici. Gli scafi potevano contenere del carburante e i tagliatori li foravano con la fiamma ossidrica col rischio di esplosioni. Il suolo era saturo di prodotti tossici. Ora, la maggior parte degli operai era a piedi nudi e poteva ferirsi. (…) Alloggiavano dai 20 ai 30 in una stessa baracca e dormivano su cuccette sovrapposte. Potevano arrivare a lavorare venti ore al giorno”.
In una trasmissione francese di Envojé spécial intitolata “Les fossoyeurs d’épaves” (“I becchini di relitti”)[1], un operaio descrive l’orrore che vive quotidianamente: esplosioni di ogni genere, compagni ammazzati o mutilati, sopravvivenza in capanne di tavole e magri pasti, … . Eppure intere famiglie fanno migliaia di chilometri per potere lavorare in questi posti, il che la dice lunga sulla miseria di intere fette di popolazioni del pianeta!
Negli Emirati Arabi Uniti, a Dubaï, milioni di operai vivono lo stesso orrore costruendo grattacieli a perdita d’occhio[2]. La Cina, come la Corea a suo tempo, deporta milioni di lavoratori verso i grandi centri industriali. In totale nel mondo 2,2 milioni di operai muoiono ogni anno sul lavoro. E queste cifre ufficiali date dall’Organizzazione internazionale del lavoro minimizzano di molto e volontariamente la realtà.
Ecco il segreto del “miracolo economico” dei “paesi emergenti”. Negli anni 80 e 90, le borghesie occidentali hanno tentavano di alimentare le illusioni la classe operaia facendole balenare davanti agli occhi i miracoli tedeschi, o di Taïwan. Per ritrovare una buona salute economica, bisognava emularli: rigore e serietà sul lavoro, abnegazione per l’impresa … Oggi, i soli “modelli” che restano da imitare sono le galere industriali.
Jeanneton, 25 aprile 2008
[1] Il cui video è pubblicato su Dalymotion
[2] leggi sul nostro sito Internet www.internationalism.org [60] gli articoli “Dubaï, Bangladesh: La classe operaia si rivolta contro lo sfruttamento capitalista” e “Lotte operaie a Dubaï: un esempio della crescita della combattività operaia a livello internazionale”.
“Noi la crisi non la paghiamo!”[1]
E’ scoppiato il 2008!
A quarant’anni dai formidabili movimenti che scossero il mondo intero a partire dalla Francia – con il Maggio francese – e dall’Italia, il mondo della scuola e dell’università sono tornati in piazza nel nostro paese in contrapposizione al cosiddetto decreto Gelmini. I motivi contingenti di questa protesta sono noti e ci limitiamo pertanto solo a rievocarli rapidamente.
A livello di scuola, al di là delle questioni del tutto fuorvianti sul ritorno al grembiulino, che non è stato più inserito nella versione finale del decreto, o al voto in condotta, il decreto Gelmini viene contestato soprattutto per i tagli che questo comporta nel mondo dell’istruzione e per le conseguenze che tali tagli avranno sulla qualità del servizio erogato alla popolazione scolastica. Infatti, la necessità di fare cassa a spese della scuola, comporta in generale:
A livello universitario, al di là di tutte le frottole che anche lì il governo racconta per distrarre l’attenzione dalle questioni di fondo, abbiamo:
Questi sono gli elementi essenziali della manovra del governo. Come si vede ce n’è abbastanza per stroncare il mondo della pubblica istruzione in Italia in quanto non si tratta tanto di leggi che si limitano, come per il passato, a riorganizzazione (in peggio) queste strutture, ma della semplice cancellazione di parte di queste strutture con l’azzeramento di risorse e personale. Ed è appunto questo che ha fatto insorgere sia il personale che vi lavora in queste strutture - soprattutto i giovani e i precari, che naturalmente sono quasi la stessa cosa – che il mondo degli studenti che vedono giustamente nella riforma Gelmini e in tutta la manovra finanziaria del governo Berlusconi un attentato al proprio futuro. Infatti, con l’ulteriore dequalificazione del mondo dell’istruzione, potrà avere un futuro solo chi se lo potrà comprare andando in scuole e università private. Ad esempio, la possibile trasformazione delle Università in Fondazioni, al di là della diatriba se sia meglio il pubblico o il privato, “costituisce un segnale inequivocabile del progressivo disimpegno dello Stato dal ruolo di finanziatore del sistema pubblico universitario che è garanzia della possibilità, data a tutti, di accedere ai più alti livelli della formazione”[2].
Questa sensazione di assenza di futuro è tanto più presente nel movimento attuale di studenti e precari nella misura in cui fa da sfondo al movimento una crisi economica che si esprime in questa fase con delle espressioni inedite e profondamente preoccupanti.
Da questo punto di vista bisogna riconoscere che questo movimento di studenti e precari ha scarse radici “studentesche” e trae la sua maggiore forza dal riconoscimento che l’attuale attacco del governo deriva dalla crisi economica in cui versa attualmente l’Italia e il mondo intero. In questo senso il movimento attuale in Italia ricorda molto il movimento degli studenti francesi che si muovevano nel 2006 contro la legge che voleva introdurre il CPE (contratto di primo impiego), legge capestro che, se approvata, avrebbe permesso di imporre ai giovani condizioni di lavoro di gran lunga peggiori di quelle normali. Entrambi i movimenti partono dunque da questioni materiali che riguardano la prospettiva di vita e di lavoro delle nuove generazioni e quindi si pongono su un terreno squisitamente proletario. Non è un caso che la parola d’ordine che unifica tutto quanto il movimento di studenti e precari che si muovono oggi in Italia è quella di “NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO”, che è l’espressione della volontà di andare avanti senza farsi irretire dai falsi discorsi di “dare una mano al paese nel momento di difficoltà”, di “addossarsi il carico del momento difficile accettando i sacrifici”, ecc. ecc.
Il carattere poco “studentesco” e più legato ad una volontà di battersi per un futuro migliore sul piano complessivo si vede anche in altre cose. Ad esempio nel fatto che, contrariamente ad altre lotte del passato, e particolarmente del 68, non c’è una contrapposizione generazionale dei giovani contro gli anziani e non c’è uno scontro tra docenti e studenti, quanto piuttosto una tendenza a lottare assieme. Inoltre, c’è un atteggiamento molto poco ideologico e molto più politico che si traduce nella tendenza a esprimere un movimento poco caratterizzato “a destra” o “a sinistra”, ed anche poco marcato e soggiogato da questa o quella sigla politica di partito o di gruppi, ma ciononostante con una consapevolezza politica precisa della necessità di battersi per vincere.
Le trappole tese al movimento
Tuttavia il movimento che si sta esprimendo in questi giorni nella piazze presenta una serie di debolezze su cui sapientemente rimesta la borghesia per farlo fallire. Uno dei problemi è una certa mancanza di definizione degli obiettivi che si dà questo movimento. Laddove la maturità del movimento degli studenti in Francia era stata favorita da un attacco frontale da parte del governo, in Italia il carattere indiretto dell’attacco ha determinato invece minore chiarezza. E’ vero, come abbiamo detto prima, che un elemento importante che sostiene il movimento è la crisi economica in cui versa l’economia nazionale e mondiale. Ma qual è la lettura che di tale crisi si fa oggi? Una crisi finanziaria dovuta a degli speculatori senza scrupoli? Una crisi legata all’eccessivo consumismo o all’eccessiva popolazione mondiale? Una crisi legata all’invasione del mercato mondiale da parte della Cina? O non piuttosto una crisi irrisolvibile del sistema in cui viviamo?
E’ chiaro che una interpretazione piuttosto che un’altra può, in un caso, fare auspicare che il governo del mondo passi agli Obama, ai Veltroni, alla sinistra in genere che vengono presentati come la parte buona della società, i governanti giusti ed equi, mentre nell’altro caso punta a mettere in discussione l’intero assetto sociale di questo sistema di sfruttamento che si perpetua da secoli, indipendentemente dal governo di turno. Su questo piano c’è tutta una propaganda mediatica sulle nefandezze della Gelmini, “degna ministra dell’odiato Berlusconi”, “responsabile di voler affossare la scuola pubblica” e di “volerla dare in mano ai privati”. Ora, non c’è dubbio che le misure del governo Berlusconi siano draconiane e che la scuola e l’Università ne restino fortemente colpite. Ma bisogna uscire dalla logica per cui il governo di destra avrebbe fatto questo per debellare un settore politicamente pericoloso, come si intende da chi fa girare sapientemente un discorso di Calamandrei del 1950 sulla trasformazione subdola della scuola pubblica in scuola di regime, mentre invece un governo di sinistra non avrebbe mai toccato questo settore[3]:
“Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. (…) Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. (…) Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. (…) Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. (…) Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. …”[4]
A parte l’illusione che emerge da questo discorso che possa realmente esistere all’interno di questa società, una scuola imparziale, con una cultura al di sopra delle parti, la realtà è che chiunque si trovi al governo di questo tipo di società non può che ricorrere in soccorso dell’economia capitalista in crisi e non può che portare i più feroci attacchi contro la popolazione, poco importa se in questo ci va di mezzo la cultura del paese. E’ vero che il governo Berlusconi, nella sua rozzezza, ha calcato la mano, ma attenzione a non credere che il tutto risponda solo ad una manovra politica e non ad una necessità dello stato borghese di tirare fortemente la cinghia.[5]
Ma le trappole non finiscono qui! Proprio perché la dinamica che si sviluppa nel movimento della scuola e dell’università comincia a impensierire la borghesia, questa ha messo in moto ulteriori meccanismi di difesa. Prima Berlusconi ha cominciato a parlare della necessità di impedire agli studenti di occupare le scuole e le università, dicendo che avrebbe dato istruzioni precise al ministro dell’interno in merito al da farsi. Poi si è apparentemente smentito, per essere corretto poi dall’ex presidente della Repubblica Cossiga che, da buon vecchio “saggio” della classe borghese, ha snocciolato con grande faccia tosta una serie di consigli per il Cavaliere che è importante riportare per capire anche quanto sta accadendo oggi nelle piazze e forse quali saranno i prossimi passi della borghesia nei confronti del movimento:
Presidente Cossiga, pensa che minacciando l’uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato?
«Dipende, se ritiene d’essere il presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché è l'Italia è uno Stato debole, e all’opposizione non c’è il granitito Pci ma l’evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà quantomeno una figuraccia».
Quali fatti dovrebbero seguire?
«A questo punto, Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell'Interno».
Ossia?
(…)
«Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».
Dopo di che?
«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».
Nel senso che...
«Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano».
Anche i docenti?
«Soprattutto i docenti. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!»[6]
Leggendo questa intervista non si può non fare immediatamente il legame con quanto è avvenuto il 29 ottobre a piazza Navona dove un gruppo di militanti di destra neofascista ha provocato uno scontro con gli studenti che partecipavano alla manifestazione. In realtà lo Stato, attraverso i suoi vari strumenti di intervento, materiale e mediatico (polizia, CC, stampa e televisione) sta già portando avanti il disegno di Cossiga che su questo piano, bisogna confessarlo, è stato sempre un grande maestro, anche se in una forma diversa da come l’ha formulata il “grande vecchio”. Infatti la provocazione non passa solo attraverso gli infiltrati, che sicuramente ci sono, ma anche attraverso un rifiorire dell’epopea antifascista attraverso una serie di provocazioni a catena. Prima e dopo l’episodio di piazza Navona non si contano gli episodi di provocazione promossi da bande di neofascisti che tendono a spostare lo scontro sul piano fisico in modo che possa poi scadere su un livello di semplice rivendicazione di democrazia e di rispetto della legalità e dell’ordine, giusto come predice il “nostro” ex presidente. Ma per fortuna il movimento sta reggendo molto bene a queste trappole e in numerose occasioni, testimoniate anche da vari video pubblicati sui blog che sono apparsi recentemente, i partecipanti al movimento hanno preso consapevolezza del pericolo di lasciarsi incastrare in questo falso scontro con i fascisti e di rimanere ancorati alla lotta di fondo che il movimento sta portando avanti.
La prospettiva del movimento
D’altra parte un movimento che si mantiene vivo e attivo anche dopo l’approvazione definitiva al senato della legge che era stato lo spunto della loro lotta testimonia di una volontà di lotta non effimera ma proveniente da sofferenze profonde.
Anche se al momento non siamo in grado di prevedere quale sarà il futuro immediato di questo movimento, noi pensiamo che movimenti di questo tipo hanno un futuro importante davanti a sé perché la situazione economica, politica e sociale è arrivata ad un livello di degradazione importante.
La partita dunque non è chiusa. Le manifestazioni che si sono avute nella giornata di approvazione del decreto Gelmini (29 ottobre) in tutta Italia, lo stesso sciopero della scuola che si è avuto il 30 ottobre con 1 milione di manifestanti e tutto il fermento e il pullulare di iniziative che si stanno sviluppando a livello di scuole e università, il prossimo appuntamento per una manifestazione nazionale dell’università il prossimo 14 novembre, esprimono una forte vivacità sul piano della lotta e delle iniziative, che può spingere il movimento a prendere coscienza della necessità di agire sempre più come un corpo unico e di fare riferimento agli altri settori sociali in lotta in questo momento.
4 novembre 2008 Ezechiele
[1] Slogan che ha conquistato l’intero movimento degli studenti in tutte le città italiane.
[2] Dalla mozione della Facoltà di Scienze M.F.N. dell’Università Federico II di Napoli del 29 Ottobre 2008.
[3] In realtà il primo piano di razionalizzazione del sistema scolastico è stato fatto dal defunto governo Prodi attraverso taglio di classi e quindi di docenti e personale ATA
[4] Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l’11 febbraio 1950.
[5] Su questo stesso piano è in atto un’ulteriore mistificazione politica che tende a focalizzare tutto l’attacco sui tagli alla ricerca di base e a lamentare che i nostri “cervelli” siano costretti a espatriare, come ha mostrato la trasmissione “Anno Zero” di Michele Santoro, finendo così per trasformare un movimento che riguarda l’intera generazione di giovani di oggi con qualcosa a cui è interessata solo una minima percentuale di persone.
[6] Intervista di Andrea Cangini a Cossiga di giovedì 23 ottobre 2008: “Bisogna fermarli, anche il terrorismo partì dagli atenei” pubblicata su Quotidiano nazionale. L’intervista integrale può essere letta su rassegna.governo.it/rs_pdf/pdf/JMS/JMSRA.pdf.
Nel numero 29 della nostra Rivista Internazionale (disponibile anche on line [62]) abbiamo pubblicato larghi estratti di un testo di orientamento discusso all’interno della nostra organizzazione che tratta di Marxismo ed Etica. Nei brani pubblicati possiamo leggere:
“Abbiamo sempre insistito sul fatto che gli statuti della CCI non sono un elenco di regole che definiscono ciò che è permesso e ciò che non lo è, ma un orientamento per il nostro atteggiamento e la nostra condotta, che includono un insieme coerente di valori morali (in particolare per quel che riguarda i rapporti tra gli stessi militanti e di questi verso l’organizzazione). E’ per tale motivo che esigiamo da tutti quelli che vogliono diventare membri della nostra organizzazione un accordo profondo con questi valori. I nostri statuti sono una parte integrante della nostra piattaforma, e non servono solamente a stabilire chi può diventare membro della CCI ed in quali condizioni. Condizionano il quadro e lo spirito della vita militante dell’organizzazione e di ciascuno dei suoi membri.
Il significato che la CCI ha sempre assegnato a questi principi di comportamento è illustrato dal fatto che si è sempre impegnata a difenderli, anche a rischio di subire crisi organizzative. Per questo fatto, la CCI si è situata in maniera cosciente ed incrollabile nella tradizione di lotta di Marx ed Engels all’interno della Prima Internazionale, dei Bolscevichi e della Frazione italiana della Sinistra comunista. Ciò l’ha resa capace di superare tutta una serie di crisi e di mantenere i principi fondamentali di un comportamento di classe.
Tuttavia la CCI ha difeso il concetto di una morale e di un’etica proletaria in maniera più implicito che esplicito; l’ha messo in pratica in modo empirico piuttosto che generalizzato da un punto di vista teorico. Di fronte alle grandi reticenze della nuova generazione di rivoluzionari, sorta alla fine degli anni 1960, verso ogni concetto di morale, considerata necessariamente reazionaria, l’atteggiamento sviluppato dall’organizzazione è stato quello di accordare più importanza al fatto che fossero accettati gli atteggiamenti ed i comportamenti della classe operaia piuttosto che condurre questo dibattito molto generale in un momento in cui quest’ultimo non era ancora maturo.
Le questioni di morale proletaria non sono il solo campo verso cui la CCI ha proceduto in questa maniera. Nei primi anni di esistenza della CCI esistevano riserve similari sulla necessità della centralizzazione, il carattere indispensabile dell’intervento dei rivoluzionari ed il ruolo dirigente dell’organizzazione nello sviluppo della coscienza di classe, la necessità di combattere il democraticismo o il riconoscimento dell’attualità della lotta contro l’opportunismo ed il centrismo”.
Nella prima parte sono stati trattati i seguenti temi:
· Il problema della decomposizione e la perdita di fiducia nel proletariato e nell’umanità.
· Le cause delle riserve tra i rivoluzionari verso il concetto di morale proletaria dopo 1968.
· La natura della morale.
· L’etica, cioè la teoria della morale, precede il marxismo.
· Il marxismo e le origini della morale.
· La lotta del proletariato contro la morale borghese.
· La morale del proletariato.
In questa seconda parte ritorneremo sulle lotte condotte dal marxismo contro differenti forme e manifestazioni della morale borghese e sulla necessaria lotta che il proletariato dovrà condurre contro gli effetti della decomposizione della società capitalista, in particolare nella prospettiva della riconquista di quest’elemento essenziale della sua lotta e della sua prospettiva storica, la solidarietà.
La lotta del Marxismo contro l’idealismo etico
Alla fine del diciannovesimo secolo la corrente intorno a Bernstein all’interno della Seconda Internazionale sosteneva che nella misura in cui il marxismo pretendeva di basarsi su un metodo scientifico, escludeva il ruolo dell’etica nella lotta di classe. Considerando che un approccio scientifico ed un approccio etico si escludono reciprocamente, questa corrente predicava la rinuncia all’approccio scientifico a profitto di quello etico. Proponeva di “completare” il marxismo con l’etica di Kant. Dietro questa volontà di condannare moralmente l’avidità degli individui capitalisti, emergeva la determinazione del riformismo borghese a seppellire ciò che è fondamentalmente non conciliabile tra il capitalismo ed il comunismo.
Lungi dall’escludere l’etica, l’approccio scientifico del marxismo introduce per la prima volta una dimensione realmente scientifica alla conoscenza sociale e pertanto alla morale. Ricompone il puzzle della storia attraverso la comprensione che il rapporto sociale essenziale è quello che esiste tra la forza lavoro (il lavoro vivo) ed i mezzi di produzione (il lavoro morto). Il capitalismo aveva preparato la via a questa scoperta, esattamente come ha preparato la via al comunismo spersonalizzando il meccanismo dello sfruttamento.
In realtà, l’appello a ritornare all’etica di Kant rappresentava una regressione teorica anche rispetto al materialismo borghese che aveva già compreso quali erano le origini sociali del “bene e del male”. Dopo di allora ogni avanzamento nel sapere sociale ha confermato ed approfondito questa comprensione. Ciò si applica al progresso, non solamente nelle scienze come nel caso della psicanalisi, ma anche nell’arte. Come scrisse Rosa Luxemburg, “Amleto, attraverso il crimine di sua madre, è confrontato alla dissoluzione di ogni legame umano ed ad un mondo al di fuori dalla sua comprensione. La stessa cosa avviene con Dostoïevski, quando considera il fatto che un essere umano possa assassinare un altro. Egli non trova pace, si sente responsabile di questo orribile fardello che pesa sulle sue spalle, come è per ciascuno di noi. Deve entrare nell’anima dell’omicida, deve braccare la sua miseria, la sua afflizione, fino alle pieghe più nascoste del suo cuore. Soffre tutte le sue torture ed è accecato dalla terribile comprensione che l’omicida stesso è la vittima più disgraziata della società... I romanzi di Dostoïevski sono degli attacchi feroci contro la società borghese in faccia alla quale grida: il vero omicida, l’omicida dell’anima umana, siete voi”(1)
Questo era anche il punto di vista difeso dalla giovane dittatura del proletariato in Russia che chiedeva ai tribunali di “liberarsi interamente di ogni spirito di rivalsa. Essi non possono vendicarsi delle persone semplicemente perché hanno dovuto vivere in una società borghese”. (2)
È giustamente la comprensione che tutti noi siamo vittime delle circostanze che fa dell’etica marxista l’espressione più elevata del progresso morale dei nostri giorni. Questo approccio non abolisce la morale, come pretendono i borghesi, e non esclude la responsabilità individuale come farebbe l’individualismo piccolo borghese. Ma rappresenta un passo da gigante perché fonda la morale sulla comprensione piuttosto che sulla colpa, il sentimento di colpevolezza che intralcia il progresso morale in quanto fa una separazione tra la personalità di ciascuno di noi e gli altri uomini. Sostituisce l’odio delle persone, questa sorgente primordiale di pulsione anti-sociale, con l’indignazione e la rivolta rispetto a dei rapporti e dei comportamenti sociali.
La nostalgia riformista nei confronti di Kant era in realtà l’espressione dell’erosione della volontà di combattere. L’interpretazione idealista della morale, negando ad essa un ruolo di trasformazione dei rapporti sociali, è una concessione emozionale all’ordine esistente. Sebbene gli ideali più elevati dell’umanità siano sempre stati quelli della pace interiore e dell’armonia col mondo sociale e naturale che ci circonda, questi possono essere raggiunti solo attraverso una lotta costante. La prima condizione della felicità umana è sapere che si fa ciò che è necessario, che si serve, volontariamente, una grande causa.
Kant aveva compreso molto meglio dei filosofi utilitaristi borghesi come Bentham (3) la natura contraddittoria della morale borghese. In particolare, aveva compreso che l’individualismo sfrenato, anche nella forma positiva della ricerca della felicità personale, poteva condurre alla dissoluzione della società. Il fatto che nel capitalismo possano esserci solo vincitori nella lotta legata alla concorrenza, rende inevitabile la divisione tra ciò a cui si aspira ed il dovere. L’insistenza di Kant sulla preminenza del dovere corrisponde al riconoscimento del fatto che il valore più elevato della società borghese non è l’individuo ma lo Stato e, in particolare, la nazione.
Nella morale borghese il patriottismo è un valore molto più grande dell’amore per l’umanità. In effetti, dietro la mancanza di indignazione all’interno del movimento operaio di fronte al riformismo, traspariva già l’erosione dell’internazionalismo proletario.
Per Kant, un atto morale motivato dal senso del dovere ha un maggiore valore etico rispetto ad un atto compiuto con entusiasmo, passione e piacere. Qui il valore etico è legato alla rinuncia, all’idealizzazione del sacrificio di se stesso per l’ideologia nazionalista e statale. Il proletariato rigetta in modo assoluto questo culto disumano del sacrificio di se stesso che la borghesia ha ereditato della religione. Sebbene la gioia della lotta contenga necessariamente il fatto di essere pronti a soffrire, il movimento operaio non ha mai fatto di questo male necessario una qualità morale in sé. Del resto, anche prima del marxismo, i migliori contributi all’etica hanno sempre sottolineato le conseguenze patologiche ed immorali di un tale approccio. Contrariamente a ciò che crede l’etica borghese, il sacrificio di sé non santifica un fine che non è valido.
Come ha sottolineato Franz Mehring anche Schopenhauer, che fondava la sua etica sulla compassione piuttosto che sul dovere, ha rappresentato un passo decisivo rispetto a Kant. (4)
La morale borghese, incapace finanche di immaginare il superamento della contraddizione tra individuo e società, tra egoismo ed altruismo, si schiera per l’uno contro l’altro o cerca un compromesso tra i due. Non arriva a comprendere che lo stesso individuo ha una natura sociale. Contro le morali idealiste il marxismo difende l’idealismo morale come un’attività che dà del piacere e come una delle carte vincenti più potenti di una classe che avanza contro una classe in decomposizione.
Un’altra attrattiva dell’etica kantiana per l’opportunismo è che il suo rigorismo morale, la sua formula de “l’imperativo categorico”, conteneva la promessa di una sorta di codice che avrebbe permesso di potere risolvere automaticamente tutti i conflitti morali. Per Kant la certezza che si ha ragione è caratteristica dell’attività morale. (...) Qui di nuovo si esprime la volontà di evitare la lotta.
Il carattere dialettico della morale è negato, là dove la virtù ed il vizio, nella vita concreta, non sono sempre facilmente distinguibili. Come Josef Dietzgen ha sottolineato, la ragione non può determinare in anticipo il corso dell’azione, poiché ogni individuo ed ogni situazione sono unici e senza precedenti. I problemi morali complessi devono essere studiati in modo da essere compresi e risolti in modo creativo. Ciò può esigere talvolta un’investigazione particolare ed anche la creazione di un organo specifico, come il movimento operaio ha compreso già da molto tempo. (5)
In realtà, i conflitti morali fanno inevitabilmente parte della vita, e non solamente in seno alla società di classe. Per esempio, differenti principi etici possono entrare in conflitto gli uni con gli altri (...), come pure il conflitto si può generare tra i diversi livelli della vita sociale dell'uomo (le sue responsabilità nei confronti della classe operaia, della famiglia, l'equilibrio della personalità, ecc.). Ciò richiede di essere pronti a vivere momentaneamente con le incertezze, in modo da permettere un vero esame, evitando la tentazione di far tacere la propria coscienza; capacità di rimettere in questione i propri pregiudizi; e soprattutto, un metodo collettivo rigoroso di chiarimento.
Nel lotta contro il neo-Kantismo, Kautsky ha mostrato come il contributo di Darwin sulle origini della coscienza nelle pulsioni biologiche, all'origine animali, aveva frantumato la forza della presa delle morali idealistiche. Questa forza invisibile, questa voce appena udibile che opera solamente nelle profondità interne della personalità, è sempre stata il punto cruciale delle controversie etiche. L'etica idealista aveva ragione di insistere sul fatto che la cattiva coscienza non può essere spiegata dalla paura dell'opinione pubblica o dalle sanzioni della maggioranza. Al contrario, questa coscienza può obbligarci ad opporci all'opinione pubblica ed alla repressione, o a rimpiangere le nostre azioni, anche se queste incontrano un'approvazione universale. "La legge morale non è altro che una pulsione animale. Di là proviene la sua natura misteriosa, questa voce in noi che non è in relazione con nessuna pulsione esterna, nessun interesse visibile, questo demonio o questo Dio che Socrate e Platone fino a Kant, i teorici della morale, hanno sentito, essi che hanno negato di fare conseguire la morale dall'ego o dal piacere. Una pulsione realmente misteriosa, ma non più misteriosa dell'amore sessuale, l'amore materno, l'istinto di conservazione... Il fatto che la legge morale sia un istinto universale, comparabile all'istinto di conservazione e di riproduzione, spiega la sua forza, la sua persistenza, che fa che gli si ubbidisce senza riflettere" . (6)
Queste conclusioni sono state confermati da allora dalla scienza, per esempio da Freud che insisteva sul fatto che gli animali più evoluti ed i più socializzati possiedono un dispositivo psichico di base come l'uomo e potevano soffrire di nevrosi comparabili. Ma Freud non ha approfondito solamente la nostra comprensione su tali questioni. Nella misura in cui la psicoanalisi non è solamente un'investigazione ma è anche terapeutica e si propone di intervenire, condivide col marxismo una preoccupazione per lo sviluppo progressivo della predisposizione morale dell'uomo.
Freud fa delle distinzioni tra le pulsioni (l’ "Es"), l’ "Io", che permette di conoscere l'ambiente naturale e di assicurare l'esistenza (una sorte di principio di realtà), ed il "Superego" che comprende la buona coscienza ed assicura l'appartenenza alla comunità. Sebbene Freud abbia talvolta affermato nelle polemiche che la "buona coscienza" non è "nient’altro che la paura sociale", tutta la sua concezione di come i bambini assimilano la morale della società esprime chiaramente che questo processo dipende dall'attaccamento affettivo ed emozionale ai genitori e dal fatto che essi sono accettati in quanto esempio da imitare (7). (…)
Freud esamina anche le interazioni tra i fattori coscienti ed incoscienti della stessa buona coscienza. Il "Superego" sviluppa la capacità di riflettere su sé. L’ "Io", da parte sua, può e deve riflettere sulle riflessioni del "Superego". È attraverso questa "doppia riflessione" che il corso di un'azione diventa un atto cosciente, specifico a sé stesso. Ciò corrisponde alla visione marxista secondo la quale la predisposizione morale dell'uomo è basata su delle pulsioni sociali; che comprende dei componenti incoscienti, semi-coscienti e coscienti; che con l'avanzamento dell'umanità, il ruolo del fattore coscienza aumenta finché, col proletariato rivoluzionario, l'etica, basata su un metodo scientifico, diventi sempre più guida del comportamento morale; che all’interno della stessa buona coscienza, il progresso morale è inseparabile dallo sviluppo della coscienza a spese dei sentimenti di colpevolezza (8). L'uomo può sempre più assumere le sue responsabilità, non solamente nei confronti della propria buona coscienza, ma anche a causa di ciò che contengono i suoi valori morali e le sue convinzioni.
La lotta del marxismo contro l'utilitarismo etico
A dispetto delle sue debolezze, il materialismo borghese, in particolare sotto la sua forma utilitarista - col concetto che la morale è l'espressione di interessi reali ed obiettivi - rappresentava un enorme passo avanti nella teoria etica. Preparava la via ad una comprensione storica dell'evoluzione morale. Rivelando la natura relativa e transitoria di tutti i sistemi di morale, ha portato un grande colpo alla visione religiosa ed idealista di un codice, eternamente invariabile, che si pretende stabilito da Dio.
Come abbiamo visto, la classe operaia, fin dai primi tempi, traeva già le sue conclusioni socialiste da questa visione. Sebbene i primi teorici socialisti come Robert Owen o William Thompson siano andati bene al di là della filosofia di Jeremy Bentham, che avevano preso come punto di partenza, l'influenza della visione utilitarista è restata forte in seno al movimento operaio, anche dopo l'apparizione del marxismo. I primi socialisti hanno rivoluzionato la teoria di Bentham, applicando i suoi postulati di base alle classi sociali piuttosto che agli individui, preparando così la via alla comprensione della natura sociale e di classe della storia della morale. Il riconoscimento che i proprietari di schiavi non avevano lo stesso registro di valori dei commercianti o dei nomadi del deserto, né quello dei pastori delle montagne, era già stato confermato seriamente dall'antropologia durante l'espansione coloniale. Il marxismo ha approfittato di questo lavoro preparatorio, come ha approfittato degli studi di Morgan e di Maurer dando un'illuminazione sulla "genealogia delle morali" (9). Ma malgrado il progresso che ciò rappresentava, questo utilitarismo, anche sotto la sua forma proletaria, lasciava tutto un mucchio di domande senza risposta.
Primariamente, se la morale non è niente altro che la codificazione di interessi materiali, diventa lei stessa superflua e sparisce in quanto fattore sociale in sé. Il materialista radicale inglese, Mandeville, aveva affermato già su questa base che la morale non è niente altro che l'ipocrisia che serve a nascondere gli interessi fondamentali delle classi dominanti. Più tardi, Nietzsche doveva trarre conclusioni un po' differenti dalle stesse premesse: la morale è il mezzo della moltitudine che è debole per impedire il dominio dell'élite, e dunque che la liberazione da quest’ultima richiedeva il riconoscimento che per lei tutto è permesso. Ma come ha sottolineato Mehring, la pretesa abolizione della morale in Nietzsche, nella sua opera Al di là del Bene e del Male, non è niente altro che lo stabilirsi di una nuova morale, quella del capitalismo reazionario e del suo odio per il proletariato socialista, liberato dagli ostacoli della decenza piccolo borghese e dalla rispettabilità dell'alta borghesia (10). In particolare, l'identità tra interessi e morale implica, come avevano affermato già i gesuiti, che il fine giustifica i mezzi (11).
Secondariamente, prendendo per postulato che le classi sociali rappresentano "individui collettivi" che perseguono semplicemente i loro interessi, la storia appare come una disputa senza nessuno senso, e ciò che ne risulta è forse importante per le classi coinvolte ma non per la società nel suo insieme. Ciò rappresenta una regressione rispetto a Hegel che aveva già compreso, sebbene sotto una forma mistificata, non solo la relatività di ogni morale ma anche il carattere progressista dell'edificazione dei nuovi sistemi etici in violazione della morale stabilita. Era in questo senso che Hegel dichiarava: "Si può immaginare che si dice qualche cosa di grande affermando: l'uomo è naturalmente buono. Ma si dimentica che si dice qualche cosa di molto più grande dicendo: l'uomo è naturalmente cattivo" (12).
Terzo, la concezione utilitaria conduce ad un razionalismo sterile che elimina le emozioni sociali dalla vita morale.
Le conseguenze negative di questi resti dell’utilitarismo borghese sono diventati visibili quando il movimento operaio, con la Prima Internazionale, ha cominciato a superare la fase delle sette. L'investigazione sul complotto dell'Alleanza contro l'Internazionale, - in particolare, i commenti di Marx ed Engels sul "catechismo rivoluzionario" di Bakunin - rivela "l'introduzione dell'anarchia nella morale" mediante un "gesuitismo" che "spinge l'immoralità della borghesia fino alle sue estreme conseguenze". Il rapporto redatto su mandato del Congresso dall'Aia nel 1872 sottolinea i seguenti elementi della visione di Bakunin: il rivoluzionario non ha interesse personale, non affari né sentimenti personali o invidie che gli siano proprie; ha rotto non solo con l'ordine borghese, ma con la morale ed i costumi del mondo civilizzato tutto intero; considera come una virtù tutto ciò che favorisce il trionfo della rivoluzione e come un vizio tutto ciò che la frena; è sempre pronto a sacrificare tutto, ivi compreso la sua propria volontà e la sua personalità; elimina tutti i sentimenti di amicizia, di amore o di riconoscimento; confrontato alla necessità, non esita mai a liquidare qualsiasi essere umano; non conosce altra scala di valori che quella dell'utilità.
Profondamente indignati da questa visione, Marx ed Engels dichiarano che questa è la morale dei bassifondi, quella del sottoproletariato. Tanto grottesco quanto infamante, più autoritario del comunismo più primitivo, Bakunin fa della rivoluzione "una serie di assassini individuali e poi di massa" dove "l'unica regola di condotta è la morale gesuita esagerata" (13).
Putroppo, il movimento operaio nel suo insieme non ha assimilato in profondità le lezioni della lotta contro il bakuninismo. Nel suo Materialismo storico, Bukarin presenta le norme dell'etica come semplici regole e regolamenti. La tattica sostituisce la morale. Ancora più confusa è l'atteggiamento di Lukacs di fronte alla rivoluzione. Dopo avere in partenza presentato il proletariato come la realizzazione dell'idealismo morale di Kant e Fichte, Lukacs scivola nell'utilitarismo. In Che significa un'azione rivoluzionaria? (1919), dichiara: "la regola del tutto che predomina sulla parte implica il determinato sacrificio di sé... Può essere rivoluzionario solamente colui che è pronto a tutto per portare a termine questi interessi".
Ma il rafforzamento della morale utilitarista dopo il 1917 in URSS era sopratutto l'espressione dei bisogni dello stato di transizione. In "Morale e norme di classe", Preobrajensky presenta l'organizzazione rivoluzionaria come una specie di ordine monastico moderno. Vuole sottomettere anche le relazioni sessuali al principio della selezione genetica, in un mondo dove la distinzione tra individui e società sono abolite ed in cui le emozioni sono subordinate ai risultati delle scienze naturali. Anche Trotsky non è indenne da questa influenza, poiché in La loro morale e la nostra, in una difesa inconfessata della repressione di Kronstadt, difende al fondo la formula secondo la quale "il fine giustifica i mezzi".
È certamente vero che ogni classe sociale tende ad identificare il "bene" e la "virtù" ai propri interessi. Tuttavia, interesse e morale non sono identici. L'influenza di classe sui valori sociali è estremamente complessa, poiché essa integra la posizione di una data classe nel processo di produzione e la lotta di classe, le sue tradizioni, i suoi scopi e le sue attese per il futuro, la sua parte nella cultura nello stesso modo in cui tutto ciò si manifesta sotto forma dello stile di vita, delle emozioni, delle intuizioni e delle ispirazioni.
In opposizione alla confusione utilitarista tra interesse e morale, (o "dovere" come lo chiama qui) Dietzgen distingue i due. "L'interesse rappresenta più la felicità concreta, presente, tangibile; il dovere, al contrario, la felicità generale, allargata, concepita anche per l'avvenire. (...). Il dovere si preoccupa anche del cuore, dei bisogni della società, dell'avvenire, della salute dell'anima, in breve della totalità dei nostri interessi; ed esso ci insegna a rinunciare al superfluo per ottenere e conservare il necessario" (14).
In reazione alle affermazioni idealistiche dell'invarianza della morale, l'utilitarismo sociale cade nell'altro estremo ed insiste così unilateralmente sulla sua natura transitoria che perde di vista l'esistenza di valori comuni che danno una coesione alla società, e dei progressi dell’etica. La continuità del sentimento di comunità non è tuttavia una finzione metafisica.
Questo "relativismo esagerato" vede le classi individuali e la loro lotta ma non vede “il processo sociale globale, l'interconnessione dei differenti episodi e, quindi, non riesce neanche a distinguere le differenti tappe dello sviluppo morale come facenti parte di processi legati tra loro. Non possiede criteri generali con cui valutare le differenti norme, non è capace di andare al di là delle apparenze immediate e temporanee. Non riunisce le differenti apparenze in un'unità per mezzo del pensiero dialettico" (15).
Per ciò che riguarda i rapporti tra fine e mezzi, la formulazione corretta del problema non è che il fine giustifica i mezzi ma che lo scopo influisce sui mezzi e che i mezzi influiscono sullo scopo. I due termini della contraddizione si decidono reciprocamente e si condizionano un l'altro. Inoltre, il fine ed i mezzi non sono altro che anelli in una catena storica di cui ogni fine diventa un mezzo per raggiungere un scopo più elevato. E’ per tale motivo che il rigore metodologico ed etico deve applicarsi a tutto il processo, riferendosi al passato ed al futuro, e non solamente all'immediato. I mezzi che non servono ad un scopo dato, finiscono col deformarlo ed allontanarsene. Il proletariato, per esempio, non può vincere la borghesia utilizzando le armi di questa. La morale del proletariato si orienta al tempo stesso secondo la realtà sociale e secondo le emozioni sociali. E’ per tale motivo che rigetta allo stesso tempo l'esclusione dogmatica della violenza ed il concetto di indifferenza morale nei confronti dei mezzi impiegati.
In parallelo con questa falsa comprensione dei legami tra scopo e mezzi, Preobrajensky considera anche che la sorte delle parti, ed in particolare dell'individuo, non è importante e può essere sacrificato comodamente nell'interesse del tutto. Non era tuttavia l'atteggiamento di Marx che considerava la Comune di Parigi come prematura, ma tuttavia ha solidarizzato con essa per solidarietà; né quella di Eugenio Leviné e del giovane KPD che sono entrati nel governo della Repubblica dei Consigli della Baviera quando era sul punto di fallire, nonostante si fossero opposti alla sua proclamazione, per organizzare la sua difesa in modo da minimizzare il numero di vittime proletarie. Il criterio unilaterale dell'utilitarismo di classe apre in effetti la porta ad una solidarietà di classe molto condizionale.
Come ha sottolineato Rosa Luxemburg nella sua polemica contro Bernstein, la contraddizione principale al cuore del movimento proletario è che la sua lotta quotidiana si trova in seno al capitalismo mentre i suoi scopi sono verso l'esterno e rappresentano una rottura fondamentale con questo sistema. Ne risulta che l'uso della violenza e dell'astuzia contro il nemico di classe sono necessari, e l'espressione di un odio di classe e di aggressioni anti-sociali difficili da evitare. Ma il proletariato non è moralmente indifferente di fronte a tali manifestazioni. Anche quando adopera la violenza, non deve dimenticare mai, come ha affermato Pannekoek, che il suo scopo è di illuminare gli spiriti, non di distruggerli. E come Bilan (16) ha concluso, valutando l'esperienza russa, il proletariato deve evitare per quanto possibile l'uso della violenza contro gli strati non sfruttatori e di escluderli, per principio, dai ranghi della classe operaia. Anche nel contesto della guerra civile contro il nemico di classe, il proletariato deve essere convinto della necessità di agire contro l'apparizione di sentimenti anti-sociali come la vendetta, la crudeltà, la volontà di distruggere poiché conducono all'abbrutimento ed indeboliscono la luce della coscienza. Tali sentimenti sono il segno della penetrazione dell'influenza di una classe estranea. Non è per caso che dopo la rivoluzione di ottobre, Lenin considerava che, giustamente dopo l'estensione della rivoluzione, la precedenza doveva essere l'elevazione del livello culturale delle masse. Dobbiamo ricordarci anche che è innanzitutto perché aveva visto la crudeltà e l'indifferenza morali di Stalin che Lenin è stato capace di identificare (nel suo" testamento") il pericolo che rappresentava.
I mezzi adoperati dal proletariato devono corrispondere, per quanto possibile, al tempo stesso allo scopo ed alle emozioni sociali che corrispondono alla sua natura di classe. Non è a caso che in nome di queste emozioni, il programma del 14 dicembre 1918 del KPD, pure difendendo risolutamente la necessità della violenza di classe, rigettava l'uso del terrore.
"La rivoluzione proletaria non ha nessuno bisogno del terrore per realizzare i suoi obiettivi. Essa odia ed aborrisce l'assassinio. Essa non ha bisogno di ricorrere a questi mezzi di lotta perché non combatte degli individui, ma delle istituzioni, perché non entra nell'arena con le illusioni ingenue che, deluse, implicherebbero una sanguinosa vendetta " (17).
In opposizione a ciò, l'eliminazione del lato emozionale della morale da parte dell'utilitarismo materialista meccanicista è tipicamente borghese. In questa visione, l'uso delle menzogne, dell'inganno è moralmente superiore se serve al compimento di un scopo dato. Ma le menzogne che i bolscevichi hanno fatto circolare per giustificare la repressione di Kronstadt, hanno minato non solo la fiducia della classe nel partito ma hanno anche destabilizzato la convinzione degli stessi bolscevichi. La visione secondo la quale "il fine giustifica i mezzi", nega nella pratica la superiorità etica della rivoluzione proletaria sulla borghesia. Dimentica che più la preoccupazione di una classe corrisponde al benessere dell'umanità, più questa classe può trarre la sua forza morale.
Lo slogan che trionfa nel mondo degli affari secondo cui conta solo il successo, qualunque siano i mezzi impiegati, non potrebbe applicarsi alla classe operaia. Il proletariato è la prima classe rivoluzionaria la cui vittoria finale è preparata da una serie di sconfitte. Le lezioni inestimabili, ma anche l'esempio morale dei grandi rivoluzionari e delle grandi lotte operaie sono le condizioni per una vittoria futura.
Nel periodo storico presente, l'importanza della questione dell'etica è più grande che mai. La tendenza caratteristica alla disgregazione dei legami sociali e di ogni pensiero coerente ha obbligatoriamente degli effetti negativi sulla morale. Di più, il disorientamento etico in seno alla società è lui stesso una componente centrale del problema che si trova al centro della decomposizione del tessuto sociale. La situazione di blocco che si è prodotta tra le risposte della borghesia alla crisi del capitalismo e la risposta del proletariato, tra la guerra mondiale e le rivoluzioni mondiali, è legata direttamente alla sfera dell'etica sociale. L'uscita dalla controrivoluzione dovuta ad una nuova generazione del proletariato che, dopo il 68, non era stata sconfitta, significava il discredito storico del nazionalismo, soprattutto nei paesi dove si trovano i settori più forti del proletariato mondiale. D’altra parte, però, le lotte operaie massicce dopo il 68 non si sono accompagnate, per il momento, ad uno sviluppo corrispondente della dimensione teorica e politica della lotta proletaria, in particolare ad un'affermazione esplicita e cosciente del principio dell'internazionalismo proletario. Perciò, nessuna delle due maggiori classi della società contemporanea sono state capaci, per il momento, di fare progredire il proprio ideale specifico di classe rispetto alla comunità sociale.
In generale, la morale dominante è quella della classe dominante. Per questa precisa ragione ogni morale dominante, in modo da servire gli interessi della classe dominante, deve nello stesso tempo contenere degli elementi di interesse generale in modo da assicurare la coesione della società. Uno di questi elementi è lo sviluppo di una prospettiva o di un ideale di comunità sociale. Un tale ideale è un fattore indispensabile per frenare le pulsioni anti-sociali.
Come abbiamo visto, il nazionalismo è l'ideale specifico della società borghese. Questo corrisponde al fatto che lo Stato nazionale è l'unità più evoluta che può realizzare il capitalismo. Quando il capitalismo entra nella sua fase decadente, la stato-nazione smette definitivamente di essere uno strumento di progresso nella storia, diventando in effetti il principale strumento della barbarie sociale. Ma già ben prima che si sia prodotto il becchino del capitalismo, il proletariato - proprio perché è il portatore di un ideale più elevato, internazionalista - è stato capace di mettere in luce la natura ingannevole della comunità nazionale. Sebbene nel 1914 i lavoratori abbiano dimenticato in principio questa lezione, la Prima Guerra mondiale andava a rivelare la realtà della principale tendenza, non solo della morale borghese, ma della morale di tutte le classi sfruttatrici. Questa consiste nella mobilitazione degli slanci più eroici, più altruistici, delle classi lavoratrici al servizio della più misera e più sordida delle cause.
Malgrado il suo carattere ingannevole e sempre più barbaro, la nazione è il solo ideale che la borghesia può sventolare per dare una coesione alla società. Non c’è che questo ideale nella realtà contemporanea della struttura statale della società borghese. E’ per questo motivo che tutti gli altri ideali sociali che emergono oggi - la famiglia, l'ambiente naturale locale, la religione, la comunità culturale o etnica, lo stile di vita in gruppo o in gang - sono realmente delle espressioni del dissolvimento della vita sociale, della putrefazione della società di classe. E questo è altrettanto vero per tutte le risposte morali che tentano di coinvolgere la società nel suo insieme, ma sulla base dell'interclassismo: l'umanitarismo, l'ecologismo, "l'altermondializzazione". Prendendo come postulato che il miglioramento dell'individuo è alla base del rinnovo della società, esse rappresentano espressioni democraticistiche della stessa frammentazione individualistica alla base della società. Va da sé che tutte queste ideologie servono mirabilmente la classe dominante nel sua lotta per bloccare lo sviluppo di un'alternativa di classe, proletaria, internazionalista, al capitalismo.
In seno alla società in decomposizione, possiamo identificare certi tratti che hanno delle implicazioni dirette al livello dei valori sociali.
Innanzitutto, la mancanza di prospettiva fa che i comportamenti umani tendono ad orientarsi verso il presente ed il passato. Come abbiamo visto, una parte centrale del cuore razionale della morale è la difesa degli interessi a lungo termine contro il peso dell'immediato. L'assenza di una prospettiva a lungo termine favorisce la perdita di solidarietà tra individui e gruppi della società contemporanea, ma anche tra le generazioni. Ne risulta che tende a svilupparsi la mentalità pogromista e cioè l'odio distruttore verso un capro espiatorio reso responsabile della scomparsa di un migliore passato idealizzato. Sulla scena politica mondiale, possiamo osservare questa tendenza nello sviluppo dell'anti-semitismo, dell'anti-occidentalismo o dell'anti-islamismo, nella moltiplicazione delle "pulizie etniche", nell’ascesa del populismo politico contro gli immigrati e di una mentalità di ghetto degli stessi immigrati. Ma questa mentalità tende ad impregnare la vita sociale nel suo insieme, come dimostra lo sviluppo del "mobbing" come fenomeno generale.
In secondo luogo, lo sviluppo della paura sociale tende a paralizzare al tempo stesso gli istinti sociali e la riflessione coerente, i principi di base della solidarietà umana e soprattutto di classe oggi. Questa paura è il risultato dell'atomizzazione sociale che dà ad ogni individuo il sentimento di essere solo coi suoi problemi. Questa solitudine dà di riflesso un'illuminazione particolare al modo con cui viene visto il resto della società, rendendo più imprevedibili le reazioni degli altri esseri umani, ciò che fa che questi ultimi sono considerati come minacciosi ed ostili. Questa paura - che nutre tutte le correnti irrazionali di pensiero che sono rivolte verso il passato ed il nulla - deve essere distinta dalla paura che risulta da un'insicurezza sociale crescente provocata dalla crisi economica, perché un tale sentimento di insicurezza materiale può diventare un potente stimolante della solidarietà di classe di fronte a questa crisi economica.
Infine, la mancanza di prospettiva ed il degrado dei legami sociali fa sì che, per numerosi esseri umani, la vita sembra essere priva di senso. Questa atmosfera di nichilismo è in generale insopportabile per l'umanità, perché è in contraddizione con l’essenza cosciente e sociale della specie umana. Dà adito ad una serie di fenomeni molto intricati di cui il più importante è lo sviluppo di una nuova religiosità e di una fissazione sulla morte.
Nelle società principalmente fondate sull'economia naturale, la religione è innanzitutto l'espressione di un arretramento, di un'ignoranza e di una paura delle forze della natura. Nel capitalismo, la religione si nutre principalmente dell'alienazione sociale, della paura delle forze sociali che sono diventate inspiegabili ed incontrollabili. All'epoca della decomposizione del capitalismo, è innanzitutto il nichilismo ambientale che alimenta il bisogno di religione. Mentre la religione tradizionale, per quanto reazionario sia stato il suo ruolo, faceva sempre parte della visione di un mondo comunitario, e la religione modernizzata della borghesia rappresentava l'adattamento di questa visione tradizionale del mondo alla prospettiva della società capitalista, il misticismo della decomposizione capitalista si nutre del nichilismo ambientale. Che ciò sia sotto forma di una pura atomizzazione delle "anime" esoteriche alla ricerca del famoso "ritrovare sé stesso" all'infuori di ogni contesto sociale, o sotto forma della mentalità totalmente chiusa delle sette e del fondamentalismo religioso che offrono la cancellazione della personalità e l'eliminazione della responsabilità individuale, questa tendenza, mentre pretende di costituire una risposta, non è in realtà che l'espressione spinta all'estremo di questo nichilismo.
Di più, è questa mancanza di prospettiva e questo dissolvimento del legame sociale che fa che la realtà biologica della morte sembra togliere il suo senso alla vita individuale. L'aspetto morboso che ne consegue (di cui si nutre per una buona parte il misticismo di oggi) trova la sua espressione o in una paura smisurata della morte, o in un'inspirazione patologica a morire. La prima espressione si concretizza nella mentalità "edonistica" del "fun society" (il cui motto potrebbe essere per esempio: "mangiamo, beviamo fino ad esplodere, perché domani morremo"); l'altro nei culti come il satanismo, le sette della fine del mondo e nel culto crescente della violenza, della distruzione e del martirio, come nel caso dei kamikaze.
Il marxismo in quanto visione materialista, rivoluzionaria del proletariato, è sempre stato caratterizzato dal suo profondo attaccamento al mondo e la sua affermazione appassionata del valore della vita umana. Allo stesso tempo, il suo punto di vista dialettico ha compreso la vita e la morte, l'essere ed il nulla come facenti parte di un'unità indivisibile. Non ignora la morte e non sopravvaluta neanche il suo ruolo nella vita. La specie umana fa parte della natura. Come tale, la nascita, la crescita, ma anche la malattia, il declino e la morte fanno tanto parte della sua esistenza come il tramonto del sole o la caduta delle foglie in autunno. Ma l'uomo non è solo un prodotto della natura ma anche della società. In quanto erede delle esperienze della cultura umana, portatore del suo divenire, il proletariato rivoluzionario si ricollega alle sorgenti sociali di una forza reale, radicata nella chiarezza di pensiero e la fraternità, la pazienza e l'umorismo, la gioia e l'affetto, la sicurezza reale di una fiducia ben fondata.
La solidarietà e la prospettiva del comunismo oggi
Per la classe operaia, l'etica non è qualche cosa di astratto, a lato dalla sua lotta. La solidarietà, la base della sua morale di classe, è allo stesso tempo la prima condizione della sua vera capacità ad affermarsi in quanto classe in lotta.
Oggi, il proletariato è confrontato al compito di riconquistare la sua identità di classe che ha subito un enorme riflusso dopo il 1989. Questo compito è inseparabile dalla lotta per riappropriarsi delle sue tradizioni di solidarietà.
La solidarietà non è semplicemente una componente centrale della lotta quotidiana della classe operaia, ma porta anche in germe la società futura. I due aspetti che si ricollegano al presente ed al futuro, si influenzano reciprocamente. La nuova riapparizione della solidarietà di classe in seno alle lotte operaie è un aspetto essenziale della dinamica attuale della lotta di classe e dell'apertura della strada verso una nuova prospettiva rivoluzionaria. Una tale prospettiva, di rimbalzo, quando sarà liberata, sarà un potente fattore del rafforzamento della solidarietà nelle lotte immediate del proletariato.
Questa prospettiva è dunque decisiva di fronte ai problemi che pongono alla classe operaia la decadenza e la decomposizione del capitalismo. E così, ad esempio, per la questione dell'immigrazione. Nel capitalismo ascendente, la posizione del movimento operaio, in particolare della Sinistra, era di difendere l'apertura delle frontiere ed il libero movimento del lavoro. Ciò faceva parte del programma minimo della classe operaia. Oggi, la scelta tra frontiere aperte o chiuse è una falsa alternativa poiché è unicamente l'abolizione di tutte le frontiere che può risolvere la questione. Nelle condizioni della decomposizione, la questione dell'immigrazione tende ad erodere la solidarietà di classe, minacciando anche di infestare gli operai con mentalità pogromiste. Di fronte a questa situazione, la prospettiva di una comunità mondiale, basata sulla solidarietà, è il fattore più efficace della difesa del principio dell'internazionalismo proletario.
A condizione che la classe operaia, attraverso un lungo periodo di sviluppo delle sue lotte e della riflessione politica, giunga a riguadagnare la sua identità di classe, il fatto di riconoscere a qual punto le emozioni sociali, le relazioni e i modi di comportamento sono minati dal capitalismo dei nostri giorni, può diventare in sé un fattore che spinge il proletariato a formulare in modo cosciente i suoi valori di classe. L'indignazione della classe operaia di fronte ai comportamenti provocati dal capitalismo in decomposizione, e la coscienza che solo la lotta proletaria può offrire un'alternativa, sono centrali affinché il proletariato possa riaffermare la sua prospettiva rivoluzionaria.
L'organizzazione rivoluzionaria ha un ruolo indispensabile da giocare in questo processo, non solo attraverso la propaganda dei principi di classe ma anche, e sopratutto, dando lei stessa un esempio vivente della loro applicazione e della loro difesa.
Peraltro, la difesa della morale proletaria è uno strumento indispensabile nella lotta contro l'opportunismo e dunque, nella difesa del programma della classe operaia. Più fermamente che mai, i rivoluzionari devono restare nella tradizione del marxismo conducendo un lotta intransigente contro ogni comportamento che viene da una classe estranea.
"Il bolscevismo ha creato il tipo del vero rivoluzionario che agli scopi storici incompatibili con la società contemporanea subordina le condizioni della sua esistenza individuale, le sue idee ed i suoi giudizi morali. Le distanze indispensabili al riguardo dell'ideologia borghese erano mantenute nel partito attraverso una vigile intransigenza di cui l'ispiratore era Lenin. Non smetteva di lavorare di scalpello, tagliando i legami che l'ambiente piccolo-borghese creava tra il partito e le opinioni pubbliche ufficiali. Allo stesso tempo, Lenin spingeva il partito a formare la sua opinione pubblica, basandosi sul pensiero ed i sentimenti della classe. Per selezione ed educazione, in una lotta continua, il partito bolscevico creò così, non solo il suo mezzo politico ma anche morale, indipendente dell'opinione pubblica borghese ed irriducibile oppositore a questa. È solamente ciò che permise ai Bolscevichi di superare le esitazioni nelle proprie fila e di manifestare la virile risoluzione senza la quale la vittoria di ottobre sarebbe stato impossibile" (18).
1. Luxemburg: “Lo spirito della letteratura russa” (Introduzione a Korolenko) 1919
2. Bukharin e Preobrajensky: “L’ABC del comunismo - Commento al programma dell’8° Congresso del Partito, 1919”. Capitolo IX. La giustizia proletaria. § 74: I metodi penali proletari.
3. Jeremy Bentham (1748-1832) era un filosofo, giurista e riformatore britannico. Era amico, in particolare, di Adam Smith e di Jean-Baptiste Say due dei maggiori economisti della borghesia all’epoca in cui quest’ultima era ancora una classe rivoluzionaria. Ha influenzato dei filosofi “classici” di questa come John Stuart Mill, John Austin, Herbert Spencer, Henry Sidgwick o James Mill. Ha portato il suo sostegno alla rivoluzione francese del 1789 fornendole inoltre parecchie proposte concernenti l’istituzione del diritto, il sistema giudiziario, penitenziario, l’organizzazione politica dello Stato, e la politica nei confronti delle colonie (Emancipate your Colonies). Del resto la giovane Repubblica francese lo nomina cittadino onorario il 23 agosto 1792. La sua influenza si ritrova nel Codice civile (chiamato anche “Codice Napoleonico”) che ancora oggi continua a reggere il diritto privato francese. Il pensiero di Bentham parte dal seguente principio: gli individui concepiscono i loro interessi solo nel rapporto tra il piacere e la sofferenza. Cercano di “massimizzare” la loro felicità, espressa come surplus di piacere sulla sofferenza. Per ogni individuo si tratta di procedere ad un calcolo edonistico. Ogni azione possiede degli effetti negativi e degli effetti positivi, e ciò per un tempo più o meno lungo e con diversi gradi di intensità; per l’individuo si tratta dunque di realizzare ciò che gli porta più felicità. Bentham chiamerà Utilitarismo questa dottrina fin dal 1781. Egli mise a punto un metodo, “Il calcolo della felicità e della sofferenza” che mira a determinare scientificamente - cioè utilizzando regole precise - la quantità di piacere e di sofferenza generata dalle nostre diverse azioni.
Questi criteri sono sette:
· Durata: Un piacere lungo e duraturo è più utile di un piacere passeggero.
· Intensità: Un piacere intenso è più utile di un piacere di debole intensità.
· Certezza: Un piacere è più utile se si è sicuri che si realizzerà.
· Prossimità: Un piacere immediato è più utile di un piacere che si realizzerà a lungo termine.
· Estensione: Un piacere vissuto da parecchi è più utile di un piacere vissuto da solo.
· Fecondità: Un piacere che ne trascina altri è più utile di un piacere semplice.
· Purezza: Un piacere che non determina ulteriore sofferenza è più utile di un piacere che rischia di portarne.
Teoricamente, l’azione più morale sarà quella che riunisce il maggior numero di criteri. 4. Mehring, “Ritorno a Schopenhauer”, Neue Zeit. 1908/09 5. La maggior parte delle organizzazioni politiche del proletariato, accanto agli organi di centralizzazione incaricati di trattare “affari correnti”, si sono dotate di organi quali “commissioni di controllo” o “commissioni dei conflitti”, composte di militanti sperimentati e che godevano di grande fiducia da parte dei loro compagni, il cui compito specifico era affrontare delle questioni delicate che toccavano aspetti particolarmente sensibili e necessitavano la discrezione del comportamento dei militanti all’interno o all'infuori dell'organizzazione.
6. Kautsky: Etica e Materialismo storico. Capitolo: "l'etica del Darwinismo" (Gli istinti sociali)
7. Ciò è stato confermato dalle osservazioni di Anna Freud secondo le quali gli orfani usciti dai campi di concentramento, mentre stabilivano tra essi un tipo di solidarietà rudimentale, su basi egualitarie, non accettavano i riferimenti morali e culturali della società nel suo insieme se non quando erano raggruppati in più piccole unità "familiari", dirette ciascuna da una persona adulta rispettata, al riguardo di cui i bambini potevano sviluppare dell'affetto e dell'ammirazione.
8. Il libro di Kautsky sull'etica è il primo studio marxista globale di questa questione ed il suo principale contributo alla teoria socialista. Tuttavia, sopravvaluta l'importanza del contributo di Darwin. Perciò, sottovaluta i fattori specificamente umani della cultura e della coscienza, tendendo ad una visione statica nella quale le differenti forme sociali favoriscono o svantaggiano più o meno delle pulsioni sociali fondamentalmente invarianti.
9. Vedere per esempio Paul Lafargue: Ricerca sull'origine dell'idea del bene e del giusto 1885, ripubblicati nel Neue Zeit, 1899-1900
10. Mehring: Sulla filosofia del capitalismo, 1891. Dobbiamo aggiungere che Nietzsche è il teorico del comportamento dell'avventuriero declassato.
11. L'avanguardia della Controriforma contro il protestantesimo, il gesuitismo, era caratterizzata dall'adozione di metodi della borghesia per difendere la chiesa feudale. E’ per tale motivo che, molto presto, è l'espressione della base della morale capitalista, ben prima che la classe borghese nel suo insieme (che giocava ancora un ruolo rivoluzionario) non abbia rivelato apertamente i lati più ignobili del suo dominio di classe. Vedere per esempio Mehring: La storia della Germania dall'inizio del Medioevo, 1910. Parte 1a. Capitolo 6°: "Gesuitismo, Calvinismo, Luteranesimo".
12. Un'osservazione veloce. La più appropriata risposta a questa questione antica, cioè stabilire se l'essere umano è buono o cattivo, può essere data probabilmente parafrasando ciò che Marx ed Engels, ne La Sacra Famiglia scrivevano a proposito del romanzo di Eugène Sue, I misteri di Parigi, nel capitolo dedicato a "Fiore di Marie": "l'umanità non è né buona né cattiva, è umana".
13. Un complotto Contro l'internazionale - Rapporto sulle attività di Bakunin. 1874. Capitolo VIII. L'alleanza in Russia (il catechismo rivoluzionario. L’appello di Bakunin agli ufficiali dell'esercito russo)
14. Dietzgen: L’essenza del lavoro intellettuale umano, 1869.
15. Enrichetta Roland Holst Comunismo e Morale. 1925. Capitolo V. ("il senso della vita ed i compiti del proletariato"). Malgrado alcune debolezze importanti, questo libro contiene soprattutto un'eccellente critica della morale utilitarista.
16. Rivista in lingua francese della frazione di sinistra del partito comunista d'Italia, diventata in seguito, Frazione italiana della Sinistra comunista internazionale
17. Che cosa vuole la Lega Spartaco? Qui, come in altri scritti di Rosa Luxemburg, troviamo una comprensione profonda della psicologia di classe del proletariato.
18. Trotsky: Storia della Rivoluzione russa, 1930. Fine del capitolo: "Lenin chiama all'insurrezione".
Tutto aumenta! L’impennata dei prezzi dell’energia appesantisce le fatture del riscaldamento ed aumenta i costi degli spostamenti casa-lavoro. Il prezzo dei prodotti di prima necessità, come il pane ed il latte, esplode nel vero senso della parola. Al supermercato lo stesso budget riempie sempre meno il carrello! Tutto aumenta … eccetto il salario.
“Il problema è universale. Per la prima volta che si viva in un paese ricco o povero si parla la stessa lingua: gli italiani si preoccupano del prezzo della pasta, i guatemaltechi di quello delle focacce di mais, i francesi ed i senegalesi di quello del pane”1. Il prezzo della carne di maiale, la più consumata in Cina, raddoppia in un anno, mentre aumentano le quotazioni di altri prodotti agricoli come il pollame e le uova. In Giappone, che dipendente dal 60% di prodotti importati, l’impennata dei prezzi tocca quasi tutti gli alimenti.
Per la borghesia la spiegazione principale risiederebbe in … una salute troppo buona dell’economia asiatica: “La riduzione della produzione (fra l’altro aggravata dalla siccità e dalla rapida espansione del biogasolio) e l’aumento della domanda (proveniente principalmente dai paesi emergenti come India e Cina, ansiosi d’imitare il sistema alimentare occidentale) hanno indotto un’impennata di prezzo tanto inaspettata che straordinaria”2. In breve, un problema di ordinario squilibrio tra offerta e domanda!
Pura menzogna! Gli aumenti dei prezzi derivano direttamente dalla crisi economica. Essi costituiscono il primo contraccolpo, sulle condizioni di vita della classe operaia mondiale, della crisi degli ormai famosi subprimes3 iniziata la scorsa estate negli Stati Uniti. Per far fronte al “buco nero” dei debiti del mercato americano tutte le banche centrali hanno iniettato massicciamente soldi a basso costo (prestandoli agli speculatori con percentuali molto deboli), sperando così di limitarne il contagio ed i danni a breve termine. Ma questa politica determina solo una ennesima fuga in avanti nell’indebitamento4 che in realtà non fa che alimentare ed aggravare la stessa crisi. Versando un’immensa massa di valuta sulle banche minacciate di fallimento e sulle borse, a colpi di centinaia di miliardi di dollari, la borghesia, le banche centrali hanno nei fatti rilanciato una profonda spirale inflazionistica a livello internazionale5.
Ma perché questo processo inflazionistico tocca particolarmente le materie prime e le merci alimentari di base, indispensabili a milioni di esseri umani? La risposta è, all’immagine di questo sistema in putrefazione, inumana. “Le materie prime attirano gli speculatori, che alimentano il rialzo cercando, dopo la crisi immobiliare americana di quest’estate, sbocchi espansivi su altri mercati”6. Così “l’esuberanza irrazionale” dell’impennata dei carburanti si spiega con gli investimenti speculativi “che sono stati ritirati da certi mercati (azioni, obbligazioni, monete) per riversarsi sulle ‘comodita’, in particolare il petrolio”7. La stessa cosa riguarda i cereali: dopo il crollo di agosto “Goldman-Sachset e Marc Faber, seguiti praticamente da tutti i gruppi di speculatori, consigliano di investire sui mercati agricoli, con strumenti tali da poter giocare più volte i loro fondi”8. Per salvare il loro capitale, tutti questi avvoltoi non esitano a trasformarsi in veri affamatori! Come ha confessato con un cinismo senza limiti uno di loro “se viviamo un rallentamento mondiale, questo non riguarderà i prodotti agricoli perché la gente deve comunque mangiare!”9.
L’ONU stima che “perdiamo terreno nei confronti della fame”10. Dolce eufemismo! Negli 82 paesi più poveri, dove le spese alimentari rappresentano correntemente dal 60 al 90% del bilancio, l’atteso aumento del grano del 20% condanna alla pura e semplice carestia - e dunque alla morte – un’intera parte di popolazione! Dal 2006 in Messico, nello Yemen, in Brasile, a Burkina Faso o in Marocco, sono già esplose rivolte della fame. In Cina, “l’altalena delle etichette rimette in discussione il miglioramento delle condizioni di esistenza”11. Nei paesi occidentali, mangiare correttamente diviene un lusso. In Francia, quando il consumo di circa 400 grammi di frutta e legumi a persona al giorno (raccomandato dall’OMS) rappresenta tra il 5 ed il 12% del SMIC (salario minimo interprofessionale di crescita), è chiaro che molti lavoratori non saranno più capaci di soddisfare i bisogni più elementari.
A leggere la stampa, è chiaro che lo spettro del crac del 1929 e della Grande Depressione assilla tutta la borghesia: “Si va verso un nuovo 1929?”.
È vero che l’ieri e l’oggi presentano delle analogie: le borse che vacillano ed i cui movimenti altalenanti celano male la caduta; le montagne di debiti che si rivelano insolvibili, la crisi di fiducia tra le banche che, tutte, moltiplicano le perdite; negli Stati Uniti, in Germania ed in Inghilterra il panico dei piccoli risparmiatori che formano code interminabili davanti alle banche per ritirare i loro risparmi; la prospettiva per una consistente fetta della classe operaia negli Stati Uniti di ritrovarsi dall’oggi al domani senza né tetto né lavoro.
Nel 1929 il crac della borsa di New York, il celebre “giovedì nero” (24 ottobre 1929), inaugura la prima e più grande crisi economica del capitalismo in declino, la Grande Depressione degli anni 1930. Questa caduta rivela la crisi cronica di sovrapproduzione di merci nella fase di decadenza del capitalismo. La crisi del 1929 prende la forma di una caduta totale e resta impressa nella memoria perché la borghesia applica le vecchie ricette che erano risultate efficaci durante le crisi ... del 19° secolo (quando il capitalismo era ancora in pieno sviluppo, in periodo di ascesa) ma che adesso, non solo sono inefficaci, ma in più giocano un ruolo aggravante nella nuova situazione storica (la decadenza del capitalismo). La restrizione da parte della Banca Federale americana della quantità di valuta sul mercato ha come conseguenza il fallimento di molte banche, il riflusso del credito ed un freno enorme sull’attività economica. Le misure protezionistiche in favore dell’economia nazionale, imitate presto dappertutto, hanno come conseguenza la frammentazione dell’economia mondiale, il blocco del commercio internazionale e, alla fine, una maggiore recessione della produzione.
Dopo la crisi degli anni ’30 la borghesia, anche se non trova una vera soluzione alla crisi economica e storica del suo sistema12, tuttavia si adatta a questo stato di crisi permanente, riuscendo a rinviarla nel tempo. In un certo senso, la nave continua ad affondare ma più lentamente. La borghesia impara ad usare i meccanismi statali di controllo per affrontare le crisi finanziarie giocando sui tassi di interesse e iniettando liquidità nel sistema bancario. È per questo motivo che la crisi economica attuale, che imperversa fin dal 1968, non assume la forma della caduta brutale del 1929. La caduta è stata più graduale. La crisi ha barcollato da una recessione all’altra, di volta in volta più seria e più estesa, passando da una falsa ripresa all’altra, sempre più breve e più limitata. Questo scivolare della crisi in una spirale discendente ha permesso alla borghesia di negare l’esistenza della crisi ed il fallimento del suo sistema, ma a costo di sovraccaricare il sistema capitalistico sotto montagne di debiti e l’accumulo delle contraddizioni più pericolose. L’indebolimento estremo del sistema finanziario mondiale testimonia dell’usura di tutti questi palliativi usati dalla borghesia.
La crisi attuale non genererà certo un arresto brutale dell’economia come quello del 1929. Tuttavia, a ben guardare, per molti aspetti essa è ben più seria e profonda. Negli anni ‘30, negli Stati Uniti, quando il New Deal inaugurò il programma di rilancio dell’economia per tentare di affrontare la sua crisi di sovrapproduzione, il finanziamento dell’insieme delle misure creditizie dei prestiti di Stato rappresentò solamente una parte minima del reddito nazionale annuale (l’equivalente di meno di tre mesi di spese militari durante la Seconda Guerra mondiale)! Oggi, il debito americano ha già raggiunto il 400% del suo P.N.L.! La certezza di alcuni ambienti capitalistici “che la Grande Depressione degli Stati Uniti (…) avrà delle conseguenze senza paragone con la crisi del ‘29, (...) anche se il ‘29 resta l’ultimo punto di possibile paragone nella storia moderna”13 rivela la preoccupazione della borghesia! La crisi del 2007 ha un impatto direttamente mondiale. “Così come il contagio all’economia reale è già in corso non solo negli Stati Uniti ma sull’intero pianeta, il crollo dei mercati immobiliari inglese, francese e spagnolo è ormai in programma per questo fine anno 2007, mentre l’Asia, la Cina ed il Giappone devono far fronte contemporaneamente alla caduta delle loro esportazioni verso il mercato americano ed al calo veloce del valore di tutti i beni in dollari USA (divisa monetaria degli Stati Uniti come buoni del tesoro, azioni di imprese USA, ecc.)”14.
Questa prospettiva di severa recessione insieme alla spinta inflazionistica darà luogo dappertutto ad un deterioramento brutale delle condizioni di vita e di sfruttamento della classe operaia ed ad una povertà crescente ed irreversibile in tutto il mondo. Nonostante tutte le promesse dei politicanti di ogni risma, il capitalismo, avendo esaurito i suoi palliativi, è oggi incapace di trovare la benché minima via d’uscita e di nascondere il suo palesa fallimento. L’unica prospettiva che può offrire all’umanità è sempre maggiore miseria. Il futuro, la speranza e la salvezza dell’umanità appartengono alla lotta della classe operaia!
Scott (novembre 26)
1. Le Monde del 17 ottobre 2007.
2. La Republica, dal Courrier International n.888.
3.3 Subprimes : crediti ipotecari a rischio.
4. Dopo l’esplosione della bolla speculativa Internet nel 2000-2001 e di fronte al rischio di un tuffo brutale nella recessione, lo Stato americano all’epoca creò intenzionalmente e consapevolmente una nuova bolla per sostenere i consumi, la bolla immobiliare, sistematizzando i prestiti alle famiglie americane più povere. E’ bastato qualche anno per far esplodere anche questa con rischi ancora maggiori per l’economia mondiale (leggi il nostro articolo “La crisi immobiliare, un sintomo della crisi del capitalismo” sul nostro sito web).
5. “La massa dei soldi circolanti è determinata dalla somma dei prezzi delle merci (per un valore costante della moneta), e questa somma dei prezzi dalla massa delle merci in circolazione” (Engels, Sul capitale). L’aumento della quantità di valuta in circolazione senza aumento della produzione delle merci costituisce una svalutazione; i prezzi (espressione monetaria del valore) devono aumentare perciò nella stessa proporzione per esprimere il valore delle merci il quale non cambia.
6. Libération, 2 novembre 2007.
7. Le Monde, 20 ottobre 2007.
8. Nouvelle solidarité, 3 settembre 2007.
9. 9Bloomberg, 19 agosto 2007.
10. 10J. Sheeran, direttrice esecutiva del programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite.
11. Nanfang Zhoumo, giornale di Canton.
12. A giusta ragione, poiché non esiste altro che la distruzione del capitalismo!
1313. Global Europe Anticipation, bollettino n°17.
14.14 Id.
Pubblichiamo qui di seguito un volantino che abbiamo ricevuto dai compagni di Enternasyonal Komünist Sol (EKS) in Turchia e che prende posizione contro le minacce di guerra dello Stato turco contro i Kurdi alle frontiere con l’Iraq. La versione completa di questo volantino può essere letta sul nostro sito in lingua turca (EKA), tedesca ed inglese.
Ancora una volta sono arrivate recenti notizie di bambini di operai sacrificati nella guerra contro i Kurdi nel Sud-est. La borghesia ed i suoi media chiedono come sempre più sangue e caos. Ora è tutta la popolazione ad essere sospettata di terrorismo. Ma perché accadono tali cose?
Perché lo Stato borghese è uno Stato in crisi. Alla Turkish Airlines, alla Türk Telecom e alla Novamed, ci sono stati degli scioperi, e la classe operaia resiste agli attacchi dello Stato. Il debito internazionale aumenta ed il capitale, sempre più fittizio, diventa sempre più fragile sul mercato mondiale monetario e ne fa pagare le spese alla classe operaia. La borghesia conta sullo sviluppo di una campagna razzista per fare perdurare questa situazione, come si può vedere con lo sfruttamento degli operai Kurdi che sono sfruttati a basso costo proprio come gli operai turchi abbandonati in mezzo alla strada, in situazioni inenarrabili. La conseguenza politica di questa situazione si vede nelle grida di guerra che non risolvono niente. I muri ideologici dello Stato borghese traballano tutti i giorni. Più le condizioni di vita operaia sono dure e rimesse in questione, più la società capitalista si spinge verso la decomposizione e perde le ragioni della sua esistenza. Per l’ala nazionalista della borghesia, il problema è, come sempre, la cospirazione condotta dagli Stati Uniti. Secondo questa, se le Forze armate turche invadono l’Iraq, “il terrore sarà sradicato”. In realtà sono passati tre anni da quando gli Stati Uniti volevano mandare i giovani figli della classe operaia della Turchia a battersi contro altri operai in Iraq, ma la borghesia turca è stata incapace di farlo a causa della sua incapacità a convincere gli operai ad andare in guerra ed a causa della sua impotenza e della sua debolezza. La verità è che la borghesia turca si è sempre allineata dietro gli Stati Uniti e che le forze armate turche si tengono pronte ad uccidere operai in Libano ed in Afghanistan se necessario. Contrariamente alla menzogna dell’ala nazionalista destinata a convincere gli operai, non c’è conflitto di interessi tra lei e l’imperialismo americano. Al contrario, esistono degli interessi comuni e l’esercito turco è l’esecutore armato di quest’alleanza. Inoltre, non solo si avranno più massacri nel nord dell’Iraq con di più “soldati” uccisi e più “civili” spinti nei campi di concentramento ed assassinati nei campi di battaglia, ma ci saranno anche più bombe che esploderanno nelle città.
L’ala islamica e liberale della borghesia come sempre non approva la guerra. Certamente, il fatto che abbiano dei dubbi su come “l’operazione” si condurrà è solo espressione di chi cerca di avere il permesso dagli Stati Uniti. Per ciò non c'è altra scelta che aspettare “pazientemente” di ottenere un compromesso con Barzani e Talebani e massacrare degli operai nei luoghi vitali che essi indicheranno.
Come per l’ala sinistra della borghesia nessuno si preoccupa della fame, della miseria, della povertà e della morte degli operai. Tutti giocano delle diverse retoriche per giustificare la loro posizione. In breve, ci mostrano ancora una volta ciò che rappresenta i parlamenti.
Di conseguenza gli operai della Turchia vengono spinti verso il vicolo cieco mortale del ciclo di più guerra, distruzione, terrore e caos che tocca il Medio Oriente, a causa della borghesia che si strainfischia della loro vita o della loro morte. Perché il capitalismo può respingere la sua crisi insolvibile solo tirando l’umanità verso una sempre maggiore distruzione.
La risposta del proletariato mette in luce la strada verso l’avvenire, come si è potuto vedere nello sciopero alla Telekom. Un semplice sciopero che si è sviluppato per parecchi giorni è bastato a fare tremare la borghesia. Solo se gli operai entrano in lotta in solidarietà coi loro fratelli di classe e dicono no alla guerra internazionalmente, possono fermare il massacro imperialista.
Il modo per fermare la guerra ed i massacri è costruire la solidarietà di classe al di là delle frontiere dei fronti militari. Il nemico non sono i nostri fratelli e le nostre sorelle di classe ma i capitalisti, quelli seduti nelle loro case ben al caldo!
Enternasyonal Komünist Sol, dicembre, 2007
Lo sciopero dei lavoratori dei trasporti (SNCF e RAPT) che ha avuto fine il 22 novembre (e che si è svolto simultaneamente alla lotta degli studenti contro la legge sulla “autonomia delle università” che punta ad accentuare le diseguaglianze tra i giovani provenienti dalla classe operaia e quelli della borghesia) costituisce la prima risposta significativa della classe operaia in Francia contro gli attacchi del governo Sarkozy/Fillons/Pécresse e compagni. Lo smantellamento dei regimi speciali di pensionamento (37,5 anni di contributi necessari per i ferrovieri e altri lavori usuranti, 40 per tutti gli altri) non è stato che l’inizio poiché il governo ha annunciato chiaramente che la prospettiva è per tutti all’aumento degli anni di contributi necessari per la pensione. In questo senso, ed anche la stampa è stata abbastanza chiara su questo, era di primaria importanza per la borghesia riuscire a far passare questo primo attacco per non compromettere il successo di tutti i successivi. È per questo che i lavoratori dei trasporti hanno rifiutato la riforma esigendo non solo il mantenimento dei loro regimi speciali ma anche l’abolizione di questo “privilegio” che può solo mettere i lavoratori in competizione gli uni contro gli altri. La parola d’ordine dei ferrovieri e dei lavoratori della RAPT è stata perciò: “37,5 anni PER TUTTI!”
La preparazione del “braccio di ferro” della borghesia
L’attacco contro i regimi speciali è stato oggetto di consenso da parte di tutte le forze del capitale. Il PS non è stato da meno affermando con chiarezza di essere favorevole alla riforma. L’unica “divergenza” col governo stava sulla forma (come farlo passare?) e non sul contenuto. Per fare passare questo attacco e preparare il terreno ai successivi la borghesia ha dovuto imbastire una gigantesca manovra per spezzare la schiena alla classe operaia e farle capire che “lottare non serve a niente”. E per fare passare meglio questo messaggio, la classe dominante si è data come obiettivo annullare nella coscienza dei proletari le lezioni della lotta della nuova generazione contro il CPE della primavera 2006.
La borghesia sapeva che questo atto di forza avrebbe incontrato la resistenza della classe operaia. Cosa confermata dalla giornata di mobilitazione del 18 ottobre (usata da governo e sindacati per “tastare il polso”) dove si è manifesta una combattività molto forte: percentuale record di coinvolgimento allo sciopero nei trasporti e, nonostante questo, importante partecipazione alle manifestazioni dei lavoratori di tutti i settori. A piedi, in bicicletta o usando le auto-collettive, bisognava mostrare il proprio rifiuto delle misure del governo.
Per stroncare questa combattività, la borghesia ha agito in due tempi.
Di fronte alla volontà dei lavoratori di proseguire lo sciopero dopo la giornata del 18 ottobre, la CGT ha dato un netto colpo di freno affermando “Solo un giorno e non di più” e programmando una seconda giornata di mobilitazione per il 13 novembre. L’obiettivo del 18 ottobre era “lasciar sfiatare un po’ la pentola a pressione” per evitarne l’esplosione. Per tale motivo lo sciopero del 13 novembre, nonostante la forte percentuale di partecipazione, è stato meno seguito rispetto a quello del 18 ottobre.
Per spezzare la schiena alla classe operaia ed impedire lotte future, la borghesia ha utilizzato una strategia classica (che già aveva dato prova di efficacia negli anni 1980 e 1990): ha scelto un settore bersaglio per sviluppare la sua manovra, quello dei trasporti ed in particolare la SNCF (Società nazionale delle ferrovie). Un settore numericamente minoritario il cui sciopero non poteva che creare disagi agli altri lavoratori (gli “utenti”). L’obiettivo era rendere lo sciopero dei trasporti impopolare per spingere gli “utenti” contro gli scioperanti, dividere cioè la classe operaia, rompere la solidarietà all’interno di questa, evitare ogni tentativo di allargare la lotta e colpevolizzare gli scioperanti. La seconda ragione per la quale la borghesia ha deciso di attaccare specificamente i settori che hanno un “regime speciale” è che, in questi ultimi, i sindacati (ed in particolare la CGT) sono particolarmente forti, il che garantiva un controllo maggiore della combattività ed evitava ogni “scavalcamento”. Infine, la terza ragione che giustifica la scelta di questi settori “bersaglio” sta nel fatto che questi tradizionalmente sono segnati da un forte spirito corporativo (principalmente la SNCF) che è sempre stato alimentato dai sindacati.
La divisione dei compiti tra governo e sindacati
La borghesia ha dovuto giocare in maniera “serrata” perché doveva portare attacchi simultanei contro tutti i settori della classe operaia (esenzioni mediche, la legge di Hortefeux, legge su “l’autonomia” delle università, regimi speciali delle pensioni, aumento dei prezzi, soppressioni di posti di lavoro nella funzione pubblica e principalmente nell’istruzione nazionale, ecc.). La classe dominante si è dunque preparata ad affrontare il pericolo di una simultaneità di lotte in molti settori. In particolare, quando i lavoratori dei trasporti sono entrati in lotta gli studenti erano già mobilitati.
La manovra di divisione e frammentazione delle lotte doveva dunque svolgersi secondo un calendario ben preciso:
- La giornata di mobilitazione degli statali del 20 novembre non solo doveva servire da “valvola di sfogo” di fronte al malcontento in aumento nelle loro fila, ma doveva anche servire da giornata di affossamento dello sciopero dei lavoratori delle ferrovie e della RATP; in un certo senso doveva essere un “funerale nazionale”;
- Era necessario che ogni sindacato giocasse la propria parte in questa concertazione. In un primo tempo, fino alla giornata del 18 ottobre, bisognava dare una sensazione di “forza” ai ferrovieri, giocando la carta dell’unità di tutti i sindacati. Dopo, i sindacati hanno iniziato a giocarsi la carta della divisione. Alla FGAAC (sindacato strettamente corporativo dei conduttori) è toccato fare il primo passo: questa firma con la direzione un accordo separato a beneficio dei soli conduttori e chiama alla ripresa del lavoro. Bisognava mettere zizzania fra i ferrovieri. In alcuni depositi gli altri conduttori esplodevano: “gli autonomi ci hanno mollato!”. Chiaramente questo primo colpo basso è stato ben propagandato dai media;
- Il secondo colpo viene dato alla vigilia dello sciopero del 13 novembre. Mentre i ferrovieri ed i lavoratori della RAPT cominciano a capire la manovra di divisione (e esigono “37,5 anni PER TUTTI”!), Bernard Thibault, segretario generale della CGT, annuncia di rinunciare ad una negoziazione globale per tutti i settori dei regimi speciali e propone negoziati separati impresa per impresa. Questo brutto colpo non può che indebolire la risposta dei ferrovieri;
- A questo punto si può passare alla realizzazione della terza fase: il fronte sindacale si divide, in particolare con l’appello alla ripresa del lavoro lanciato dalla CFDT e con la frattura tra la CGT, maggioritaria, che ha accettato (senza squilli di tromba) il principio del passaggio ai 40 anni di contributi ed i sindacati “radicali”, Sud e FO, che hanno continuato a chiedere il ritiro di questa misura. Nello stesso tempo, il primo ministro Fillon, afferma la sua indisponibilità assoluta a fare marcia indietro sui 40 anni di contributi e pone come pregiudiziale all’apertura dei negoziati la ripresa del lavoro. Questa politica di ricatto non è nuova: gli scioperanti sono chiamati a deporre le armi (ad accettare la “legge del più forte”) prima di “negoziare” qualche briciole. Per i lavoratori in lotta ciò è inaccettabile, ma permetterà ai sindacati di presentare “l’apertura delle negoziazioni” come una prima vittoria. Questo è un “classico” della divisione di compiti tra padronato e sindacati. In realtà i dadi sono truccati fin dall’inizio perché sindacati e padronato non aspettato i “negoziati” ufficiali ma discutono continuamente alle spalle dei lavoratori: in particolare per i sindacati si tratta di render conto ai padroni della “temperatura” che c’è in modo da poter definire insieme in che direzione è necessario manovrare. Durante quest’ultima lotta, tali manovre sono state così evidenti da essere riportate in dettaglio persino da alcuni organi di stampa borghese!1
Ecco perché lo slittamento dell’apertura dei “negoziati” al 21 novembre, dopo la giornata di sciopero della funzione pubblica, era un completo bidone. Se la CGT ed il governo rinviavano l’inizio delle discussioni ufficiali non era solo per rendere questa giornata di mobilitazione uno strumento di affossamento dello sciopero dei tranvieri parigini e dei ferrovieri, ma anche per prolungare il movimento al fine di farlo “marcire” aizzando i lavoratori gli uni contro gli altri, avendo il tutto come sfondo una campagna mediatica di criminalizzazione degli scioperanti per rendere lo sciopero impopolare.
La CGT esce da questo tavolo di trattativa annunciando “importanti passi in avanti” con l’attuazione di un “calendario di negoziati” fino al ... 20 dicembre. Prevedere di farli durare un mese, significava dare il segnale della ripresa del lavoro: i ferrovieri evidentemente non sono disposti a continuare per altre 4 settimane. La CGT, sindacato maggioritario fra i ferrovieri, annuncia che “lascia” le assemblee “decidere da sole”. Non chiama ufficialmente alla ripresa del lavoro ma è come se lo facesse2.
Dal canto loro, Sud e FO chiamano, in un primo tempo, a proseguire il movimento dal momento che la richiesta principale, il mantenimento dei 37,5 anni di contributi, non era stata soddisfatta.
Ma la ripresa del lavoro si farà progressivamente deposito dopo deposito per la SNCF e linea dopo linea per la RAPT.
Questa opposizione tra sindacati moderati e sindacati “radicali” non ha niente di nuovo né di improvvisato. È una vecchia tattica che ha già dimostrato la sua efficacia in tutte le lotte operaie fin dalla fine degli anni ‘60. Una tattica già sperimentata nel 1968 (e che il “vecchio saggio” Chirac, così come l’ex-maoista Kouchner, ricordano perfettamente). Alla fine del movimento operaio del 1968 la CGT, maggioritaria, giocò già allora il ruolo del moderato chiamando alla ripresa del lavoro. E toccò alla CFDT (!), minoritaria, il compito di giocare quello “radicale” opponendosi alla ripresa. L’esperienza dei lavoratori della vecchia generazione mostra che fare il più “radicale” non impedisce ad un sindacato di partecipare alle manovre di divisione e di sabotaggio. Non è perché si è “oltranzisti” che si difendono gli interessi della classe operaia. Perché quello che fa la forza dei lavoratori, non sono i movimenti minoritari e che durano a lungo, nei quali si perdono inutilmente la propria energia e molti soldi, mentre si rafforza la divisione (tra quelli che lavorano e quelli che non lavorano) ed il rancore di quelli che hanno lottato con la sensazione che gli altri li hanno “mollati”. La forza della classe operaia è innanzitutto e soprattutto la sua unità. È la lotta di massa e l’estensione del movimento e non il rinchiudersi su posizioni oltranziste di una minoranza (che possono condurre alcuni operai a reazioni disperate, come il sabotaggio dei mezzi di produzione, che danno l’occasione a campagne di criminalizzazione degli scioperanti). In tutti i settori, del pubblico e del privato (così come fra gli studenti), i proletari saranno necessariamente portati a comprendere che il “radicalismo” di sindacati minoritari che spingono verso azioni isolate non ne fa dei “veri difensori” della classe operaia più di quanto non lo facciano gli appelli alla ripresa del lavoro delle più grandi ed influenti centrali sindacali.
La giornata di insabbiamento del 20 novembre
Questa gigantesca manovra che mirava a spezzare la schiena alla classe operaia è stata coronata dalla pianificazione della manifestazione-funerale del 20 novembre quella che ha raggruppato 750.000 lavoratori. La strategia delle direzioni sindacali è consistita nel chiamare i lavoratori della funzione pubblica a scendere in strada (in particolare per protestare contro la riduzione degli effettivi e la perdita del potere d’acquisto) mentre al contempo boicottavano la loro mobilitazione. I volantini sindacali che chiamavano a partecipare alla manifestazione sono arrivati sui posti di lavoro ... dopo il 20 novembre! Nella maggior parte degli ospedali, non si sono nemmeno sprecati ad indicare l’ora ed il luogo dell’appuntamento. Per sapere se questa manifestazione ci sarebbe stata o no si doveva andare alla ricerca di informazioni (su Internet, nei giornali o telefonicamente). Perché questo boicottaggio? Perché il “termometro” indicava che la temperatura nella funzione pubblica stava aumentando. Lo sciopero dei ferrovieri e dei lavoratori della RAPT, lungi dall’essere impopolare (nonostante tutte le campagne diffuse dalla televisione) stava invece guadagnando la simpatia di numerosi “utenti”. I media ed il governo (con dichiarazioni sempre più “sferzanti” accompagnate da ridicole affermazioni di alcuni presidi di università che accusavano gli studenti in sciopero di essere “Khmer rossi”) hanno alla fine esagerato. Più il governo brandiva il bastone contro gli scioperanti, più lo sciopero guadagnava simpatia (ed anche il sentimento che bisognava essere solidali e non lasciarsi ingannare “dalle manipolazioni dei media al soldo di Sarkozy”). D’altra parte le contorsioni di Thibault sono state così ovvie che lui stesso è passato per il grande “collaboratore”, il “traditore”3. I sindacati hanno dovuto sabotare la mobilitazione degli statali per evitare che tutti i settori della funzione pubblica si potessero incontrare fianco a fianco ed uniti nella strada. Di contro, tutti i sindacati della polizia nazionale avevano mobilitato al massimo le loro truppe4: il 20 novembre è stata la prima volta che si sono visti tanti poliziotti manifestare a Parigi5. Inoltre, le direzioni sindacali (che hanno organizzato la manifestazione con la prefettura) si sono presi la briga di posizionare lo spezzone dei poliziotti proprio al centro del corteo. Così, molti lavoratori e studenti che non volevano sfilare dietro le forze di repressione hanno preferito non associarsi a questa mascherata rimanendo sui marciapiedi. Questo è stato un buon metodo per dissuadere in particolare gli studenti che, in più, sono stati costretti ad aspettare in piedi per tre ore sotto la pioggia, per a fare da “giunzione” con i salariati.
Nel suo intervento del 29 novembre, “l’onnipresidente” Sarkozy ha reso “omaggio a tutti i partner sociali”, salutando TUTTI i sindacati per il “loro senso di responsabilità” e specificando che “ha bisogno di loro per riformare”6 (o detto più chiaramente, che lui ha bisogno di loro per portare a buon fine tutti gli attacchi previsti per il 2008). Sapeva di cosa parlava e, per una volta, non posiamo dire che stava mentendo.
Lo sciopero dei lavoratori dei trasporti, in questo mese di novembre 2007, ha confermato ancora una volta ciò che i rivoluzionari affermano da numerosi decenni: TUTTI i sindacati sono organismi di difesa della borghesia e non degli interessi della classe operaia.
Sofiane (novembre 30)
1. Vedi in particolare Marianne n. 553, “Perché Sarkozy vuole salvare la CGT”. Chérèque, il capo della CFDT, ha lui stesso svelato il segreto: “C’è una forma di coproduzione tra il governo e la CGT per mostrare i muscoli”. È vero che le sue truppe hanno male accettato che lui abbia giocato il ruolo del “traditore”.
2. Una delle ragioni per le quali è stato possibile “sospendere” (come dice Bernard Thibault) il movimento, sta nel fatto che la CGT ha “negoziato” degli “avanzamenti”, trattandosi di lavoro usurante, che permettono di guadagnare qualche briciola in più: aumenti di salario a fine carriera (bella conquista! Tutti sanno che fino ad allora il salario ed il potere d’acquisto si abbasseranno!). Di nuovo una grande truffa per giustificare la ripresa e tentare di salvare il salvabile perché la borghesia ha ancora bisogno della CGT. Se il governo non avesse previsto di “concedere” questa elemosina, il capo della CGT non avrebbe potuto strombazzare: “ci sono state delle conquiste”. Ed anche questo obolo era stato deciso in anticipo, attraverso le telefonate destinate a preparare e aggiustare le misure che avrebbero permesso alla CGT di continuare a fare il suo lavoro di sabotaggio. Infatti, ben prima dell’incontro tra la CGT ed il governo, Thibault aveva già annunciato la ripresa del lavoro. Il che dimostra chiaramente che gli annunci fatti dai padroni e dal governo nei “negoziati” non erano che dei bidoni!
3. Tanto più che delegazioni di studenti sono andate un po’ ovunque a Parigi ed nella provincia per fare quello che loro chiamavano la “giunzione” con i salariati in maniera da creare una “convergenza delle lotte”.
4. In effetti, gli studenti non hanno inviato nessuna delegazione nei commissariati e gli altri servizi del ministero dell’interno per fare la “giunzione” con i poliziotti perché hanno potuto rendersi conto da soli che i funzionari della polizia non stanno dalla loro parte.
5. Anche il sindacato di destra “Alleanza”, vicino all’UMP (e che aveva intonato la Marsigliese all’inizio della manifestazione), è stato massicciamente presente affianco al sindacato UNSA (vicino al PS).
6.Tutte le citazioni sono disponibili sul www.lemonde.fr.La settimana scorsa il governo di Sarkozy/Fillon/Hortefeux/Pécresse e soci (col tacito accordo del Partito Socialista e dei vari gruppi della sinistra) hanno oltrepassato il Rubicone dell’infamia e della brutalità. Dopo aver cacciato manu militari gli immigrati alle frontiere di Hexagone in nome della politica di selezione degli “immigrati scelti” (“l’immigration choisie”), hanno ora attaccato selvaggiamente gli studenti in sciopero. La feroce repressione si è abbattuta sugli studenti in lotta contro la legge sulla privatizzazione delle università (chiamata LRU). Alcuni presidi di università, lacchè del capitale, hanno preso la vile decisione di far intervenire i CRS (Compagnies Républicaines de Sécurité, analoghi ai celerini italiani) e le squadre anti-sommossa per riappropriarsi, in nome della “democrazia” e della “libertà”, delle facoltà occupate di Nanterre, Tolbiac, Rennes, Aix-Marseille, Nantes, Grenoble...
L’ordine del terrore capitalista!
La repressione a Rennes, e specialmente quella a Nanterre, è stata particolarmente ignobile. I presidi delle università, che hanno fatto intervenire anche le unità cinofile, hanno lasciato che centinaia di poliziotti occupassero il suolo e sfollassero gli studenti con manganellate e gas lacrimogeno. Molti sono stati arrestati e feriti. I CRS hanno dimostrato la loro brutalità strappando gli occhiali ad uno studente di Nanterre (simbolo di quelli che studiano e leggono libri!) e schiacciandoli. L’informazione sarkosista serva del capitale, ha giustificato la repressione dando la parola ai presidi delle università. Il 13 novembre, nel programma televisivo 20 Heures di Channel 2, il preside dell’università di Nanterre dava questa giustificazione: “Questa non è una lotta, è delinquenza”. Altro servo isterico del capitale, il preside dell’università di Rennes non si fa scrupoli nel dichiarare che gli studenti in rivolta sono “terroristi e Khmer rossi”!
E’ chiaro che l’ex capo della polizia francese, Nicolas le Petit, è determinato oggi a “ripulire” le università francesi e a stigmatizzare i figli della classe operaia come “facinorosi”, “marmaglia” e “delinquenti” (come li chiama il preside di Nanterre). E tutti quelli che fanno politica non sono che “terroristi” (Madame Pécresse, ministro dell’università e della ricerca, afferma il 17 novembre alla rete LCI: “le occupazioni sono innanzitutto politiche”). Nel momento stesso in cui Alliot-Maire (ministro dell’interno) dava l’ordine ai suoi sbirri di attaccare le facoltà occupate, la sua “compagna” Madame Pécresse spingeva il suo cinismo fino ad affermare attraverso la TV di volere “rassicurare gli studenti” (sic!).
I lavoratori, sia del settore pubblico che privato, devono capire questo messaggio: tutti quelli che si imbarcano in uno sciopero “illegale” e “impopolare”, tutti quelli che come i lavoratori nella SNCF e nella RATP (ferrovie francesi) oseranno “prendere in ostaggio” gli “utenti” saranno messi all’indice come “terroristi”, come sovvertitori “dell’ordine pubblico” (e si può contare sui media e Tele-Sarkozy per ricordarcelo giorno dopo giorno).
Il vero “pericolo giallo” non sono i cosiddetti “khmer rossi” dell’università di Rennes. Sono i “sabotatori”, quelli che colpiscono e criminalizzano le giovani generazioni di lavoratori con l’aiuto degli spioni e dei lecchini, ovvero i presidi delle università. I veri “terroristi”, i veri criminali sono quelli che ci governano e che eseguono il lavoro sporco per questa classe di gangster: la borghesia decadente. Il loro ordine è quello del TERRORE implacabile del capitale.
Ma questa classe di criminali non si è accontentata di mandare i cani poliziotto ed i picchiatori CRS contro gli studenti in sciopero. In alcune università evacuate dai poliziotti, hanno avuto la faccia tosta di “confiscare” il fondo cassa per lo sciopero degli studenti. Il 16 novembre a Lione, ad esempio, gli studenti che occupavano la facoltà avevano fatto una colletta di qualche centinaia di euro. Mentre i CRS armati fino ai denti sbloccavano la facoltà, l’amministrazione dell’università ha confiscato i viveri portati dagli studenti e fatto man bassa del loro fondo cassa. Tutto ciò è ignobile, vergognoso e ripugnante! Questi metodi da piccolo delinquente della borghesia non hanno niente da invidiare a quelli dei “casseurs” delle periferie che sono stati manipolati dallo Stato borghese durante il movimento del 2006 contro il CPE (contratto di primo impiego) per attaccare gli studenti nelle manifestazioni e rubare loro i cellulari!
Ecco il vero volto della democrazia parlamentare: “l’ordine pubblico” è l’ordine del capitale. È l’ordine del terrore e del manganello, degli sbirri e dei media. È l’ordine della menzogna e della manipolazione delle varie Tele-Sarkozy! È l’ordine dei vari Machiavelli che cercano di dividerci per meglio regnare. È l’ordine di quelli che cercano di istigarci gli uni contro gli altri usando la strategia del governo uscente Villepin-Sarkozy nella primavera del 2006: l’uso della violenza per indebolire la lotta!
La solidarietà tra studenti e ferrovieri è la via da seguire
La repressione selvaggia contro gli studenti è un iniquo attacco contro tutta la classe operaia. La grande maggioranza degli studenti in lotta contro la privatizzazione delle università e la selezione basata sul reddito, sono figli della classe operaia e non della piccola borghesia benpensante come alcuni media e socio-ideologi del capitale vorrebbero far credere. Molti di loro sono figli di lavoratori del pubblico impiego o figli di immigrati (specialmente nelle università suburbane come a Nanterre o a Saint-Denis). La natura proletaria della lotta degli studenti contro la Legge Pécresse è stata dimostrata chiaramente dal fatto che gli scioperanti sono stati capaci di allargare le loro rivendicazioni: nella maggior parte delle università occupate hanno messo in avanti nella piattaforma rivendicativa, non solo il ritiro della LRU, ma anche la difesa dei regimi pensionistici speciali, il rigetto della legge Hortefeux e della politica di Sarkozy sulla “immigrazione scelta”, il rigetto dei ticket sui medicinali e di tutti gli attacchi del governo contro la classe operaia nel suo insieme. Hanno messo avanti la necessaria SOLIDARIETA’ che deve unire i lavoratori in lotta contro le divisioni corporative e contro le negoziazioni azienda per azienda, settore per settore promosse dai sindacati. Gli studenti sono stati capaci di far vivere concretamente questa solidarietà. Centinaia di studenti parigini, e non solo, si sono uniti alle manifestazioni dei ferrovieri (in particolare quelle del 13 e 14 novembre) in lotta contro la rimessa in discussione dei regimi speciali di pensionamento. In alcune città (Rennes, Caen, Rouen, Saint-Denis, Grenoble), questa solidarietà da parte delle giovani generazioni della classe operaia è stata accolta calorosamente dai ferrovieri che li hanno invitati a partecipare alle loro assemblee generali ed hanno condotto insieme alcune azioni (come quella alle uscite delle autostrade dove studenti e lavoratori permettevano alle auto di passare liberamente attraverso i caselli mentre spiegavano gli obbiettivi del loro movimento). Così oggi ci sono degli studenti e degli operai che riflettono, discutono, agiscono e mangiano insieme. In alcune università gli insegnanti ed il personale amministrativo si sono uniti alla lotta, come a Paris 8 -Saint-Denis.
La natura proletaria della lotta degli studenti è confermata anche dal fatto che occupando l’università, gli studenti non volevano solo occupare dei locali per poter tenere assemblee generali e fare dibattiti politici aperti a tutti coloro volessero parteciparvi (sì Madame Pécresse, la specie umana, poiché è dotata di linguaggio, a differenza delle scimmie, è una specie politica come hanno dimostrato dei ricercatori che lavorano nei “centri di eccellenza”!). In alcune facoltà gli studenti in lotta hanno deciso di utilizzare i locali per ospitare gli immigrati clandestini.
Ed è proprio a causa di questa solidarietà attiva che rischia di estendersi a macchia d’olio che il governo Sarkozy/Fillon (e le sue “lady di ferro” Pécresse, Alliot-Marie, Dati e altre “Mi-putes, Mi-soumises” [movimento femminista francese]) ha deciso di mandare i suoi sbirri per spezzare le reni alla classe operaia. La borghesia francese vorrebbe mettere in atto la stessa politica della Thatcher. Quello che vuole è interdire, come in Gran Bretagna, ogni sciopero di solidarietà in modo da avere le mani libere per assestare attacchi ancora più brutali nel 2008, dopo le elezioni municipali. Ed è oggi, con la prova di forza e l’uso della repressione, che la classe dominante ed il suo uomo di polso, Sarkozy, stanno cercando di imporre l’ordine “democratico” del capitale.
Il movimento di solidarietà tra studenti ed alcuni ferrovieri è la dimostrazione lampante che la lezione della lotta contro il CPE non è stata dimenticata nonostante l’assordante campagna elettorale delle recenti presidenziali. La solidarietà tra gli studenti in lotta ed una parte dei lavoratori della SNFC e della RATP mostra la via da seguire. E’ questa via che ogni lavoratore, occupato o disoccupato, francese di nascita o immigrato, del settore pubblico o privato, deve intraprendere risolutamente. È l’unica strada per la costruzione di un rapporto di forza contro gli attacchi della borghesia e di questo sistema decadente che ha una sola prospettiva da offrire alle nuove generazioni: disoccupazione, lavoro precario, povertà e repressione (oggi, manganelli e lacrimogeni, domani proiettili!).
Nel 2006, l’allora capo della sicurezza, Sarkozy, non mandò i CRS contro gli studenti che occupavano le facoltà, non perché avesse più scrupoli morali di adesso, ma solo perché era candidato alla presidenza e non voleva perdere il supporto di quelle parti dell’elettorato i cui figli vanno all’università. Adesso che è arrivato al potere vuole mostrare i muscoli e regolare i conti di tutta la borghesia francese che ha mal digerito il ritiro del CPE nel 2006 (non ha mostrato il vero umore quando ha affermato, all’indomani delle elezioni: “lo Stato non può retrocedere”?). Sarkozy vuole dimostrare alla cricca di Villepin che lui non si sgonfierà (perché come disse Raffarin, “non è la strada che comanda”). Il cinismo con il quale ha annunciato pubblicamente, in nome della “trasparenza”, l’aumento del 140% del proprio “salario” mentre ostenta la sua intransigenza negli attacchi contro il livello di vita dei proletari, è una vera e propria provocazione. Nel fare sberleffi alla classe operaia, il messaggio che vuol far passare è: “è fuori discussione rimettere in causa i privilegi della borghesia. Io sono stato eletto dai Francesi, ora ho carta bianca per fare ciò che voglio!” Ma al di là degli interessi e delle ambizioni personali di questo sinistro personaggio, Sarkozy rappresenta l’insieme della classe capitalista: deve quindi attenersi alle leggi del capitale. Il braccio di ferro con i ferrovieri ha un unico proposito: infliggere una cocente sconfitta all’insieme della classe operaia per cancellare quel sentimento diffuso con le lotte contro il CPE: solo la lotta unita paga. E’ per questo che Sarkozy non ha intenzione di cedere ai ferrovieri e vuole trasformare le università in fortezze di polizia.
Ma quale che sia il risultato del braccio di ferro tra il governo Sarkozy/Fillon/Pécresse e la classe operaia, la lotta sta già pagando: il movimento di solidarietà tra ferrovieri e studenti, che ha cominciato ad attrarre altre parti della classe (in particolare i lavoratori delle università), lascerà una traccia duratura nelle coscienze, come hanno fatto le lotte contro il CPE. Come tutte le lotte operaie che si sviluppano a livello internazionale, anche questa rappresenta un passo sul cammino che porta al futuro rovesciamento del capitalismo. Il principale guadagno della lotta è la lotta stessa, è l’esperienza di viva ed attiva solidarietà della classe operaia sulla via dell’emancipazione, e verso l’emancipazione dell’intera l’umanità.
Lavoratori “francesi” ed immigrati, del settore pubblico o privato, studenti dell’università e della scuola, disoccupati: un’unica e stessa lotta contro gli attacchi del governo!
Abbasso lo Stato di polizia!
Di fronte al terrore del capitale, solidarietà di tutta la classe operaia!
Sofiane (17 November 2007)
(da Révolution Internazionale, 384)
La questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania è diventato un caso non solo nazionale, ma anche internazionale. Dei cumuli di spazzatura nelle strade campane se ne parla ormai in Germania, in Gran Bretagna, negli USA ed il Commissariato per l’ambiente dell’Unione Europea è pronto a sanzionare lo Stato italiano per le sue inadempienze su questo piano.
Ma la domanda che sorge è come mai si sia potuti arrivare a tanto, ad avere le strade invase da montagne di spazzatura che non si sa dove mettere. Di chi è la responsabilità? Dei napoletani che sono poco diligenti e che non vogliono imparare le regole della raccolta differenziata? Oppure delle popolazioni dei singoli comuni della regione che si ribellano contro l’insediamento nel loro territorio di una nuova discarica o di un nuovo impianto per la loro gestione? O forse è tutta colpa della camorra, che certamente nel traffico illecito dei rifiuti ci marcia alla grande? Ha ragione Beppe Grillo a urlare contro Bassolino e la Iervolino dicendo loro di tornare a casa? Esiste oggi un’alternativa politica istituzionale su cui puntare? E se no, cosa fare?
Per rispondere a tutte queste domande, abbiamo bisogno anzitutto di capire come mai si pone oggi il problema dei rifiuti in Campania. E per fare questo, dobbiamo ancora chiederci: è proprio vero che è soltanto un problema campano? E se no, da dove nasce? E ancora, in che modo è possibile dare un contributo alla soluzione di questo problema?
Qual è la situazione?
La situazione dei rifiuti in Campania ha dei caratteri veramente allucinanti e drammatici. Dopo 14 anni di commissariamento delle istituzioni locali, dopo 2 miliardi di euro spesi ci siamo ritrovati oggi con 120.000 tonnellate di rifiuti lasciati a terra per le strade della Campania, principalmente tra Caserta e Napoli, bloccati non da un inefficiente o insufficiente servizio di nettezza urbana ma dal fatto che non si sa dove metterli. Le discariche sono piene, gli inceneritori non sono ancora pronti, la raccolta differenziata non è mai decollata e le balle di rifiuti secchi non sono mai diventate vere eco-balle ma sono rimaste spazzatura imballata e basta. Gli attuali 7 milioni di “eco”-balle sparse sottoforma di funeree piramidi in tutto il territorio campano costituiscono oggi una delle vergogne maggiori del sistema capitalista italiano. Queste balle, che avrebbero dovuto essere eco-balle, dovevano andare negli inceneritori e convertirsi in energia. Oggi si viene a sapere che questo non è possibile secondo i metodi normalmente adottati nei termovalorizzatori e si parla già di passare ad una inertizzazione di queste balle (che comunque, essendo spazzatura, producono per dilavamento e fermentazione percolato e dunque contaminazione dei suoli su cui sono depositate) attraverso ad esempio, una cementificazione, che comporta impiego di ulteriore materiale (il cemento), un aumento del volume del rifiuto e la perdita secca dell’energia che poteva essere recuperata. E poi, dove si mettono? Una delle trovate è ammassarle nelle 124 cave dismesse o sequestrate alla camorra. Ma ammettiamo pure che fosse stato possibile recuperare queste balle come combustibile. L’inceneritore di Acerra, che doveva essere pronto per inizio 2008, lo sarà forse per il 2009. Tale impianto, che è un megainceneritore da 750.000 t/anno, funzionando da solo e senza tregua può bruciare tutti e 7 milioni di eco balle in non meno di 9 anni e mezzo. Ma contemporaneamente ci sono tante altre eco balle che vengono prodotte (2200 al giorno in Campania cioè 803.000 l’anno ognuna di 1 tonnellata)) per cui lo scenario che si profila somiglia tanto a quello dell’apprendista stregone che, perso il controllo della bacchetta magica, non riesce più a fermare il flusso dell’acqua che stava cercando di prelevare.
Per risolvere l’emergenza immediata l’altra soluzione trovata è stata quella di riaprire la discarica di Pianura chiusa anni fa perché ormai colma, cercando di fare entrare altra spazzatura nel poco spazio recuperato dall’abbassamento del livello in questi anni, discarica messa adesso sotto sequestro. Intanto, per affrontare l’emergenza, l’unica soluzione è spostare i rifiuti dalla Campania alla Sicilia , alla Sardegna o in Germania.
Ma in effetti la situazione è ancora più drammatica perché non riguarda solo come verranno smaltiti i rifiuti accumulati, ma anche e soprattutto i disastri all’ambiente e di conseguenza alla salute delle persone che la gestione assurda dello smaltimento dei rifiuti ha già provocato e continuerà a provocare. Adesso che è scoppiato il caso escono fuori i dati e le statistiche e si viene a sapere che nelle zone della Campania a maggiore concentrazione di discariche, legali e non, dal ‘91 al 2001 il tasso di mortalità è aumentato del 43% negli uomini e del 47% nelle donne e le morti sono dovute a: tumore allo stomaco, al fegato ed ai polmoni, mentre aumentano le malformazioni fetali. Si viene a sapere che il bestiame di queste zone muore o nascono animali senza occhi, senza mandibole ed altre deformità a causa della diossina accumulata nei terreni. E su questi stessi terreni, dove ci sono anche altre sostanze tossiche, crescono ortaggi, frutta e verdura che arrivano sulle tavole di tutta Italia.
Il problema è globale
Ma pensare che questo sia il problema di Napoli o della Campania sarebbe sbagliato. Quello che succede in questa regione è solo l’espressione più drammatica di una contraddizione che è tipica della produzione capitalista e che non dipende semplicemente dall’incapacità di questo o quel politico di turno (tanto più che nel periodo di 14 anni sono passate giunte di destra e di sinistra) né dalla strafottenza del “popolo napoletano”, ma che è un’espressione dell’irrazionalità del capitalismo. L’umanità ha sempre prodotto rifiuti, ma questi sono stati sempre reintegrati, riutilizzati, recuperati. E’ con la società capitalista che il rifiuto diventa un problema perché il bene diventa una merce che deve essere venduta e commercializzata per realizzare il massimo profitto in un mercato dove l’unica legge è quella della concorrenza. Cosa comporta questo:
1) una produzione irrazionale della merce con un’eccedenza di prodotti. Non si produce per soddisfare i bisogni ma per realizzare profitto;
2) una produzione abnorme di involucri, imballaggi, ecc. costituiti tra l’altro in larga misura da sostanze tossiche non degradabili che si accumulano nell’ambiente. Negli ultimi 25 anni in Italia, a parità di popolazione, la quantità di rifiuti è raddoppiata grazie ai materiali che costituiscono gli imballaggi.
3) la necessità, dettata dalla concorrenza, di produrre enormi quantità di merce e prodotti per la sua commercializzazione (imballaggi, materiale per la pubblicizzazione, ecc) usando materiali e procedure al minor costo possibile, nonostante i danni all’ambiente ed all’uomo stesso che questi producono.
La logica di questo sistema non è produrre quello che serve a soddisfare i bisogni dell’umanità e quindi consumare secondo le reali necessità della collettività. Nel capitalismo la logica è quella del guadagno dell’impresa, del singolo capitalista, del singolo Stato capitalista e questa logica porta a quantità enormi di prodotti di rifiuto. Ogni anno nel modo si producono miliardi di tonnellate di rifiuti. Nella sola Italia negli ultimi 15 anni la produzione dei soli Rifiuti Solidi Urbani è più che raddoppiata raggiungendo nel 2005 la cifra di 30 milioni di tonnellate all’anno, cioè 1,4 kg procapite al giorno di cui il 40% in peso e il 50% in volume costituito da materiale da imballaggio (carta, cartone, materie plastiche, legno). E teniamo presente che i RSU sono solo una parte, e non la più grande, dell’insieme dei rifiuti prodotti.
Come per il problema più generale dell’inquinamento ambientale, di cui la questione dei rifiuti fa parte, questo è un problema generale la cui radice sta nel modo di produzione capitalistico e non può trovare una soluzione effettiva se non eliminando questo sistema di produzione
Ma allora perché solo in Campania scoppia l’emergenza adesso, mentre al nord o in altre nazioni no?
Ma non hanno ragione i vari Grillo e compagni a denunciare una classe dirigente locale inefficiente e collusa con la camorra? Non ha ragione Oreste Scalzone che alla manifestazione del 9 a Napoli ha detto che il capitalismo campano, “a differenza degli altri capitalismi che possono essere liberisti, stalinisti, fascisti … è un capitalismo camorrista”?
Certo! Il degrado della Campania, ed in genere delle regioni del sud - e non solo per quanto riguarda la spazzatura, ma per molti altri aspetti - sono dovuti in buona parte all’inefficienza e alla difesa di interessi economici e di potere di persone e di gruppi politici. Ed è sicuramente vero che la camorra in Campania, così come la ndrangheta in Calabria o la mafia in Sicilia, tengono in mano interi settori dell’economia e non solo quello dei rifiuti, ma anche nell’edilizia ad esempio. Ma bisogna ricordare che il connubio mafie, potere politico (sia periferico che centrale) ed imprenditoriale c’è sempre stato. La mafia siciliana ad esempio ha permesso e reso possibile lo sbarco degli americani in Sicilia per assumere dopo la liberazione il ruolo di cane da guardia della popolazione e della classe operaia in particolare, intervenendo puntualmente contro ogni iniziativa di lotta e svolgendo sul posto una funzione cruciale di repressione per la neonata Repubblica Italiana. Parimenti la camorra è responsabile delle discariche abusive in Campania, ma è anche vero che, come giustamente denuncia Saviano, la camorra non fa altro che farsi veicolo di tutta una serie di imprenditori del nord che scaricano nelle zone depresse della Campania tutta una serie di rifiuti tossici il cui smaltimento a norma costerebbe loro enormemente di più.
Quindi è vero che queste cose esistono, ma la loro esistenza è propria e connaturata al capitalismo, ad un sistema nel quale non esiste etica, non esiste morale se non quella del profitto.
E non è un caso se l’emergenza rifiuti si avverte in Campania, ed in genere nel sud, più che altrove. E’ nelle zone più deboli del capitalismo che emergono prima e con maggior forza le contraddizioni e le falle di un sistema di produzione. E’ così nei paesi del terzo mondo o in quelli del sud America ad esempio. Il meridione è storicamente la zona più arretrata del capitalismo italiano, dove quindi le mafie hanno potuto impiantarsi con maggiore forza, ma soprattutto dove gli aspetti della decomposizione e del degrado di questo sistema sociale sono più evidenti per l’ampiezza che assumono, e non solo per il problema di rifiuti, ma anche per la disoccupazione, la precarizzazione, la delinquenza, ecc.
Se nel nord o in altri Stati la classe dirigente riesce ancora a mantenere un minimo di efficienza nello smaltimento dei rifiuti, questo non deve farci perdere di vista la dimensione globale del problema e la mancanza di una soluzione a questo all’interno del capitalismo.
La reazione della gente
Di fronte ai quintali di spazzatura nelle strade e stanca di decenni di degrado, menzogne e prese in giro, la gente è scesa nelle strade. Famiglie intere, donne, vecchi e bambini hanno fatto barricate per impedire che altri camion di spazzatura fossero scaricati vicino alle loro case. Ha fatto blocchi stradali perché stanca di non poter respirare per la puzza e con l’incubo di ammalarsi se esci di casa. Si batte per impedire che il posto dove vive diventi o ritorni ad essere un luogo dove ci si ammala di tumore. Ci sono stati episodi di esasperazione come l’incendio di cumuli di spazzatura i cui fumi aumentano i rischi per la salute; ci sono stati scontri con la polizia, con arresti e feriti. E certamente la composizione eterogenea del movimento e la situazione di esasperazione ha creato un terreno favorevole per azioni di violenza fine a sé stessa, quali ad esempio l’assalto ai camion dei vigili del fuoco, rispetto alle quali la maggior parte dei partecipanti alla lotta si è dissociata.
Ma occorre anche cogliere degli aspetti inediti importanti che sono emersi, sia nella inquietudine della gente negli ultimi giorni, sia nella manifestazione-fiaccolata del 9 gennaio scorso a Napoli. Il primo di questi aspetti, che ci sembra tra i più importanti, è lo sdegno profondo della gente per il degrado ambientale, sanitario, morale ed anche etico in cui questa è costretta a vivere. La gran parte delle persone presenti alla manifestazione del 9 non era composta dai soliti quadri dei gruppi politici della sinistra extra parlamentare e non (che naturalmente non mancavano), ma da gente comune, di ceti bassi e medi, di gente povera e meno povera, tutti lavoratori in linea di massima, che in buona parte per la prima volta (almeno dopo molti anni) si incamminavano per le strade a fare una manifestazione. Questo sentire profondo dei manifestanti era in realtà l’espressione di un disagio che tutta la popolazione della regione avverte per un problema che sembra irreale per quanto è fuori del normale.
E’ vero che la manifestazione (ed in generale il clima politico intorno a questa vicenda) è stata fortemente plasmata da un’atmosfera di democraticismo, che porta all’illusione che una gestione alternativa della politica possa dare risultati diametralmente opposti a quelli attuali. Il che ha prodotto slogan del tipo: “Nelle vostre dimissioni c’è il nostro futuro …” o ancora “Napoli è qua per la legalità”. Democraticismo ed illusione alimentate dalle varie forze di destra e di sinistra dell’apparato politico della borghesia, ognuna delle quali cerca di sfruttare lo sdegno e la rabbia della gente per gettare sugli altri la responsabilità e proporsi come alleato della popolazione. Ma è anche vero che, proprio a partire dalla concretezza delle cose, la gente ha cominciato a perdere fiducia nella politica rappresentativa dei “partiti”, ha capito dalle questioni concrete che destra e sinistra dicono e fanno le stesse cose.
Una presa maggiore invece, hanno quelle forze “senza partito”, quali appunto i Grillo, gli Alex Zanotelli che, puntando il dito su personaggi quali Bassolino, Jervolino, sul governo di turno o ponendo false alternative come “inceneritore si, inceneritore no” e “lotta alla camorra”, rafforzano la falsa idea che sia possibile vivere meglio in questo sistema, ostacolando una presa di coscienza sulle motivazioni di fondo del degrado a cui si è costretti a vivere.
Un altro elemento va sottolineato. La scelta di inviare De Gennaro come super commissionario per l’emergenza rifiuti non è un caso. De Gennaro è quello che ha saputo assumersi la responsabilità del pugno di ferro durante le manifestazioni contro il G8 di Genova nel 2001 e la sua nomina, oltre che una garanzia di efficienza per la borghesia, è anche un minaccioso messaggio alla popolazione a non andare oltre la democratica e pacifica manifestazione del proprio disagio.
Guarda caso il no global nostrano Caruso, che ha tanto sbraitato ai tempi del G8 contro la repressione da parte dello Stato per mano di De Gennaro, oggi non trova nulla da obiettare al voto dato dal suo partito RC alla nomina di De Gennaro, se non invitarlo al dialogo.
Conclusione
L’emergenza rifiuti non è una specificità campana, né tanto meno italiana: è un’emergenza mondiale, come mondiale è l’emergenza più generale della distruzione dell’ambiente e dell’umanità. La sua causa di fondo sta nel capitalismo, nella sua devastante irrazionalità come sistema di produzione.
E’ per questo che lottare contro il degrado ambientale è importante, a condizione che non ci si faccia irretire dalle chimere del riformismo e della democrazia, perché andare fino in fondo a questa lotta significa inevitabilmente mettere in discussione il capitalismo e la sua irrazionalità che sono all’origine di tale degrado. Perciò lottare contro l’emergenza rifiuti e le sue devastanti conseguenze significa reagire e difendersi dall’ulteriore degrado delle nostre condizioni di vita, ma soprattutto comprendere che la soluzione al problema non sta all’interno del capitalismo ma solo nella costruzione di una società alternativa, di una società comunista, dove la produzione non è più dominata dalla ricerca del massimo profitto, ma è gestita dalla collettività per soddisfare le esigenze dell’insieme dell’umanità.
11 gennaio 2008 CCI
Volantino del collettivo
Si può lasciare in mano ad interessi privati la gestione delle nostre vite?
La crisi economica si sviluppa. Partita dal settore finanziario, essa si è estesa a tutti i settori dell’economia. Le delocalizzazioni e le chiusure di fabbriche ne sono le manifestazioni più evidenti. Anche l’edilizia, per esempio, conosce gravi problemi. Ma le imprese di questo settore sono di taglia ridotta, perciò attirano poco l’attenzione dei mezzi di informazione.
Le bombole di gas
Questa crisi, di cui la borghesia (i proprietari dei mezzi di produzione e del capitale) è responsabile, è pagata dai lavoratori e dai futuri lavoratori di tutti i paesi. Le chiusure di fabbriche, le delocalizzazioni, i licenziamenti, la cassa integrazione e la disoccupazione parziale…, di cui i lavoratori soffrono, non si contano più. La crisi ha come conseguenza un aumento della violenza nei rapporti sociali fra le classi. Nei fatti, questo si traduce, da un lato, in attacchi ripetuti contro le conquiste sociali, ben presto ridotte a niente: volontà di allungare la durata del lavoro (“lavorare di più per guadagnare di più”), aumentare l’età per il pensionamento (67, o anche 70 anni), attacchi al codice del lavoro (lavoro domenicale, ….), ecc. il tutto con un solo scopo: aumentare lo sfruttamento! Dall’altro lato la crisi suscita una volontà dei lavoratori di resistere a questi attacchi, in maniera sempre più combattiva: sequestri dei dirigenti (3M…), scioperi duri con occupazione del luogo di lavoro (Continental…), sviluppo di legami nazionali ed internazionali: incontri dei salariati di diverse fabbriche nella sede centrale del proprio gruppo (Michelin, Caterpillar…) e rapporti con i lavoratori di altri paesi (Continental con la Germania…), e in qualche caso anche la minaccia di far saltare la propria fabbrica per ottenere delle indennità di licenziamento decenti (New Fabris…).
Ma queste lotte sembrano prendere una nuova forma. Molti lavoratori non hanno più speranza di poter conservare il loro posto di lavoro e quindi di mantenere il loro sito industriale. Quello che vogliono è fare in modo che i “piani sociali” (termine tecnocratico per dire licenziamenti in massa) diano loro il massimo di soldi. Così, da una parte, gli azionisti saranno obbligati a sborsare qualcosa di più di quanto avevano previsto; d’altra parte questi lavoratori potranno sopravvivere un po’ di tempo in più nonostante l’esiguità dei sussidi di disoccupazione. Sono dunque le questioni della dignità e delle loro condizioni di vita che essi pongono. Ma non è meno vero che essi, cioè noi siamo in un vicolo cieco.
E dopo, che si fa?
Quello a cui siamo confrontati è una vera crisi di prospettive. Le confederazioni sindacali, con la loro strategia di accompagnamento alla crisi, non offrono nessun mezzo per uscire da questa via senza uscita. Questo mostra che la necessità di organizzarsi in altra maniera, cercando di ricostruire nuove prospettive in rottura con il capitalismo, diventa allo stesso tempo urgente e vitale. Come arrivare a una divisione paritaria delle ricchezze? Come uscire dal dominio degli azionisti e altri piccoli capi che rovinano la nostra vita quotidiana? Si tratta della nostra vita di tutti i giorni, ma anche del divenire dell’umanità, dell’avvenire del pianeta: una scelta di società! Le confederazioni sindacali sono capaci di costruire degli spazi in cui noi possiamo riflettere sul nostro quotidiano, per cominciare a trasformarlo? Si può credere che i burocrati sindacali possano favorire l’immaginazione e la lotta per un futuro in cui la preoccupazione centrale dell’organizzazione sociale diventino i rapporti sociali e non più la ricerca di profitti per una minoranza sempre più avida?
I successi delle grandi manifestazioni del 29 gennaio e del 19 marzo ci danno speranza. E’ d’obbligo constatare che il seguito che ne hanno dato le direzioni sindacali non è stato all’altezza delle nostre aspettative. La maggior parte delle direzioni delle grandi centrali sindacali si sono accontentate di discutere con il governo, di organizzare delle “giornate di azione dura”. Niente di realmente positivo si è concretizzato per rafforzare il campo dei lavoratori e di tutti gli oppressi, per costruire la solidarietà di classe. Questo ha portato logicamente alle sbandate del 26 maggio e del 13 giugno.
Molti fra noi (lavoratori, precari, disoccupati, pensionati, sindacalizzati…), auspichiamo, sussurriamo, gridiamo, agiamo per lo sciopero generale. Ma non viene fatto niente. L’influenza dei burocrati sindacali è ancora efficace! E’ ora vitale darsi delle prospettive rivoluzionarie per farla finita in maniera radicale con la società capitalista. Dobbiamo organizzarci alla base, sviluppare la solidarietà di classe, costruire degli strumenti di lotta per prendere in mano il nostro destino e costruire da subito un altro futuro!
Nelle fabbriche,nei quartieri, negli uffici, costruiamo i nostri comitati, i nostri collettivi e tutte le forme di strumenti di lotta che riterremo opportuni!
Usciamo dalle logiche corporative che ci indeboliscono!
Solidarietà fra tutti gli sfruttati ed oppressi, sindacalizzati o no!
Costruiamo l’unità della nostra classe, distinguendo i no stri compagni dai nostri nemici!
Ne abbiamo abbastanza delle briciole, prendiamoci i forni del pane!
Collettivo Unità alla Base di Tours
I nostri commenti
Questo volantino illustra bene il fatto che la classe operaia, attraverso alcune sue minoranze, non si rassegna alla passività. Essa non accetta le condizioni di sfruttamento a cui la borghesia, il governo e i sindacati vogliono costringerla.
Anche se noi non ne condividiamo tutti i punti di vista o tutte le formulazioni, quello che ci sembra molto interessante in questo volantino è che esso pone chiaramente la questione della prospettiva rivoluzionaria: “E’ ora vitale darsi delle prospettive rivoluzionarie per farla finita in maniera radicale con la società capitalista.” Questa questione è effettivamente il principale problema con cui si scontra oggi il proletariato: “Quello a cui siamo confrontati è una vera crisi di prospettive”. Perciò, come dice il volantino, bisogna prendere coscienza della gravità della posta in gioco: “Si tratta della nostra vita di tutti i giorni, ma anche del divenire dell’umanità, dell’avvenire del pianeta”. E questo pone effettivamente il problema di una “scelta di società”, e noi condividiamo pienamente questa preoccupazione del volantino, una preoccupazione che mostra che questa questione della prospettiva rivoluzionaria comincia a maturare. Il volantino dà un contributo a questo sforzo di coscienza della classe operaia.
In questo quadro, questo testo si pone immediatamente dal punto di vista degli interessi della lotta di classe in reazione alla crisi e agli attacchi brutali portati dalla borghesia. E’ per queste ragioni che esso arriva rapidamente a denunciare il sabotaggio delle lotte operaie da parte dei sindacati: “I successi delle grandi manifestazioni del 29 gennaio e del 19 marzo ci danno speranza. E’ d’obbligo constatare che il seguito che ne hanno dato le direzioni sindacali non è stato all’altezza delle nostre aspettative. La maggior parte delle direzioni delle grandi centrali sindacali si sono accontentate di discutere con il governo, di organizzare delle “giornate di azione dura”. Niente di realmente positivo si è concretizzato per rafforzare il campo dei lavoratori e di tutti gli oppressi, per costruire la solidarietà di classe. Questo ha portato logicamente alle sbandate del 26 maggio e del 13 giugno”.
Gli operai si sono dunque trovati in dei vicoli ciechi. E, come sottolinea il volantino “l’influenza delle burocrazie sindacali è ancora efficace”. Ogni lotta è restata e resta ancora ben chiusa su se stessa, il che non consente agli operai di creare un vero rapporto di forze che porti ad un movimento di più ampia portata. Attraverso le loro reazioni e in questo contesto, “le questioni di dignità e delle condizioni di vita che esse pongono” danno il segno di un potenziale per le lotte future per una risposta più all’altezza degli attacchi attuali.
Al fine di effettuare un passo in avanti per sviluppare la lotta in maniera più efficace, il volantino dà un certo numero di indicazioni politiche molto importanti che si riassumono nella frase: “Dobbiamo organizzarci alla base, sviluppare la solidarietà di classe, costruire degli strumenti di lotta per prendere in mano il nostro destino e costruire da subito un altro futuro!”.
La questione di “organizzarsi” per il proletariato è essenziale. Ma cosa dobbiamo intendere per questa espressione usata nel volantino “dobbiamo organizzarci”? Quali forme di lotta sviluppare?
Pensiamo che queste siano questioni centrali che devono effettivamente essere discusse nella classe operaia e che è necessario precisare, per poterle confrontare e arricchire la riflessione.
Da parte nostra, noi crediamo, in un contesto in cui il proletariato è colpito con forza dalla crisi, che chi difende una prospettiva che metta in discussione il capitalismo deve assumersi un ruolo, necessariamente minoritario, per la preparazione politica all’azione e all’intervento nelle lotte future.
Dopo i primi colpi di martello di una crisi economica destinata a prolungarsi, quando la classe operaia riprenderà il cammino della lotta, dovrà allora riprendere essa stessa in mano le sue lotte, le sue iniziative e la sua creatività, secondo le modalità di una lotta veramente collettiva, in cui le decisioni vengano prese in vere Assemblee Generali, aperte e sovrane. Le future Assemblee Generali, realmente vive, costituiranno il solo e unico mezzo per condurre le lotte in maniera efficace e autonoma. Toccherà ai partecipanti stessi, e non ai sindacati, che paralizzano e sabotano le lotte, decidere quello che è più conveniente fare. Sono gli operai stessi che devono esprimere la loro solidarietà, dentro le lotte e attraverso di esse, in maniera collettiva, inviando, per esempio, delegazioni di massa in altre fabbriche o in altri luoghi di lavoro, al fine di incontrare i salariati per una lotta comune. Sono le iniziative di Assemblee Generali comuni, interprofessionali, aperte, che devono costituire il polmone della lotta! Sarà questa presa in mano da parte degli operai stessi che consentirà una solidarietà attiva, reale, in direzione dei loro fratelli di classe in lotta. Evidentemente, di fronte a questi obiettivi ci saranno numerosi ostacoli. Ed ancora una volta toccherà agli operai, in queste stesse Assemblee Generali discuterne e studiare la maniera per superarli in maniera collettiva. Le Assemblee Generali, non bisogna dubitarne, restano la forma di organizzazione autenticamente proletaria che permette di controllare collettivamente le lotte.Esse costituiscono in qualche maniera gli embrioni dei futuri consigli operai. Questi organi, raggruppando le masse operaie che attraverso di essi si unificano, si ergono come forza rivoluzionaria in vista del rovesciamento del capitalismo. Essi permetteranno il superamento dei rapporti sociali di sfruttamento in vista della creazione di una nuova società.
Per concludere, sottolineiamo che è con questo obiettivo di contribuire alla riflessione iniziata che ci siamo permessi questi pochi commenti.
CCI
(tradotto da Révolution Internationale, organo della CCI in Francia, n°406)
[1] Si tratta di un collettivo che si è costituito, raggruppando elementi giovani e combattivi, il cui nucleo centrale era stato molto implicato nel movimento degli studenti.
Dal 15 al 20 giugno 2009 c’è stato in Germania uno sciopero nel settore dell’educazione. Si è trattato di un tentativo di bloccare con lo sciopero i licei e le università per protestare contro la miseria crescente dell’educazione capitalista. In rapporto all’ambizione dei suoi obiettivi, questo movimento non ha ottenuto che un modesto successo. È rimasto opera di una minoranza. In particolare nella maggior parte dei centri universitari non è riuscito a mobilitare un gran numero di studenti. Anche negli istituti scolastici delle grandi città ci sono state poche informazioni sulle mobilitazioni previste. Tuttavia, nel mezzo della settimana di mobilitazione, questo movimento è riuscito a mettere insieme circa 250.000 manifestanti in più di 40 città. L’importanza di questo movimento risiede nel fatto che una parte della nuova generazione ha fatto la sua entrata sulla scena politica e ha cominciato a fare le sue esperienze di lotta.
La settimana di “sciopero dell’educazione”
La settimana d’azione è iniziata lunedì 15 giugno con delle assemblee generali, soprattutto nelle università. Come nella fase preparatoria, è soprattutto negli istituti più piccoli, come per esempio a Postdam, che la mobilitazione è stata la più forte e la più significativa. In altre parti, le assemblee generali si sono tenute mentre continuavano i corsi. Raramente è avvenuto il blocco delle università, che era l’obiettivo iniziale. In compenso, il lavoro nelle assemblee generali è stato politicamente significativo.
Un dibattito collettivo ha potuto svilupparsi attorno alle formulazioni delle rivendicazioni che sono in parte andate oltre gli interessi puramente studenteschi per esprimere quelli dei lavoratori nell’insieme, come la richiesta di assunzione di decine di migliaia d’insegnanti nelle scuole e nelle università, la trasformazione immediata di tutti i contratti a durata limitata in contratti a durata illimitata o l’appello all’assunzione di tutti gli apprendisti. Inoltre, in molti posti, sono state redatte delle dichiarazioni di solidarietà verso gli operai in sciopero o sottoposti a licenziamenti massicci. Ma anche le richieste centrali del movimento, come il rifiuto di pagare le tasse universitarie, di aumentare la produttività e di selezionare un’elite nel sistema d’istruzione, riassunte nella parola d’ordine della “formazione per tutti”, volentieri interpretate in modo riformista dalla classe dominante, come un desiderio di “miglioramento del sistema esistente”, sono indubbiamente espressione di rivendicazioni proletarie. Il fatto che il capitalismo auspichi degli schiavi salariati stupidi e senza cultura e conceda loro soltanto il minimo di formazione assolutamente indispensabile per il funzionamento del sistema, è stato da tempo messo in evidenza dal movimento operaio socialista. All'inverso dello slogan “We don't need no education” (non abbiamo bisogno di essere istruiti) cantato dai Pink Floyd, la classe operaia ha combattuto fin dalla sua nascita per l’istruzione. Questa tradizione viene ravvivata oggi, con le stesse assemblee generali dove tutti i presenti partecipano attivamente alla formulazione e all’adozione delle rivendicazioni e degli obiettivi del movimento.
In Francia, nel 2006, il movimento nei licei e nelle università è riuscito ad imporre al governo delle rivendicazioni essenziali, perché ha messo subito al centro rivendicazioni proletarie che esprimono gli interessi dei lavoratori nell’insieme; in particolare, il rigetto del CPE, il progetto di legge che rendeva precari tutti i lavori per i giovani. Mentre in Germania nell’ambito della gioventù attiva cresce visibilmente la convinzione della necessità della solidarietà con tutti i lavoratori dipendenti, il movimento resta finora centrato sull’istruzione in particolare. Significa che non si percepisce ancora come parte di un movimento molto più ampio, della classe operaia nel suo insieme. Tuttavia, ci sono i primi segnali della potenzialità di un movimento che vada al di là del quadro delle scuole e dell'istruzione. L'immaturità momentanea del movimento, ma anche il potenziale di maturazione, si sono già manifestati il primo giorno della settimana d’azione. Uno dei punti di cristallizzazione di questa situazione contraddittoria è stata la manifestazione nazionale dei dipendenti degli asili nido di Colonia il 15 giugno. La grande assemblea generale degli studenti dell’università di Wuppertal ha deciso di inviare a Colonia una delegazione, per solidarizzare con i dipendenti degli asili nido. Non è stato possibile realizzare quest’azione soltanto per mancanza di tempo. A Colonia al contrario l'assemblea generale degli studenti non si è resa conto che a distanza di qualche chilometro si trovavano 30.000 scioperanti che dimostravano nelle strade. Quando in seguito si sono accorti di questo, l'assemblea generale, prima dello scioglimento, ha deciso di inviare una delegazione che è riuscita infine a lanciare un appello agli scioperanti e chiamarli alla lotta comune.
Questo conferma che l'idea di una lotta comune è certamente in gran parte diffusa, ma che non svolge tuttavia ancora ovunque un ruolo centrale. A Wuppertal ad esempio, l’università è relativamente piccola mentre la proporzione di proletari fra gli studenti è particolarmente grande. Là, il movimento si è organizzato fortemente sulla base dell’iniziativa degli stessi studenti. Così Wuppertal è stato uno dei pochi posti dove si è prodotto, almeno all'inizio, un grande movimento di sciopero con il blocco dell’università. L’università di Colonia, al contrario, è una delle più importanti della Germania, per provocare un fermento generale sarebbe necessario un malcontento più profondo e più ampio. Inoltre, le grandi città sono le cittadelle degli ambienti riformisti di sinistra che rallentano, con i loro tentativi di produrre artificialmente movimenti, l'auto-iniziativa degli studenti e li rendono diffidenti rispetto ad eventuali iniziative di lotta. Lo sciopero del settore dell'istruzione è stato chiaramente un’azione minoritaria. La lotta per affermarsi sul campo ed anche per far sentire la propria presenza, ha potuto contribuire a restringere il campo di visione alla situazione immediata nell’università.
La seconda importante giornata d'azione è stata mercoledì 17 giugno, quando in tutta la Germania ci sono state manifestazioni di universitari, liceali ed apprendisti. Le mobilitazioni più importanti si sono svolte ad Amburgo, Colonia e soprattutto a Berlino con 27.000 partecipanti. Il numero di partecipanti avrebbe potuto essere di gran lunga più elevato, se si fosse riusciti a mobilitare in modo più ampio i licei. A novembre scorso, già poteva esserci una giornata d’azione dei liceali - spesso attivamente sostenuti da insegnanti e genitori. Si è allora osservato che l’insoddisfazione e la combattività fra i liceali era spesso molto più grande che fra gli universitari. Invece a giugno l’azione della settimana dell’istruzione è stata troppo poco presa a carico dai licei. Questo è legato al fatto che durante questa settimana coloro che si sono attivati hanno utilizzato per così dire un quadro dato in anticipo da parte di un collettivo d’azione composito. Se l’azione fosse partita dagli stessi interessati, difficilmente questi avrebbero scelto di agire nel bel mezzo del periodo d’esame alla fine dell’anno scolastico! Non si deve tuttavia omettere che queste manifestazioni - a volte decise dalle assemblee generali, a volte spontanee - sono state occasionalmente utilizzate per recarsi presso licei o imprese minacciate di licenziamenti o di chiusura e per chiamare alla lotta comune.
La settimana d’azione si è conclusa con una manifestazione nella capitale della Renania Settentrionale - Vestfalia, Düsseldorf, alla quale hanno partecipato alcune migliaia di persone delle città circostanti. Questa manifestazione è stata segnata da due cose: da una parte, dall’atteggiamento, in un certo qual modo duro e provocatorio, della polizia. Occorre ancora aggiungere che i mass media borghesi hanno agitato in modo permanente nel corso di questa settimana d’azione il tema della violenza. La violenza, che si è cercato di far diventare un tema di discussione, per screditare il movimento. La volontà di falsificazione del movimento da parte dei mass media è stata così evidente che alcune assemblee generali hanno deciso di concedere interviste soltanto se il montaggio relativo avesse ricevuto la loro autorizzazione per la diffusione. Esigenza che è stata sistematicamente rifiutata dai media. D’altra parte, lo svolgimento di questa manifestazione si è trovato naturalmente molto meno nelle mani delle assemblee generali rispetto al mercoledì precedente. Si è trovato in quelle di un collettivo composto da diverse forze che agiscono senza alcun controllo della base, e che rappresenta inoltre una specie di compromesso tra vari approcci di pensiero - che non sono stati oggetto di alcun dibattito preliminare. Se citiamo questi fatti non è per difendere la necessità di restare a livello di azioni locali. Vogliamo piuttosto sottolineare che l’estensione ed il raggruppamento geografico d’un movimento rendono necessaria la maturazione corrispondente del suo modo di organizzazione e devono procedere di pari passo con l’autorganizzazione da parte delle assemblee generali. Quando questo non avviene, ci sono dei rischi.
In ogni caso, quando il corteo ha raggiunto la Königsallee – la strada di lusso più nota della Germania – l’azione si è dispersa. Una parte è restata a occupare l’incrocio stradale e voleva così trasformare l’azione in blocco della circolazione finché fosse stato possibile. Fra questi non si trovavano soltanto rappresentanti dei black block, che coltivano l’idea, secondo noi sbagliata, che la violenza in quanto tale è rivoluzionaria. C’erano anche molti giovani frustrati dal fatto che la manifestazione potesse passare inosservata. Erano infatti delusi per la debole risonanza che la settimana di sciopero dell’istruzione aveva avuto. Inoltre, si erano sentiti provocati dall’atteggiamento delle forze dell’ordine. L’altra parte, che aveva avuto la forza di non cadere nella trappola dello scontro con le forze di polizia, aveva esortato gli occupanti dell’incrocio stradale a seguirli, ma alla fine continuò da sola fino al luogo del raduno nella piazza Schloss, lontano dal pericolo, in pieno settore turistico. La manifestazione si è così divisa in due. Quando in seguito arrivò la notizia che la polizia aveva attaccato il gruppo che stava bloccando l’incrocio a Königsallee, l’assembramento fu sciolto ed una parte di esso corse a dar man forte a quelli che venivano attaccati.
Questo incidente rivela – per contrasto- l’importanza delle assemblee generali. Noi non ne facciamo un feticcio. La questione non è la forma delle assemblee generali in sé, poiché se queste restano passive, possono facilmente diventare un guscio vuoto. Il problema è quello della loro capacità di sviluppare una cultura del dibattito e di prendere decisioni in modo collettivo ed autonomo. Il disaccordo a Königsallee, ad esempio, avrebbe probabilmente potuto essere risolto in modo positivo se si fosse discusso sul posto cosa occorreva fare. In situazioni simili, è la saggezza collettiva che può permettere una decantazione delle idee e può riuscire a trovare una soluzione per restare uniti insieme senza esporsi alla repressione.
Il contesto generale degli scioperi nel settore dell'istruzione
Rimane ancora della strada da fare - e la settimana di manifestazioni nel settore dell’istruzione è un piccolo passo in questa direzione. La maggior parte dei partecipanti è cosciente dei propri limiti. Tuttavia, noi siamo convinti che questo passo, anche se piccolo, non è insignificante. Perché significa che i giovani proletari della Germania hanno iniziato a rispondere ai vibranti appelli della gioventù in Francia ed in Grecia. Rispetto ai movimenti in questi paesi, le azioni in Germania restano piuttosto modeste. Ma devono essere comprese nel contesto della necessità per il proletariato tedesco di colmare il suo ritardo (nel 20° secolo, la Germania è stata un anello forte della controrivoluzione borghese e ciò ha un impatto ancora oggi). Ciò è anche legato al fatto che la lotta operaia in Germania si confronta con un nemico di classe particolarmente potente ed abile. Nel 2006 in Francia, il governo ha alimentato la resistenza adottando contro la volontà degli studenti una legge (il CPE) che era un vero attacco generale diretto contro tutta la gioventù proletaria. Il governo della Merkel, che aveva gli stessi piani del governo francese, ha ritirato immediatamente i suoi quando ha visto le proporzioni che prendeva il movimento in Francia. La borghesia in Grecia ha usato l’arma della repressione dura, anche se da mezzo di intimidazione è diventato l’elemento che ha dato fuoco alle polveri per la lotta. È l’assassinio di un giovane dimostrante ad Atene che ha fatto sì che il movimento raggiungesse tale ampiezza e desse l’impulso ad un’ondata di solidarietà nella classe operaia.
Le prime lotte della nuova generazione in Germania sono più modeste ed appaiono spesso meno radicali che in altri paesi. Ma è significativo che là dove prendono un carattere proletario, esse seguono la stessa traiettoria che altrove. Le espressioni di presa di iniziativa, di cultura del dibattito, di capacità d’organizzazione, di creatività e d’immaginazione durante gli ultimi giorni sono state finanche sorprendenti.
È infine importante per la classe operaia nel suo insieme che la sua gioventù abbia ripreso il cammino della lotta. Attualmente, i settori centrali tradizionali della classe operaia sono colpiti da un’ondata di fallimenti di imprese e di licenziamenti massicci mai visti dal 1929. Quest’ondata spaventa e paralizza temporaneamente queste frazioni della classe operaia. Gli operai combattivi dell’Opel, che un tempo reagivano con scioperi selvaggi ed occupazioni di fabbriche contro le minacce di licenziamenti, sono ora spinti a fare i mendicanti nei confronti dello Stato borghese. I dipendenti della catena di grandi magazzini Karstadt, che sono sotto la minaccia di liquidazione dell’impresa, sono spinti a sostenere i loro padroni che adesso prendono essi stessi la parola in occasione di assemblee di protesta e fanno agitazione con il megafono, ma solo per trascinare i dipendenti dietro di loro e per chiedere denaro allo Stato. In questa situazione tormentata in cui gli operai interessati non possono trovare delle risposte immediate, è importante che i settori della classe operaia che sono meno direttamente minacciati dal fallimento del loro datore di lavoro entrino in lotta. Oggi sono i giovani, studenti o apprendisti, ma anche i dipendenti degli asili nido che non solo si difendono ma che hanno iniziato in modo più attivo ad esigere decine di migliaia di assunzioni. Lo fanno non solo per resistere a condizioni di lavoro e d’insegnamento sempre più intollerabili, ma anche come espressione di una lenta maturazione della coscienza sul fatto che oggi la sfida non è soltanto il futuro immediato ma il divenire della società intera. In occasione delle manifestazioni della settimana scorsa, gli universitari scandivano: “Manifestiamo perché ci rubano la nostra istruzione”. E gli studenti di scuola secondaria aggiungevano: “Perché ci rubano il nostro futuro”.
Weltrevolution (21 giugno)
Se da mesi e mesi si sviluppa una lotta tra i precari della scuola che viene completamente oscurata rispetto ad altre avvenute nello stesso periodo è perché questa, per le condizioni in cui si è prodotta, può destare maggiori preoccupazioni alla borghesia in quanto meno facilmente governabile[1]. Innanzitutto le decine di migliaia di lavoratori coinvolti sono decisamente superiori a quelli che hanno scioperato, ad esempio, alla INNSE[2] di Milano o in altre piccole fabbriche. Inoltre si tratta, nel caso dei precari della scuola, di un settore che tradizionalmente ha avuto un rapporto difficile con il sindacato e che ha espresso nella sua storia diversi episodi di lotte organizzate dal basso e di collegamento anche a livello nazionale.
E i precari hanno oggi ben motivo per mobilitarsi in massa e per lungo tempo. Ben 18.000 di loro infatti, dopo anni di incarico, perderanno il lavoro a causa dei più di 45.000 posti tagliati nella scuola dal governo, in parte assorbiti dai pensionamenti. E qui non c’entra niente il mercato, ma solo la volontà del governo di fare cassa per far fronte alla crisi del capitalismo. Un tale attacco, uno dei più importanti tra quelli portati avanti contro un settore di lavoratori negli ultimi tempi, non poteva rimanere senza risposta, visto che quello che è in gioco è la stessa sopravvivenza. Ed infatti, fin dal mese di agosto, i precari si sono mobilitati in varie città d’Italia, dal nord al sud.
Le giornate di mobilitazione sono state tante, con la partecipazione di decine di migliaia di precari (docenti, impiegati, tecnici e bidelli). Dalle occupazioni dei centri scolastici provinciali (gli uffici periferici del ministero dove vengono assegnati gli incarichi), ai sit-in, alle manifestazioni cittadine, passando per le diverse manifestazioni e assemblee nazionali fino a quella del 3 ottobre a Roma, manifestazione oscurata dai mezzi di informazione che si sono concentrati sulla più innocua manifestazione “in difesa della libertà di stampa” ma a cui hanno partecipato da 15 a 20 mila insegnanti[3] e ancora a quella di oggi 23 ottobre.
Queste mobilitazioni, sono state essenzialmente l’espressione di una tradizionale presenza, tra i precari della scuola, della tendenza a cercare un collegamento tra le diverse scuole o le diverse città. Questa ricerca del collegamento per lottare assieme riprende una tradizione che è sempre stata forte nella categoria dei dipendenti della scuola[4] e che, nel caso specifico, risulta essere una conseguenza del fatto che i sindacati, al di là di parole di condanna per i tagli, non hanno fatto niente per combattere i provvedimenti del governo. Non un’ora di sciopero, almeno da parte dei grandi sindacati della scuola, per difendere il posto di lavoro dei precari e le condizioni di lavoro di quelli che hanno la fortuna di averlo ancora: per esempio l’aumento dei carichi derivanti dall’aumento degli alunni per classe, o dell’orario settimanale di lezione, per i docenti, o il maggior carico di lavoro che ricade addosso al personale amministrativo ed ausiliario, che derivano dagli stessi tagli di posti di lavoro che hanno gettato in mezzo a una strada i precari. Per quanto riguarda poi i cosiddetti sindacati di base, anche su questi esiste una notevole diffidenza da parte dei lavoratori della scuola non tanto per le parole d’ordine o i programmi, che sembrerebbero raccogliere, almeno in parte, le rivendicazioni di base del movimento, ma per l’atteggiamento manovriero di questi[5]. In queste condizioni era ovvio che i precari si mobilitassero in maniera autonoma, utilizzando tutti gli strumenti per rafforzare e allargare la propria lotta, dalle manifestazioni all’uso del web per i collegamenti.
Oggi una componente importante di precari si riconosce infatti nel Coordinamento Precari della Scuola, CPS, che è una rete di comitati di lotta e di coordinamenti locali uniti da una piattaforma di lotta e organizzati a livello centrale, nel quotidiano, attraverso un forum[6] e una mailing list interna, e periodicamente attraverso delle assemblee nazionali.
Ma è proprio andando a leggere il dibattito sviluppato dai precari sul loro forum che si possono rilevare alcune fragilità presenti nel movimento che non sono da addebitare ai lavoratori di questo settore ma sono un po’ tipici della fase di lotta in cui ci troviamo. Innanzitutto la difficoltà ad unificare i vari fronti di lotta o ad estenderli: per fare un esempio banale, la lotta dei precari non è riuscita ad estendersi, almeno per ora, agli stessi altri lavoratori della scuola che, come abbiamo visto, subiscono anche loro, in una qualche maniera, le conseguenze dei tagli. L’altro limite importante sono le illusioni ancora esistenti sulla possibilità che i sindacati possano farsi carico dei problemi dei precari, a dispetto della loro stessa esperienza: sul forum infatti è presente tutto un dibattito se chiedere o no l’appoggio dei sindacati, mentre è esperienza di tutti i giorni la tendenza di questi a boicottare la lotta. Nonostante un dibattito a volte anche molto serrato sul forum sul ruolo dei sindacati, resta da chiarire il fatto che se i sindacati hanno questo atteggiamento non è perché hanno dei capi cattivi o peggio perché l’insieme dei sindacalizzati sono delle persone poco di buono, ma perché semplicemente non possono fare altrimenti. Il sindacato è una struttura di mediazione, ma in un’epoca in cui non c’è niente da mediare perché l’esigenza è quella di toglierci tutto, il sindacato, anche quando nasce con le migliori intenzioni, finisce sempre con lo sposare la ragion di stato e per fare gli interessi dei padroni. Ma questo non significa affatto che i singoli iscritti al sindacato siano persone poco affidabili. Non è un caso che spessissimo si ritrova sul forum dei precari il fatto che molte iniziative locali sono state condotte assieme a precari iscritti ai Cobas e lo stesso coordinamento precari della scuola nasce giustamente come momento di unità di tutti i precari e non come una nuova sigla sindacale.
Un ulteriore aspetto su cui sarebbe importante riflettere è come lottare per costruire un rapporto di forza nei confronti del nemico (il governo, la borghesia, lo Stato, …). Infatti, per vincere una battaglia rivendicativa occorre scendere in campo e manifestare la propria forza. Ma appunto qui si pone il problema: che significa manifestare la propria forza, in cosa consiste questa forza? Nel forum abbiamo ritrovato spesso l’idea, soprattutto rispetto alla manifestazione del 3 ottobre scorso - considerata a torto da molti come un fiasco - che la condizione per cui una manifestazione può essere considerata vincente è che riesca ad avere risonanza sui mass media (giornali, televisione); tra l’altro, una parte di discussione ha anche insistito molto sull’importanza che dei rappresentanti del coordinamento potessero parlare dal palco di manifestazioni indette da altri. Tutto questo va bene, ha certamente la sua importanza. Ma quello che forse si trascura è il fatto che la stessa manifestazione è un momento non solo di protesta ma anche di incontro, di solidarietà nel lottare assieme e ancora di controinformazione nei confronti della popolazione. Noi siamo completamente d’accordo con una compagna precaria che, rispondendo a delle obiezioni sulla visibilità della manifestazione del 3 ottobre, ha detto: “difendo a spada tratta la manifestazione di ieri. Il nostro intento non era apparire in tv o sui giornali ma parlare alla gente comune. Di gente comune in quella piazza ce n’era davvero tanta[7]. (…) Il successo della manifestazione di ieri non sta in quello che i giornali dicono o non dicono, sta nell’essere riusciti a ricompattare migliaia di precari che stando tutti insieme hanno ritrovato la voglia e la forza di combattere.” In realtà, una crescita reale del movimento la si può avere soltanto se alla base c’è una comprensione profonda non solo del fatto che si perde il posto di lavoro, che gli stipendi sono bassi, ecc., ma che tutto questo è legato strettamente alla crisi economica attuale, e che questa è legata al modo di gestione della società, in Italia come nel mondo intero. Restare volutamente su una piattaforma esclusivamente “rivendicativa”[8] è alla lunga perdente perché la lotta è di lungo periodo e molti lavoratori, non sostenuti da una comprensione del perché le cose vanno in un certo modo, finiscono un po’ alla volta per rifluire. E’ per ciò che l’unione con altri settori di lavoratori non può che rafforzare la lotta. Non si tratta solo di un rafforzamento numerico, che neanche guasta. E’ soprattutto un rafforzamento politico del movimento perché fa comprendere ad ogni lavoratore e ad ogni categoria di lavoratori che quello che loro stanno passando e subendo nel loro settore non è che un aspetto di una più generale sofferenza dello stato di proletario in una società divisa in classi. Questa comprensione dà all’insieme dei lavoratori una forza rinnovata anche perché lottare assieme, in maniera solidale, dà una carica nuova. E soprattutto è qualcosa che il governo, qualunque esso sia, teme molto perché sa che, quando l’insieme della classe lavoratrice si muove in maniera unita e solidale, non c’è speranza di averla vinta.
CCI 23 ottobre 2009
[1] Vedi a questo proposito l’articolo Solo una lotta unita e solidale consente di resistere agli attacchi [65] pubblicato su Rivoluzione Internazionale n°162, in cui cerchiamo di dimostrare come la borghesia abbia enfatizzato la “vittoria” della INNSE solo per invischiare decine di altre situazioni di lotta nell’impasse della lotta chiusa nella propria fabbrica, isolata da tutto il contesto del resto della classe operaia e della cittadinanza.
[2] Idem.
[3] Vedi l’Unità e la Repubblica del 4 ottobre scorso.
[4] Ultima nel tempo la lotta degli anni 1987 e 1988, in cui i lavoratori della scuola, in maniera completamente autonoma dai sindacati (in quelli che si chiamarono Comitati di Base), e nonostante il loro boicottaggio, riuscirono a mettere in piedi una lotta che non solo suscitò la simpatia di altri settori di lavoratori, ma riuscì anche ad assicurare la chiusura di contratti con aumenti salariali che non si erano mai visti prima, e che non si sarebbero più visti poi. Vedi i n° xxx Rivoluzione Internazionale.
[5] Basti citare il fatto, riportato nello stesso forum dei precari, che il capo dei Cobas scuola, Bernocchi, a proposito della manifestazione del 3 ottobre, ha dichiarato: “Abbiamo deciso di non aderire al corteo degli insegnanti precari della Cgil (…) perché lì c'è una manifestazione per la libertà di stampa ma che non è per la scuola” (sottolineatura nostra), facendo passare per sindacalizzati CGIL il coordinamento dei precari della scuola. Se Bernocchi si riduce a questi trucchetti è perché evidentemente vede nel coordinamento un movimento che, per le sue caratteristiche, si pone oggettivamente come una alternativa cocente al suo sindacato.
[6] Vedere per esempio i seguenti siti: docentiprecari.forumattivo.com/t593-nuova-piattaforma-della-rete-nazionale-precari-della-scuola [66], bru64.altervista.org/forum.
[7] A tale proposito vogliamo fare un veloce commento allo slogan con cui i precari hanno aperto il loro spezzone di corteo: “Vogliono distruggere la scuola pubblica. Io non ci sto” che, coerentemente con le parole della precaria citata, non significano una difesa della scuola in sé, ma una maniera per mostrare al resto della popolazione come gli attacchi portati contro una categoria di lavoratori si riflettano poi inesorabilmente su peggiori servizi resi alla comunità.
[8] Ci riferiamo qui a un certo numero di interventi che insistono sul fatto che si deve partecipare solo a manifestazioni ed iniziative che riguardano la scuola
Per quanto riguarda la pace, l’anno 1991 avrebbe conosciuto l’inizio della guerra nella ex Yugoslavia, che avrebbe provocato centinaia di migliaia di morti nel cuore stesso dell’Europa, un continente che era stato risparmiato da questo flagello da quasi mezzo secolo.
Analogamente, la recessione del 1993, e poi il crollo delle “tigri” e dei “dragoni” asiatici del 1997, seguiti dalla nuova recessione del 2002, che mise fine all’euforia provocata dalla “bolla internet”, hanno eroso sensibilmente le illusioni sulla “prosperità” annunciata da Bush senior.
Ma una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri. Tra il 2003 e il 2007, il tono dei discorsi ufficiali dei settori dominanti della borghesia era improntato all’euforia, con la celebrazione del successo del “modello anglosassone”, che permetteva dei profitti esemplari, dei tassi di crescita del PIL sostenuti e anche una diminuzione significativa della disoccupazione. Non si trovavano parole sufficientemente elogiative per celebrare il trionfo della “economia liberale” e i benefici della “deregulation”. Ma dopo l’estate 2007 e soprattutto durante l’estate 2008, questo bell’ottimismo si è fuso come neve al sole. Ormai al centro dei discorsi della borghesia le parole “prosperità”, “crescita” e “trionfo del liberalismo” si sono discretamente eclissati. Al tavolo del grande banchetto dell’economia capitalista si è istallato un convitato che si credeva di aver espulso per sempre. La crisi, lo spettro di una “nuova grande depressione”, simile a quella degli anni ’30.
2. Secondo le stesse parole di tutti i responsabili borghesi, di tutti gli specialisti dell’economia, compresi i sostenitori più accaniti del capitalismo, la crisi attuale è la più grave che questo sistema abbia conosciuto dopo la grande depressione che iniziò nel 1929. Secondo l’OCSE “L’economia mondiale è preda della recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni.” (rapporto intermedio di marzo 2009). Ci sono anche quelli che non esitano a dire che essa è ancora più grave e che la ragione per cui i suoi effetti non sono così catastrofici come negli anni trenta sta nel fatto che, dopo quel periodo, i dirigenti del mondo, forti di quella esperienza, hanno imparato a far fronte a questo genere di situazioni, in particolar modo evitando la fuga nel ciascuno per sé generalizzato: “Anche se si è talvolta qualificata questa severa recessione mondiale come ‘grande recessione’, si è lontani da una nuova ‘grande depressione’ tipo quella degli anni trenta, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente. La ‘grande depressione’ era stata aggravata da terribili errori di politica economica, dalle misure monetarie restrittive fino alla politica del ‘ciascuno per sé’, espressa dal protezionismo commerciale e della svalutazioni competitive. Viceversa l’attuale recessione ha, in generale, suscitato delle buone risposte”. (ibidem).
Tuttavia, anche se tutti i settori della borghesia constatano la gravità delle convulsioni attuali dell’economia capitalista, le spiegazioni che essi danno, benché spesso divergenti tra loro, sono evidentemente incapaci di cogliere il vero significato di queste convulsioni e la prospettiva che esse annunciano per l’insieme della società.
Per alcuni, la responsabile delle difficoltà acute del capitalismo è la “finanza folle”, il fatto che dall’inizio degli anni 2000 si siano sviluppati tutta una serie di “prodotti finanziari tossici”, che hanno permesso una esplosione di crediti senza garanzia sufficiente di un loro rimborso. Altri affermano che il capitalismo soffre di un eccesso di “deregulation” su scala internazionale, orientamento che si trovava al centro delle “reaganomics” messe in atto dall’inizio degli anni’80. Altri, infine, in particolare i rappresentanti della sinistra del capitale, considerano che la causa profonda sta in una insufficienza dei redditi dei salariati, cosa che costringe questi ultimi, in particolare nei paesi più sviluppati, ad una fuga in avanti nei debiti per poter soddisfare i loro bisogni elementari.
Ma quali che siano le differenze, quello che caratterizza tutte queste interpretazioni è che esse considerano che non è il capitalismo, come modo di produzione, che è in causa, ma questa o quella forma di questo sistema. Ed è proprio questo postulato di partenza che impedisce a tutte queste interpretazioni di andare a fondo nella comprensione delle cause vere della crisi attuale e degli scenari che essa preannuncia.
3. Nei fatti solo una visione globale e storica del modo di produzione capitalista permette di comprendere, di prendere la misura e di individuare le prospettive della crisi attuale. Oggi, ed è questo che viene nascosto dall’insieme degli “specialisti” dell’economia, si rivela apertamente la realtà delle contraddizioni che assalgono il capitalismo: la crisi di sovrapproduzione, l’incapacità di questo sistema di vendere tutta la massa delle merci che produce. Non si tratta di una sovrapproduzione rispetto ai bisogni reali dell’umanità, che sono ancora ben lungi dall’essere soddisfatti, ma sovrapproduzione rispetto ai mercati solvibili, capaci cioè di pagare per assorbire questa produzione. I discorsi ufficiali, così come le misure che vengono adottate dalla maggior parte dei governi, si focalizzano sulla crisi finanziaria, sul fallimento delle banche, ma in realtà quella che i commentatori chiamano la “economia reale” (in contrapposizione all’economia “fittizia”) illustra come stanno le cose: non passa un giorno senza che vengano annunciate chiusure di fabbriche, licenziamenti in massa, fallimenti di imprese industriali. Il fatto che General Motors, che per decenni è stata la prima industria al mondo, debba la sua sopravvivenza al sostegno massiccio dello Stato americano, mentre la Chrysler è ufficialmente dichiarata fallita e passa sotto il controllo dell’italiana FIAT, è significativo dei problemi di fondo che affliggono l’economia capitalista. E, ancora, la caduta del commercio mondiale, la più grave dopo la seconda guerra mondiale e che viene valutata dall’OCSE pari a -13,2% per il 2009, mostra l’incapacità per le imprese a trovare degli acquirenti per la loro produzione.
Questa crisi di sovrapproduzione, oggi evidente, non è una semplice conseguenza della crisi finanziaria, come cercano di far credere la maggior parte degli “specialisti”. Essa risiede negli ingranaggi stessi dell’economia capitalista, come l’ha messo in evidenza il marxismo da un secolo e mezzo a questa parte. Finché la conquista del mondo da parte delle metropoli capitaliste proseguiva, i nuovi mercati permettevano di superare le momentanee crisi di sovrapproduzione. Con il completamento di questa conquista, avvenuto all’inizio del 20° secolo, queste metropoli, e in particolare quella che era arrivata in ritardo alla ricerca di colonie, la Germania, non hanno avuto altra risorsa che attaccare le zone di influenza delle altre, provocando la prima guerra mondiale anche prima che la crisi di sovrapproduzione si esprimesse apertamente. Questa si è invece manifestata chiaramente con il crack del 1929 e la grande depressione degli anni ’30, spingendo i principali paesi capitalisti nella fuga in avanti verso la preparazione della guerra e lo scoppio del secondo olocausto planetario che superò di gran lunga il primo in termini di massacri e barbarie.
L’insieme delle disposizioni adottate dalle grandi potenze all’indomani di questa, in particolare l’organizzazione sotto tutela americana delle grandi componenti dell’economia capitalista, come quella della moneta (accordi di Bretton Woods) e l’attuazione da parte degli Stati di politiche keynesiane, così come le ricadute positive della decolonizzazione in termini di mercati hanno permesso per quasi tre decenni al capitalismo mondiale di dare l’illusione che esso avesse infine superato le sue contraddizioni. Ma questa illusione ha subito un colpo importante nel 1974 con l’arrivo di una violenta recessione, in particolare nella prima economia mondiale. Questa recessione non rappresentava l’inizio delle difficoltà maggiori del capitalismo perché essa faceva seguito a quella del 1967 e alle successive crisi della sterlina e del dollaro, due monete fondamentali nel sistema di Bretton Woods. Nei fatti è dalla fine degli anni sessanta che il neo-keynesianesimo aveva dimostrato il suo fallimento storico come avevano sottolineato all’epoca i gruppi che avrebbero costituito la CCI. Ciò detto, per l’insieme dei commentatori borghesi e per la maggioranza della classe operaia è il 1974 che marca l’inizio di un nuovo periodo nella vita del capitalismo del dopoguerra, in particolare con la riapparizione di un fenomeno che si credeva definitivamente vinto nei paesi sviluppati, lo sciopero di massa. E’ sempre a partire di là che la fuga in avanti nell’indebitamento si è sensibilmente accelerata: allora furono i paesi del Terzo Mondo a trovarsi ai primi posti di questo fenomeno e costituirono, per un certo tempo, la “locomotiva” della ripresa. Questa situazione cominciò a finire all’inizio degli anni ottanta con la crisi del debito, l’incapacità di questi paesi a rimborsare i prestiti che avevano permesso loro in un primo tempo di costituire uno sbocco per la produzione dei grandi paesi industriali. Ma la fuga nell’indebitamento non si arresta là. Gli Stati Uniti cominciano a prendersi il ruolo di “locomotiva” a costo di una crescita considerevole del loro deficit commerciale e di bilancio statale, politica che era loro consentito per il ruolo privilegiato della loro moneta nazionale come moneta mondiale. Se lo slogan di Reagan divenne allora “lo Stato non è la soluzione, ma il problema” per giustificare la liquidazione del neo-keynesianesimo, lo Stato federale americano, con i suoi enormi deficit di bilancio, ha continuato a costituire l’agente essenziale nella vita economica nazionale ed internazionale. Tuttavia, le “reaganomics”, la cui prima ispiratrice fu Margaret Tatcher in Gran Bretagna, rappresentava fondamentalmente uno smantellamento dello “Stato sociale”, cioè un attacco senza precedenti contro la classe operaia che hanno contribuito a superare l’inflazione galoppante che aveva colpito il capitalismo alla fine degli anni settanta.
Nel corso degli anni ’90 una delle “locomotive” dell’economia mondiale è stato costituita dalle “tigri” e dai “dragoni” asiatici che hanno conosciuto dei tassi di crescita spettacolari ma a prezzo di un indebitamento considerevole che li ha condotti alla crisi nel 1997. Nello stesso momento, la Russia “nuova” e “democratica” si è ritrovata anch’essa in una situazione di cessazione dei pagamenti, deludendo crudelmente quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera duratura l’economia mondiale. A sua volta la “bolla internet” della fine degli anni novanta, nei fatti una speculazione sfrenata sulle imprese “high tech”, è scoppiata nel 2001-2002 mettendo fine al sogno di un rilancio dell’economia mondiale attraverso lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. E’ allora che l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, in particolare attraverso lo sviluppo iperbolico dei prestiti ipotecari sugli immobili in diversi paesi, e in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva” dell’economia mondiale, ma a prezzo di una crescita abissale dei debiti – in particolare in seno alla popolazione americana – basata su ogni sorta di “prodotti finanziari” che si ipotizzavano esenti dal rischio di cessazione di pagamenti. In realtà, la diffusione dei crediti a rischio non ha affatto abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario, essa non ha fatto che accumulare nel capitale delle banche “attivi tossici” che sono stati all’origine dei fallimenti bancari a partire dal 2007.
4. Così non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione non può proseguire all’infinito. Prima o poi la “economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.
In questo senso, le misure che sono state scelte a marzo 2009, durante il G20 di Londra, un raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale, un sostegno massiccio degli Stati al sistema bancario in perdita, un incoraggiamento a quest’ultimo a mettere in atto delle politiche attive di rilancio dell’economia a prezzo di un salto spettacolare dei deficit di bilancio, non possono in alcun modo risolvere la questione di fondo. La fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono. L’obiettivo del G20 era evitare il ciascuno per sé che aveva caratterizzato gli anni’30. Esso si proponeva anche di tentare di ristabilire un po’ di fiducia tra gli agenti economici, sapendo che questa, nel capitalismo, costituisce un fattore essenziale in quello che si trova al centro del suo funzionamento, e cioè il credito. Ciò detto, quest’ultimo fatto, cioè l’insistenza sull’importanza della “psicologia” nelle convulsioni economiche, la messa in piedi delle parole di fronte alle realtà materiali, segna il carattere fondamentalmente illusorio delle misure che il capitalismo potrà prendere di fronte alla crisi storica della sua economia. Nei fatti, anche se il sistema capitalista non crollerà come un castello di carta, anche se la caduta della produzione non proseguirà indefinitamente, la sua prospettiva è quella di un infognamento crescente nel suo blocco storico, quella di un ritorno su scala sempre più vasta delle convulsioni che lo affliggono oggi. Da quattro decenni la borghesia non ha potuto impedire l’aggravamento continuo della crisi. Essa parte oggi da una situazione ben più degradata di quella degli anni sessanta. Malgrado tutta l’esperienza che essa ha acquisito nel corso di questi decenni, essa non potrà fare meglio, ma solo peggio. In particolare, le politiche di ispirazione neo-keynesiane che sono state promosse dal G20 di Londra (che sono arrivate fino alla nazionalizzazione della banche in difficoltà) non hanno nessuna possibilità di ristabilire una qualsivoglia “salute” del capitalismo, perché l’inizio delle sue difficoltà maggiori, alla fine degli anni sessanta, proveniva per l’appunto dal fallimento definitivo delle misure neokeynesiane adottate all’indomani della seconda guerra mondiale.
5. Se ha sorpreso la classe dominante, l’aggravamento brutale della crisi capitalista non ha sorpreso i rivoluzionari. La risoluzione adottata dal precedente congresso internazionale[1], prima ancora dell’inizio del panico nell’estate 2007, affermava: “Già da ora (...) le minacce che si addensano sul settore immobiliare negli stati Uniti, uno dei motori dell’economia americana, e che portano in sé il rischio di fallimenti bancari catastrofici, seminano allarme e inquietudine negli ambienti economici.” (punto 4).
La stessa risoluzione distruggeva le grandi aspettative suscitate dal “miracolo cinese”: “Quindi, lungi dal rappresentare un soffio di aria buona per l’economia capitalista, il “miracolo” in Cina e in alcuni paesi del terzo mondo è solo una rappresentazione della decadenza del capitalismo. Inoltre, la totale dipendenza dell’economia cinese verso le esportazioni è fonte di una considerevole vulnerabilità ad ogni calo della domanda degli attuali clienti. Cosa che potrebbe verificarsi duramente dato che l’economia americana è obbligata a fare fronte ai colossali debiti, che attualmente gli permettono di giocare il ruolo di locomotiva per la domanda mondiale. Quindi, proprio come il miracolo delle crescite a due cifre delle tigri e dragoni asiatici del 1997 giunse ad una spiacevole fine, l’attuale miracolo cinese, anche se non ha le stesse origini ed ha margini di gran lunga maggiori a propria disposizione, dovrà presto o tardi confrontarsi con l’impasse storica del modo di produzione capitalistico”. (Punto 6).
La caduta del tasso di crescita e l’esplosione della disoccupazione che ne consegue, con il ritorno forzato nei propri villaggi di decine di milioni di contadini che si erano arruolati nelle imprese industriali per sfuggire a una miseria insostenibile, confermano in pieno questa previsione.
La capacità della CCI di prevedere cosa stava per succedere non deriva da alcun “merito particolare” della nostra organizzazione. Il suo solo “merito” sta nella sua fedeltà al metodo marxista, nella volontà di metterlo in atto in maniera permanente nell’analisi della realtà mondiale, nella sua capacità di resistere con fermezza alle sirene che proclamavano il “fallimento definitivo del marxismo”.
6. La conferma della validità del marxismo non riguarda solo la questione della vita economica della società. Tra le mistificazioni che venivano diffuse all’inizio degli anni ’90 c’era quella dell’apertura di un periodo di pace per il mondo intero. Si metteva avanti che la fine della guerra fredda, la sparizione del blocco dell’est, definito a suo tempo da Reagan come “l’impero del male”, avrebbero messo fine ai differenti conflitti militari attraverso cui si era sviluppato lo scontro fra i due blocchi imperialisti dal 1947. Di fronte a questo tipo di mistificazioni sulla possibilità di pace in seno al capitalismo, il marxismo ha sempre sottolineato l’impossibilità per gli Stati borghesi di superare le loro rivalità economiche e militari, in particolare nel periodo di decadenza. E’ perciò che, già dal gennaio 1990, potevamo scrivere:
“La scomparsa del gendarme imperialista russo, e quella che ne consegue per il gendarme americano di fronte ai suoi principali ‘partner’ di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità più locali. Queste rivalità e scontri non possono, attualmente, degenerare in un conflitto mondiale (…). Tuttavia, a causa della sparizione della disciplina imposta dalla presenza dei blocchi, questi conflitti rischiano di essere più violenti e più numerosi, in particolare, evidentemente, nelle zone in cui il proletariato è più debole”. (Révue Internationale n. 61, Dopo il crollo del blocco dell’est, stabilizzazione e caos).
La scena mondiale non avrebbe tardato a confermare questa analisi, in particolare con la prima guerra del Golfo del 1991 e la guerra nella ex Yugoslavia a partire dall’ottobre dello stesso anno. In seguito gli scontri sanguinosi e barbari non sono cessati. Non si può elencarli tutti, ma si può sottolineare in particolare:
· Il proseguimento della guerra nella ex Yugoslavia che ha visto, sotto l’egida della NATO, un impegno diretto degli Stati Uniti e delle principali potenze europee nel 1999;
· Le due guerre in Cecenia;
· Le numerose guerre che non hanno smesso di devastare il continente africano (Ruanda, Somalia, Congo, Sudan, ecc.);
· Le operazioni militari di Israele contro il Libano e, di recente, contro la striscia di Gaza;
· La guerra in Afganistan del 2001 che è ancora in atto;
· La guerra in Iraq del 2003, le cui conseguenze continuano a pesare in maniera drammatica su questo paese, ma anche sull’iniziatore di questa guerra, la potenza americana.
Il senso e le implicazioni della politica di questa potenza sono stati analizzati da lungo tempo da parte della CCI:
“Certamente, lo spettro di una Guerra mondiale non ha ossessionato ulteriormente il pianeta, ma allo stesso tempo, abbiamo visto il liberarsi degli antagonismi imperialisti e delle guerre locali in cui sono implicate direttamente le grandi potenze, in particolare la più potente, gli USA.
Gli USA, che per decenni sono stati i “gendarmi del mondo”, hanno dovuto tentare di proseguire e rinvigorire questo ruolo a seguito del “nuovo disordine mondiale” che è fuoriuscito dalla fine della Guerra Fredda. Ma nonostante abbiano certamente assunto questo ruolo sulla Terra, essi non l’hanno fatto per puntare a contribuire alla stabilità del pianeta, ma per conservare fondamentalmente la loro leadership mondiale, messa in questione più volte dal fatto che non esisteva più il cemento che manteneva insieme i due blocchi imperialisti – la minaccia del blocco rivale.
Con la definitiva scomparsa della “minaccia Sovietica”, il solo modo con cui la potenza americana poteva imporre la propria disciplina era di contare sulla propria forza, l’enorme superiorità a livello militare. Ma facendo ciò, la politica militare degli USA è diventata uno dei principali fattori dell’instabilità mondiale”. (Risoluzione sulla situazione internazionale, 17° Congresso della CCI, punto 7)
7. L’arrivo del democratico Barak Obama alla testa della prima potenza mondiale ha suscitato molte illusioni su un possibile cambiamento di orientamento della strategia di questa, un cambiamento che permetterebbe l’apertura di “un’era di pace”. Una delle basi di queste illusioni proviene dal fatto che Obama fu uno dei pochi senatori americani a votare contro l’intervento militare in Iraq nel 2003 e che, contrariamente al suo concorrente McCain, si è impegnato per un ritiro delle truppe americane da questo paese. Tuttavia queste illusioni si sono rapidamente confrontate con la realtà dei fatti. In particolare se Obama aveva previsto di ritirare le forze americane dall’Iraq, era per poter rafforzare l’intervento in Afganistan e in Pakistan. D’altra parte la continuità della politica militare degli Stati Uniti è ben illustrata dal fatto che la nuova amministrazione ha confermato nel suo incarico il Segretario alla Difesa, Gates, nominato da Bush.
In realtà il nuovo orientamento della diplomazia americana non rimette per niente in discussione il quadro ricordato prima. Essa continua ad avere l’obiettivo della riconquista della leadership degli Stati Uniti sul pianeta attraverso la loro superiorità militare. Così, l’orientamento di Obama a favore dell’accrescimento del ruolo della diplomazia ha principalmente lo scopo di guadagnare del tempo e rimandare il momento degli inevitabili interventi imperialisti delle forze militari americane che sono, attualmente, troppo disperse e usurate per la simultaneità delle guerre in Iraq e Afganistan.
Tuttavia, come abbiamo spesso ribadito, in seno alla borghesia americana esistono due opzioni per arrivare a questi fini:
· L’opzione rappresentata dal Partito Democratico che cerca di associare finché possibile altre potenze in queste imprese;
· L’opzione maggioritaria tra i repubblicani, che preferiscono prendere l’iniziativa delle offensive militari imponendole, costi quel che costi, alle altre potenze.
La prima opzione è quella che fu adottata alla fine degli anni’90 dall’amministrazione Clinton nella ex Yugoslavia, dove riuscì ad ottenere dalle principali potenze dell’Europa occidentale, in particolare la Germania e la Francia, la cooperazione e la partecipazione ai bombardamenti della NATO in Serbia per costringere questo paese ad abbandonare il Kosovo.
La seconda opzione è tipicamente quella dello scatenamento della guerra contro l’Iraq nel 2003, scatenata contro l’opposizione molto dura della Germania e della Francia associatesi in questa circostanza alla Russia in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Comunque, nessuna di queste due opzioni è stata in grado, finora, di rovesciare la tendenza alla perdita della leadership americana. La politica dell’uso della forza, usata in particolare durante i due mandati di George Bush figlio, ha portato non solo al caos iracheno, un caos ben lungi dal poter essere superato, ma anche ad un isolamento crescente della diplomazia americana, illustrata in particolare dal fatto che certi paesi che l’avevano sostenuta nel 2003, come la Spagna e l’Italia, hanno abbandonato la nave dell’avventura irachena in corso d’opera (senza contare la presa di distanza più discreta del governo di Gordon Brown, rispetto all’appoggio incondizionato portato da Tony Blair a questa avventura). Dal canto suo la politica di “cooperazione”, preferita dai democratici, non permette veramente di assicurarsi una “fedeltà” delle potenze che si tenta di associare alle imprese militari, in particolare perché essa lascia un margine di manovra più ampia a queste potenze per far valere i loro propri interessi.
Oggi, per esempio, l’amministrazione Obama ha deciso di adottare una politica più conciliante verso l’Iran e più ferma verso Israele, due orientamenti che vanno nello stesso senso della maggioranza dei paesi dell’Unione europea, in particolare la Germania e la Francia, paesi che sperano di recuperare una parte dell’influenza che avevano in passato in Iran e in Iraq. Ciò detto, questo orientamento non riuscirà ad impedire che permangano conflitti di interesse maggiori tra questi due paesi e gli Stati Uniti, in particolare nella sfera est-europea (dove la Germania cerca di mantenere dei rapporti “privilegiati” con la Russia), o africana (dove le due fazioni che stanno mettendo a ferro e a fuoco il Congo hanno il sostegno rispettivo della Francia e degli Stati Uniti).
Più in generale, la sparizione della divisione del mondo in due grandi blocchi imperialisti rivali ha aperto la porta all’apparizione di ambizioni di imperialismi di secondo piano che costituiscono dei nuovi protagonisti della destabilizzazione della situazione internazionale. E’ così, per esempio, per l’Iran che punta a conquistare una posizione dominante in Medio Oriente sotto la bandiera della “resistenza” al “Grande Satana” americana e della lotta contro Israele. Con mezzi molto più considerevoli, la Cina punta ad estendere la propria influenza su altri continenti, in particolare in Africa, dove la presenza economica crescente è finalizzata ad insediare in questa regione del mondo una presenza diplomatica e militare, come già sta avvenendo nel conflitto in Sudan.
Così la prospettiva che si presenta al pianeta dopo l’elezione di Obama alla testa della prima potenza mondiale non è fondamentalmente differente dalla situazione che prevaleva finora: proseguimento degli scontri tra potenze di primo e secondo piano, continuazione della barbarie guerriera con conseguenze sempre più tragiche (carestie, epidemie, esodi di massa) per le popolazioni che vivono nelle zone in conflitto. Ci si può anche aspettare che l’instabilità che consegue all’aggravarsi della crisi economica in tutta una serie di paesi della periferia possa alimentare una intensificazione degli scontri fra le cricche militari di questi paesi con, come sempre, una partecipazione delle diverse potenze imperialiste. Di fronte a questa situazione Obama e la sua amministrazione non potranno fare altro che proseguire la politica bellicista dei loro predecessori, come si vede per esempio in Afganistan, una politica sinonimo di barbarie guerriera crescente.
8. Come le “buone intenzioni” affermate da Obama sul piano diplomatico non impediranno al caos militare di proseguire e di aggravarsi nel mondo e alla nazione che egli dirige di essere un fattore attivo in questo caos, il riorientamento americano che egli annuncia oggi nel campo della protezione dell’ambiente non potrà impedire il suo ulteriore degrado. Questo degrado non è questione di buona o cattiva volontà dei governi, per quanto potenti essi siano. Ogni giorno che passa mette un po’più in evidenza la vera catastrofe ambientale che minaccia il pianeta : tempeste sempre più violente nei paesi che fino ad ora ne erano risparmiati, siccità, canicole, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai, paesi minacciati di essere ricoperti dal mare … le prospettive sono sempre più nere. Questo degrado dell’ambiente significa anche una minaccia di aggravamento degli scontri militari, in particolare con l’esaurimento delle riserve di acqua potabile che diventerà l’oggetto di nuovi conflitti.
Come dicevamo nella risoluzione adottata al precedente congresso internazionale:
“Perciò, come la CCI mostra da 15 anni, la decomposizione del capitalismo porta con sé serie minacce per l’esistenza umana. L’alternativa annunciata da Engels alla fine del XIX secolo, socialismo o barbarie, è stata una sinistra verità per tutto il XX secolo. Cosa ci offre il XXI secolo come prospettiva è abbastanza semplice: socialismo o distruzione dell’umanità. Questa è la vera posta in gioco cui è confrontata l’unica forza sociale in grado di sovvertire il capitalismo, la classe operaia mondiale.” (Punto 10)
9. Questa capacità della classe operaia di mettere fine alla barbarie generata dal capitalismo in decomposizione, a far uscire l’umanità dalla sua preistoria per aprirle le porte del “regno della libertà”, secondo l’espressione di Engels, si forgia fin da ora nelle lotte quotidiane contro lo sfruttamento capitalista. Dopo il crollo del blocco dell’est e dei regimi cosiddetti “socialisti”, le assordanti campagne sulla “fine del comunismo”, o sulla “fine della lotta di classe”, hanno portato un colpo severo alla coscienza e alla combattività della classe operaia. Il proletariato ha quindi subito un profondo riflusso su tutti e due i piani, un riflusso che si è prolungato per più di dieci anni. Non è che a partire dal 2003 che la classe operaia mondiale ha cominciato a mostrare di aver superato questo riflusso, di aver ripreso il cammino delle lotte contro gli attacchi capitalisti. Da allora questa tendenza non si è smentita e i due anni che ci separano dal precedente congresso hanno visto il prosieguo di lotte significative in tutte le parti del mondo.
Si è anche potuto vedere, in certi periodi, una simultaneità notevole delle lotte operaie a scala mondiale.
Per esempio, all’inizio del 2008, i seguenti paesi sono stati toccati da lotte operaie nello stesso momento: Russia, Irlanda, Belgio, Svizzera, Italia, Grecia, Romania, Turchia, Israele, Iran, Emirato del Barein, Tunisia, Algeria, Camerun, Swaziland, Venezuela, Messico, Stati Uniti, Canada e Cina.
Ancora, si sono viste lotte operaie molto significative nel corso dei due anni passati. Senza pretendere di essere esaustivi, si possono citare i seguenti esempi:
· In Egitto, durante l’estate 2007, dove i massicci scioperi nell’industria tessile hanno trovato la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori (portuali, trasporti, ospedali …);
· A Dubai, nel novembre 2007, dove gli operai edili (essenzialmente degli immigrati) si sono mobilitati massicciamente;
· In Francia, nel novembre 2007, dove gli attacchi contro il trattamento pensionistico provocano uno sciopero molto combattivo nelle ferrovie, con esempi di legami di solidarietà con gli studenti, mobilitati nello stesso momento contro i tentativi del governo di accentuare la segregazione sociale all’Università, uno sciopero che ha svelato apertamente il ruolo di sabotatori delle grandi centrali sindacali, in particolare la CGT e la CFDT, cosa che ha costretto la borghesia a rinnovare il suo apparato di inquadramento delle lotte operaie;
· in Turchia, alla fine del 2007, dove lo sciopero di più di un mese dei 26.000 lavoratori di Turk Telecom costituisce la mobilitazione più importante del proletariato di questo paese dal 1991, e questo nello stesso momento in cui il suo governo è impegnato in una operazione militare nel nord dell’Iraq;
· in Russia, nel novembre 2008, dove importanti scioperi a San Pietroburgo (in particolare alla Ford) testimoniano della capacità dei lavoratori di superare l’intimidazione poliziesca molto presente, in particolare da parte del FSB (l’ex KGB);
· in Grecia, alla fine del 2008, dove, in un clima di enorme malcontento che si era già espresso prima, la mobilitazione degli studenti contro la repressione gode di una profonda solidarietà da parte della classe operaia, alcuni settori della quale debordano il sindacalismo ufficiale; una solidarietà che non resta confinata all’interno delle frontiere del paese, visto che questo movimento incontra un’eco di simpatia molto significativa in numerosi paesi europei;
· in Gran Bretagna, dove lo sciopero selvaggio nella raffineria Linsay, all’inizio del 2009, ha costituito uno dei movimenti più significativi della classe operaia di questo paese da due decenni, una classe operaia che aveva subito crudeli sconfitte nel corso egli anni ’80; questo movimento ha mostrato la capacità della classe operaia di estendere le lotte e, in particolare, ha visto l’inizio di un confronto con il peso del nazionalismo con manifestazioni di solidarietà tra operai britannici e operai immigrati, polacchi ed italiani.
10. L’aggravamento considerevole che la crisi del capitalismo conosce attualmente costituisce evidentemente un elemento di prim’ordine nello sviluppo delle lotte operaie. Fin da ora in tutti i paesi del mondo gli operai sono confrontati a licenziamenti di massa, a un aumento irresistibile della disoccupazione. In maniera estremamente concreta, sulla propria carne, il proletariato fa l’esperienza dell’incapacità del sistema capitalista ad assicurare un minimo di vita decente ai lavoratori che esso sfrutta. Ancora di più, esso è incapace di offrire il minimo avvenire alle nuove generazioni della classe operaia, cosa che costituisce un fattore di angoscia e di disperazione non solo per queste, ma anche per i loro genitori. Così maturano le condizioni perché l’idea della necessità di rovesciare questo sistema possa svilupparsi in maniera significativa in seno al proletariato. Tuttavia, alla classe operaia non basta percepire che il sistema capitalista sta in un vicolo cieco, che esso dovrebbe cedere il posto ad un’altra società, perché diventi capace di indirizzarsi verso una prospettiva rivoluzionaria. Occorre ancora che essa abbia la convinzione che una tale prospettiva è possibile ed anche che essa ha la forza di realizzarla. Ed è giustamente su questo terreno che la borghesia è riuscita a marcare dei punti molto importanti contro la classe operaia in seguito al crollo del preteso “socialismo reale”. Da una parte essa è riuscita a insinuare l’idea che la prospettiva del comunismo è un sogno vano: “il comunismo non funziona; la prova sta nel fatto che esso è stato abbandonato a beneficio del capitalismo dalle popolazioni che vivevano in tale sistema”. Dall’altra parte essa è riuscita a creare in seno alla classe operaia un forte sentimento di impotenza per la sua incapacità a scatenare lotte di massa. In questo senso la situazione oggi è molto diversa da quella che prevaleva al momento della ripresa storica della classe alla fine degli anni ’60. Allora il carattere massivo delle lotte operaie, in particolare con l’immenso sciopero del maggio 1968 in Francia e l’autunno caldo in Italia del 1969, aveva messo in evidenza che la classe operaia può costituire una forza di primo piano nella vita della società e che l’idea che essa avrebbe potuto un giorno rovesciare il capitalismo non apparteneva al dominio dei sogni irrealizzabili. Tuttavia, nella misura in cui la crisi del capitalismo era giusto ai suoi inizi, la coscienza della necessità assoluta di rovesciare questo sistema non disponeva ancora delle basi materiali per poter diffondersi tra gli operai. Si può riassumere questa situazione nel modo seguente: alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità.
11. Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia è necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa. L’enorme attacco che essa subisce attualmente a scala internazionale dovrebbe costituire la base oggettiva per tali lotte. Tuttavia, la forma principale che prende oggi questo attacco,quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. In generale, e ciò si è verificato frequentemente nel corso degli ultimi quaranta anni, i momenti di forte aumento della disoccupazione non sono quelli in cui si sviluppano lotte importanti. La disoccupazione, i licenziamenti di massa, tendono a provocare una certa paralisi momentanea della classe. Essa è sottomessa a un ricatto da parte dei padroni: “se non siete contenti, molti altri operai sono pronti a sostituirvi”. La borghesia può utilizzare questa situazione per provocare una divisione, se non una opposizione fra quelli che perdono il loro lavoro e quelli che hanno il “privilegio” di conservarlo. In più, padroni e governo si nascondono dietro un argomento “decisivo”: “Noi non c’entriamo niente con l’aumento della disoccupazione o i vostri licenziamenti: è colpa della crisi”. Infine, di fronte alla chiusura di fabbriche l’arma dello sciopero diventa inutilizzabile, accentuando il sentimento di impotenza dei lavoratori. In una situazione storica in cui il proletariato non ha subito sconfitte decisive, contrariamente agli anni ’30, i licenziamenti di massa, che sono già cominciati, potranno provocare lotte molto dure, con anche esplosioni di violenza. Queste saranno probabilmente, in un primo tempo, lotte disperate e relativamente isolate, anche se possono beneficiare di una simpatia reale in altri settori della classe operaia. Perciò anche se, nel prossimo periodo, non si assisterà a una risposta poderosa della classe operaia di fronte agli attacchi, non bisognerà considerare questo fatto come una rinuncia a lottare in difesa dei propri interessi. Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più. Questo non deve significare che i rivoluzionari devono restare assenti nelle lotte attuali. Queste fanno parte delle esperienze che il proletariato deve fare per essere capace di sviluppare una nuova tappa nella sua lotta contro il capitalismo. Ed è compito delle organizzazioni comuniste mettere avanti, in seno alle lotte, la prospettiva generale della lotta proletaria e dei passi ulteriori che essa deve compiere in questa direzione.
12. Il cammino che porta alle lotte rivoluzionarie e al rovesciamento del capitalismo è ancora lungo e difficile. La necessità di questo rovesciamento diventa ogni giorno più evidente, ma la classe operaia dovrà ancora superare delle tappe essenziali prima di essere in grado di realizzare questo compito:
Questa tappa è evidentemente la più difficile da superare, in particolare a causa:
Nei fatti la politicizzazione delle lotte del proletariato è legata allo sviluppo della presenza nel loro seno della minoranza comunista. La constatazione della debolezza attuale delle forze dell’ambiente internazionalista è uno degli indici della lunghezza del cammino che resta ancora da percorrere prima che la classe operaia possa impegnarsi nelle sue lotte rivoluzionarie e che essa faccia sorgere il suo partito di classe mondiale, organo essenziale senza il quale la vittoria della rivoluzione è impossibile.
Il cammino è lungo e difficile, ma questo non potrebbe essere in nessuna maniera un fattore di scoraggiamento per i rivoluzionari, di paralisi nel loro impegno nella lotta proletaria. Al contrario!
[1] Rivista Internazionale n°29, https://it.internationalism.org/rint29/risoluzioneinternazionale [68].
La nuova generazione ed il dialogo politico
È stato innanzitutto il contatto con una nuova generazione di rivoluzionari che ha obbligato la CCI a sviluppare e coltivare in modo più cosciente la sua apertura verso l’esterno e la sua capacità di dialogo politico.
Ogni generazione costituisce un anello nella catena della storia dell’umanità. Ciascuna deve affrontare tre compiti fondamentali: raccogliere l’eredità collettiva della generazione precedente, arricchire questa eredità sulla base della propria esperienza, trasmetterla alla seguente generazione in modo tale che quest’ultima vada più lontano della precedente.
Lungi dall’essere facili da attuarsi, questi compiti rappresentano una sfida particolarmente difficile da raccogliere. Ciò vale anche per il movimento operaio. La vecchia generazione deve offrire la sua esperienza. Ma porta in sé le ferite ed i traumi delle sue lotte; ha conosciuto sconfitte, delusioni, vi ha dovuto far fronte e ha dovuto prendere coscienza del fatto che spesso una vita intera non basta per costruire delle acquisizioni durature della lotta collettiva[1]. Per questo è necessario lo slancio e l’energia della generazione che segue ma anche le nuove questioni che essa si pone e la sua capacità di vedere il mondo con occhi nuovi.
Ma anche se le generazioni hanno bisogno le une delle altre, la loro capacità a forgiare la necessaria unità tra di loro non è automatica. Più la società si allontana dalla tradizionale economia naturale, più incessantemente e rapidamente il capitalismo “rivoluziona” le forze produttive e l’insieme della società, più l’esperienza di una generazione differisce da quella della successiva. Il capitalismo, sistema competitivo per eccellenza, spinge le generazioni l’una contro l’altra in una lotta di tutti contro tutti.
È con questo quadro che la nostra organizzazione ha iniziato a prepararsi al compito di forgiare questo legame. Ma, più che questa preparazione, è l’incontro con la nuova generazione nella vita reale che ha dato alla questione della cultura del dibattito un significato particolare ai nostri occhi. Ci siamo trovati in presenza di una generazione che, di per se, conferisce a questa questione un’importanza ben maggiore di quanto l’abbia fatto la generazione del ‘68. La prima importante indicazione di questo cambiamento, a livello della classe operaia nel suo insieme, è stata data dal movimento di massa degli studenti liceali ed universitari in Francia contro la “precarizzazione” del lavoro nella primavera 2006. In questo movimento è stata sorprendente l’insistenza, in particolare nelle assemblee generali, sul dibattito più libero e largo possibile, contrariamente al movimento studentesco della fine degli anni ‘60 spesso segnato da un’incapacità a condurre un dialogo politico. Questa differenza è dovuta principalmente al fatto che oggi la popolazione studentesca è molto più proletarizzata di quella di 40 anni fa. Il dibattito intenso ed ampio è sempre stato una caratteristica importante dei movimenti proletari di massa e ha anche caratterizzato le assemblee operaie in Francia nel 1968 o in Italia nel 1969. Ma nel 2006 la novità è stata l’apertura della gioventù in lotta verso le generazioni più anziane e la sua avidità ad apprenderne l’esperienza. Questo atteggiamento differisce di molto da quello del movimento studentesco della fine degli anni ‘60, in particolare in Germania (che forse ha costituito l’espressione più caricaturale dello stato d’animo dell’epoca). Uno dei suoi slogan era: “Quelli con più di 30 anni nei campi di concentramento!”. Questa idea si è espressa nel concreto attraverso l’abitudine di fischiarsi a vicenda, di interrompere violentemente le riunioni “rivali”, ecc. La rottura della continuità tra le generazioni della classe operaia ha costituito una delle radici del problema poiché le relazioni tra generazioni sono il terreno privilegiato, sin dai tempi più antichi, per forgiare l’attitudine al dialogo. I militanti del 1968 consideravano la generazione dei loro genitori o una generazione che “si era venduta” al capitalismo, o (come in Germania ed in Italia) una generazione di fascisti e di criminali di guerra.
Per gli operai che avevano sopportato l’orribile sfruttamento della fase seguita al 1945 nella speranza che i loro figli avrebbero potuto avere una vita migliore della loro, è stata un’amara delusione sentirsi accusati dai loro figli come “parassiti” che vivevano dello sfruttamento del Terzo Mondo. Ma è altrettanto vero che la generazione di genitori di questa epoca aveva quasi del tutto perso, o non era riuscita mai ad acquisire, l’attitudine al dialogo. Questa generazione era stata selvaggiamente straziata e traumatizzata dalla Seconda Guerra mondiale e dalla Guerra fredda, dalla controrivoluzione fascista, stalinista e socialdemocratica.
Al contrario, il 2006 in Francia ha annunciato qualche cosa di nuovo e di estremamente fecondo[2]. Ma già alcuni anni prima, questa preoccupazione della nuova generazione era stata annunciata dalle minoranze rivoluzionarie della classe operaia. Queste minoranze, sin dal momento in cui sono apparse sulla scena della vita politica si sono armate di una propria critica del settarismo e del rifiuto di dibattere. Tra le prime esigenze che hanno espresso c’era la necessità del dibattito, non come un lusso, ma come un bisogno imperioso, e la necessità che quelli che vi partecipano prendono sul serio gli altri, ed imparino ad ascoltarli; la necessità che nella discussione, le armi siano l’argomentazione e non la forza bruta, né l’appello alla morale o all’autorità di “teorici”. Rispetto al campo proletario internazionalista, questi compagni hanno in generale (ed a giusto titolo) criticato l’assenza di dibattito fraterno tra i gruppi esistenti rimanendone profondamente scioccati. Essi hanno da subito rigettato la concezione del marxismo come un dogma da far adottare alla nuova generazione senza spirito critico[3].
Da parte nostra siamo rimasti sorpresi dalla reazione di questa nuova generazione verso la stessa CCI. I nuovi compagni che sono venuti alle nostre riunioni pubbliche, i contatti del mondo intero che hanno iniziato una corrispondenza con noi, i differenti gruppi e circoli politici con cui abbiamo discusso ci hanno detto più volte di aver riconosciuto la natura proletaria della CCI sia nelle nostre posizioni programmatiche che nel nostro comportamento, in particolare nel modo di discutere.
Da dove proviene, in questa nuova generazione, una così profonda preoccupazione nei confronti di questa questione? Noi pensiamo che essa sia il risultato della crisi storica del capitalismo che oggi è ben più grave e profonda che nel 1968. La situazione attuale richiede una critica radicale al capitalismo, la necessità di andare alle radici profonde dei problemi. Uno degli effetti più corrosivi dell’individualismo borghese è il modo con cui distrugge la capacità di discutere e, in particolare, di ascoltare e imparare gli uni dagli altri. Il dialogo è sostituito dalla retorica, il vincitore è quello che parla più forte (come nelle campagne elettorali borghesi). La cultura del dibattito, grazie al linguaggio umano, è il principale strumento per sviluppare la coscienza che è l’arma principale della lotta della sola classe portatrice di un futuro per l’umanità. Per il proletariato è il solo strumento per superare l’isolamento e l’impazienza e per dirigersi verso l’unificazione delle sue lotte.
Un altro aspetto di questa preoccupazione oggi è la lotta per superare l’incubo dello stalinismo. Molti dei militanti che cercano di avvicinarsi alle posizioni internazionaliste provengono direttamente da un ambiente gauchista (estremismo di sinistra) o ne sono influenzati. Questo presenta come “socialismo” quelli che sono degli aspetti caricaturali dell’ideologia e del comportamento borghese decadente. Questi militanti hanno ricevuto un’educazione politica che ha fatto loro credere che lo scambio di argomenti è equivalente al “liberismo borghese”, che “un buon comunista” è qualcuno che “è tosto” e mette a tacere la sua coscienza e le sue emozioni. I compagni che oggi sono determinati a rigettare gli effetti di questo prodotto moribondo della controrivoluzione comprendono sempre meglio che per farlo è necessario non solo rigettare le sue posizioni ma anche la sua mentalità. Così facendo contribuiscono a ristabilire una tradizione del movimento operaio che minacciava di sparire con la rottura organica provocata dalla controrivoluzione[4].
Le crisi organizzative e la tendenza al monolitismo
La seconda ragione essenziale che ha spinto la CCI a ritornare sulla questione di una cultura del dibattito è stata la nostra crisi interna, all’inizio di questo secolo, che si è caratterizzata con il peggiore comportamento indegno mai visto nelle nostre fila. Per la prima volta dalla sua fondazione, la CCI ha dovuto espellere non uno ma parecchi suoi membri[5]. All’inizio di questa crisi interna, si erano espresse in seno alla nostra sezione in Francia delle difficoltà e delle divergenze di opinione sulla questione dei nostri principi organizzativi di centralizzazione. Non c’è ragione perché delle divergenze di questo tipo, di per se stesse, siano causa di una crisi organizzativa. Ed esse non lo erano. A provocare la crisi è stato il rifiuto del dibattito interno e, in particolare, delle manovre che miravano ad isolare e calunniare - e cioè ad attaccare personalmente - i militanti con i quali non c’era accordo.
In seguito a questa crisi, la nostra organizzazione si è impegnata ad andare fino alle radici più profonde della storia di tutte le sue crisi e delle sue scissioni. Abbiamo già pubblicato dei contributi su alcuni aspetti[6]. Una delle conclusioni a cui siamo giunti è che in tutte le scissioni che abbiamo conosciuto ha giocato un ruolo importante una tendenza al monolitismo. Appena apparivano delle divergenze subito alcuni militanti affermavano che non potevano lavorare più con gli altri, che la CCI era diventata un’organizzazione stalinista, o che stava degenerando. Queste crisi sono dunque esplose di fronte a divergenze che, per la maggior parte, potevano esistere perfettamente in seno ad un’organizzazione non monolitica e, in ogni caso, dovevano essere discusse e chiarite prima che una scissione divenisse necessaria.
La ripetuta comparsa di comportamenti monolitici è sorprendente in un’organizzazione che si basa specificamente sulle tradizioni della Frazione italiana. Questa infatti ha sempre sostenuto che, qualunque fossero le divergenze sui principi fondamentali, il chiarimento profondo e collettivo doveva precedere ogni separazione organizzativa.
La CCI è la sola corrente della Sinistra comunista che oggi si pone in maniera specifica nella tradizione organizzativa della Frazione italiana (Bilan) e della Sinistra comunista di Francia (GCF). Contrariamente ai gruppi sorti dal Partito comunista internazionalista fondato in Italia verso la fine della Seconda Guerra mondiale, la Frazione italiana riconosceva il carattere profondamente proletario delle altre correnti internazionali della Sinistra comunista che erano nate in reazione alla controrivoluzione stalinista, in particolare la Sinistra tedesca e olandese. Lungi dal rigettare queste correnti come “anarco-spontaneiste” o “sindacaliste rivoluzionarie”, ha appreso da queste tutto ciò che si poteva. In effetti, la principale critica che ha mosso contro quella che è diventata la corrente “consiliarista” è stata quella relativa al suo settarismo espresso soprattutto nel rigetto dei contributi dati dalla Seconda Internazionale e dal Bolscevismo[7]. Questo atteggiamento ha permesso alla Frazione italiana di mantenere, in piena controrivoluzione, la comprensione marxista secondo la quale la coscienza di classe si sviluppa collettivamente e che nessun partito né alcuna tradizione può proclamare di averne il monopolio. Ne risulta che la coscienza non può svilupparsi senza un dibattito fraterno, pubblico ed internazionale[8].
Ma questa comprensione fondamentale, sebbene faccia parte dell’eredità fondamentale della CCI, non è facile da mettere in pratica. La cultura del dibattito può svilupparsi solo contro corrente rispetto alla società borghese. Come la tendenza spontanea nel capitalismo non è il chiarimento delle idee ma la violenza, la manipolazione e la lotta per ottenere la maggioranza (di cui il circolo elettorale della democrazia borghese è il migliore esempio), così l’infiltrazione di questa ideologia borghese all’interno delle organizzazioni proletarie contiene sempre germi di crisi e di degenerazione. La storia del Partito bolscevico lo illustra perfettamente. Finché il partito è stata la punta di lancia della rivoluzione, i dibattiti più vivaci e spesso più controversi hanno costituito una delle sue principali forze. Al contrario, l’interdizione di vere frazioni (dopo il massacro di Kronstadt nel 1921) ha costituito il segno maggiore ed è stato un fattore attivo della sua degenerazione. Parimenti, la pratica della “coesistenza pacifica” (e cioè l’assenza di dibattito) tra le posizioni conflittuali che caratterizzavano già il processo di fondazione del Partito comunista internazionalista, o la teorizzazione da parte di Bordiga e dei suoi adepti delle virtù del monolitismo può essere compresa solamente nel contesto della sconfitta storica del proletariato verso la metà del ventesimo secolo.
Se le organizzazioni rivoluzionarie vogliono assolvere al loro compito fondamentale di sviluppo ed estensione della coscienza di classe, la cultura di una discussione collettiva, internazionale, fraterna e pubblica è assolutamente essenziale. È vero che ciò richiede un alto livello di maturità politica, ma anche, più generale, di maturità umana. La storia della CCI è un’illustrazione del fatto che questa maturità non si acquista in un giorno, ma è il prodotto di uno sviluppo storico. Oggi, la nuova generazione ha un ruolo essenziale da giocare in questo processo in via di maturazione.
La cultura del dibattito nella storia
La capacità di dibattere è una caratteristica essenziale del movimento operaio. Ma non è stato lui ad inventarla. In questo campo, come in altri altrettanto fondamentali, la lotta per il socialismo è stata capace di assimilare le migliori acquisizioni dell’umanità, di adattarle ai suoi bisogni. Così facendo ha trasformato queste qualità portandole ad un livello superiore.
Fondamentalmente, la cultura del dibattito è un’espressione della natura eminentemente sociale dell’umanità. È in particolare un’emanazione dell’utilizzazione specificamente umana del linguaggio. L’utilizzazione del linguaggio come mezzo di scambio delle informazioni è qualcosa che l’umanità condivide con molti animali. Ciò che distingue l’umanità dal resto della natura su questo piano, è la sua capacità a coltivare ed a scambiare un’argomentazione (legata allo sviluppo della logica e della scienza) ed a riuscire a conoscere gli altri (lo sviluppo dell’empatia legata, tra l’altro, allo sviluppo dell’arte).
Questa qualità quindi non è nuova. In realtà ha preceduto le società di classe e sicuramente ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo della specie umana. Engels, per esempio, parla del ruolo delle assemblee generali dei greci all’epoca di Omero, delle prime tribù germaniche o degli Irochesi del Nord America e in particolare fa l'elogio della cultura del dibattito di questi ultimi[9]. Purtroppo, malgrado i lavori di Morgan dell’epoca e dei suoi colleghi del diciannovesimo secolo così come quelli dei loro successori, siamo ancora insufficientemente informati sui primissimi sviluppi, certamente i più decisivi, in questo dominio.
Ma sappiamo, per contro, che la filosofia e gli inizi del pensiero scientifico hanno cominciato a prosperare là dove la mitologia ed il realismo primitivo - questa coppia antica ma al tempo stesso contraddittoria ed inseparabile - venivano messi in questione. Entrambi sono prigionieri dell’incapacità di comprendere più profondamente l’esperienza immediata. I pensieri che i primi uomini hanno formulato sulla loro esperienza pratica erano di natura religiosa. “A partire dai tempi più antichi in cui gli uomini, ancora completamente ignoranti della struttura del loro corpo ed eccitati dai loro sogni, giunsero a farsi l’idea che i loro pensieri e le loro sensazioni non fossero un’attività del loro corpo ma di una speciale anima, che abitava in questo corpo e lo abbandonava dopo la morte: a partire da allora essi dovettero formarsi delle idee circa le relazioni di quest’anima col mondo esteriore. Se essa al momento della morte si separa dal corpo e continuava ad esistere, non vi era alcun motivo per attribuirle una nuova morte particolare. Così nacque l’idea della sua immortalità, che, in quel momento dell’evoluzione, non si presentava affatto come una consolazione, ma come un destino contro il quale non vi è nulla da fare, e abbastanza spesso, come presso i greci, come una vera sciagura”[10].
È in questa cornice di un realismo primitivo che hanno avuto luogo i primi passi di uno sviluppo molto lento della cultura e delle forze produttive. Da parte sua il pensiero magico, pur contenendo un certo grado di saggezza psicologica, aveva innanzitutto il compito di dare un senso all’inspiegabile e dunque di limitare la paura. I due costituirono importanti contributi all’avanzamento del genere umano. L’idea secondo la quale il realismo primitivo avrebbe un’affinità particolare con la filosofia materialista, o che quest’ultima si sarebbe sviluppata direttamente a partire dal primo, è senza fondamento.
“C’è un vecchio detto della dialettica fattasi coscienza popolare: gli estremi si toccano. Sarà quindi difficile che ci sbagliamo se ricerchiamo le forme estreme di fantasticheria, di credulità e di superstizione, non, per esempio, in quegli indirizzi scientifici che, come la filosofia della natura tedesca, hanno tentato di costringere il mondo oggettivo nella cornice del loro pensiero soggettivo, bensì piuttosto nell’indirizzo opposto, che magnificando la nuda esperienza, ha trattato il pensiero con disprezzo sovrano (e lo ha, in effetti, più di ogni altro,ridotto all’insensatezza). E’ la scuola che domina in Inghilterra”[11].
La religione, come indicata da Engels, è nata non solo da una visione magica del mondo ma anche dal realismo primitivo. Le sue prime generalizzazioni sul mondo, spesso audaci, hanno necessariamente un carattere che fa testo.
Le prime comunità agricole per esempio hanno compreso ben presto che dipendevano dalla pioggia, ma erano lontane dal comprendere le condizioni da cui dipendeva la caduta della pioggia. L’invenzione di un Dio della pioggia è un atto creativo per rassicurarsi, che dà l’impressione che è possibile, tramite regali o per devozione, di influenzare il corso della natura. L’Homo sapiens è la specie che ha puntato sullo sviluppo della coscienza per assicurarsi la sopravvivenza. In quanto tale, è confrontato ad un problema senza precedenti: la paura spesso paralizzante dell’ignoto. Le spiegazioni dell’ignoto non devono quindi permettere alcun dubbio. Da questo bisogno, e come sua espressione più evoluta, risulta la nascita dalle religioni della rivelazione. Tutta la base emozionale di questa visione del mondo è il credo, e non la conoscenza.
Il realismo primitivo è solamente l’altra faccia della stessa medaglia, una sorte di elementare “divisione del lavoro” mentale. Tutto ciò che non si può spiegare in un senso pratico immediato entra necessariamente nella sfera del magico. Inoltre la stessa comprensione pratica è fondata su una visione religiosa, all’origine la visione animistica. In questa visione, il mondo intero è feticizzato. Anche i processi che gli esseri umani possono consapevolmente produrre e riprodurre, sembrano avere luogo grazie all’assistenza di forze personalizzate, che esistono indipendentemente dalla nostra volontà.
È chiaro che in un tale mondo c’è una possibilità limitata per il dibattito nel senso moderno del termine. Circa 2500 anni fa ha cominciato ad affermarsi più fortemente una nuova qualità, che ha messo immediatamente e direttamente in questione l’accoppiata religione e “buonsenso comune”. Questa si è sviluppata a partire dal vecchio, tradizionale pensiero nel senso che quest’ultimo si è trasformato nel suo contrario. Così, il primo pensiero dialettico che ha preceduto la società di classe – espresso, per esempio, in Cina nell’idea della polarità tra lo yen e lo yang, il principio maschile ed il principio femminile - si è trasformato in pensiero critico, basato sui componenti essenziali della scienza, della filosofia e del materialismo. Ma tutto questo era inconcepibile senza l’apparizione di ciò che abbiamo chiamato la cultura del dibattito. La parola greca per dialettica significa, in effetti, dialogo o dibattito.
Che cosa ha permesso questo nuovo approccio? Generalmente parlando, è stata l’estensione del mondo delle relazioni sociali e della conoscenza. Ad un livello molto globale, la natura sempre più complessa del mondo sociale. Come Engels amava ripeterlo, il buonsenso è un ragazzo forte e vigoroso finché resta tra le sue quattro mura, ma conosce ogni tipo di disinganni man mano che si avventura nel mondo. Ma anche la religione ha mostrato i suoi limiti nella capacità di acquietare la paura. In effetti, essa non aveva eliminato la paura, l’aveva solamente esteriorizzata. Attraverso questo meccanismo, l’umanità ha tentato di far fronte ad un terrore che altrimenti l’avrebbe schiacciata in un’epoca in cui non aveva altri mezzi di autodifesa. Ma facendo ciò, ha fatto della sua paura una forza supplementare che la dominava.
“Spiegare” ciò che è ancora inspiegabile significa rinunciare ad una vera ricerca. È là dunque che nasce il conflitto tra la religione e la scienza o, come dice Spinoza, tra la sottomissione e la ricerca. I filosofi greci inizialmente si sono opposti alla religione. Talete, il primo filosofo che abbiamo conosciuto, aveva già rotto con la visione mistica del mondo. Anassimandro che gli è succeduto, chiedeva che si spiegasse la natura a partire da essa stessa.
Ma il pensiero greco era anche una dichiarazione di guerra contro il realismo primitivo. Eraclito ha spiegato che l’essenza delle cose non è scritta sulle loro fronti. “La natura ama nascondersi”, diceva, o come dice Marx, “ogni scienza sarebbe superflua se l’apparenza rispondesse direttamente alla natura delle cose”[12] .
Il nuovo orientamento metteva in discussione al tempo stesso la credenza ma anche i pregiudizi e la tradizione che sono il credo della vita quotidiana (in Germania le due parole hanno un legame: Glaube = credenza ed Aberglaube = superstizione). Vi si contrapponevano loro la teoria e la dialettica. “Quale che sia la poca considerazione che si manifesti per ogni sorta di pensiero teorico, resta pur sempre il fatto che non si può porre in rapporto due fenomeni naturali o cogliere il rapporto che sussiste tra di essi senza pensiero teorico”[13].
Lo sviluppo dei rapporti sociali era naturalmente il prodotto dello sviluppo delle forze produttive. Comparvero quindi insieme al problema – l’inadeguatezza dei modi di pensiero esistenti – i mezzi per risolverlo. Innanzitutto uno sviluppo della fiducia in sé, in particolare nella potenza del pensiero umano. La scienza può svilupparsi solo quando c’è una capacità ed una volontà di accettare l’esistenza del dubbio e dell’incertezza. Contrariamente all’autorità della religione e della tradizione, la verità della scienza non è assoluta ma relativa. Si presenta quindi non solo la possibilità ma anche la necessità dello scambio di opinioni.
È chiaro che rivendicare il governo della conoscenza non poteva porsi se non quando le forze produttive (nel senso culturale più largo) avessero raggiunto un certo grado di sviluppo. Non si poteva nemmeno immaginare senza uno sviluppo concomitante delle arti, dell’educazione, della letteratura, dell’osservazione della natura, del linguaggio. E quest’ultimo va di pari passo con l’apparizione, ad un certo stadio della storia, di una società di classe il cui strato dirigente è liberato del fardello della produzione materiale. Ma questi sviluppi non hanno fatto nascere automaticamente un approccio nuovo ed indipendente. Né gli egiziani o i babilonesi, malgrado i loro progressi scientifici, né i fenici che per primi sviluppano un alfabeto moderno, sono andati tanto lontano quanto i greci in questo processo.
In Grecia, è lo sviluppo della schiavitù che ha permesso la nascita di una classe di cittadini liberi accanto ai preti. Ciò ha fornito la base materiale che ha minato la religione. (Possiamo così capire meglio la formulazione di Engels nell’Anti-Dühring: senza la schiavitù nell’antichità, niente socialismo moderno). In India, verso la stessa epoca, uno sviluppo della filosofia, del materialismo (chiamato Lokayata) e dello studio della natura coincide con la formazione e lo sviluppo di un’aristocrazia guerriera che si opponeva al teocrazia brahmani ed in parte si basava sulla schiavitù agricola. Come in Grecia, dove la lotta di Eraclito contro la religione, l’immortalità e la condanna dei piaceri carnali erano diretti al tempo stesso contro i pregiudizi dei tiranni e contro quelli delle classi oppresse, il nuovo approccio militante in India ebbe origine da un’aristocrazia. Il Buddismo ed il Jainismo, apparsi alla stessa epoca, erano molto più diffusi nella popolazione lavoratrice ma si mantenevano in una cornice religiosa - con la loro concezione della reincarnazione dell’anima, tipico della società di caste alla quale essi volevano opporsi (che incontriamo anche in Egitto).
In Cina invece, dove c’era uno sviluppo della scienza ed una sorta di materialismo rudimentale (per esempio nella Logica di Mo-ti), questo sviluppo fu limitato dall’assenza di una casta dirigente di preti contro la si sarebbe potuta sviluppare una rivolta. Il paese era diretto da una burocrazia militare formatasi attraverso la lotta contro i barbari che lo circondavano[14].
In Grecia esisteva un fattore supplementare e per certi versi decisivo che ha anche giocato un ruolo importante in India: uno sviluppo più avanzato della produzione di merci. La filosofia greca non è cominciata in Grecia ma nelle colonie portuali dell’Asia Minore. La produzione di merci implica lo scambio non solo di beni ma anche dell’esperienza contenuta nella loro produzione. Accelera la storia, favorendo pertanto un’espressione superiore del pensiero dialettico. Permette un grado di personalizzazione senza il quale lo scambio di idee ad un livello tanto elevato non è possibile. Ed essa comincia a mettere fine all’isolamento nel quale si era svolta l’evoluzione sociale fino ad allora. L’unità economica fondamentale di tutte le società agricole basate sull’economia naturale è il villaggio o, al meglio, la regione autarchica. Ma le prime società di sfruttamento fondato su di una cooperazione più larga, spesso per sviluppare l’irrigazione, erano sempre delle società fondamentalmente agricole. Al contrario, il commercio e la navigazione hanno aperto la società greca sul mondo. Essa ha riprodotto, ma ad un livello superiore, l’atteggiamento di conquista e di scoperta del mondo che caratterizza le società nomadi. La storia mostra che, ad un certo stadio del suo sviluppo, l’apparizione del fenomeno di dibattito pubblico fu inseparabile da uno sviluppo internazionale (anche se esso si concentrava in una regione) e, in un certo senso, aveva un carattere “inter-nazionalista”. Diogene ed i Cinici erano contro la distinzione tra Elleni e Barbari e si sono dichiarati cittadini del mondo. Democrito è passato in giudizio con l’accusa di aver dilapidato un’eredità utilizzandola per dei viaggi educativi in Egitto, a Babilonia, in Persia ed in India. Si difese leggendo brani dei suoi scritti, frutti dei suoi viaggi - e fu dichiarato non colpevole.
Il dibattito è nato per rispondere ad una necessità materiale. In Grecia si sviluppa a partire dal paragone tra differenti fonti di conoscenza. Vengono paragonati differenti modi di pensiero, differenti modi di investigazione ed i loro risultati, i modi di produzione, i costumi e le tradizioni. Si scopre che questi si contraddicono, si confermano o si completano un l’altro. Entrano in conflitto fra loro o si supportano l’un l’altro, o le due cose insieme. Attraverso il confronto le verità assolute diventano relative.
Questi dibattiti sono pubblici. Hanno luogo nei porti, sulle piazze del mercato (i fori), nelle scuole e le accademie. Sotto forma scritta riempono le biblioteche e si estendono a tutto il mondo conosciuto.
Socrate - questo filosofo che ha trascorso tutta la sua vita a dibattere sulle piazze dei mercati - ha incarnato l’essenza di questa evoluzione. La sua preoccupazione principale - come raggiungere una vera conoscenza della morale - costituisce un attacco contro la religione e contro i pregiudizi che pretendono di avere già la risposta a queste questioni. Socrate ha dichiarato che la conoscenza è la prima condizione per una corretta etica e l’ignoranza il suo principale nemico. È dunque lo sviluppo della coscienza e non la punizione che permette il progresso morale poiché, per la maggior parte, gli uomini non possono andare per molto tempo in modo deliberato contro la voce della loro propria coscienza.
Ma Socrate è andato ben oltre, gettando le basi teoriche di ogni scienza e di ogni chiarimento collettivo, con il riconoscimento che il punto di partenza della conoscenza, cioè della presa di coscienza, è mettere da parte i pregiudizi. Ciò apre la strada all’essenziale: la ricerca. Egli si opponeva vigorosamente alle conclusioni frettolose, alle opinioni non critiche e soddisfatte di se stesse, all’arroganza ed alla vanteria. Credeva nella “modestia della non conoscenza” ed alla passione che consegue dalla vera conoscenza, fondata su una visione ed una convinzione profonda. È il punto di partenza del Dialogo socratico. La verità è il risultato di una ricerca collettiva che consiste nel dialogo tra tutti gli allievi e dove ciascuno è al tempo stesso allievo e maestro. Il filosofo non è più un profeta che annuncia delle rivelazioni, ma qualcuno che ricerca, con altri, la verità. Ciò porta ad un nuovo concetto di direzione: il dirigente è colui che è più determinato a far avanzare il chiarimento senza perdere mai di vista lo scopo finale. Il parallelo con il modo in cui è definito il ruolo dei comunisti nella lotta di classe ne Il Manifesto Comunista, è sorprendente.
Socrate era maestro nello stimolare e dirigere le discussioni. Ha fatto evolvere il dibattito pubblico fino al livello di un’arte o di una scienza. Il suo allievo, Platone, ha sviluppato il dialogo fino ad un livello raramente raggiunto in seguito.
Nell’introduzione a La Dialettica della Natura, Engels parla di tre grandi periodi nella storia dello studio della natura fino ad allora: “il genio dell’intuizione” degli antichi greci, i risultati “altamente significativi ma sporadici” degli arabi in quanto precursori del terzo periodo, “la scienza moderna” che muove i primi passi nel Rinascimento. Ciò che è sorprendente ne “l’epoca culturale arabo-musulmana”, è la sua notevole capacità ad assorbire e a fare una sintesi delle esperienze delle differenti culture antiche e la sua apertura alla discussione. August Bebel cita un testimone oculare della cultura del dibattito pubblico a Bagdad: “Immaginate semplicemente che alla prima riunione non c’erano solamente dei rappresentanti di tutte le sette musulmane esistenti, ortodosse ed eterodosse, ma anche degli adoratori del fuoco (Parsi); dei materialisti, degli atei; degli ebrei e dei cristiani, in una parola ogni specie di infedele. Ogni setta aveva il suo portavoce che doveva rappresentarla. Quando uno di questi dirigenti di partito entrava nella sala, tutti si alzavano rispettosamente dalla propria sedia e nessuno si sarebbe seduto prima che quest’ultimo avesse raggiunto il suo posto. Quando la sala fu quasi piena, uno degli infedeli disse: ‘Tutti conoscono le regole. I musulmani non hanno il diritto di combatterci con le prove tratte dai loro libri santi o da discorsi basati su quelli del loro profeta, poiché non crediamo né nei vostri libri né nel vostro profeta. Qui non possiamo che basarci su degli argomenti fondati sulla ragione umana’. Queste parole furono accolte da un giubilo generale”[15]. Bebel aggiunge: “Le differenze tra la cultura araba e la cultura cristiana erano le seguenti: gli arabi raccoglievano durante le loro conquiste tutti le opere che potevano servire ai loro studi ed istruirli sui popoli ed i paesi che avevano conquistato. I cristiani, spargendo la loro dottrina, distruggevano tutti questi monumenti della cultura come prodotti del diavolo o degli orrori pagani”. E conclude: “L’epoca della cultura arabo-musulmana è l’anello che collega la condannata cultura greco-romana, e la cultura antica nel suo insieme, alla cultura europea che è fiorita dal Rinascimento. Senza la prima, quest’ultima non avrebbe potuto raggiungere i livelli attuali. Il cristianesimo era ostile a tutto questo sviluppo culturale”.
Una delle ragioni del fanatismo e del settarismo ciechi del cristianesimo è stata identificata già da Heinrich Heine ed è stata confermata in seguito dal movimento operaio: più una cultura richiede sacrificio e rinuncia, più il pensiero stesso che i suoi principi possano essere messi in discussione è intollerabile.
Per quanto che riguarda il Rinascimento e la Riforma, che definisce “il più grande rivolgimento progressivo che l’umanità avesse fino allora vissuto”, Engels sottolinea non solo il ruolo dello sviluppo del pensiero, ma anche quello delle emozioni, della personalità, del potenziale umano e della combattività. Era un’epoca “che aveva bisogno di giganti e che procreava giganti: giganti per la forza del pensiero, le passioni, il carattere, per la versatilità e l’erudizione. (...) Gli eroi di quell’epoca non erano ancora sotto la schiavitù della divisione del lavoro che ha reso così limitati e unilaterali tanti dei loro successori. Ma la loro caratteristica vera e propria sta nel fatto che vivano ed operavano, quasi tutti, agli avvenimenti del tempo, alle lotte pratiche; prendevano posizione e combattevano anch’essi, chi con la parola e con gli scritti, chi con la spada, parecchi con ambedue” (Engels, ibidem, “Introduzione”).
Il dibattito ed il movimento operaio
Se si considerano le tre epoche “eroiche” del pensiero umano che hanno portato, secondo Engels, allo sviluppo della scienza moderna, si nota quanto esse siano state limitate nel tempo e nello spazio. Innanzitutto, esse iniziano molto tardi rispetto alla storia dell’umanità nel suo insieme. Anche includendo i capitoli cinesi ed indiani, queste fasi sono state limitate sul piano geografico e non sono neanche durate molto (il Rinascimento in Italia e la Riforma in Germania appena qualche decennio). E le parti delle classi sfruttatrici (esse stesse estremamente minoritarie) che vi hanno veramente partecipato in modo attivo sono state minuscole.
A tale proposito due cose sembrano stupefacenti. Primo, il fatto stesso che questi momenti di nascita del dibattito pubblico e della scienza abbiano avuto luogo e che il loro impatto sia stato così importante e così duraturo - nonostante tutte le interruzioni ed i vicoli ciechi. Secondo, fino a che punto il proletariato - malgrado la rottura della continuità organica del suo movimento a metà del ventesimo secolo, malgrado l’impossibilità di organizzazioni di massa permanenti nella decadenza del capitalismo – sia stato capace di mantenere e talvolta di allargare considerevolmente lo scopo del dibattito organizzato. Il movimento operaio ha mantenuto viva questa tradizione per quasi due secoli nonostante le interruzioni,. Ed in certi momenti, come nei movimenti rivoluzionari in Francia, in Germania ed in Russia, questo processo ha inglobato milioni di uomini. Qui la quantità si trasforma in qualità.
Tuttavia questa qualità non è prodotta unicamente dal il fatto che il proletariato - almeno nei paesi industrializzati - costituisce la maggioranza della popolazione. Abbiamo già visto come la scienza moderna e la teoria, dopo i gloriosi inizi durante il Rinascimento, sono state sprecate ed ostacolate nel loro sviluppo dalla divisione borghese del lavoro. Al centro di questo problema risiede la separazione della scienza dai produttori ad un livello impossibile all’epoca araba o del Rinascimento. “(Questa scissione) si compie infine nella grande industria che fa della scienza una forza produttiva indipendente dal lavoro e l’arruola al servizio del capitale”[16].
Marx la descrive la conclusione di questo processo nella sua bozza di risposta a Vera Zassoulitch: "Questa società conduce una guerra contro la scienza, contro i popoli e contro le forze produttive che essa ha creato”.
Il capitalismo è il primo sistema economico che non può esistere senza un’applicazione sistematica della scienza alla produzione. Deve limitare l’educazione del proletariato per mantenere il suo dominio di classe. E deve sviluppare l’educazione del proletariato per mantenere la sua posizione economica. Oggi la borghesia è sempre più una classe senza cultura, arretrata, mentre la scienza e la cultura sono tra le mani sia di proletari, sia di rappresentanti remunerati della borghesia la cui situazione economica e sociale somiglia sempre più a quella della classe operaia.
“(L’abolizione delle classi sociali) ha quindi come suo presupposto un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l’appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e della direzione spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventata superflua, ma è diventata anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto”[17].
Il proletariato è l’erede delle tradizioni scientifiche dell’umanità. Più ancora che per il passato, ogni futura lotta rivoluzionaria proletaria porterà necessariamente un fiorire senza precedenti del dibattito pubblico e gli inizi di un movimento verso la restaurazione dell’unità tra scienza e lavoro, il compimento di una comprensione globale più adeguata alle esigenze dell’epoca contemporanea.
La capacità del proletariato di raggiungere nuove vette è stata già provata dallo sviluppo del marxismo, primo passo scientifico concernente la società umana e la storia. Solo il proletariato è stato capace di assimilare le più alte esperienze del pensiero filosofico borghese: la filosofia di Hegel. Le due forme di dialettica conosciute nell’antichità erano la dialettica del cambiamento, Eraclito, e la dialettica dell’interazione (Platone, Aristotele). Solo Hegel è riuscito a combinare queste due forme ed a creare la base per una dialettica veramente storica.
Hegel aggiunge una nuova dimensione a tutto il concetto di dibattito attaccando, più profondamente di quanto mai fatto prima, l’opposizione rigida, metafisica tra vero e falso. Nell’introduzione a La Fenomenologia dello Spirito, mostra come delle fasi differenti ed opposte di un processo di sviluppo - quale la storia della filosofia - costituiscono un’unità organica, come lo sono il fiore ed il frutto. Hegel spiega che l’incapacità a comprendere questa unità viene dalla tendenza a concentrarsi sulla contraddizione ed a perdere di vista lo sviluppo. Rimettendo questa dialettica sui suoi piedi, il marxismo è stato capace di assorbire l’aspetto più progressivo di Hegel, la comprensione dei processi che conducono verso il futuro.
Il proletariato è la prima classe sfruttata e rivoluzionaria allo stesso tempo. Contrariamente alle precedenti classi rivoluzionarie che erano sfruttatrici, la sua ricerca della verità non è limitata da nessun interesse a preservarsi in quanto classe. Contrariamente alle precedenti classi sfruttate che sopravvivevano consolandosi solo con le illusioni (in particolare quelle religiose), il suo interesse di classe richiede la perdita delle illusioni. Come tale, il proletariato è la prima classe la cui tendenza naturale, appena riflette, si organizza e lotta sul suo terreno, è verso la chiarificazione.
I bordighisti hanno dimenticato questa caratteristica unica del proletariato quando hanno inventato il concetto di invarianza. Il loro punto di partenza è corretto: la necessità di restare leali ai principi di base del marxismo di fronte all’ideologia borghese. Ma la conclusione secondo la quale è necessario limitare o anche abolire il dibattito per mantenere le posizioni di classe, è il prodotto della controrivoluzione. La borghesia ha ben compreso che per attirare il proletariato sul campo del capitale bisogna innanzitutto sopprimere e soffocare i suoi dibattiti. Avendo inizialmente tentato di farlo attraverso la repressione violenta, ha poi sviluppato delle armi ben più efficaci quali la democrazia ed il sabotaggio da parte della sinistra del capitale. Anche l’opportunismo lo ha capito da tempo. Poiché la sua caratteristica essenziale è l’incoerenza, deve nascondersi, evitare il dibattito aperto. La lotta contro l’opportunismo e la necessità di una cultura del dibattito, non solo non sono in contraddizione, ma sono indispensabili l’un l’altro.
Una tale cultura non esclude affatto il confronto appassionato di posizioni politiche divergenti, al contrario. Ma ciò non significa affatto che il dibattito politico debba essere necessariamente traumatico, con dei vincitori e dei vinti, che porta a rotture e scissioni. L’esempio più edificante de “l’arte” o de “la scienza” del dibattito nella storia è quello del Partito bolscevico tra febbraio ed ottobre 1917. Anche in un contesto di intrusione massiccia di un’ideologia estranea, queste discussioni erano appassionate ma estremamente fraterne e fonte di ispirazione per tutti i partecipanti. Soprattutto, esse hanno reso possibile ciò che Trotsky ha chiamato “il riarmo” politico del partito, l’adeguamento della sua politica ai bisogni mutevoli del processo rivoluzionario, che è una delle condizioni della vittoria.
Il “Dialogo bolscevico” richiede una comprensione del fatto che i dibattiti non hanno tutti lo stesso significato. La polemica di Marx contro Proudhon era di tipo demolitorio perché si dava per compito di gettare nella pattumiera della storia, sbarazzandosene, una visione che era diventata un ostacolo per lo sviluppo della coscienza dell’insieme del movimento operaio. Al contrario il giovane Marx, pure ingaggiando una lotta titanica contro Hegel e contro il socialismo utopico, non perse mai il suo immenso rispetto per Hegel, Fourier, Saint Simon o Owen che gli ha permesso di integrarli per sempre nella nostra eredità comune. Engels doveva scrivere più tardi che senza Hegel non ci sarebbe stato il marxismo e senza gli utopisti non ci sarebbe stato il socialismo scientifico come lo conosciamo.
Le più gravi crisi del movimento operaio, comprese quelle della CCI, per la maggior parte non sono state provocate dal fatto stesso che esistessero le divergenze, anche se fondamentali, ma dall’evitare e perfino sabotare apertamente il dibattito. L’opportunismo utilizza tutti i mezzi per raggiungere questo scopo. Non solo può minimizzare delle divergenze importanti, ma anche esagerare delle divergenze secondarie o inventare delle divergenze là dove non ce ne sono. Utilizza anche gli attacchi personali, la denigrazione e la calunnia.
Il peso morto che viene esercitato sul movimento operaio, da un lato, dal “buon senso comune” di tutti i giorni e, dall’altro, dal rispetto acritico, quasi religioso di certi costumi e tradizioni, è legato a ciò che Lenin ha chiamato lo spirito di circolo. Egli aveva profondamente ragione nella sua lotta contro la sottomissione del processo di costruzione dell’organizzazione e della sua vita politica alla “spontaneità” del buonsenso comune ed alle sue conseguenze: "Ma perché - domanderà il lettore - il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio dell’ideologia borghese? Per la semplice ragione che, per le sue origini, l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione”[18].
La caratteristica della mentalità di circolo è la personalizzazione del dibattito, l’atteggiamento che consiste nel sostituire l’argomentazione politica con la polarizzazione non su ciò che è detto ma su chi lo dice. E’ chiaro che questa personalizzazione costituisce un’enorme ostacolo ad una fruttuosa discussione collettiva.
Già il “Dialogo socratico” aveva compreso che lo sviluppo del dibattito non è solo una questione di pensiero; è una questione etica. Oggi la ricerca del chiarimento serve gli interessi del proletariato mentre il suo sabotaggio lo danneggia. In questo senso, la classe operaia potrebbe adottare lo slogan dell’illuminista tedesco Lessing che affermava che se c’era una cosa che amava più della verità, era la ricerca della verità.
La lotta contro il settarismo e l’impazienza
Gli esempi più chiari di cultura del dibattito in quanto elemento essenziale dei movimenti proletari di massa sono forniti dalla Rivoluzione russa[19]. Il partito di classe, lungi dall’opporsi ad essa, era lui stesso all’avanguardia di questa dinamica. Le discussioni in seno al partito nella Russia del 1917 riguardavano questioni quali la natura di classe della rivoluzione, se occorreva o no sostenere il proseguimento della guerra imperialista, e quando e come prendere il potere. Tuttavia durante tutto questo periodo l’unità del partito fu mantenuta nonostante le crisi politiche nel corso delle quali era in gioco il destino della rivoluzione mondiale e, con esso, quello dell’umanità.
Tuttavia la storia della lotta di classe proletaria, ed in particolare del movimento operaio organizzato, ci insegna che non sempre sono stati raggiunti tali livelli di cultura del dibattito. Abbiamo già menzionato l’intrusione ripetuta di atteggiamenti monolitici nella CCI. Non è sorprendente che ciò abbia dato spesso luogo a scissioni dall’organizzazione. Nella quadro di un atteggiamento monolitico, le divergenze non possono essere risolte attraverso il dibattito e conducono necessariamente alla rottura ed alla separazione. Tuttavia il problema non viene risolto dalla scissione dei militanti che si sono fati portatori di questo atteggiamento in modo caricaturale. La possibilità che tali comportamenti non proletari sorgano e risorgano indica l’esistenza di debolezze più diffuse su questa questione in seno all’organizzazione stessa. Queste consistono spesso in piccole confusioni e false idee appena percettibili nella vita e nella discussione quotidiana, ma che in certe circostanze possono aprire la strada a difficoltà ben più gravi. Una di queste è la tendenza a porre ogni dibattito in termini di confronto tra marxismo ed opportunismo, di lotta polemica contro l’ideologia borghese. Una delle conseguenze di questo comportamento è l’inibizione del dibattito, dando ai compagni l’impressione di non aver più il diritto di sbagliarsi né di esprimere delle confusioni o dei disaccordi. Un’altra conseguenza è la banalizzazione dell’opportunismo. Se lo vediamo dovunque (e gridiamo sempre “Al lupo! Al lupo” appena appare al minima divergenza) probabilmente non lo riconosceremo quando apparirà veramente. Un altro problema è l’impazienza nel dibattito che ha come risultato il non ascoltare gli argomenti degli altri ed una tendenza a volere monopolizzare la discussione, a schiacciare i propri “avversari”, a convincere gli altri “ad ogni costo”[20].
Tutti questi comportamenti hanno in comune il peso dell’impazienza piccolo-borghese, la mancanza di fiducia nella pratica vivente del chiarimento collettivo in seno al proletariato. Esprimono una difficoltà ad accettare che la discussione ed il chiarimento siano un processo. Come tutti i processi fondamentali della vita sociale, questo processo ha un ritmo interno e una sua propria legge di sviluppo. Il suo procedere corrisponde al movimento della confusione verso la chiarezza, comprende errori e falsi orientamenti, così come la loro correzione. Tali processi richiedono del tempo per essere veramente profondi. Possono essere accelerati ma non cortocircuitati. Più larga è la partecipazione, più la partecipazione dell’insieme della classe viene incoraggiata ed accolta favorevolmente, più ricco sarà questo processo.
Nella sua polemica contro Bernstein[21] Rosa Luxemburg ha sottolineato la contraddizione fondamentale della lotta di classe in quanto movimento interno al capitalismo ma che tende verso un scopo che si trova al di fuori di esso. Da questa natura contraddittoria nascono i due principali pericoli che minacciano questo movimento. Il primo è l’opportunismo, che è l’apertura all’influenza fatale della classe nemica. La parola d’ordine di questa deviazione della lotta di classe è: “il movimento è tutto, il fine è niente”. Il secondo principale pericolo è il settarismo, che è la mancanza di apertura verso l’influenza della vita della propria classe, il proletariato. La sua parola d’ordine è: “il fine è tutto, ma il movimento è niente”.
Nella scia della
terribile controrivoluzione che è seguita alla sconfitta della rivoluzione
mondiale, alla fine della prima Guerra mondiale, all’interno di ciò che restava
del movimento rivoluzionario si è sviluppata la falsa e fatale idea che era possibile
combattere l’opportunismo con il settarismo. Questo approccio che ha portato alla
sterilizzazione ed alla fossilizzazione, non riusciva a comprendere che l’opportunismo
ed il settarismo sono due facce della stessa medaglia poiché separano l’uno
dall’altro il movimento e il fine. Senza la piena partecipazione delle
minoranze rivoluzionarie alla vita reale ed al movimento della loro classe, il
fine del comunismo non può essere raggiunto.
[1] Anche dei giovani rivoluzionari tanto maturi e chiari teoricamente come Marx ed Engels pensavano – all’epoca delle convulsioni sociali del 1848 - che il comunismo stava per essere all’ordine del giorno. Una supposizione che hanno dovuto rivedere velocemente ed abbandonare.
[2] Vedi le “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”, Rivista Internazionale n.28.
[3] Concezione teorizzata nel campo proletario dalla corrente “bordighista”.
[4] Le biografie ed i ricordi dei rivoluzionari del passato sono pieni di esempi della loro capacità di discutere e, in particolare, di ascoltare. Su questo piano Lenin aveva una grande reputazione, ma non era il solo. Giusto per fare un esempio citiamo un ricordo di Fritz Sternberg tratto dalle sue “Conversazioni con Trotsky” (redatto nel 1963): “Nelle sue conversazioni con me Trotsky era straordinariamente educato. Non mi interrompeva quasi mai, solamente per chiedermi di spiegare o di sviluppare una parola o un concetto”.
[5] Su questo argomento, vedi gli articoli dei della, “Conferenza straordinaria della CCI: La lotta per la difesa dei principi organizzativi”, Rivista Internazionale n.110 (in inglese, francese e spagnolo); “XV Congresso della CCI: Rafforzare l’organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo” Rivoluzione Internazionale n.131.
[6] Vedi “La fiducia e la solidarietà nella lotta del proletariato” nella Rivista Internazionale n.111 e 112 (in inglese, francese e spagnolo) e “Marxismo ed etica”, CCI on-line 200-2008, 127 e 128.
[7] Vedi i nostri libri “La Sinistra comunista italiana” e “La Sinistra comunista olandese”.
[8] La Sinistra comunista di Francia manterrà questa visione dopo lo scioglimento della Frazione italiana. Vedi ad esempio la critica del concetto di “capo geniale”, ripubblicata nella Rivista Internazionale n.33, e quella della nozione di disciplina che concepisce i militanti dell’organizzazione come semplici esecutori che non hanno da discutere gli orientamenti politici dell’organizzazione, nella Rivista Internazionale n.34 (entrambe in inglese, francese e spagnolo).
[9] Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato
[10] Engels, Ludwig Feuerbach, inizio del 2° capitolo.
[11] Engels, “La dialettica della natura”, capitolo “La ricerca scientifica nel mondo degli spiriti”.
[12] Il Capitale, Libro III, sezione 7, Capitolo 48: “La formula tripartitica” (inizio della 3a parte).
[13] Engels, “La dialettica della natura”, fine del capitolo “La ricerca scientifica nel mondo degli spiriti”.
[14] Sugli sviluppi in Asia negli anni 500 a.c., vedi le Conferenze di August Thalheimer all’università Sun-Yat-Sen di Mosca, 1927: “Einführung in den dialektischen Materiailismus” (Introduzione al materialismo dialettico). Ne è stata pubblicata un’edizione americana nel 1938.
[15] August Bebel: Die Mohamedanisch-Arabische Kulturepoche (1889), Capitolo VI, “Lo sviluppo scientifico, la poesia”. Tradotto dal tedesco da noi.
[16] Il Capitale, Libro I, 4a sezione, capitolo 14: “Divisione del lavoro e manifattura”, 5 “Carattere capitalista della manifattura”.
[17] Anti-Dühring, 3a parte: “Il socialismo”, “Elementi teorici”.
[18] Che fare?, 2a parte “La spontaneità dalle masse e la coscienza della socialdemocrazia”, parte b) “La sottomissione alla spontaneità. Il Rabociaia Mysl”.
[19] Vedi ad esempio il libro di Trotsky, Storia della rivoluzione russa o quello di John Reed, I Dieci giorni che scossero il mondo.
[20] Per un maggiore sviluppo sull’argomento vedi “17° Congresso della CCI: un rafforzamento internazionale del campo proletario”, ICC online, settembre.
[21] Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione
I circoli di discussione si possono comprendere solo nel contesto dello sviluppo storico della coscienza di classe. Essi sono parte integrante dello sforzo del proletariato per sviluppare la sua coscienza di classe cercando di comprendere il significato e le implicazioni delle crisi del capitalismo nel quadro delle posizioni politiche del proletariato.
Nel contesto storico attuale, cioè quello di un caos imperialista ed economico crescente, è importante sottolineare che il processo di sviluppo della coscienza di classe si mostra sempre più difficile, in particolare dopo il crollo del blocco dell’Est nel 1989. Il lavoro dei circoli di discussione è pertanto di grande importanza per il futuro sviluppo della comprensione da parte del proletariato del proprio ruolo storico.
Una tribuna per la discussione e la chiarificazione
Il GDM è sorto all’inizio come Gruppo di Discussione di Leicester (GDL) con elementi che in questa regione avevano discusso ed avevano un contatto di lunga data con la Corrente Comunista Internazionale. Queste discussioni erano state favorite da una serie di questioni che si erano poste sulla guerra del Kosovo. Al fine di dare a queste discussioni una forma più sistematica e fruttuosa, la CCI ha proposto la formazione di un circolo di discussione. Le prime discussioni del GDL sono state su un articolo della CCI che tirava le lezioni politiche da un precedente gruppo di discussione di Zurigo, in Svizzera, negli anni ’90. Questo articolo metteva in evidenza che “un circolo è un raggruppamento di lavoratori, aperto ma non permanente, che si incontrano per discutere e chiarire delle questioni politiche. Questi circoli sono dei luoghi che il proletariato crea al fine di spingere in avanti la sua coscienza, soprattutto nei momenti in cui non esiste alcun partito e alcun Consiglio Operaio … Noi li consideriamo un’espressione concreta della classe. Essi esprimono la coscienza della classe, che dimostra che essa non è pronta a subire la crisi e la bancarotta del capitalismo senza dar prova di resistenza; essi mostrano la volontà di difendersi contro gli attacchi del sistema capitalista. Allo stesso tempo, sono l’espressione di un tentativo di ricercare gli strumenti di lotta e di sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria …” (World Revolution n. 207, “I circoli di discussione nella classe operaia: un fenomeno mondiale”).
Poiché un circolo non è un’organizzazione che si raggruppa intorno ad una piattaforma politica, esso non può essere un’entità permanente o stabile. E’ un momento di chiarificazione politica che permette ai partecipanti, attraverso un processo di discussione collettiva, di ricercare la loro collocazione politica dal punto di vista della classe sfruttata e rispetto alle correnti storiche che già esistono nel campo proletario marxista internazionalista.
Un processo positivo di chiarificazione e di apertura
Un elemento centrale delle discussioni del GDM è stato la determinazione a comprendere meglio le principali questioni teoriche e storiche del movimento operaio e di combinare questo aspetto con la preoccupazione di rifarsi e discutere degli avvenimenti nazionali ed internazionali che man mano avevano luogo. Dopo l’11 settembre del 2001, ad esempio, il circolo ha discusso i volantini ed i comunicati pubblicati dalla CCI e da altri gruppi della Sinistra comunista. In una riunione specifica il gruppo ha considerato questo avvenimento un’espressione dell’aggravamento delle tensioni imperialiste. La preoccupazione di denunciare la guerra imperialista da un punto di vista proletario è stata una grande forza del gruppo. Tutti i partecipanti hanno manifestato con chiarezza la loro opposizione alla guerra nel Kosovo e in Afghanistan ed a tutte le guerre imperialiste.
La presentazione della discussione sulla Comune di Parigi[1] mostra la profondità e la qualità di queste discussioni. Tra le altre cose, il GDM ha discusso del movimento anticapitalista, della Rivoluzione Russa (che il gruppo considera proletaria, benché ci siano dei disaccordi sul ruolo dei bolscevichi e sulle ragioni della sua degenerazione), della coscienza della borghesia focalizzandosi sul ruolo dei partiti della sinistra contro la classe operaia.
Sin dall’inizio, il GDM ha preso come punto di riferimento la Sinistra comunista. Ha invitato dei gruppi della Sinistra comunista a partecipare alle sue riunioni, il che ha permesso ai partecipanti di profittare non solo di una migliore comprensione delle posizioni dei differenti gruppi, ma anche di acquisire un’esperienza nella discussione con organizzazioni politiche del proletariato. La CCI è intervenuta nelle riunioni del gruppo sin dalla sua formazione e la Communist Workers Organisation (CWO) è anch’essa intervenuta più recentemente.
I progressi realizzati attraverso una lotta politica determinata
Il GDM ha pienamente assolto il suo ruolo centrale, quello della chiarificazione. Ma per arrivarci ha dovuto sviluppare un grande dibattito politico. In particolare ha dovuto confrontarsi a delle confusioni sulla propria natura e sul ruolo che doveva giocare.
Il GDM ha iniziato basando il suo lavoro sulle lezioni di altre esperienze della classe operaia, in particolare quella del circolo di discussione di Zurigo. Tuttavia la piena assimilazione di queste esperienze è stata intralciata da alcune confusioni all’interno del gruppo sulla sua relazione con la CCI. Alcuni elementi, che all’inizio vedevano la necessità di un dibattito aperto, hanno iniziato a vedere il GDM come luogo di discussione delle posizioni della CCI.
Questa visione tendeva a considerare il gruppo come una sorta di anticamera della CCI. La CCI ha rigettato con forza questa visione ed ha spesso insistito sulla necessità per il gruppo di discutere la storia del movimento operaio e le posizioni di altre organizzazioni comuniste. La CCI ha sempre difeso la visione secondo la quale i circoli di discussione sono dei luoghi di chiarificazione e non delle appendici, la “proprietà privata” o la “cassa di risonanza” delle organizzazioni politiche proletarie. Questi circoli di discussione devono aggregare chiunque ricerchi la chiarezza. Le sole ragioni che possano giustificare l’esclusione dal dibattito di questo o quell’individuo (o gruppo di individui) concernono quegli atteggiamenti in netto contrasto con i principi basilari di comportamento proletario: manovre di sabotaggio o tentativi di presa di controllo di questi circoli di discussione, così come la delazione.
Elementi provenienti dal gauchismo hanno partecipato alle riunioni del GDM e questo ha permesso un confronto politico con le posizioni dell’ideologia borghese. Lungi dal creare una diversione, queste discussioni hanno portato ad una chiarificazione sulla natura ed il ruolo del gauchismo.
I circoli di discussione, come nel caso del GDM, possono essere molto eterogenei. Ma in questo non c’è niente di dannoso. Cercare di imporre dei criteri alla partecipazione ai circoli di discussione (a parte quelli di comportamento politico citati sopra) significherebbe indebolire la loro forza fondamentale: la loro natura aperta che permette un dibattito contraddittorio. Tali criteri implicherebbero, infatti, un accordo preventivo su delle posizioni politiche (vale a dire un certo livello chi chiarezza), il che significherebbe mettere il carro davanti ai buoi. Ogni tentativo di imporre dei criteri porterebbe a congelare il processo di chiarificazione. L’evoluzione politica di quelli che partecipano alla discussione non può essere che il risultato del confronto tra differenti posizioni. La CCI, da parte sua, ha sempre fatto affidamento sulla capacità di giudizio e sul “buon senso” di tutti quelli che hanno accettato di discutere lealmente con essa, senza ostracismo e senza pregiudizi (compreso quelli che hanno militato nei partiti borghesi).
Tuttavia, se un circolo di discussione non può essere “proprietà” di un’organizzazione, non è neanche un gruppo politico o un’organizzazione propriamente detta[2].
Questo non vuol dire che le organizzazioni politiche proletarie non debbano stimolare la formazione di tali gruppi ed intervenirvi al fine di contribuire al processo di chiarificazione. I principi che animano l’intervento della CCI sono “l’intervento organizzato, unito e centralizzato a livello internazionale, per contribuire al processo che conduce all’azione rivoluzionaria della classe operaia” (Posizioni di base della CCI). E’ compito della CCI e delle altre organizzazioni politiche proletarie prendere la parola all’interno dei circoli di discussione allo scopo di permettere ai partecipanti di conoscere meglio i gruppi storici della Sinistra comunista e di prendere posizione, sviluppando la cultura del dibattito.
Il GDM ha dovuto anche far fronte ad un certo numero di tensioni personali nei suoi ranghi. Tuttavia, in seguito ad una discussione franca, tutti i partecipanti si sono trovati d’accordo sul fatto che gli interessi del gruppo erano prioritari e che era da rigettare la personalizzazione della discussione. Una volta riassorbite queste difficoltà, il gruppo ha potuto prendere il suo slancio ed il dibattito arricchirsi. All’inizio del 2002, il GDM ha tenuto una riunione sull’opposizione proletaria alla guerra imperialista. Questa riunione ha attirato delle persone che non erano mai venute prima, accompagnate dalla CWO e dal Socialist Party of Great Britain (SPGB) (Vedi WR n. 252). La maggior parte di queste persone ha partecipato in seguito alle discussioni del GDM.
Il Gruppo di discussione delle Midlands ha espresso, in Gran Bretagna, lo sforzo maggiore del proletariato per sviluppare la propria coscienza. La dinamica che i partecipanti sono stati capaci di mantenere ha mostrato tutta la vitalità politica di questo gruppo. Tutti gli elementi che lo hanno animato hanno intrapreso un reale processo di chiarificazione politica. Ciò non vuol dire che ciascuno di loro abbia già una coscienza perfettamente chiara della posta in gioco nell’attuale situazione storica. Ma vuol dire che i partecipanti sono più chiari su quello che loro difendono, sul modo in cui vedono il loro futuro politico.
Alcuni elementi del GDM (una ristretta minoranza) hanno chiesto di aderire alla CCI, mentre il gruppo di discussione continua a incontrarsi regolarmente portando avanti una politica di apertura verso altri elementi attraverso delle informazioni sul sito libcom.org e la partecipazione a riunioni di gruppi anarchici. Gli elementi del gruppo vengono anche, regolarmente, alle nostre riunioni a Birmingham. Da parte nostra continuiamo a partecipare alle riunioni del gruppo di discussione.
Da World Revolution n. 258 (ottobre 2002), Organo della CCI in Gran Bretagna.
Nella risoluzione sulle attività della CCI adottata dal congresso si dice:
“L’accelerazione della situazione storica, inedita nella storia del movimento operaio, è caratterizzata dalla congiunzione delle due seguenti dimensioni:
- l’estensione della più grave crisi economica aperta nella storia del capitalismo, combinata con l’acuirsi delle tensioni interimperialiste e con un’avanzata lenta ma progressiva per profondità ed estensione della maturazione all’interno della classe operaia, prodottasi a partire dal 2003;
- e lo sviluppo di un ambiente politico internazionalista, che è particolarmente percettibile nei paesi della periferia del capitalismo.
Questa accelerazione fa risaltare ancor più la responsabilità politica della CCI, ponendole delle esigenze più elevate in termini di analisi teorica/politica e di intervento nella lotta di classe e verso gli elementi in ricerca (…)”.
Il bilancio che possiamo tirare del 18° Congresso internazionale della nostra organizzazione deve dunque basarsi sulla capacità di questa di far fronte a queste responsabilità.
Per una organizzazione comunista genuina e seria, è con una certa delicatezza che ci si può spingere a dire che questa o quella sua iniziativa è stato un successo. E questo per diverse ragioni.
In primo luogo perché la capacità di un’organizzazione che lotta per la rivoluzione comunista di essere all’altezza delle sue responsabilità non si giudica a breve termine ma a lungo termine poiché il suo ruolo, se resta ancorato in permanenza nella realtà storica della sua epoca, consiste, il più delle volte, non tanto nell’influenzare questa realtà immediata, almeno a grande scala, ma a preparare gli avvenimenti futuri.
In secondo luogo perché, per i membri di un’organizzazione, esiste sempre il pericolo di "abbellire le cose", di fare prova di una indulgenza eccessiva di fronte alle debolezze di un collettivo alla vita del quale consacrano la loro devozione e i loro sforzi e che hanno il dovere di difendere in permanenza contro gli attacchi da parte dei vari difensori della società capitalista, palesi o nascosti. La storia è ricca di esempi di militanti convinti e devoti alla causa del comunismo che, per “patriottismo di partito”, non sono stati capaci di identificare le debolezze, le derive, e finanche il tradimento della loro stessa organizzazione. Ancora oggi, tra gli elementi che difendono una prospettiva comunista, si ritrovano alcuni che considerano il loro gruppo, i cui aderenti spesso si possono contare sulle dita di una mano, come il solo “Partito comunista internazionale” intorno al quale si raccoglieranno le masse proletarie un giorno e che, refrattari a qualunque critica o a qualunque dibattito, considerano gli altri gruppi dell’ambiente politico proletario come dei falsari.
E’ con la coscienza del pericolo di farsi delle illusioni e con la prudenza necessaria che ne deriva che noi non abbiamo paura di affermare che il 18° Congresso della CCI si è svolto all’altezza delle esigenze prima esposte ed ha creato le condizioni perché noi possiamo proseguire in questa direzione.
Noi non possiamo riportare in questo articolo tutti gli elementi che possono essere evocati a sostegno di questa affermazione. Ricorderemo pertanto solo i più importanti:
L’integrazione di due nuove sezioni territoriali
La nostra stampa ha già reso conto dell’integrazione delle nuove sezioni della CCI nelle Filippine e in Turchia (la responsabilità del Congresso era di convalidare la decisione di integrazione che era stata adottata dall’organo centrale della nostra organizzazione all’inizio del 2009)[1]. Come scrivevamo in questa occasione: “L’integrazione di queste due nuove sezioni all’interno della nostra organizzazione allarga in maniera significativa la sua estensione geografica.” Vogliamo ancora qui precisare i due seguenti elementi relativi a queste integrazioni:
L’integrazione di due nuove sezioni non è un evento frequente per la nostra organizzazione. L’ultima integrazione risale al 1995 con la sezione in Svizzera. Questo spiega perché l’arrivo di queste due sezioni (che faceva seguito alla costituzione di un nucleo in Brasile nel 2007) è stato avvertito dall’insieme dei militanti della CCI come un avvenimento molto importante e molto positivo. Queste integrazioni confermano ancora l’analisi che la nostra organizzazione aveva fatto da diversi anni a proposito delle nuove potenzialità di sviluppo della coscienza di classe insite nella situazione storica attuale e la validità della politica condotta verso i gruppi e gli elementi che si rivolgono verso le posizioni rivoluzionarie. Ciò tanto più che erano presenti al congresso delegazioni di quattro gruppi dell’ambiente politico internazionalista.
La presenza dei gruppi internazionalisti
Nel bilancio che abbiamo tratto sul precedente congresso della CCI, abbiamo sottolineato tutta l’importanza che aveva dato a questo congresso la presenza, per la prima volta dopo decenni, di quattro gruppi dell’ambiente politico internazionalista provenienti rispettivamente dal Brasile, dalla Corea, dalle Filippine e dalla Turchia. Questa volta erano ugualmente presenti quattro gruppi di questa area. Ma non si tratta affatto di rimanere allo stesso punto poiché mentre due dei gruppi presenti in occasione dello scorso congresso sono successivamente divenuti sezioni della CCI, abbiamo avuto la soddisfazione di accogliere due nuovi gruppi: un secondo gruppo proveniente dalla Corea e un gruppo con basi in America centrale (Nicaragua e Costarica), la LECO (Liga por la Emancipación de la Clase Obrera) che aveva partecipato all’“Incontro di comunisti internazionalisti”[2] tenuto in America latina nella scorsa primavera per iniziativa della CCI e di OPOP, il gruppo internazionalista del Brasile con il quale la nostra organizzazione intrattiene dei rapporti fraterni e molto positivi da diversi anni. Questo gruppo era esso stesso di nuovo presente al nostro congresso. Altri gruppi che avevano partecipato a questo incontro erano stati ugualmente invitati al congresso, ma essi non hanno potuto inviare una delegazione per il fatto che l’Europa si trasforma sempre più in una fortezza per delle persone che non sono nate nel cerchio ristretto dei “paesi ricchi”.
La presenza dei gruppi dell’ambiente internazionalista ha costituito un elemento molto importante per il successo del congresso e particolarmente per il clima delle sue discussioni. Questi compagni si sono mostrati tutti molto calorosi verso i militanti della nostra organizzazione, hanno sollevato delle questioni, particolarmente a proposito della crisi economica e della lotta di classe, in una maniera a cui non siamo abituati nei nostri dibattiti interni cosa che non poteva non stimolare la riflessione dell’insieme della nostra organizzazione.
Infine, la presenza di questi compagni costituiva un elemento supplementare della dinamica di apertura che la CCI si è fissata come obiettivo da diversi anni, una apertura verso gli altri gruppi proletari ma anche verso gli elementi che si avvicinano alle posizioni comuniste. In particolare, di fronte a delle persone esterne alla nostra organizzazione, diventa molto difficile cadere nell’errore, evocato prima, di “raccontarsi delle storie” o di raccontarle agli altri. Un’apertura ugualmente nelle nostre preoccupazioni e riflessioni, particolarmente in direzione delle ricerche e delle scoperte in campo scientifico[3] e che si è concretizzato con l’invito di un membro della comunità scientifica ad una sessione del congresso.
L’invito di uno scienziato
Per celebrare a modo nostro “l’anno di Darwin” e manifestare lo sviluppo all’interno della nostra organizzazione dell’interesse per le questioni scientifiche, abbiamo chiesto ad un ricercatore specialista nel settore dell’evoluzione del linguaggio (autore in particolare di un’opera intitolata "Aux origines du langage") di fare una presentazione di fronte al congresso dei suoi lavori che sono basati, ovviamente, sull’approccio darwiniano. Le riflessioni originali di Jean-Louis Dessalles[4] sul linguaggio, il suo ruolo nello sviluppo dei legami sociali e della solidarietà nella specie umana hanno un legame con le riflessioni e discussioni che ci sono state, e che continuano a svilupparsi, nella nostra organizzazione a proposito dell’etica e della cultura del dibattito. La presentazione di questo ricercatore è stata seguita da un dibattito che siamo stati costretti a limitare nel tempo per poter rispettare l’ordine del giorno del congresso, ma che avrebbe potuto proseguire ancora per delle ore tanto le questioni abbordate hanno appassionato la maggior parte dei partecipanti al congresso.
Noi vogliamo qui ringraziare Jean-Louis Dessalles che, pur non condividendo le nostre idee politiche, ha accettato in maniera molto cordiale di consacrare una parte del suo tempo per arricchire la riflessione della nostra organizzazione. Noi teniamo a salutare ugualmente il carattere molto caloroso e conviviale delle risposte che lui ha dato alle questioni e obiezioni dei militanti della CCI.
La discussione sulla situazione internazionale
I lavori del congresso hanno abbordato i punti classici di un congresso internazionale:
La risoluzione sulla situazione internazionale, che è pubblicata nella Revue Internationale n°138, costituisce una sorta di sintesi delle discussioni del congresso relative all’esame del mondo attuale. Evidentemente questa non può rendere conto di tutti gli aspetti abbordati in queste discussioni (né nei rapporti preparatori). Essa si dà viceversa tre obiettivi principali:
Sul primo aspetto, la comprensione della posta in gioco della crisi attuale del capitalismo, è importante sottolineare i seguenti aspetti:
“… quella attuale è la più grave crisi che abbia conosciuto questo sistema dopo la grande depressione iniziata nel 1929. (…) non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria illustra bene come la fuga in avanti nell’indebitamento, che aveva permesso di superare la sovrapproduzione, non può proseguire all’infinito. (…) Di fatto, anche se il sistema capitalista non crollerà come un castello di carte … la sua prospettiva resta quella di uno sprofondamento crescente nella sua impasse storica, quella di un ritorno ad un livello sempre più vasto di convulsioni.”
Naturalmente il congresso non ha potuto apportare delle risposte definitive a tutte le questioni che solleva la crisi attuale del capitalismo. Da una parte perché ogni giorno che passa comporta nuovi elementi di questa crisi che obbligano i rivoluzionari ad apportare un’attenzione particolare e permanente all’evoluzione della situazione e a proseguire la discussione a partire da questi nuovi elementi. D’altra parte perché la nostra organizzazione non è omogenea su un certo numero di aspetti dell’analisi della crisi del capitalismo. Il che, a nostro avviso, non è affatto una prova di debolezza della CCI. Di fatto, in tutta la storia del movimento operaio, si sono susseguiti dibattiti sulla crisi del sistema capitalista nel quadro del marxismo. La CCI ha anche cominciato a pubblicare alcuni aspetti dei suoi dibattiti interni su questo tema[5] nella misura in cui questi dibattiti non sono una “proprietà privata” della nostra organizzazione ma appartengono all’insieme della classe operaia. Ed è determinata a proseguire nella stessa direzione. D’altra parte, la risoluzione sulle prospettive di attività della nostra organizzazione adottata dal congresso richiede esplicitamente che si sviluppino dibattiti su altri aspetti dell’analisi della crisi attuale in modo che la CCI possa essere armata al meglio per apportare delle risposte chiare alle questioni che questa pone alla classe operaia e agli elementi che sono determinati a ingaggiarsi nella sua lotta per il rovesciamento del capitalismo.
Rispetto alla “novità” dell’elezione di Obama, la risoluzione risponde in maniera molto chiara:
“ … la prospettiva che si presenta al pianeta dopo l’elezione di Obama alla testa della prima potenza mondiale non è fondamentalmente diversa dalla situazione che era prevalsa finora: continuazione degli scontri tra potenze di primo e secondo rango e della barbarie di guerra con conseguenze sempre più tragiche (fame, epidemie, esodi di massa) per le popolazioni abitanti le zone di guerra.”
Infine, per quanto riguarda la prospettiva della lotta di classe, la risoluzione, coerentemente con il dibattito congressuale, cerca di valutare l’impatto su di essa del grave peggioramento della crisi capitalista:
“Il grave peggioramento che conosce attualmente la crisi del capitalismo costituisce evidentemente un elemento di prim’ordine nello sviluppo delle lotte operaie. (…) Così le condizioni maturano in modo che l’idea della necessità di rovesciare questo sistema possa svilupparsi in maniera significativa all’interno del proletariato. Tuttavia non basta alla classe operaia di percepire che il sistema capitalista è in una impasse, che dovrebbe cedere il posto ad un’altra società, per potersi dirigere verso una prospettiva rivoluzionaria. Occorre ancora che abbia la convinzione che una tale prospettiva sia possibile e che abbia la forza di realizzarla. (…) Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo all’interno della classe operaia, è necessario che questa possa prendere fiducia nelle sue proprie forze attraverso lo sviluppo di lotte massive. L’enorme attacco che essa subisce da adesso a livello internazionale dovrebbe costituire la base oggettiva di queste lotte. Tuttavia, la forma principale che prende oggi questo attacco, quello dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergere di tali movimenti. (…) E’ per questo che se, nel prossimo periodo, non si assiste ad una risposta energica da parte della classe operaia agli attacchi, non si deve pensare che questa ha rinunciato a lottare per la difesa dei suoi interessi. E’ in un secondo tempo (…) che delle lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.”
Le discussioni sulle attività e sulla vita della CCI
Uno dei rapporti del congresso era destinato a fare il punto sulle principali posizioni sviluppate nelle discussioni in corso nella CCI. Uno spazio importante è stato dedicato, nel corso degli ultimi due anni, alla questione economica, di cui abbiamo già evocato in questo articolo le divergenze che si sono prodotte.
Un altro punto nodale delle nostre discussioni è stata la questione della natura umana, che ha dato luogo ad un dibattito animato, sostenuto da contributi numerosi e ricchi. Questo dibattito, che è ben lungi dall’essere esaurito, è espressione di una convergenza complessiva tra i testi di orientamento pubblicati nella Revue Internationale su: La fiducia e la solidarietà nella lotta del proletariato (n°111), Marxismo ed etica (n°127) o La cultura del dibattito, un’arma della lotta di classe (n°131), con ancora numerosi interrogativi o riserve posti su tale o tal altro aspetto. Dal momento in cui questi contributi saranno sufficientemente elaborati per una pubblicazione all’esterno, la CCI, conformemente alla tradizione del movimento operaio, non mancherà di procedere in tal senso. Segnaliamo infine l’espressione recente di un disaccordo profondo con i tre testi citati precedentemente (“recente” relativamente alla pubblicazione già vecchia di alcuni di questi testi) considerati come non marxisti da parte di un compagno della sezione del Belgio-Olanda che ha recentemente abbandonato l’organizzazione (vedi dopo).
Riguardo alle attività e alla vita della CCI, il congresso ha tirato un bilancio positivo di queste per il periodo precedente, anche se sussistono delle debolezze da superare:
“Il bilancio delle attività dei due ultimi anni mostra la vitalità politica della CCI, la sua capacità ad essere in fase con la situazione storica, ad aprirsi, a essere fattore attivo nello sviluppo della coscienza di classe, con la volontà di impegnarsi in iniziative di lavoro comune con altre forze rivoluzionarie. (…) Sul piano della vita interna dell’organizzazione il bilancio delle attività è ugualmente positivo, malgrado che delle difficoltà reali sussistano in primo piano a livello del tessuto organizzativo e, in misura minore, sul piano della centralizzazione.” (Risoluzione sulle attività della CCI).
Effettivamente il congresso ha consacrato una parte dei suoi dibattiti per esaminare le debolezze organizzative che sussistono all’interno della CCI. Di fatto, tali debolezze non sono una specificità della CCI perché gravano su tutte le organizzazioni del movimento operaio sottomesse come sono in permanenza al peso dell’ideologia borghese. La vera forza di queste organizzazioni è stata sempre la loro capacità – come fu particolarmente il caso del partito bolscevico – di affrontarle con lucidità in modo da poterle combattere. E’ questo lo spirito con cui il nostro congresso ha affrontato questa questione.
Uno dei punti discussi è stato quello delle debolezze che hanno toccato la nostra sezione in Belgio-Olanda da cui un piccolo numero di militanti si sono dimessi recentemente, in particolare in seguito alle accuse sviluppate dal compagno M. A partire da un certo tempo questo compagno aveva accusato la nostra organizzazione, e particolarmente la commissione permanente del suo organo centrale, di girare le spalle alla cultura del dibattito di cui il precedente congresso aveva largamente discusso[6] considerandola come una necessità per la capacità delle organizzazioni rivoluzionarie di portarsi all’altezza delle loro responsabilità. Il compagno M., che difendeva una posizione minoritaria sull’analisi della crisi capitalistica, si riteneva vittima di “ostracismo” e considerava che le sue posizioni fossero “discreditate” in maniera deliberata in modo che la CCI non ne discutesse. Di fronte a queste accuse, l’organo centrale della CCI ha deciso di costituire una commissione speciale i cui tre membri sono stati designati dallo stesso compagno M. e che, dopo parecchi mesi di lavoro, di incontri e di esame di centinaia di pagine di documenti, è arrivata alla conclusione che queste accuse non avevano alcun fondamento. Il congresso non ha potuto che rammaricarsi del fatto che il compagno M. così come alcuni dei compagni che l’hanno seguito non avevano neanche atteso le conclusioni cui era giunta questa commissione per decidere di lasciare la CCI.
Di fatto, il congresso ha potuto constatare, particolarmente nella discussione che ha condotto sui dibattiti interni, che esiste oggi all’interno della nostra organizzazione una vera preoccupazione per fare progredire la sua cultura del dibattito. E non sono soltanto i militanti della CCI che l’hanno potuto constatare: i delegati delle organizzazioni invitate hanno tirato le stesse conclusioni sui lavori del congresso:
“La cultura del dibattito della CCI, dei compagni della CCI, è veramente impressionante. Quando tornerò in Corea, voglio condividere questa esperienza con i miei compagni” (uno dei gruppi venuti dalla Corea).
“[Il congresso] è una buona occasione per chiarire le mie posizioni; in tante discussioni ho incontrato una reale cultura del dibattito. Penso che devo darmi da fare per sviluppare i rapporti tra [il mio gruppo] e la CCI ed io ho l’intenzione di farlo. Io spero che potremo lavorare assieme per realizzare un giorno una società comunista.” (l’altro gruppo di Corea).[7]
La CCI non pratica la cultura del dibattito una volta ogni due anni in occasione del suo congresso internazionale ma, come testimoniato dall’intervento della delegazione di OPOP nella discussione sulla crisi economica, questa fa parte della relazione continua tra le due nostre organizzazioni. Questa relazione è capace di rafforzarsi malgrado la presenza di divergenze su diverse questioni, tra cui la crisi economica: “A nome di OPOP voglio salutare l’importanza di questo congresso. Per OPOP, la CCI è un’organizzazione-sorella, così come erano fratelli il partito di Lenin e quello di Rosa Luxemburg. Vale a dire che c’era tra di loro, nonostante le divergenze, tutta una serie di punti di vista, di opinioni e anche di concezioni teoriche, ma soprattutto una unità programmatica relativa alla necessità del rovesciamento rivoluzionario della borghesia e dell’instaurazione della dittatura del proletariato, dell’espropriazione immediata della borghesia e del capitale.”
L’altra difficoltà rilevata nella risoluzione di attività riguarda la questione della centralizzazione. E’ proprio per superare queste difficoltà che il congresso aveva ugualmente messo all’ordine del giorno la discussione di un testo più generale riguardante la questione della centralizzazione. Questa discussione, se è stata utile per riaffermare e precisare le concezioni comuniste su questa questione nei confronti della “vecchia guardia” della nostra organizzazione, si è rivelata particolarmente importante per i nuovi compagni e le nuove sezioni che si sono recentemente integrati nella CCI.
In effetti, uno dei tratti significativi del 18° congresso della CCI era la presenza, che tutti gli “anziani” hanno constatato con una certa sorpresa, di un numero elevato di “facce nuove” tra cui la giovane generazione era particolarmente rappresentata.
L’entusiasmo per il futuro
Questa presenza importante di giovani partecipanti al congresso è stata un fattore importante di dinamismo e di entusiasmo che ha impregnato i suoi lavori. Contrariamente ai mezzi di comunicazione borghesi, la CCI non coltiva un atteggiamento ostile ai giovani; al contrario, l’arrivo di una nuova generazione di militanti all’interno della nostra organizzazione – cosa che appartiene anche agli altri gruppi partecipanti al congresso se si giudica dalla giovinezza della gran parte dei delegati di questi – è della più grande importanza per la prospettiva della rivoluzione proletaria. Da una parte, come per gli iceberg, questa nuova generazione costituisce la “parte emergente” di un processo di presa di coscienza in profondità all’interno della classe operaia mondiale. Dall’altra, essa crea le condizioni di un ricambio delle forze comuniste. Come viene riportato nella risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal congresso “il cammino che conduce ai combattimenti rivoluzionari e al rovesciamento del capitalismo è ancora lungo e difficile (…) ma ciò non può in alcun modo essere motivo di scoraggiamento per i rivoluzionari, di paralisi del loro ingaggiamento nella lotta proletaria. Tutto al contrario!” Anche se i “vecchi” militanti della CCI conservano tutta la loro convinzione e il loro impegno, tocca a questa nuova generazione il compito di fornire un contributo decisivo alle future lotte rivoluzionarie del proletariato. E, già da oggi, lo spirito fraterno, la volontà di raccogliersi, così come di scardinare le trappole tese dalla borghesia, il senso di responsabilità, tutte queste qualità ampiamente condivise dagli elementi di questa nuova generazione presenti al congresso – militanti della CCI o dei gruppi invitati – sono un augurio concreto della capacità di questa di portarsi all’altezza delle sue responsabilità. E’ appunto questo ciò che esprimeva, tra l’altro, l’intervento del giovane delegato della LECO a proposito dell’incontro internazionalista che si è tenuto in America latina nella primavera scorsa: “Il dibattito che noi cominciamo a sviluppare raccoglie dei gruppi, degli individui che cercano un’unità su delle basi proletarie e necessita degli spazi di dibattito internazionalista, necessita di questo contatto con i delegati della Sinistra comunista. La radicalizzazione della gioventù e delle minoranze in America latina, in Asia, permetteranno che questo polo di riferimento sia identificato da ancora altri gruppi che si accrescono numericamente e politicamente. Ciò ci dà le armi per intervenire, per far fronte alle false proposte del gauchisme, il “socialismo del XXI secolo”, il sandinismo, etc. …. La posizione ottenuta nell’Incontro latino è già un’arma proletaria. Io saluto gli interventi dei compagni che esprimono un vero internazionalismo, una preoccupazione per questa avanzata politica e numerica della Sinistra comunista a livello mondiale.”
CCI (12 luglio 2009)
[1] Vedi “Saluto alle nuove sezioni della CCI nelle Filippine e in Turchia!” su Rivoluzione Internazionale n°159.
[2] A proposito di questo incontro, vedi il nostro articolo “Un incontro tra comunisti internazionalisti in America latina” su Rivoluzione Internazionale n°161.
[3] Come l’abbiamo già mostrato attraverso i diversi articoli che abbiamo pubblicato recentemente su Darwin e il darwinismo.
[4] Il lettore che volesse farsi un’idea di queste riflessioni può fare riferimento al sito di J-L Dessales.
[5] Vedi in particolare nella Revue Internationale n° 138 l’articolo di discussione: En défense de la thèse 'Le Capitalisme d'Etat keynésiano-fordiste' [70].
[6] Vedi a questo proposito: “XVII congresso della CCI: un rafforzamento internazionale del campo proletario” in Rivista Internazionale n°29 e il nostro testo di orientamento: “La cultura del dibattito: un’arma della lotta di classe”.
[7] Questa impressione sulla qualità della cultura del dibattito che si è manifestata nel congresso è stata rilevata ugualmente dallo scienziato che abbiamo invitato. Egli ci ha inviato il seguente messaggio: “Grazie ancora per l’eccellente interazione che ho avuto con la Marx-comunità. Ho trascorso veramente un bellissimo momento.”
Questo piccolo momento nella lotta di classe per gli insegnanti di New York si è presentato nel contesto della stessa questione cui sono confrontati centinaia di migliaia di altri lavoratori: la minaccia del posto di lavoro. Come al solito, la Federazione Unita degli Insegnanti (UFT), il sindacato degli insegnanti, stava cercando di usare il criterio dell’anzianità come parte integrante del contratto per dividere gli insegnanti in due categorie, mettendoli uno contro l'altro nel corso di una riunione alla High School a Brooklyn. La UFT ha sempre seminato la bugia che queste “regole di anzianità” diano agli insegnanti anziani una maggiore protezione sul lavoro. In realtà, queste regole hanno lo scopo di scoraggiare i lavoratori anziani dall'ingaggiare una lotta unificata generando l'illusione che saranno risparmiati dagli attacchi o saranno meno toccati e quindi isolando gli insegnanti giovani dai loro fratelli e sorelle con più esperienza di lotta di classe per creare sfiducia tra di loro. Con questa tattica di dividere per dominare l’UFT è stata un’arma fedele del tentativo della classe dominante nel rompere la solidarietà tra i lavoratori.
Man mano che la crisi economica generalizzata si sviluppa, si apre la prospettiva per gli operai di capire la bancarotta totale del capitalismo. Gli insegnanti, come tutti gli altri lavoratori, cominciano a vedere che nessuno è risparmiato e che l’unico percorso da seguire è quello che porta all’unificazione delle lotte per meglio affrontare il nemico comune. In breve, si solleva la questione della solidarietà. Quindi alla riunione recente di cui parliamo il tentativo dell’UFT è stato quello di ‘rassicurare’ gli insegnanti anziani che sarebbero stati i lavoratori assunti di recente i primi ad essere licenziati. Questo tentativo è stato denunciato e rigettato apertamente. C’è stata una riaffermazione forte e chiara della necessità della solidarietà espressa da un insegnante intervenuto per dire “un danno ad uno è un danno a tutti” e poi ha spiegato che la solidarietà non era solo un legame di famiglia o amicizia, che i nuovi assunti possono essere le sorelle minori, nipoti o il figlio del vicino, e che la solidarietà era l’unico modo di difendere tutti dagli attacchi comuni. Chi è intervenuto ha anche detto che le condizioni di lavoro e di vita continuerebbero a deteriorarsi anche per quelli che restano al lavoro perché gli attacchi poi sarebbero stati applicati più facilmente, essendosi rotto lo spirito di solidarietà.
Questi commenti sono stati ricevuti con applausi e consensi da parte degli altri lavoratori giovani e vecchi mostrando chiaramente che ciò che ha detto questo operaio esprimeva i sentimenti di molti altri. La necessità della solidarietà era espressa di nuovo ad un’altra riunione dove i lavoratori giovani neo-assunti erano invitati esplicitamente a partecipare e dire la loro. Chiaramente l’UFT non è rimasto con le mani in mano. Avendo capito l’importanza di ciò che era stato detto, il sindacato ha già cercato di occupare questo terreno dove la coscienza di classe ha un forte potenziale di sviluppo, convocando riunioni in cui invitava gli insegnanti a dare suggerimenti per l’ordine del giorno da discutere! Mai sentito prima! È chiaro che l’UFT cercherà di far sfumare la rabbia e lo scontento dei lavoratori e dirottare la direzione su questioni meno importanti nel tentativo di annegare la combattività e la coscienza degli insegnanti che si sta sviluppando. Come tutti gli altri sindacati l’UFT sarà obbligato a fare la parte del protagonista man mano che la classe si avvicinerà ad una vera solidarietà dentro i suoi ranghi e tra le differenti categorie. Il raduno chiamato per il 5 marzo dall’UFT, dal DC 37, 1199 e una miriade di altri sindacati, mostra come questo apparato dello stato borghese si mobilizza velocemente quando gli operai mostrano che sono disposti a lottare. Il raduno ha attirato circa 70.000 lavoratori secondo l’UFT. Questo mostra chiaramente come i lavoratori delle diverse categorie sono profondamente preoccupati della situazione attuale con ciò che significa per il loro futuro. Al raduno questi lavoratori di differenti categorie non potevano discutere tra di loro e niente è stato fatto per assicurare che le discussioni potessero avvenire o continuare in futuro. Chiaramente i sindacati faranno di tutto per appropriarsi di qualsiasi tentativo dei lavoratori per autorganizzarsi ed estendere la solidarietà.
Gli insegnanti sentono gli stessi bisogni degli altri lavoratori ed esigono una partecipazione più larga alle riunioni, vogliono incontrarsi e discutere. Si comincia a capire che è solo prendendo la situazione nelle proprie mani, nell’estendere la lotta e nell’unirla tramite la solidarietà che può esprimersi una riflessione profonda sul destino dell’umanità. E che le prime risposte alle domande essenziali su quale futuro il capitalismo ci può offrire e che cosa dobbiamo fare in risposta possono essere già date. Alle prossime riunioni gli insegnanti come tutti gli altri lavoratori a livello internazionale devono continuare a sollevare la necessità di discutere nel modo più largo possibile nelle assemblee generali e la necessità di rafforzare ed estendere la solidarietà, unificare le lotte attraverso generazioni, etnie e qualsiasi altra divisione artificiale che la classe dominante e i suoi sindacati cerca di metter come un ostacolo all’unità.
Non vogliamo esagerare il significato di questo modesto sviluppo ma comunque è importante capire che non è un avvenimento isolato e che è una dimostrazione di una tendenza generale internazionale verso lo sviluppo della coscienza ed il rafforzamento della risposta della classe operaia alla crisi economica. Dalla lotta degli studenti e operai francesi nel 2006 allo sciopero degli operai della SEAT in Spagna nello stesso anno, agli scioperi selvaggi degli operai del settore automobilistico tedesco e recentemente degli studenti in Italia, Francia, Germania e Spagna, alle proteste massicce degli studenti e degli operai greci contro l’ondata di attacchi senza precedenti sulle condizioni di vita e di lavoro, negli ultimi 3 anni la classe operaia europea ha mostrato una capacità tremenda di esprimere e dirigere la sua combattività e rabbia contro il crescente impoverimento che soffre a causa del peggioramento della crisi del capitalismo. La classe operaia ha iniziato a dire no alla violenza senza precedenti degli attacchi che la classe dominante è obbligata a dirigere contro i lavoratori come risultato della crisi del suo sistema. Negli Usa, nello sciopero del settore dei trasporti del 2005, e più recentemente nell’occupazione di una fabbrica di Chicago nel dicembre 2008, vediamo l’eco di questa tendenza globale. In questo senso i lavoratori di New York sono completamente parte della ripresa della combattività e solidarietà di classe che abbiamo visto negli ultimi 3 o 4 anni a livello internazionale.
Ana, 29 marzo 2009
Confrontata alla crisi la borghesia ha avvertito la necessità di usare una nuova immagine, che in realtà non è affatto nuova, per cercare di nascondere la responsabilità di tutto il sistema capitalista in decadenza nel portare l’umanità verso la barbarie, ed oscurare il vero significato della crisi economica mondiale scaricando la colpa su di una data frazione della borghesia. I media, d’altro canto, stanno usando a pieno la crescita delle frazioni della borghesia che vengono dalla “sinistra”, in questa parte del mondo, per farle apparire come un’alternativa possibile. Come se la crisi fosse dovuta ad un “neo-liberalismo”, o se l’attuazione di nuove forme del modello di stato capitalista potesse risolvere un problema così profondo che ha le sue radici nel capitalismo stesso, quale che sia la forma che assume. Chiamarlo “neo” non cambia il fatto che si tratta del solito vecchio liberalismo che si trova confrontato all’intensificazione delle maggiori contraddizioni di una società divisa in classi. Questi governi di sinistra sono armi della borghesia internazionale per sedare le masse, allontanandole dalla lotta autonoma per una vera rivoluzione sociale. Questa sinistra non è nient’altro che la sinistra del capitale, è la nuova garrotta per reprimere i lavoratori che mettono in discussione l’oppressione di classe e cercano la solidarietà internazionale.
Questi modelli di capitalismo basati sulla pianificazione statale dell’economia, sull’intervento dello Stato per salvare gli interessi dell’economia, sulla nazionalizzazione dello sfruttamento, sono solo varianti del capitalismo, e gli Stati capitalisti sono anche più oppressivi dei capitalisti privati. Abbiamo già conosciuto ad esempio il “New Deal”, l’URSS di Stalin, il fascismo e il nazismo, ecc., tutti modelli che hanno assicurato gli interessi della borghesia difendendo i rapporti capitalistici di classe: Chavez, Lula, Morales, e compagni non fanno niente di diverso.
Mentre in Europa la sinistra è stata integrata nei governi da decenni al fine di facilitare il suo dominio sui lavoratori, questo processo è relativamente nuovo per l’America latina. E le borghesie più vecchie del pianeta, mettendo avanti l’idea di un “Nuovo Sud America”, stanno cercando di rivitalizzare la loro retorica sulla possibilità di rendere più “umano” il capitalismo con l’obbiettivo di creare fiducia nella lotta nazionale, nella “riforma” del capitalismo e nella pratica elettorale. Più in generale, stanno cercano di rinverdire la falsa idea che gli interessi del proletariato sono gli stessi di quelli della borghesia.
Il solo interesse della borghesia è continuare a vivere sfruttando il lavoro della classe operaia, mentre quello della classe operaia è liberarsi dal giogo del capitale, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sia che si chiami “Socialismo del XXI secolo” o in altro modo. Il vero socialismo è possibile solo attraverso un processo rivoluzionario internazionale, un processo nel quale i lavoratori devono far uso della propria forza ed unità, della propria indipendenza dalle organizzazioni borghesi, e della violenza rivoluzionaria.
“Il Sud America si è trasformato nella regione più progressista del mondo. Dove sono in atto molti cambiamenti in favore delle classi popolari e dove si stanno attuando molte riforme strutturali allo scopo di liberarsi dalla dipendenza e dal sottosviluppo”. Questa citazione dell’articolo di Le Monde riflette esattamente la retorica di cui il capitale ha bisogno per continuare il suo sfruttamento, per creare la falsa aspettativa che il capitalismo possa in qualche modo migliorare la vita dei lavoratori. Questa retorica è condivisa dall’insieme della sinistra del capitale, che appoggia i governi di Chavez e compagni, anche se in modo “critico” come fanno i trozkisti. Tutto ciò pugnala i lavoratori alle spalle e tende a confondere la classe per dividerla al suo interno. Hanno bisogno di usare questa apparente retorica rivoluzionaria socialista o comunista, per sradicare la classe sfruttata da ogni speranza di poter avanzare verso una vera società comunista. Una società che invece potrà formarsi solo scontrandosi con tutti i nemici del proletariato, tutta la borghesia internazionale, compreso Chavez e la sua ideologia. E per questo è necessario che il proletariato prenda coscienza della necessità di rompere con la falsità e le lusinghe dei parlamenti, con le lotte nazionali, al fine di armarsi contro le trappole che il capitalismo ergerà per sabotare il processo rivoluzionario internazionale, che è la sola risposta alla crisi del capitale, alla guerra e alla povertà.
Juan K. 19/4/09
1. FMLN (Farabundo Marti para la Liberacion Nacional), Fronte di Liberazione Nazionale del Salvador
L’assalto al palco e la defenestrazione di Rinaldini ha costituito infatti l’occasione per cominciare a gridare al pericolo del terrorismo, o per parlare di scontri fra lavoratori. Se la prima mistificazione è stata portata avanti principalmente dalle forze politiche di destra, che da sempre impostano la loro politica sociale sulla negazione della possibilità dell’esistenza di una lotta di classe e sul rigetto di qualsiasi opposizione di piazza (immediatamente condannata come teppismo o, appunto, presagio di un ritorno del terrorismo), la seconda è toccata soprattutto a quelle di sinistra, che hanno invece il compito di deviare e mistificare le lotte.
Significativa è l’intervista a Rinaldini fatta sul giornale Repubblica (che si vuole la voce critica di tutta la sinistra): dopo che nell’articolo di cronaca si dichiarava che uno degli assaltatori era Corrado Delle Donne (leader dei Cobas dell’Alfa di Milano)[1], l’intervistatore fa a Rinaldini la seguente domanda: “ Se questo è il clima all’inizio di una vertenza difficile, come riuscirete a tenere uniti i diversi stabilimenti italiani?” Al che Rinaldini prende al volo la palla e rilancia: “Sappiamo che non è facile. Non è la prima volta che ci troviamo in una situazione del genere. Nel periodo 2002-2004, durante la crisi più grave della FIAT, rischiavamo di contrapporre Mirafiori e Termini (…) Siamo riusciti a evitare allora la guerra tra i territori e penso che riusciremo anche oggi.” Che faccia tosta! Se c’è qualcuno che non si preoccupa affatto di evitare le divisioni, che al contrario li favorisce e li crea, è proprio il sindacato. I casi sono tanti, ma ci limitiamo a ricordare cosa sta succedendo da diversi mesi a questa parte, con CISL e UIL a cercare di convincere i lavoratori che è realista accettare le briciole che governo e padroni vogliono concedere, e la CGIL che fa invece “l’estremista”, non firma gli accordi, ma si guarda bene dal lanciare un appello a una mobilitazione generale, unitaria di tutti i lavoratori, a prescindere dalla tessera che hanno in tasca[2]. E d’altra parte il motivo dell’assalto a Rinaldini ha le sue origini proprio in un episodio di emarginazione e di divisione portato avanti dall’azienda con il consenso dei sindacati confederali: si tratta della decisione della FIAT, di poco più di un anno fa, di trasferire trecento lavoratori dall’Alfa di Pomigliano in un piccolo centro produttivo a Nola, trasferimento che non aveva nessuna motivazione produttiva, ma quella politica di rinchiudere in un ghetto un certo numero di lavoratori tra quelli più combattivi. Una rappresaglia politica in perfetto stile FIAT, ma che i sindacati confederali avallarono, nonostante gli spontanei scioperi di solidarietà fatti dagli operai di Pomigliano.
Perciò noi vogliamo dire con chiarezza che non esprimiamo nessuna solidarietà a chi la solidarietà fra i lavoratori la sabota tutti i giorni attraverso la propria politica di divisione, e lasciamo volentieri che questa solidarietà venga invece offerta dai vari commentatori politici, di destra e di sinistra, degni compagni di Rinaldini.
Una volta denunciato il tentativo borghese di utilizzare un episodio isolato contro i lavoratori, allo scopo di intimidirli (contestazione alla politica sindacale = terrorismo) o di dividerli, vogliamo subito aggiungere che non ci sentiamo di esprimere la nostra solidarietà nemmeno ai COBAS autori della contestazione. Infatti questi, seguendo la logica connaturata alla struttura del sindacato, hanno portato avanti un’azione isolata e minoritaria per guadagnarsi la propria manciata di popolarità tra alcuni lavoratori in una situazione in cui invece andava chiarito che l’unità raggiunta in quella manifestazione non poteva portare a nessuna parte se essa veniva concepita come unità contro i lavoratori degli altri paesi, e che invece solo la ricerca della solidarietà tra tutti i settori, di tutti i paesi, può arrivare a creare un rapporto di forza capace di frenare gli attacchi del capitale. Ma in realtà i cosiddetti COBAS, nella loro logica di sindacatino combattivo, non arriveranno mai a capirlo, presi anche loro dalla logica della difesa della propria sigla, dalla volontà di ricondurre sotto il proprio cappello la volontà di lotta che comincia a farsi strada anche tra i lavoratori italiani.
Questo è il motivo per cui le prossime lotte che si prospettano non potranno fare a meno di misurarsi con le mistificazioni del sindacato, piccolo o grande che sia.
18 maggio 2009 Helios
[1] Giusto en passant vale la pena di segnalare che si tratta qui di una vera è propria spiata da parte di un giornale sempre così attento alle parole quando si tratta di commentare le azioni, anche in odore di reato, dei vari politici di destra come di sinistra.
[2] Se ce l’hanno. Infatti tra i lavoratori attivi, in Italia come in tutti i paesi occidentali, gli iscritti al sindacato sono solo una minoranza, ma nonostante questo i sindacati si arrogano il diritto di decidere per tutti e di condannare come estremisti quei lavoratori che contestano le loro decisioni.
“Perché abbiamo pensato a un volantino? Chi vogliamo raggiungere, e perché? Vogliamo spiegare a tutti quello che abbiamo capito, quello che noi “riteniamo giusto”, vogliamo, più semplicemente, comunicare, a quante più persone possibile, che ci siamo riuniti il 25 aprile (invece di andare al mare o di partecipare a qualche manifestazione “commemorativa”, vivendoci da soli la nostra “depressione”); e che in questa riunione, a livelli diversi fra di noi, abbiamo cominciato a “chiarirci”, a “discutere” in maniera diversa su cose che stanno profondamente angosciando e “condizionando” la nostra esistenza. Vogliamo raggiungere le tante persone che, forse, come noi sentono la necessità di “chiarirsi” e di non “sentirsi soli” di fronte ad attacchi sempre più duri alla propria vita ed invitarli a riflettere, ad incontrarsi, a discutere, perché no, magari con noi …”.
Come si vede si tratta dell’espressione della volontà di un insieme di compagni, insoddisfatti e delusi, diciamo quasi sempre nauseati, degli attuali apparati politici e sindacali, che cercano di risalire la china, di vederci chiaro, di non lasciarsi più mistificare dalle varie propagande più o meno di regime e, quello che ci sembra particolarmente importante, di mettere subito in attivo questa nuova consapevolezza condivisa, questa coscienza collettiva maturata nel dibattito, per trasmetterla ad altri nuovi compagni, adesso con un volantino, domani si vedrà.
La nostra organizzazione è particolarmente orgogliosa di presentare e pubblicare questo volantino perché esso dimostra una volta ancora che è in atto nella società un processo di maturazione, lento ma profondo, della coscienza di classe all’interno del proletariato, processo che si realizza attraverso sia delle lotte aperte, come - in Italia - quella degli operai dell’Alfa o dei giovani universitari - proletariato precario del futuro - sia attraverso l’affiorare di sempre nuovi elementi alla ricerca di un punto di riferimento politico, alla ricerca di un’aggregazione possibile e necessaria con altri proletari. Siamo tanto più contenti e soddisfatti di questo volantino nella misura in cui la dinamica che ha mosso questi compagni ha ricevuto anche un nostro importante contributo in quanto essa è nata in conclusione di una giornata di incontro e discussione tra compagni che noi avevamo invitato a riunirsi a Napoli il 25 aprile scorso[1].
Quale sarà il futuro di questo gruppo di compagni non lo sappiamo. Certo è che noi continueremo a dare il nostro sostegno politico ed organizzativo perché cresca al suo interno la voglia di fare i conti con la società attuale e di collocarsi sempre più decisamente su un piano militante. Quello che possiamo segnalare è che questi compagni hanno indicato alla fine del volantino un indirizzo mail di contatto, segno dell’apertura verso altri compagni ed altre esperienze con cui confrontarsi.
Noi invitiamo tutti i compagni che si riconoscono nei contenuti di questo volantino e/o che condividono l’importanza di una sua diffusione, a scaricarlo e a distribuirlo tra colleghi, amici e parenti, con la consapevolezza che, oggi come oggi, con l’avanzare della crisi, i discorsi sul nostro futuro sono sempre più al centro delle preoccupazioni dei proletari.
CCI
[1] Sulla riunione del 25 aprile pubblicheremo tra breve un insieme di testi comprensivi della relazione introduttiva, dei contributi di singoli compagni, di un nostro bilancio, ecc.
Da tutte le parti, oramai, ci sentiamo raccontare che siamo in piena crisi, che è una crisi mondiale e che saranno necessari sempre più tagli a tutti i livelli e che la situazione però si risanerà in qualche anno con interventi finanziari degli Stati e con sacrifici per tutti.
Una cosa è certa: la crisi ha toccato tutti i settori e i licenziamenti stanno riguardando e riguarderanno milioni di lavoratori negli uffici, nelle banche, nelle fabbriche, negli ospedali, nei settori di alta tecnologia, nel settore automobilistico, nell’edilizia, e nella distribuzione, insomma ci sarà un’esplosione della disoccupazione che riguarderà operai, impiegati, ma anche lavoratori “qualificati”.
E così ogni giorno ascoltiamo politici, economisti, banchieri, giornalisti raccontarci in televisione, alla radio, dalle pagine dei giornali, che la crisi è profonda ma che non bisogna disperarsi, che bisogna continuare a spendere, e che non è il sistema da mettere in discussione ma che si tratta solo di sanare gli errori commessi nel passato da una banda di speculatori senza scrupoli, di cattivi imprenditori … insomma tutta colpa del “liberalismo” e della finanza allegra!
Ma la domanda da porsi è: può davvero questa crisi risolversi con più Stato e maggiore “moralità” come vogliono farci credere?
E’ davvero questa una crisi passeggera iniziata solo nell’estate del 2007 con la crisi immobiliare in USA?
Oppure questa è una crisi mondiale che va avanti da anni in cui la disoccupazione è una piaga permanente di un sistema che non produce in funzione dell’uomo e dei suoi bisogni ma per il profitto?
Se questo sistema è in crisi, lo è perché non produce più abbastanza o perché produce più di quanto riesca a vendere?
Ad ogni crisi la soluzione è sempre stata quella di ricorrere ad un uso massiccio del credito ottenendo un sempre maggiore indebitamento, creando mercati fittizi per continuare a produrre, ma poi, come abbiamo visto negli USA, bisogna rimborsare e tutto crolla!
Ma se fare ricorso al credito produce solo maggiore indebitamento, perché si continua da anni in questa apparente “follia”? Per colpa di qualche pazzo, per colpa degli speculatori, come ci viene da più parti riferito?
O, forse, perché questo sistema si basa sulla concorrenza e deve produrre sempre di più e a costi sempre più bassi anche se è più di quello che si riesce a vendere e deve, necessariamente, fare ricorso al credito?
Di chi, quindi, la colpa? Dei banchieri, dei politici, degli industriali incapaci, dei commercianti speculatori?
Il loro operato ha risposto solo alle leggi del capitalismo che stanno portando il sistema stesso al fallimento.
Basterà iniettare miliardi e fare tagli, o non potrà esserci un reale rilancio dell’economia in un sistema oramai agonizzante?
E’ giusto sperare in un capitalismo più umano, più morale, più statalista?
Oggi la capacità del Sistema capitalistico di “accompagnare” la crisi con palliativi si è indebolita, e quindi la sola risposta possibile del capitalismo sarà di far ricadere gli effetti della crisi ancora più sulle spalle dei lavoratori.
Le organizzazioni politiche e sindacali attualmente esistenti non sono in grado di porsi al fianco dei lavoratori e dei loro reali interessi e continuano a partecipare alla mistificazione attribuendo la catastrofe di questo sistema alla cattiva gestione del partito al potere e promettendo una “nuova politica”.
Ma è ancora possibile fare richieste di riforme e di ritocchi salariali (attraverso i partiti e i sindacati) o invece, non c’è più la possibilità da parte del capitale di concedere un bel niente?
Sappiamo che il capitalismo non è un modo di produzione nato per soddisfare i bisogni primari delle persone, bensì per produrre e vendere merci e ricavare profitto, un sistema retto sulle leggi ferree della concorrenza, dell’accumulazione e del profitto privato ed oggi si trova in un crisi epocale e mondiale dalla quale non è più in grado di uscire facendo ricorso come la solito al credito, ai tagli … rispetto alle crisi precedenti quella in corso sembra essere la crisi conclusiva del ciclo storico compiuto dal modo di produzione capitalistico.
Non è chi ci ha portato a questo punto di non ritorno che può risolvere la crisi.
A questa crisi si sta rispondendo in tutto il mondo con forme spontanee di protesta e di resistenza, anche se ancora limitate e solo ai primi passi, dove riprende dimensione e forza l’idea dell’unità delle lotte.
E avendo fiducia nelle proprie forze, la capacità di sviluppare le proprie esperienze di lotta, di solidarietà, di dibattito potrà portare ad una coscienza di classe che faccia acquisire a tutti la consapevolezza di poter cambiare lo stato presente di cose.
Per dirla con i manifestanti in Grecia, dove diversi settori di lavoratori hanno solidarizzato con le giovani generazioni, ”Dobbiamo cominciare ad assumerci le nostre responsabilità, e smettere di riporre le nostre speranze nei leader "saggi" o in rappresentanti "competenti". Dobbiamo cominciare a parlare con la nostra voce, incontrarci, discutere, decidere ed agire per noi stessi.”
L’unica possibilità di uscita da un futuro di miseria e barbarie nel quale questa crisi inarrestabile ci farà sprofondare, l’unica alternativa che possa dare all’umanità un avvenire migliore sarà, quindi, il rovesciamento di questo sistema e la creazione di una società fondata sulla produzione per l’uomo e non per il profitto, gestita dai lavoratori e non da un piccolo gruppo di privilegiati.
Vogliamo provare insieme a capire come rendere ciò possibile oltre che auspicabile?
1° maggio 2009
Chi siamo? Un gruppo di lavoratori, studenti, precari, disoccupati, cassintegrati … che il 25 aprile hanno scelto di stare insieme per conoscersi e confrontarsi. Perché abbiamo pensato a un volantino? Chi vogliamo raggiungere, e perché? Vogliamo spiegare a tutti quello che abbiamo capito, quello che noi “riteniamo giusto”, vogliamo, più semplicemente, comunicare, a quante più persone possibile, che ci siamo riuniti il 25 aprile ( invece di andare al mare o di partecipare a qualche manifestazione “commemorativa”, vivendoci da soli la nostra “depressione”); e che in questa riunione, a livelli diversi fra di noi, abbiamo cominciato a “chiarirci”, a “discutere” in maniera diversa su cose che stanno profondamente angosciando e “condizionando” la nostra esistenza. Vogliamo raggiungere le tante persone che, forse, come noi sentono la necessità di “chiarirsi” e di non “sentirsi soli” di fronte ad attacchi sempre più duri alla propria vita ed invitarli a riflettere, ad incontrarsi, a discutere, perché no, magari con noi … Se ti senti come noi, contattaci all’indirizzo: [email protected] [71].
Darwin e la selezione naturale degli istinti sociali
Per quanto ne sappiamo, Patrick Tort è il solo autore che, superando la polarizzazione mediatica su L’origine della specie, presenta e spiega la seconda grande opera di Darwin (misconosciuta o spesso male interpretata), L’origine dell’uomo, pubblicata nel 1871.
Il libro di Patrick Tort mette in evidenza con chiarezza il modo con cui gli epigoni di Darwin si sono impossessati della teoria della discendenza modificata attraverso la selezione naturale, sviluppata ne L’origine della specie, e di come hanno approfittato del lungo silenzio di Darwin sulle origini dell’Uomo per giustificare l’eugenetica (teorizzata da Galton) ed il “darwinismo sociale” (il cui iniziatore fu Herbert Spencer).
Contrariamente all’idea da tempo dominante, Darwin non ha mai aderito ideologicamente alla teoria malthusiana dell’eliminazione del più debole nella lotta sociale prodotta dalla crescita demografica. Ne L’origine della specie ha utilizzato questa teoria solo come esempio per spiegare i meccanismi dell’evoluzione organica. È totalmente falso, dunque, attribuire a Darwin la paternità di tutte le ideologie ultraliberali che stanno alla base dell’individualismo, della concorrenza capitalista e della “legge del più forte”.
Nel suo lavoro fondamentale L’origine dell’uomo Darwin si oppone con molta determinazione ad ogni applicazione meccanica e schematica della selezione naturale eliminatoria alla specie umana impegnata nella via della “civilizzazione”. Patrick Tort ci spiega in modo molto argomentato e convincente, con l’aiuto di citazioni, come Darwin concepiva l’applicazione della sua legge dell’evoluzione all’uomo ed alla società umana.
In primo luogo, da un punto di vista filogenetico, Darwin pone l’uomo nella specie animale e in particolare suppone un antenato comune tra questo e le scimmie catarrine del vecchio Mondo. Egli estende dunque naturalmente il trasformismo alla specie umana dimostrando che la selezione naturale ha modellato anche la sua storia biologica. Tuttavia, secondo Darwin, la selezione naturale non ha selezionato solo delle mutazioni organiche vantaggiose, ma anche degli istinti, principalmente istinti sociali, in tutte le specie animali. Questi istinti sociali sono culminati nella specie umana e si sono fusi con lo sviluppo dell’intelligenza razionale (e dunque della coscienza riflessiva).
Quest’evoluzione congiunta di istinti sociali e intelligenza si è accompagnata nell’uomo all’ “l’estensione indefinita” di sentimenti morali e di simpatia altruistica. Sono gli individui ed i gruppi più altruistici e più solidali a disporre di un vantaggio evolutivo rispetto agli altri.
In quanto al preteso “razzismo” di cui Darwin è ancora oggi tacciato, lo si può confutare attraverso questa sola citazione:
“Con il progredire dell’uomo nella civiltà e con l’unione delle piccole tribù in comunità più grandi, la nuda ragione direbbe all’individuo che egli deve estendere le sue simpatie ed i suoi istinti sociali fino a comprendere tutti i membri della stessa nazione, anche se non li conosce personalmente. Una volta compreso questo punto, solo una barriera artificiale gli impedisce di estendere le sue simpatie agli uomini di tutte le nazioni e di tutte le razze. Infatti, se questi sono divisi da lui da grandi differenze di aspetto o di abitudini, disgraziatamente l’esperienza ci mostra quanto tempo ci vuole prima che noi li consideriamo nostri simili” (L’origine dell’uomo, capitolo IV)2.
Secondo Patrick Tort, Darwin ci dà una spiegazione naturalistica, e dunque materialista, dell’origine della morale e della civiltà.
Per quanto riguarda più in particolare l’origine della morale, è nei capitoli de L’origine dell’uomo relativi alla selezione sessuale che troviamo le idee più sorprendenti. Patrick Tort ci spiega che secondo Darwin il primo vettore d’altruismo presso numerose specie animali, principalmente i mammiferi e gli uccelli, risiede nell’istinto (indissolubilmente naturale e sociale) della riproduzione. Infatti, lo sviluppo e l’ostentazione dei loro caratteri sessuali secondari (corna, piumaggi nuziali ed altre escrescenze ornamentali) destinati ad attirare le femmine durante la stagione degli amori, comportano un “rischio di morte”: “Coperto dalla sua splendida e pesante parure di nozze, l’uccello del Paradiso è certamente irresistibile, ma ha difficoltà a volare, trovandosi così in grande pericolo di fronte ai predatori. Le femmine, da parte loro, prodigheranno le loro cure alla prole e per difenderla potranno mettersi anche esse in pericolo. Dunque, l’istinto sociale ha una storia evolutiva e comporta come eventualità il sacrificio di sé, che culmina nella morale umana. Darwin produce così una genealogia della morale senza far riferimento alla benché minima istanza extra-naturale” (Patrick Tort, Darwin e la scienza dell’evoluzione, edizioni Découvertes/Gallimard).
Infine, contrariamente alle idee tramandateci secondo cui Darwin sarebbe stato un fervente sostenitore della disuguaglianza dei sessi dando il vantaggio al sesso “forte”, è vero proprio il contrario se ci si pone nella prospettiva delle tendenze evolutive. Per Darwin (ed è in ciò che raggiunge la visione di Engels de L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, e di August Bebel nel suo libro La Donna ed il socialismo) sono le femmine (e per estensione le donne) ad essere le prime portatrici dell’istinto altruista: nel regno animale, sono le femmine che scelgono il maschio riproduttore e che quindi fanno una “scelta obiettiva” (prima forma di riconoscimento della diversità), e sono loro ad esporsi spesso ai predatori per proteggere i piccoli.
La teoria de “l’effetto reversibile dell’evoluzione”
Grazie alla notevole padronanza dell’opera di Darwin e della dialettica, Patrick Tort arriva a sviluppare una teoria (già elaborata nel 1983 nel suo libro Il Pensiero gerarchico e l’evoluzione) su “l’effetto reversibile dell’evoluzione”.
In che consiste questa teoria?
Essa si riassume in una semplice frase: “attraverso gli istinti sociali, la selezione naturale seleziona la civiltà che si oppone alla selezione naturale”.
Per evitarci delle parafrasi, citiamo questo passaggio del libro di Patrick Tort:
“Attraverso gli istinti sociali, la selezione naturale, senza 'salto' né rottura, ha selezionato così il suo contrario, e cioè: un insieme regolato, ed in estensione, di comportamenti sociali anti-eliminatori - dunque anti-selettivi nel senso che riveste il termine di selezione nella teoria sviluppata da L’origine della specie -, tanto correlati tra loro che un’etica anti-selezione (= anti-eliminazione) traduce in principi, in regole di condotta ed in leggi. Il progressivo emergere della morale appariva dunque come un fenomeno indissociabile dell’evoluzione, e qui troviamo la continuità del materialismo di Darwin e dell’inevitabile estensione della teoria della selezione naturale alla spiegazione del divenire delle società umane. Ma questa estensione, che troppi teorici oscurati dallo schermo tessuto intorno a Darwin dalla filosofia evoluzionistica di Spencer, hanno interpretato frettolosamente sul modello semplicistico e falso del ‘darwinismo sociale’ liberale (applicazione alle società umane del principio dell’eliminazione dei meno adatti all’interno di una concorrenza vitale generalizzata), può effettuarsi, a rigore, solo sotto la modalità dell’effetto reversibile che obbliga a concepire il capovolgimento stesso dell’operazione selettiva come base e condizione dell’accesso alla ‘civilizzazione’ (…) L’operazione reversibile è anche ciò che fonda l’esatta distinzione tra natura e cultura, evitando la trappola di una ‘rottura’ magicamente posta tra questi due termini: la continuità evolutiva, attraverso questa operazione di capovolgimento progressivo legato allo sviluppo (esso stesso selezionato) degli istinti sociali, produce in tal modo non una rottura effettiva, ma un effetto di rottura che proviene da ciò che la selezione naturale ha prodotto, nel corso della sua evoluzione, essa stessa sottomessa alla propria legge - la sua forma recentemente selezionata che favorisce la protezione dei ‘deboli’, vincente perché vantaggiosa sulla sua vecchia forma che privilegiava la loro eliminazione. Il nuovo vantaggio allora non è più di ordine biologico: esso è diventato sociale”.
“L’effetto reversibile dell’evoluzione” è dunque questo movimento di ribaltamento progressivo che produce un “effetto di rottura” senza per questo provocare rottura effettiva nel processo della selezione naturale3. Come spiega giustamente Patrick Tort, il vantaggio ottenuto dalla selezione naturale degli istinti sociali non è più allora, per la specie umana, di ordine biologico, ma è diventato di ordine sociale.
Nel pensiero di Darwin, c'è dunque una continuità materialista nel legame tra l’istinto sociale, assortito di guadagni cognitivi e razionali, la morale e la civiltà. Questa teoria de “l’effetto reversibile dell’evoluzione”, dando una spiegazione scientifica delle origini della morale e della civiltà, ha così il merito di porre fine al falso dilemma tra natura e cultura, continuità e discontinuità, biologia e società, innato ed acquisito, etc.
L’antropologia di Darwin e la prospettiva del comunismo
Nell’articolo pubblicato sul nostro sito Web, e sulla nostra stampa, Darwin ed il movimento operaio, abbiamo ricordato come i marxisti hanno sempre salutato i lavori di Darwin, particolarmente L’origine della specie. Marx ed Engels, fin dall’uscita del libro di Darwin, hanno riconosciuto immediatamente nella sua teoria un approccio analogo a quello del materialismo storico. L’11 dicembre 1859 Engels scrive una lettera a Marx nella quale afferma: “Questo Darwin, che sto studiando, è assolutamente sensazionale. Non era mai stato fatto un tentativo di tale portata per dimostrare che esiste uno sviluppo storico nella natura”.
Un anno più tardi, il 19 dicembre 1860, Marx, dopo aver letto L’origine delle specie, scrive ad Engels: “Ecco il libro che contiene la base, in storia naturale, per le nostre idee”.
Tuttavia, qualche tempo dopo, in un’altra lettera ad Engels datata 18 giugno 1862, Marx ritornerà sul suo giudizio facendo questa critica non fondata a Darwin: “E’ notevole vedere come Darwin riconosce negli animali e nelle piante la propria società inglese, con la sua divisione del lavoro, la sua concorrenza, la sua apertura di nuovi mercati, le sue ‘invenzioni’ e la sua ‘malthusiana’ lotta per la vita. È il bellum omnium contra omnes (la guerra di tutti contro tutti, di Hobbes) e ciò ricorda Hegel nella sua Fenomenologia, dove la società civile interviene in quanto ‘regno animale’ dello spirito, mentre in Darwin è il regno animale che interviene in quanto società civile” (Carteggio Marx-Engels, volume XLII, Editori Riuniti).
Engels riprenderà in parte questa critica di Marx ne L’Anti-Dühring (dove fa allusione alla “cantonata maltusiana” di Darwin) e nella Dialettica della natura.
Per il lungo silenzio di Darwin sulla questione dell’origine dell’uomo (pubblicherà L’origine dell’uomo nel 1871, più di undici anni dopo L’origine della specie4) i suoi epigoni, in particolare Galton e Spencer, hanno sfruttato la teoria della selezione naturale per applicarla schematicamente alla socialità contemporanea. L’origine della specie veniva quindi facilmente usata per la difesa della teoria malthusiana della “legge del più forte” nella lotta per l’esistenza.
Purtroppo, questo lungo silenzio di Darwin sull’origine dell’uomo ha contribuito a confondere Marx ed Engels i quali, non avendo potuto prendere conoscenza dell’antropologia darwinista che sarà sviluppata solamente nel 18715, hanno confuso il pensiero di Darwin con l’integralismo liberale o con l’ossessione depuratrice di due dei suoi epigoni.
La storia delle relazioni tra Marx e Darwin, tra il marxismo ed il darwinismo, è stata dunque quella di un “appuntamento mancato” (secondo l’espressione utilizzata da Patrick Tort in alcune sue conferenze pubbliche). Tuttavia non proprio completamente poiché, malgrado le critiche del 1862, Marx continuerà a conservare una stima molto profonda per il materialismo di Darwin. Sebbene non abbia conosciuto L’origine dell’uomo, Marx nel 1872 offrirà a Darwin una copia dell’edizione tedesca della sua opera maggiore, Il Capitale, con questa dedica: “A Charles Darwin, da parte di un ammiratore sincero”. Oggi, aprendo questo libro che si trova nella biblioteca della casa di Darwin, si può constatare che ne sono state tagliate solo le prime pagine. Darwin non fu attento alla teoria di Marx perché l’economia gli sembrava troppo lontana dalla propria competenza. Ma un anno dopo, il 1° ottobre del 1873, tiene a manifestargli la sua simpatia in una lettera di ringraziamento: “Caro Signore, Vi ringrazio dell’onore che mi fate con l’invio della vostra grande opera sul Capitale; desidererei francamente essere più degno di esserne il destinatario e poter meglio orientarmi in questa questione profonda e importante dell’economia politica. Benché i nostri interessi scientifici siano molto diversi, sono convinto che tutti e due desideriamo sinceramente il fiorire della conoscenza e che questa, finalmente, servirà ad aumentare la felicità dell’umanità”.
Ecco come i due fiumi, malgrado “l’appuntamento mancato”, hanno potuto almeno in parte mescolare le loro acque.
D’altra parte il movimento operaio dopo Marx non ha ripreso la critica formulata da questo’ultimo a Darwin nel 1862. E questo anche se la grande maggioranza dei teorici marxisti (compreso Anton Pannekoek, nel suo opuscolo Darwinismo e Marxismo) è passata accanto a L’origine dell’uomo.
Certamente, Pannekoek, come Kautsky (nel suo libro Etica e concezione materialista della storia) e Plekhanov (ne La Concezione monista della storia) hanno salutato in Darwin la sua teoria degli istinti sociali. Ma non hanno compreso pienamente che Darwin aveva sviluppato una teoria della genealogia della morale e della civiltà ed una visione materialista delle loro origini. Una teoria che su certi aspetti raggiunge la concezione monista della storia ed alla fine sfocia sulla prospettiva del comunismo, e cioè sull’aspirazione all’unificazione dell’umanità in una comunità umana mondiale. Tale era l’etica di Darwin, anche se non era marxista e non aveva nessuna concezione rivoluzionaria della lotta di classe.
In un certo senso, oggi si potrebbe affermare che se non ci fosse stato questo “appuntamento mancato” tra Marx e Darwin alla fine del diciannovesimo secolo, probabilmente Marx ed Engels avrebbero accordato a L’origine dell’uomo la stessa importanza che hanno dato allo studio di L.H Morgan sul comunismo primitivo, La società arcaica (sul quale si è basato in grande parte Engels ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato).
Né Morgan né Darwin erano marxisti. Ma il loro contributo, il primo nel campo dell’etnologia, il secondo in quello delle scienze naturali, rimarrà un apporto importante per il movimento operaio.
Oggi la specie umana è confrontata al dilagare senza precedenti del “ciascuno per sé”, della “guerra di tutti contro tutti”, della concorrenza inasprita dal fallimento storico del capitalismo.
Di fronte alla decomposizione di questo sistema decadente, la classe operaia mondiale, quella dei produttori associati, deve più che mai favorire, attraverso la sua lotta contro la barbarie capitalista, l’estensione dei sentimenti sociali della specie umana per sviluppare al suo interno la propria coscienza di classe rivoluzionaria. È l’unico modo affinché l’umanità possa accedere alla successiva tappa di civiltà: la società comunista, una vera comunità umana mondiale, solidale ed unita6.
Sofiane, 23 marzo 2009
1. Patrick Tort è legato al Museo Nazionale di Storia Naturale. Responsabile della pubblicazione del monumentale Dizionario del darwinismo e dell’evoluzione, ha creato e diretto l’istituto Charles Darwin Internazionale (www.darwinisme.org [72]). Ha dedicato trent’anni della sua vita allo studio dell’opera di Darwin che si propone di pubblicare per intero in lingua francese, nel quadro del suo Istituto (35 volumi previsti dalle edizioni Slatkine di cui due già pubblicate).
2. Bisogna sottolineare anche che Darwin era un accanito oppositore della schiavitù e che ha denunciato parecchie volte la barbarie della colonizzazione.
3. Per dimostrare la sua teoria, Patrick Tort utilizza una metafora topologica, quella del nastro di Möbius che permette di comprendere come, grazie al fenomeno del passaggio progressivo al rovescio, si passa “dall’altro lato” del nastro senza discontinuità (vedi la dimostrazione di questo “effetto di rottura” senza puntuale rottura ne L’effetto Darwin. Selezione naturale e nascita della civiltà).
4. Darwin non voleva provocare troppo velocemente un nuovo “choc” nella società ben pensante della sua epoca. Preferì aspettare che il primo "choc" causato da L’origine della specie si fosse smorzato prima di andare oltre. Non era scontato far accettare, anche tra i suoi pari in seno alla comunità scientifica, l’idea che l’uomo potesse avere un antenato comune con le grandi scimmie.
5. Quando Darwin si decise a pubblicare L’origine dell’uomo nel 1871, Marx ed Engels non vi prestarono attenzione perché troppo preoccupati per gli avvenimenti della Comune di Parigi e le difficoltà organizzative de L’associazione Internazionale dei Lavoratori, in quel momento preda delle manovre di Bakunin.
6. Evidentemente, questa società comunista non ha niente a che vedere con lo stalinismo, con i regimi a capitalismo di Stato che hanno dominato l’URSS ed i paesi dell’Est fino al 1989. Il suo vero profilo è stato presentato dal Manifesto comunista del 1848 e nella Critica del programma di Gotha (Marx, 1875) in particolare nel passaggio seguente: “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”
Profittando della situazione difficile che esiste all’interno della classe operaia di Gran Bretagna (come in quella di tutti i paesi del mondo), i sindacati inglesi e i mass-media hanno cercato di far passare l’immagine degli scioperi che ci sono stati nel settore energetico di questo paese come degli scioperi “anti stranieri”. Gli articoli che abbiamo già pubblicato[1] dimostrano quanto sia falsa questa affermazione. Ma la borghesia è una classe che, se è competitiva a livello economico nei confronti di altre borghesie nazionali, è particolarmente collaborativa quando si tratta di combattere e boicottare la lotta di classe. Tanto che, mentre in Gran Bretagna la borghesia combatteva la lotta della mistificazione contro gli sforzi di chiarificazione che venivano dalla classe operaia, in Italia i degni rappresentanti e portavoce dei padroni hanno portato avanti il loro sporco lavoro di disinformazione in maniera del tutto parallela. Così, mentre non si riceve una sola parola sulle lotte spontanee che si sviluppano ai quattro lati del paese, da Pomigliano a Torino, siamo stati inondati per alcuni giorni di notizie dettagliatissime sulle lotte degli operai inglesi che ce l’avrebbero con gli italiani perché: “i lavoratori italiani e portoghesi (…) rubano il loro posto di lavoro (agli inglesi, ndr). Ci stanno portando via il lavoro”, Il Messaggero.it del 29/01/09. “Togliete lavoro a gente di qui che ne ha bisogno” (…)“Sporchi immigrati ci rubate lavoro”, La Repubblica.it del 30/01/09.
Su questo piano è un coro unanime da parte di tutti i giornali, di “destra” o di “sinistra”, da Il Tempo all’Unità fino a Liberazione e al Manifesto![2]
Più precisamente l’immagine che ci è stata data è che gli operai italiani e portoghesi della ditta Irem erano praticamente segregati e prigionieri della nave che li alloggiava, non potendo esporsi alle reazioni possibili degli “inferociti operai inglesi”: “Nessuna solidarietà per i circa trecento italiani venuti con la Irem e che sono alloggiati su una nave. I fotoreporter li hanno scrutati con i loro teleobiettivi per catturare immagini degli “usurpatori”: qualcuno di loro ha reagito mostrando il dito medio o con il gesto dell'ombrello. I tabloid hanno finto di scandalizzarsi di fronte alla maleducazione.” Inghilterra, lavoratori in piazza contro gli operai italiani, Corriere della Sera del 30/01/09.
Forti del muro del silenzio, la borghesia ha continuato a ricamare sulla faccenda, con la maggior parte dei politici e dei mass-media impegnati a fare i progressisti contro quegli zoticoni degli inglesi: “A maggior ragione se si prende nota della dichiarazione piuttosto diretta di Giacomo Natali, segretario della Cgil di Rovigo: «Abbiamo dimostrato nei fatti che siamo molto meno sottosviluppati degli inglesi nel gestire i rapporti con i lavoratori stranieri. Sono loro che devono imparare da noi»”.[3]
La verità adesso la sappiamo. Tenere lontano gli operai “stranieri” da quelli inglesi è servito a creare la messa in scena del conflitto laddove, come testimoniano gli articoli da noi prodotti, gli operai britannici hanno persino invitato gli operai italiani a unirsi alla lotta affermando che la loro non è una battaglia contro degli altri operai ma per un posto di lavoro per tutti.
Ma una riflessione ulteriore va fatta. Qualcuno si chiederà come sia possibile che un sindacato come quello inglese abbia potuto mai sposare una parola d’ordine così estrema come “il lavoro inglese agli operai inglesi”, oppure quella secondo cui “i lavoratori italiani e portoghesi rubano il nostro posto di lavoro”. La risposta è che non c’è proprio da meravigliarsi se il sindacato esprime simili posizioni nella misura in cui non è più, ormai da quasi un secolo, quell’organizzazione creata dalla classe operaia per condurre avanti al meglio le sue lotte, ma l’ostacolo contro cui sistematicamente si scontrano gli operai che intraprendono una loro lotta. Per essere più concreti ricordiamoci: qual è la ricetta del sindacato di fronte alla crisi economica internazionale oggi e ieri di fronte alle varie crisi locali e di settore? La ricetta è stata sempre quella di dire: diamo spazio all’impresa perché si riprenda, perché recuperi competitività sul mercato. Ma tradotto in soldoni che significa questo discorso? Che l’azienda a cui si appartiene deve riuscire a vincere la sfida di mercato, superare altre aziende del settore e riuscire a recuperare margini di profitto per poter dare delle briciole ai propri operai. Come si vede in un caso (quello degli scioperi in Gran Bretagna) come nell’altro (politica del sindacato in genere di fronte alla crisi) la filosofia è sempre la stessa: difesa degli interessi nazionali contro quelli di altre nazioni, ovvero difesa del capitalismo.
La questione che si è posta alla classe operaia inglese e che, in qualche modo, si pone alla classe operaia a livello mondiale, è dunque la necessità di confrontarsi con questa alternativa: farsi soggiogare ancora dalla borghesia, attribuendo le difficoltà economiche in cui versa il proletariato agli immigrati, ai Rom, ai Rumeni, agli inglesi, agli Italiani, ai Portoghesi, ecc. ecc. – a seconda del luogo in cui è rivolta la predica – oppure capire che è la sopravvivenza del capitalismo la causa prima di tutti i problemi e che la maniera più efficace per rispondere è recuperare un’unità d’azione la più estesa possibile. Noi pensiamo che questi ultimi anni, e particolarmente questi ultimi mesi, con le lotte che si sviluppano nei paesi “periferici” come in quelli centrali, l’entrata sulla scena sociale della gioventù studentesca a livello europeo e non solo, con questi scioperi in Gran Bretagna che sono arrivati a riportare nelle piazze lo slogan “proletari di tutti i paesi, unitevi!”, la classe sta lentamente e seriamente liberandosi dell’influenza ideologica della borghesia e sta imparando dai propri errori la strada che la porterà alla propria emancipazione.
22 febbraio 2009 Ezechiele
[2] Particolarmente indegno il reportage di Liberazione che, oltre a sposare completamente la tesi sugli scioperi anti-italiani, si avvale di citazioni di eminenti esponenti della borghesia per richiamare la classe operaia sulla “retta via”: “Sono continuati anche ieri gli scioperi dei lavoratori inglesi contro i migranti italiani e portoghesi. (…) L'altro ieri il governo socialista di Lisbona aveva denunciato quanto avviene nel Regno Unito come «un tentativo di discriminazione assolutamente inaccettabile». Il ministro degli esteri Luis Amado aveva anche sottolineato «la responsabilità assoluta dei governi» nei confronti di «una deriva protezionistica, xenofoba, nazionalista, che se non è posta molto rapidamente sotto controllo con iniziative molto forti può portarci ad una crisi ancora più grave». Ieri, il premier europeo Jean-Claude Juncker, che è anche presidente dell'Eurogruppo ha usato parole ancora più nette. «Esprimo il mio totale disaccordo su questi scioperi in Gran Bretagna - ha detto - un paese che spesso rimette in discussione le capacità dell'Europa di integrarsi. Bisogna ricordare che la storia dell'Europa è estremamente complessa.” (Liberazione del 4/02/09).
[3] La risposta alla rivolta inglese: "A Rovigo assunti cento operai britannici" su IlGiornale.it del 3/02/09.
“La crescita come potenza della Cina e il perseguire i suoi interessi sono indissociabili dal sentimento di aver ritrovato un legittimo posto storico e da un bisogno psicologico profondamente radicato che l’attuale classe al potere non può che essere felice di sfruttare. Le ambizioni cinesi sono attizzate da un nazionalismo alimentato da ferite storiche e di grandezza abortita, un nazionalismo estraneo ed incompreso in un occidente fin troppo compiacente. (...) La Cina si è prefissa degli obiettivi contrari agli interessi americani, cioè soppiantare la supremazia americana in Asia, impedire che Stati Uniti e Giappone costituiscano un fronte di contenimento contro la Cina e, infine, dislocare il suo esercito nei mari della Cina meridionale ed avere il controllo delle principali vie marittime della regione. La Cina ha delle mire egemoniche. Il suo obiettivo principale è che nessuno Stato – che si tratti del Giappone che sfrutta i suoi diritti di prospezione petrolifera nei mari della Cina orientale o della Tailandia che autorizza l’accesso ai suoi porti alle navi della flotta americana - possa agire senza prima tener conto degli interessi cinesi. Questo scenario si inserisce in un’ambizione più vasta: la sfida alla supremazia mondiale dell’occidente, Stati Uniti in testa.
(...) Per questo, da alleata strategica degli Stati Uniti essa diventerà il suo avversario perenne. A questo punto si impone un paragone che non prospetta niente di buono. Dal 1941 al 1945 gli Stati Uniti fecero un’alleanza strategica con l’Unione sovietica, una delle peggiori dittature di tutti i tempi, per avere la meglio sulla Germania nazista. Alla fine della guerra, a causa della rivalità naturale tra queste due superpotenze, l’alleanza fu rotta. Le relazioni amichevoli che intrattennero gli Stati Uniti e la Cina negli anni 1970 e 1980 ricordano l’alleanza americano-sovietica della Seconda Guerra mondiale. Vere e proprie alleanze tra opposti, la cui necessità deriva da una minaccia immediata, la Germania nazista in un caso e l’espansionismo sovietico dall’altro. Venuta meno la minaccia, le alleanze non resisteranno a lungo di fronte alle divergenze di valori e di interessi”1.
Sebbene un poco datata, l’opera da cui questa citazione è tratta ci illustra la realtà dell’ascesa inesorabile della potenza cinese che rivendica ed assume chiaramente le sue ambizioni imperialistiche planetarie. In effetti, l’essenziale degli elementi avanzati dagli autori nel descrivere le prospettive delle relazioni tra Cina e Stati Uniti corrispondono largamente a ciò che vediamo oggi, come dimostra, ad esempio, Le Monde diplomatique di settembre 2008 in un articolo dal titolo “Rivalità militari in Asia: La Cina afferma le sue ambizioni navali”: “(…) Tuttavia, Taiwan non è che uno dei pezzi di una vasta sfida marittima. La Cina si contrappone al Giappone a proposito delle isole Diaoyu (Sankaku in giapponese), vicino all’isola di Okinawa, che ospita una base americana. Tokio martella che la sua ZEE si estende a 450 chilometri ad ovest dell’arcipelago, ciò che Pechino contesta rivendicando l’insieme della piattaforma continentale che prolunga il suo territorio nel mare della Cina orientale. Posta annessa al conflitto: un giacimento che potrebbe fornire fino a 200 miliardi di metri cubi di gas. La Cina contende inoltre a Taiwan, al Vietnam, alle Filippine, alla Malaysia, al Brunei ed all’Indonesia le isole Spratleys (Nansha in cinese) e l’arcipelago dei Pratas (Dongsha). Si massacra col Vietnam e Taiwan per l’arcipelago di Paracel (Xisha).
(...) Una volta aperti questi catenacci, la Marina cinese potrà dedicarsi più liberamente alla seconda sfida: la sicurezza dei corridoi di approvvigionamento di idrocarburi in Asia del Sud. Il primo di questi permette la navigazione alle petroliere di meno di 100.000 tonnellate, dall’Africa e dal Vicino Oriente fino al mare della Cina meridionale attraverso lo stretto di Malacca. Dalle stesse zone di produzione, il secondo corridoio permette la navigazione alle petroliere giganti attraverso gli stretti della Sonda e di Gaspar. Il terzo, dall’America latina passa per le acque filippine. Il quarto, tragitto di ricambio dal Vicino Oriente e l’Africa, serpeggia tra gli stretti indonesiani di Lombok e di Macassar, le Filippine ed il Pacifico ovest prima di raggiungere i porti cinesi”.
Non male come ambizioni imperialiste! Manifestamente la Cina non vuole avere un ruolo di “comparsa” del mondo capitalista, ma intende più che mai sostenere la sua crescita economica ed il suo sviluppo per proteggere dappertutto i propri interessi imperialistici, preparandosi ad affrontare ogni potenza che vorrebbe resisterle, anche sul piano militare. Nello stesso senso Pechino costruisce e sviluppa vaste manovre diplomatiche e geo-strategiche nei confronti di diversi paesi che potrebbero servirle da ponte. Infatti, se l’India ed il Giappone sono storicamente nelle sue mire, la Cina si serve del Pakistan come testa di ponte sia per bloccare l’alleanza tra Washington e New Delhi, sia per aumentare la sua influenza nel Golfo persico ed in Asia centrale. Ma ancora più sorprendente è la volontà di Pechino di lottare per preservare le sue provviste energetiche fino al centro del Golfo persico e del Medio Oriente, la zona più esplosiva e ambita nel mondo da tutti i briganti, primo tra tutti gli Stati Uniti. Ciò significa che Pechino non esita più ad andare a caccia sul quel terreno che Washington considera da decenni come “proprio interesse nazionale”. Il che la dice lunga sulla probabilità di scontri ancora più forti tra la Cina e gli Stati Uniti, in questa zona ed altrove. Del resto già ora lo scontro tra Pechino e Washington è molto virulento sul piano diplomatico, in particolare all’ONU.
Dalle manovre navali alle manovre diplomatiche
La Cina sa utilizzare meglio di chiunque altro la diplomazia per difendere i propri interessi, in particolare in seno all’ONU, bastione supremo dei manovrieri imperialisti. Per esempio, quando nel 2005 il Giappone manifestò la sua intenzione di diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza, con accesso al sacro “diritto di veto”, la Cina mobilitò subito l’insieme del suo corpo diplomatico per bloccare a qualsiasi prezzo l’iniziativa di Tokio sostenuta da Washington. In questo braccio di ferro abbiamo visto una Cina che, ricordatasi improvvisamente della sua pretesa appartenenza all’ex Gruppo dei 77 cosiddetti “non allineati”, si è messa a “sedurre” ed “innaffiare” alcuni di questi con ogni tipo di promesse e crediti e, alla fine, la gang cinese ha potuto effettivamente sbarrare la strada al suo rivale giapponese (dando così anche uno schiaffo al padrino americano). Nei fatti, la Cina agisce regolarmente da guastafeste appoggiandosi sul suo diritto di veto per bloccare sistematicamente le iniziative americane che mirano, per esempio, a sanzionare Teheran sulla questione nucleare o di altri clienti di Pechino (come per lo Zimbabwe, la Corea del Nord, il Myanmar, ecc.). Insomma, è passato il tempo in cui gli Stati Uniti potevano pretendere di fare da soli il bello ed il cattivo tempo all’ONU ed al suo Consiglio di sicurezza. Ormai Pechino contende apertamente questo ruolo a Washington. Questa rivalità si è concretizzata in particolare in Sudan dove Pechino, che arma il potere sudanese ed acquista il suo petrolio, ha chiuso con ostinazione gli occhi per diversi anni sulle atrocità commesse dal governo di Khartoum nel Darfour. Optando per la stessa ipocrisia e lo stesso cinismo delle potenze occidentali che agiscono in nome dei “diritti dell’uomo”, la Cina spiega il suo atteggiamento in nome del rispetto “della sovranità degli Stati (amici)”.
La Cina fa il “grande balzo” in Africa
Se tutti sono convinti che la Cina cerca di estendere la sua influenza su tutti i continenti, è però in Africa che la sua offensiva è più massiccia, particolarmente sul piano economico. Ma per Pechino, non c’è solo il piano economico, per rafforzarsi e salvaguardare i suoi interessi imperialisti globali ci sono anche quello militare e quello geo-strategico. La Cina arma regimi e vende armi a numerosi clienti del continente. Fin dall’inizio degli anni ’90 e del 2000, fortemente contrassegnati dai massacri di massa e dal sanguinoso caos nelle principali regioni del continente, si sapeva che Pechino era il fornitore militare, spesso mascherato, di numerosi paesi ed in particolare quelli dei Grandi Laghi. Le armi cinesi, ad esempio, sono servite a commettere le orribili atrocità che hanno provocato milioni di vittime nella Repubblica Democratica de Congo.
Essendo diventata praticamente una grande potenza come le altre, la Cina brama il ruolo di gangster n°1 in Africa e, di fatto, l’imperialismo cinese sta buttando fuori dalle loro posizioni tradizionali alcuni dei suoi concorrenti. In quest’ottica, va da sé che la Francia è al centro del mirino della Cina.
La Cina tende a soppiantare la Francia in Africa
La Cina ha investito in quasi tutti i paesi del continente africano impiegando ogni mezzo per guadagnare importanti posizioni al punto da escludere di fatto la Francia da un buon numero di paesi appartenenti al vecchio orticello di Parigi. Come si muove la Cina, con quali metodi? Prendiamo un solo esempio che riassume ed illustra la forza che ha la Cina: nel mercato dei BTP, i cinesi sfidano tutti i loro concorrenti mettendo dei prezzi dal 30 al 50% inferiori a quelli proposti dai francesi. Il che comporta che alcuni grandi gruppi francesi, come Bouygues, sono direttamente minacciati dal “rapace cinese” ovunque sono o cercano di impiantarsi. Di conseguenza certe imprese francesi tentano disperatamente di ripiegare in altri paesi africani che si trovano al di fuori del vecchio bastione coloniale della Francia, come l’Africa del Sud o l’Angola, dove comunque la concorrenza non è meno aspra. la Cina utilizza grossomodo la stessa arma dei “prezzi bassi” in tutti gli altri campi commerciali, compresi gli armamenti, pertanto la minaccia cinese contro la Francia è globale.
L’imperialismo francese perde terreno quasi ovunque nel suo vecchio bastione coloniale, sia economicamente che politicamente. Del resto, simbolicamente, è altamente significativo vedere la Cina “dragare” apertamente la Costa d’Avorio, vecchia “vetrina” o “gioiello economico” della Francia in Africa. In effetti, non solo i grandi gruppi francesi sono minacciati dall’offensiva cinese, ma a livello politico il presidente della Costa d’Avorio Gbagbo viene pesantemente corteggiato da Pechino che lo “protegge” all’ONU contro le sanzioni e che, per ora, gli ha potuto assicurare i soldi per poter pagare gli stipendi ai funzionari a fine mese, cosa che Parigi non fa più. L’altro forte atto simbolico verso la vecchia potenza gaullista sta nel fatto che la stessa Pechino si mette ad organizzare i propri “vertici Cina-Africa”.
Peraltro, se la Francia dovesse evacuare le sue basi militari in Africa (la sua principale carta vincente) come ha annunciato il presidente Sarkozy, la Cina sarebbe sicuramente molto felice di escluderla definitivamente dal continente.
Le manifestazioni concrete della volontà della Cina di giocare un ruolo da protagonista nell’arena imperialista sono appena agli inizi ed i suoi principali rivali non perderanno occasione per reagire all’altezza della posta in gioco che derivano dalle ambizioni cinesi. In altre parole, nessuna chiacchiera di pace e di intesa tra le nazioni potrà bastare a mascherare questa realtà, sinonimo di desolazione e di distruzioni materiali ed umane.
Amigos, 20 dicembre
1. Bernstein/Munro, Chine- Etats-Unis : danger, Editions Bleu de Chine, 1998Nessuno del potere, sia politico che religioso, nessun capitalista si è preoccupato del “barbone” morto tre notti fa per freddo e/o fame a Milano. È l’ottavo morto dall’inizio dell’anno, non nelle campagne sperdute del terzo mondo, ma nei pressi del Duomo o del Comune di Milano. Dov’è in questo caso la pietas di quella chiesa che vuole nutrire a forza una ragazza in coma da 17 anni con assistenza continua e spese notevoli, dov’è ancora l’intervento di quello Stato che si preoccupa di fare una legge ad hoc per bloccare un atto legalmente ottenuto dal padre di Eluana? Nessuno si preoccupa di fare una legge per dare un salario di base o un’assistenza gratuita e continua a migliaia e migliaia di persone che muoiono di fame e freddo nel parco sotto casa. Solo interventi d’urgenza per salvarsi la faccia: tende per 10 persone e non requisizione di palazzi vuoti (vicino il Pirellone a Milano c’è un palazzo di 20 e più piani vuoto da anni!). Questo è il capitalismo, utilizza - “violenta”, come dice giustamente il padre - una povera ragazza in coma per non far capire di quale terribile natura poco pietosa sia fatto, per impedire che i lavoratori e i disoccupati prendano coscienza del baratro senza fine in cui ci sta portando e della necessità di abbatterlo.
Cosa ha approvato il senato venerdì? Le ronde padane e la denuncia degli immigrati ammalati da parte dei dottori, la democrazia borghese non ha nulla da invidiare alla dittatura borghese. Roba da far west, ma anche da Germania Hitleriana. Le ronde padane o qualsiasi ronda, approvata o meno dallo Stato, avrà il potere di attaccare lavoratori, immigrati, emarginati. Con l’impoverimento crescente della classe operaia e degli strati sociali meno protetti e con il conseguente acutizzarsi delle tensioni sociali, il capitalismo ha bisogno di più polizia ed esercito e lo sta ottenendo facendo lavorare gratis gli elementi più arretrati di questa società. Non troveremo i pezzi grossi della politica o dell’economia a fare le ronde, ma giovani disperati, carichi di odio e vittime anch’essi di questa squallida società capitalista.
Ora che Eluana è morta, gli esponenti di questo vergognoso mondo della politica si presentano chi vestendo i panni del lutto per Eluana (facendo un minuto di raccoglimento, ostentando un viso da funerale durante le interviste concesse), chi gridando vendetta per l’omicidio perpetrato e chi ancora, piuttosto che denunciare tutta questa operazione per quello che è, una indegna pantomima sul cadavere di una povera ragazza già morta da 17 anni (altro che “persona capace di procreare un figlio”, come ha avuto il coraggio di dire Berlusconi!), è stato al gioco cercando anche di tirare qualche sgambetto all’avversario politico che nella vicenda si sbilancia un poco troppo.
Il cinismo del capitalismo è ributtante: ha fatto della pietosa vicenda di una ragazza e della sua famiglia un “caso” politico e (orrore!) morale solo per distogliere l’attenzione della gente da quello che è l’unico caso da prendere in considerazione, l’esistenza stessa del capitalismo!
10 febbraio 2009 Oblomov
Convocazione di una AG per il 27 novembre
Noi lavoratori dell’AFEMA siamo scesi in lotta per difendere le nostre condizioni di vita e per dei servizi gratuiti e di qualità.
Sappiamo che questa situazione è un problema generale di tutta la classe operaia che vede come giorno dopo giorno le sue condizioni di vita vengono attaccate e peggiorate.
Per noi l’unica soluzione sta nell’unire ed estendere le nostre lotte per farne un’unica lotta.
Per questo convochiamo un’assemblea generale di lavoratori.
Per l’assemblea proponiamo questi punti (pur restando aperti ad ogni vostra proposta):
- presentazione e messa in comune delle situazioni particolari di ogni impresa e/o compagno;
- analisi della situazione generale;
- proposta di azioni congiunte e solidali;
- permanenza dell’assemblea in quanto spazio di incontro tra lavoratori;
- ecc.
Vi aspettiamo tutti giovedì 27 novembre alle 18.30 al Centro Loyola
Questa assemblea è aperta, vi invitiamo ad estendere l’invio a partecipare ad altri lavoratori e compagni.
Piattaforma dei lavoratori dei servizi socio-sanitari
Nota: benché questo invito sia trasmesso a diverse organizzazioni politiche e sindacali, la nostra intenzione è unitaria, concepiamo la classe operaia come un tutt’uno che deve agire insieme in funzione dei bisogni. Perciò pensiamo che questo non è il luogo per un confronto tra organizzazioni o per l’esposizione di programmi particolari.
Volantino distribuito dai lavoratori
Le amministrazioni attaccano i diritti degli utenti e dei lavoratori della sanità mentale
Gli utenti (i malati mentali ed i loro famigliari) ed i lavoratori dell’AFEMA vivono anch’essi la crisi. A causa della disastrosa gestione della sanità mentale da parte delle amministrazioni pubbliche per degli anni, la nostra situazione è oggi difficile.
Come altre associazioni, l’AFEMA è una ONG che gestisce servizi e centri con sovvenzioni pubbliche. Si tratta di servizi destinati a persone con handicap. Le amministrazioni non hanno mai pagato molto, lo hanno fatto tardi e male, ma oggi la situazione è diventata scandalosa.
I ritardi nei pagamenti e l’assenza di sovvenzioni rischiano di far scomparire le risorse, già scarse, assegnate a queste persone e mettono i lavoratori a rischio di perdere il posto di lavoro. Già abbiamo spesso difficoltà ad avere regolarmente il salario con tutti i problemi che ciò comporta,
Abbiamo quindi deciso di mobilitarci.
Non pensiamo che questa lotta sia esclusivamente nostra. La nostra situazione è il prodotto della situazione di crisi e di bancarotta generale a livello internazionale, così come della cattiva gestione delle amministrazioni pubbliche in particolare, e fa parte dell’attacco generale contro le condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione in generale.
Per questo pensiamo che la nostra lotta è quella di tutti:
- a causa del rischio di scomparsa dei servizi sociali sanitari necessari alla popolazione;
- a causa degli attacchi a ripetizione contro le condizioni di vita dei lavoratori.
Testo del manifesto scritto dai lavoratori
Gli utenti senza risorse, i lavoratori senza salari!
Gli utenti ed i lavoratori dell’AFEMA in lotta per un servizio gratuito e di qualità!
Le Amministrazioni non pagano più e trascurano i servizi sanitari.
Gli utenti e le loro famiglie rischiano di ritrovarsi senza fondi di sostegno.
Noi, i lavoratori, non abbiamo più il salario e rischiamo di perdere il lavoro.
Per un servizio gratuito e di qualità per le persone malate di mente.
Per i diritti dei lavoratori e degli utenti della sanità mentale.
Sostenete la mobilitazione!
Mercoledì 19 alle 19.00:
Riunione informativa aperta ai membri, ai famigliari, agli amici, ai lavoratori, ai professionisti … sala del Centro Loyola.
Venerdì 21 alle 11.00:
Manifestazione di protesta di fronte al palazzo del PROP de la Ramba (Alicante).
Venerdì 28:
Manifestazione a Valencia (da confermare)
Associazione delle famiglie e dei malati mentali di Alicante
Piattaforma dei lavoratori dei servizi sociali sanitari
Commenti di Acción Proletaria, sezione della CCI in Spagna
Siamo tutti coscienti di quello che ci sta “piombando addosso”: la crisi si accelera ed i licenziamenti, la disoccupazione, la riduzione dei salari, ecc. si moltiplicano, dimostrando che il capitalismo ed i suoi differenti governi, quale ne sia il colore, hanno una sola risposta di fronte alla crisi: lo scatenamento di attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia e di tutta la popolazione lavoratrice.
L’inquietudine si diffonde, la spinta a battersi e la presa di coscienza si sviluppano in un numero crescente di settori della classe operaia. Ciò non si concretizza ancora in una lotta di massa o in movimenti generalizzati. In parte perché i lavoratori non hanno ancora raggiunto un sufficiente livello di forza, in parte perché la borghesia, attraverso il suo apparato sindacale e politico, occupa tutto il terreno e riesce a deviare, dividere e disorganizzare ogni possibile risposta dei lavoratori.
E’ in questo contesto che è scoppiata la lotta dei lavoratori socio-sanitari dell’AFEMA (Alicante) che, quale che sia l’evoluzione della sua dinamica, costituisce già ora un esempio per la lotta di altri lavoratori per i seguenti motivi:
- I compagni si sono uniti in maniera solidale alle famiglie colpite dal mancato pagamento ed altre dubbie manovre del governo autonomo. Non hanno lottato ciascuno per proprio conto, chiusi nel ristretto quadro del corporativismo, ma hanno saputo riconoscere il loro interesse comune e si sono uniti nella stessa lotta.
- I compagni non concepiscono la loro lotta come un affare particolare e specifico del “proprio settore”, ma la considerano come parte integrante della lotta generale di tutti i lavoratori. La crisi si abbatte su noi tutti senza distinzione. Nessun lavoratore se ne sente al sicuro. La crisi è generale, anche la lotta degli operai deve essere generale.
- I compagni si sono organizzati in assemblee generali aperte a chi vuole contribuirvi e apportarvi i propri problemi. Hanno recuperato una pratica delle lotte operaie del passato ma anche delle lotte più recenti come quella di Vigo nel 2006, quando i lavoratori metallurgici presero nelle proprie mani la lotta ed organizzarono immediatamente assemblee generali aperte agli altri lavoratori ed a tutta la popolazione1.
- Ancora più importante, hanno deciso di organizzare un’assemblea generale aperta a tutti per discutere dei problemi di tutti e vedere come poter reagire assieme. Questo esempio può ispirare i lavoratori di Barcellona vittime in questo momento di 400 piani di ristrutturazione (e che hanno indetto una manifestazione per il 29 novembre).
Bisogna lottare per un’assemblea generale comune, anche se questa proposta dovrà scontrarsi con la reazione di questi falsi amici dei lavoratori che sono tutti i sindacati.
1. Leggi l’articolo “Sciopero della metallurgia a Vigo in Spagna: un passo avanti nella lotta proletaria”, Rivoluzione internazionale n.145 sul nostro sito.
Il testo che segue è stato scaricato dal sito riportato in nota[1]. Il suo contenuto non può che riempirci di gioia e conferma pienamente il quadro che viene presentato nella nostra stampa a proposito dell'attuale situazione sociale a livello internazionale ed in particolare in Grecia.
Centinaia di soldati dei 42 campi dell'esercito dichiarano: ci rifiutiamo di diventare una forza di terrore e repressione.
Siamo dei soldati da ogni parte della Grecia [è necessario qui osservare che in Grecia è ancora in vigore la coscrizione e che riguarda tutti i greci maschi; la maggior parte o forse anche tutte le persone che firmano questo sono legati al popolo che al momento stanno servendo nel servizio militare obbligatorio - non reclute dell'esercito]. Soldati ai quali, a Hania, è stato ordinato di opporsi a studenti universitari, lavoratori e combattenti del movimento antimilitarista portando le nostre armi e poco tempo fa. [Soldati] che portano il peso delle riforme e della "preparazione" dell'esercito greco. [Soldati che] vivono tutti i giorni attraverso l'oppressione ideologica del militarismo, del nazionalismo dello sfruttamento non retribuito e della sottomissione ai "[nostri] superiori". Nei campi dell'esercito [nei quali serviamo], sentiamo di un altro "incidente isolato": la morte, provocata dall'arma di un poliziotto, di un quindicenne di nome Alexis. Sentiamo di lui negli slogan portati sopra le mura esterne del campo come un tuono lontano. Non sono stati chiamati incidenti anche la morte di tre nostri colleghi in agosto? Non è stata pure chiamata un incidente isolato la morte di ciascuno dei 42 soldati che sono morti negli ultimi tre anni e mezzo? Sentiamo che Atene, Thessalonica ed un sempre crescente numero di città in Grecia sono diventate campi di agitazione sociale, campi dove viene recitato fino in fondo il risentimento di migliaia di giovani, di lavoratori e di disoccupati. Vestiti con uniformi dell'esercito ed "abbigliamento da lavoro", facendo la guardia al campo o correndo per commissioni, facendo i servitori dei "superiori", ci troviamo ancora lì [in quegli stessi campi]. Abbiamo vissuto, come studenti universitari, come lavoratori e come disperatamente disoccupati, le loro "pentole d'argilla", i "ritorni di fiamma accidentali" , i "proiettili deviati", la disperazione della precarietà, dello sfruttamento, dei licenziamenti e dei procedimenti giudiziari. Ascoltiamo i mormorii e le insinuazioni degli ufficiali dell'esercito, ascoltiamo le minacce del governo, rese pubbliche, sull'imposizione dello "stato d'allarme". Sappiamo molto bene cosa ciò significhi. Viviamo attraverso l'intensificazione [del lavoro], aumentate mansioni [dell'esercito] , condizioni estreme con un dito sul grilletto. Ieri ci è stato ordinato di stare attenti e di "tenere gli occhi aperti". Ci chiediamo: A CHI CI AVETE ORDINATO DI STARE ATTENTI? Oggi ci è stato ordinato di stare pronti ed in allarme. Ci chiediamo? VERSO CHI DOVREMMO STARE IN ALLARME? Ci avete ordinato di stare pronti a far osservare lo stato di ALLARME:
Questa sequenza di misure dimostra che la leadership dell'esercito, della polizia e l'approvazione di Hinofotis (ex membro dell'esercito professionale, attualmente vice ministro degli interni, responsabile per "agitazioni" interne), del QG dell'esercito, dell'intero governo, delle direttive della U.E., dei negozianti-come- cittadini- infuriati e dei gruppi di estrema destra mirano ad utilizzare le forze armate come un esercito di occupazione - non ci chiamate "corpo di pace" quando ci mandate all'estero a fare esattamente le stesse cose? - nelle città dove siamo cresciuti, nei quartieri e nelle strade dove abbiamo camminato. La leadership politica e militare dimentica che siamo parte della stessa gioventù.
Dimenticano che siamo carne della carne di una gioventù che sta di fronte al deserto del reale all'interno ed all'esterno dei campi dell'esercito. Di una gioventù che è furibonda, non sottomessa e, ancora più importante, SENZA PAURA. SIAMO CIVILI IN UNIFORME. Non accetteremo di diventare strumenti gratuiti della paura che alcuni cercano di instillare nella società come uno spaventapasseri. Non accetteremo di diventare una forza di repressione e di terrore.
Non ci opporremo al popolo con il quale dividiamo quegli stessi timori, bisogni e desideri/lo stesso futuro comune, gli stessi pericoli e le stesse speranze. CI RIFIUTIAMO DI SCENDERE IN STRADA PER CONTO DI QUALSIASI STATO D'ALLARME CONTRO I NOSTRI FRATELLI E SORELLE. Come gioventù in uniforme, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo che lotta e urliamo che non diventeremo delle pedine dello stato di polizia e della repressione di stato.
Non ci opporremo mai al nostro popolo. Non permetteremo nei corpi dell'esercito l'imposizione di una situazione che ricordi i "giorni del 1967".
[1] www.ateneinrivolta.org/content/lettera-di-militari-greci-che-si-rifiutan... [77].
PRESENTAZIONE ALLE RIUNIONI PUBBLICHE DELLA CCI
Quello che segue è il testo che è servito da canovaccio per le presentazioni che la nostra organizzazione ha fatto nei vari paesi in cui interviene sull'emergere della gioventù - studentesca e non - su un piano di lotta autenticamente proletario.
Alla fine del 2008 diversi paesi europei sono stati toccati simultaneamente da movimenti di massa di studenti (universitari e liceali).
Tra questi quello che si è sviluppato in Grecia dopo la morte di un giovane studente di 15 anni il 6 dicembre scorso è stato più rilevante tanto da evocare un nuovo Maggio 68.
In effetti a questo movimento hanno partecipato diversi settori della classe lavoratrice in solidarietà con le nuove generazioni che si battevano contro gli attacchi del governo e contro la repressione dello stato poliziesco.
Questo movimento sociale, come quelli degli altri paesi non è solo un movimento della gioventù ma è parte integrante delle lotte operaie che si sviluppano a livello mondiale.
Come al solito quello che è successo in Grecia ci è stato presentato dai media a modo loro.
Ci hanno mostrato solo gli scontri con la polizia e questi sono stati presentati o come il fatto di un pungo di autonomi anarchici e di studenti di ultra sinistra usciti da ambienti agiati o di facinorosi marginalizzati.
Ci hanno mostrato soprattutto giovani incappucciati che bruciavano auto, spaccavano vetrine di negozi e banche, saccheggiavano negozi.
La strumentalizzazione di immagini di violenza di questo tipo da parte dei media non è nuovo. E' esattamente lo stesso metodo di falsificazione della realtà usato per il movimento degli studenti in Francia contro il CPE nel 2006 (assimilato ai moti nelle periferie dell'anno precedente). E' lo stesso metodo usato quando gli studenti in lotta contro la LRU nel 2007 (legge sulla Libertà e Responsabilità delle Università) sempre in Francia sono stati assimilati a dei "terroristi" ed a dei "Khmer rossi"!
Ma cosa è stato questo movimento?
Innanzitutto quello che salta agli occhi è la sua estensione di questo movimento che in sé è già un fatto significativo.
Gli scontri si sono estesi a ben 42 prefetture su 55 della Grecia, anche in città dove prima non c'erano mai state manifestazioni.
Più di 700 licei ed un centinaio di università sono stati occupati.
Ma in più, quali erano le ragioni di tanta collera?
La disoccupazione dei giovani e la loro difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro la mancanza di un futuro che hanno creato e diffuso un clima d'inquietudine, di collera e di insicurezza generalizzata.
La maggior parte degli studenti devono fare due lavori al giorno per poter sopravvivere e poter continuare a studiare.
Piccoli impieghi al nero e sottopagati, e anche nel caso di lavori meglio pagati, una parte del salario non viene dichiarato il che amputa i loro diritti sociali; in particolare si ritrovano senza assistenza sociale, gli straordinari non vengono pagati e non è loro possibile lasciare la casa dei genitori prima dei 35 anni perché non hanno i soldi per pagare un affitto.
Il 23% dei disoccupati in Grecia sono giovani (il tasso di disoccupazione tra i 15-24 anni è ufficialmente del 25,2%).
E la prospettiva è ancora peggiore.
La crisi mondiale sta portando una nuova ondata di licenziamenti di massa. Per il 2009 è prevista una perdita di 100.000 posti di lavoro in Grecia, che corrisponde al 5% di disoccupazione in più. Allo stesso tempo il 40% dei lavoratori guadagna meno di 1.100 euro lordi e la Grecia conosce il maggior tasso di lavoratori poveri tra i 27 paesi dell'unione europea, il 14%.
Questa situazione spiega perché in piazza non sono scesi solo i giovani, ma anche gli insegnanti mal pagati e molti altri salariati presi dagli stessi problemi, dalla stessa miseria ed animati dallo stesso sentimento di rivolta.
Questa collera non è nuova: gli studenti greci si erano già largamente mobilitati nel giugno 2006 contro la riforma dell'università la cui privatizzazione avrebbe comportato l'esclusione degli studenti dei ceti più modesti.
Anche la popolazione aveva manifestato la sua collera contro l'incuria del governo quando ci furono gli incendi dell'estate 2007 che fecero 67 morti, governo che non ha mai indennizzato le numerose vittime che persero la casa e ogni bene.
Ma sono stati soprattutto i salariati a mobilitarsi contro la riforma del regime pensionistico agli inizi del 2008 con due giorni di sciopero generale in due mesi e manifestazioni che ogni volta hanno riunito più di un milione di persone.
La brutale repressione del movimento che ha causato la morte di questo adolescente è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso ed ha amplificato la collera ed il sentimento di solidarietà tra le diverse generazioni della classe operaia.
Infatti non sono stati solo gli studenti a denunciare il terrore di Stato, ma questa stessa collera contro la brutalità della repressione la si è ritrovata in tutte le manifestazioni con slogan del tipo: "Pallottole per i giovani, soldi per le banche". Ancora più chiaramente un partecipante al movimento ha dichiarato: "Non c'è lavoro, non ci sono soldi, uno Stato in fallimento con la crisi, e tutto quello che c'è come risposta è dare le armi ai poliziotti" (Le Monde del 10-12-2008).
Ma c'è di più. Le giovani generazioni di operai sono quelle che esprimono più chiaramente la disillusione e lo scoraggiamento rispetto ad un apparato politico ultra corrotto in cui da più di trent'anni la dinastia dei Caramanlis (a destra) e dei Papandreu (a sinistra) regnano alternandosi sul paese a forza di bustarelle e scandali.
Di conseguenza la gran parte dei giovani rigetta ogni inquadramento in un apparato politico e sindacale completamente discreditato: "Il feticismo del denaro si è impossessato della società. Allora i giovani vogliono una rottura con questa società senza anima e senza prospettiva".
Di fronte al montare del movimento, i sindacati hanno indetto uno sciopero generale il 10 dicembre nel tentativo di canalizzare la collera e stroncare la lotta. Ma, nonostante questa manovra e tutte le altre dei partiti di sinistra e dei sindacati, non ci sono riusciti perché, con lo sviluppo della crisi, questa generazione di proletari non ha solo sviluppato la coscienza di uno sfruttamento capitalista che vive sulla propria pelle, ma esprime anche la coscienza della necessità di una lotta collettiva mettendone spontaneamente avanti i metodi e la solidarietà DI CLASSE. Invece di soccombere alla disperazione, trae fiducia nella possibilità di un avvenire diverso, si ribella contro il putridume della società che la circonda. Come mostra bene lo slogan "Noi siamo un'immagine del futuro di fronte ad un'immagine molto oscura del passato". Per questo se la situazione sociale in Grecia può ricordare il maggio 68, la coscienza dei giovani va ben al di là.
Durante tutte queste giornate e queste notti ci sono stati scontri incessanti con violente cariche della polizia a colpi di manganelli e lacrimogeni che si sono concluse con pestaggi e dozzine di arresti.
Nonostante questo, a partire dal 16 dicembre, si assiste ad una radicalizzazione del movimento.
Gli studenti invadono per qualche minuto l'emittente televisiva governativa NET e dispiegano sotto gli schermi uno striscione che proclama: "Smettete di guardare la televisione. Tutti nelle strade" e lanciano questo appello: "Lo Stato uccide. Il vostro silenzio lo arma. Occupazione di tutti gli edifici pubblici!".
La sede della polizia antisommossa di Atene viene attaccata ed un furgone è dato alle fiamme. Queste azioni vengono subito denunciate dal governo come un "tentativo di rovesciamento della democrazia" e vengono condannate dal PC greco.
A Salonicco, i due maggiori sindacati del settore privato e pubblico (GSEE e dell'ADEDY) tentano di confinare gli scioperanti in un assembramento di fronte all'Ufficio del lavoro. I liceali e gli studenti universitari invece sono determinati a portare gli scioperanti in corteo e ci riescono: 40.000 studenti e lavoratori sfilano nelle strade della città.
Del resto già prima gli studenti erano stati confrontati all'azione di sabotaggio dei militanti dell'organizzazione studentesca del Partito "comunista" (PKS) che avevano tentato di bloccare le assemblee per impedire le occupazioni (università del Pantheon, Facoltà di filosofia dell'università di Atene). I loro tentativi sono falliti e le occupazioni si sono sviluppate ad Atene ed in tutta la Grecia.
Nel quartiere Agios Dimitrios di Atene viene occupato il municipio con un'assemblea generale alla quale partecipano più di 300 persone di tutte le età.
Il 17 dicembre la sede del maggiore sindacato del paese, la Confederazione Generale dei Lavoratori in Grecia (GSEE) ad Atene viene occupata dai lavoratori che si dichiarano insorti ed invitano tutti i proletari a fare di quel posto un luogo d'assemblea generale aperto a tutti i salariati, agli studenti ed ai disoccupati.
Nel documento finale dell'AG si dice:
"Per tutti questi anni, abbiamo subito la miseria, la rassegnazione, la violenza sul lavoro. Ci siamo assuefatti a contare i nostri feriti ed i nostri morti - i cosiddetti "incidenti sul lavoro". Ci siamo abituati ad ignorare che gli immigrati, nostri fratelli di classe, venivano uccisi. Siamo stanchi di vivere con l'ansia di assicurarci un salario, di pagare le tasse e di garantirci una pensione che adesso sembra un sogno lontano.
Così come lottiamo per non abbandonare le nostre vite nelle mani dei padroni e dei rappresentanti sindacali, ugualmente non abbandoneremo gli insorti arrestati nelle mani dello Stato e dei meccanismi giuridici!
LIBERAZIONE IMMEDIATA DEI DETENUTI!
RITIRO DELLE ACCUSE CONTRO I FERMATI!
AUTORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI!
SCIOPERO GENERALE!
L'ASSEMBLEA GENERALE DEI LAVORATORI NEGLI EDIFICI LIBERATI DELLA GSEE
Uno scenario identico, con occupazione ed AG aperte a tutti si ha alla Facoltà di Economia ed al Politecnico di Atene
Nella sera del 17 dicembre, una cinquantina di bonzi sindacali tentano di rioccupare i locali ma fuggono dinanzi ai rinforzi di studenti, per lo più anarchici, della facoltà di Economia, anch'essa occupata e trasformata in luogo di riunione e discussione aperta a tutti gli operai, che sono venuti alla riscossa degli occupanti cantando a testa alta "Solidarietà!".
Si moltiplicano gli appelli ad uno sciopero generale a tempo indeterminato a partire dal 18. E per non essere completamente scavalcati i sindacati sono costretti a proclamare uno sciopero di tre ore nel servizio pubblico per quel giorno.
Nella mattinata del 18, un altro giovane liceale di 16 anni che partecipava ad un sit-in vicino alla sua scuola in una periferia di Atene viene ferito da una pallottola. Lo stesso giorno diverse sedi radio e televisive vengono occupate dai manifestanti, in particolare a Tripoli, Chania e Salonicco.
Viene occupata la Camera di Commercio di Patrasso dove ci sono nuovi scontri con la polizia. Ed anche la gigantesca manifestazione di Atene viene violentemente repressa: per la prima volta le squadre anti-sommossa hanno usato nuovi tipi di armi: gas paralizzanti e granate assordanti. Un volantino contro il "terrore dello Stato" firmato "le ragazze in rivolta" viene diffuso a partire dalla facoltà di Economia.
Il movimento percepisce confusamente i propri limiti geografici e per questo accoglie con entusiasmo le manifestazioni di solidarietà internazionale, in particolare quelle di Berlino, Roma, Mosca, Monreale e New York diffondendone l'eco: "Questo sostegno è molto importante per noi"Gli occupanti del Politecnico chiamano a "una giornata internazionale di mobilitazione contro i morti di Stato" per il 20 dicembre.
Il 20 dicembre scoppiano scontri di strada violenti e la morsa si stringe, in particolare intorno al Politecnico assediato dalle forze di polizia che minacciano di darne l'assalto.
A questo punto il movimento mostra una forte maturità comprendendo il pericolo di una spirale repressiva ancora più forte.
Viene tolta l'occupazione del palazzo della Confederazione sindacale in seguito ad una decisione del comitato d'occupazione votata in Assemblea Generale.
Il comitato di occupazione del Politecnico di Atene pubblica il 22 dicembre un comunicato che dichiara in particolare: "Siamo per l'emancipazione, la dignità umana e la libertà. Non c'è bisogno di lanciarci gas lacrimogeni, piangiamo già abbastanza da soli".
Nell'AG a Scienze economiche, si decide di usare l'appello alla manifestazione del 24 contro la repressione poliziesca e in solidarietà con gli arrestati, come momento opportuno per evacuare lo stabile in massa e in condizioni di sicurezza: "sembra esserci un consenso sulla necessità di lasciare le università e di seminare lo spirito della rivolta nella società in generale".
Questo esempio sarà seguito nelle ore successive dalle AG delle altre università occupate, schivando la trappola della chiusura e di uno scontro diretto con la polizia, evitando così un bagno di sangue ed una repressione ancora più violenta.
Al tempo stesso le AS denunciano con chiarezza come atto di provocazione poliziesca il lancio di corpi incendiari contro un'auto della polizia rivendicato da una sedicente "Azione popolare".
Il comitato di occupazione del Politecnico evacua simbolicamente l'ultimo bastione di Atene il 24 dicembre a mezzanotte.
L'aver tolto le occupazioni non significa però la fine della lotta.
In alcuni quartieri gli abitanti si sono impossessati dell'impianto installato dalla municipalità per suonare i canti di Natale per leggere al microfono dei comunicati dove si chiede tra l'altro la rimessa in libertà immediata dei detenuti, il disarmo della polizia, lo scioglimento delle brigate anti-sommossa e l'abolizione delle leggi anti-terrorismo.
All'inizio di gennaio ci sono ancora manifestazioni in tutto il paese in solidarietà con i prigionieri.
Sono state arrestate 246 persone di cui 66 sono ancora in carcere preventivo. Ad Atene 50 immigrati sono stati arrestati nei primi tre giorni del sollevamento con delle pene fino a 18 mesi di carcere in dei processi senza interpreti e con la minaccia di espulsione.
Il 9 gennaio, giovani e polizia si sono di nuovo affrontati ad Atene all'inizio di un corteo di circa 3.000 insegnanti e studenti universitari e liceali. Imponenti forze anti-sommossa hanno caricato a più riprese per disperdere i manifestanti e facendo numerosi controlli dei documenti.
L'esplosione di collera e la rivolta delle giovani generazioni proletarie in Grecia non sono affatto un fenomeno isolato o particolare.
Esse sono in continuità diretta con la mobilitazione degli studenti in Francia contro il CPE (contratto primo impiego) del 2006 e contro la legge sulla riforma universitaria del 2007 dove gli studenti universitari ed i liceali si concepivano soprattutto come dei proletari in rivolta contro le loro future condizioni di sfruttamento.
L'insieme della borghesia dei principali paesi europei l'ha capito bene riconoscendo i suoi timori di contagio di esplosioni sociali simili di fronte al peggioramento della crisi. Per questo ad esempio in Francia la borghesia ha fatto marcia indietro sospendendo precipitosamente il suo programma di riforma delle scuole.
Del resto il carattere internazionale della contestazione e della combattività degli studenti si esprime già fortemente.
In Italia due mesi di mobilitazione degli studenti hanno dato vita a due manifestazioni di massa che si sono svolte il 25 ottobre ed il 14 novembre dietro lo slogan Noi la crisi non la paghiamo" contro il decreto Gelmini contestato per i tagli nell'Educazione nazionale e le sue conseguenze (non rinnovo contrattuale per 87.000 insegnanti precari e di 45.000 lavoratori ATA) così come di fronte alla riduzione dei fondi pubblici per l'università.
In Germania il 12 novembre, 120.000 liceali sono scesi nelle strade delle principali città del paese, con slogan come "Il capitalismo è la crisi" a Berlino o assediando il parlamento provinciale come ad Hannover.
In Spagna il 13 novembre centinaia di migliaia di studenti hanno manifestato in più di 70 città contro le nuove direttive a livello europeo (direttive di Bologna) della riforma dell'insegnamento superiore ed universitario che generalizza la privatizzazione delle facoltà e moltiplica gli stage nelle imprese.
In Irlanda 70.000 manifestanti sfilano a Dublino, vengono occupate scuole ed università con la partecipazione degli insegnanti.
Ma non solo in Europa succede questo.
Solo a gennaio a Vilnius in Lituania, a Riga in Lettonia ed a Sofia in Bulgaria ci sono stai movimenti di rivolta duramente repressi dalla polizia.
Nel Senegal, nel dicembre scorso, ci sono stati scontri violenti in manifestazioni contro la miseria e negli scontri ci sono stati due morti. E già prima, all'inizio di maggio, 4.000 studenti di Marrakech si erano rivoltai a seguito di una intossicazione alimentare che aveva colpito 22 di loro in un ristorante universitario. Dopo la repressione violenta del movimento, si sono moltiplicati gli arresti, le pene carcerarie molto pesanti e le torture. Molti di loro si sono riconosciuti nel movimento degli studenti in Grecia.
L'ampiezza di questi movimenti dei giovani di fronte alle stesse misure prese dai vari Stati non ha niente di strano. La riforma del sistema educativo portata avanti a livello europeo e non solo, è alla base di un condizionamento delle giovani generazioni operaie ad un avvenire senza sbocchi ed alla generalizzazione della precarietà e della disoccupazione.
Il rifiuto e la rivolta delle nuove generazioni di proletari scolarizzati si pone quindi come elemento della più generale ripresa della lotta di classe a livello internazionale.
E dappertutto, come in Grecia, con la precarietà, i licenziamenti, la disoccupazione, i salari da fame che impone la crisi mondiale, lo Stato capitalista non può che portare polizia e repressione.
Solo lo sviluppo internazionale della lotta e della solidarietà di classe tra operai, impiegati, liceali, universitari, disoccupati, precari, pensionati, di tutte le generazioni insieme, può aprire la via ad una prospettiva di avvenire per abolire questo sistema di sfruttamento.Questa ondata di licenziamenti e di lavori precari non è limitata alla Gran Bretagna ma sta travolgendo il mondo intero. Dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa occidentale alla Russia, nessun lavoro salariato è sicuro; ed anche quando c’è lavoro, gli stipendi vengono tagliati e le condizioni di lavoro vengono peggiorate.
Ma gli operai a livello mondiale stanno mostrando la loro riluttanza ad accettare questi attacchi: ci sono scioperi e manifestazioni tutti i giorni in Cina; alla fine di gennaio due milioni e mezzo di lavoratori in Francia hanno scioperato contro la disoccupazione; gli studenti ed i giovani proletari in Italia, Francia, Germania e soprattutto in Grecia hanno dimostrato per le strade la loro rabbia contro una società che non offre loro alcun futuro. La rabbia degli operai nelle raffinerie non è specifica alla Gran Bretagna, ma fa parte di una risposta internazionale all’approfondimento del disastro economico.
Tuttavia, il principale slogan portato avanti negli scioperi del settore dell’energia “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi” può condurre i lavoratori soltanto in un vicolo cieco.
La minaccia all’occupazione degli operai dell’industria dell’energia o di qualsiasi altro settore non viene da un gruppo di operai italiani e portoghesi che vengono strumentalizzati da un rete di società inglesi, americane ed italiane per ridurre i costi della manodopera. Il capitalismo non se ne frega nulla della nazionalità di quelli che sfrutta. Si preoccupa soltanto di quanto profitto può estrarre da loro. Ma è più di felice quando gli operai sono messi l’uno contro l’altro, quando sono divisi in gruppi nazionali contrapposto. L’idea de “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi” si oppone direttamente alla capacità dei lavoratori di difendersi. Questo perché la loro sola maniera di difendere i loro interessi è quella di estendere le loro lotte il più ampiamente possibile e di portare tutti gli operai, indipendentemente dalla loro nazionalità, verso una resistenza comune contro i loro sfruttatori. Gli operai di Gran Bretagna non hanno nessun interesse in comune con i padroni e lo Stato inglesi ed invece hanno tutto in comune con i cosiddetti operai “stranieri”, che soto sotto la stessa minaccia di disoccupazione e di povertà perché la crisi del capitalismo è una crisi mondiale.
Le principali forze che soffiano sulla delusione nazionalista in questo conflitto sono stati i sindacati Unite e GMB, che hanno fatto proprio lo slogan di Gordon Brown - a sua volta scopiazzato dal Partito Nazionale Britannico - mettendolo al centro del movimento. Questa non è la prima volta che i sindacati hanno provato a portare avanti l’idea de “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi”. Lo scorso anno gli operai edili di un cantiere in costruzione di una centrale elettrica a Plymouth sono stati licenziati dall’imprenditore. Altri operai scesero in sciopero in solidarietà con i loro compagni. Ma il sindacato cercò di sostenere che gli operai venuti dalla Polonia stavano “rubando il lavoro agli Inglesi”. Questa posizione suonò però decisamente fuori luogo quando questi operai polacchi si unirono allo sciopero. A questo punto il sindacato, che aveva protestato così fragorosamente per gli operai inglesi licenziati, fece un accordo con i padroni per riportare gli scioperanti al lavoro e lasciando i lavoratori espulsi senza lavoro.
Anche i mezzi di comunicazione hanno giocato un grande ruolo nella diffusione del messaggio nazionalista. Normalmente questi sono piuttosto silenziosi quando i lavoratori danno luogo a delle azioni spontanee o quando ingaggiano degli scioperi di solidarietà illegali, ma stanno dando la massima pubblicità a questo conflitto, sottolineando continuamente il termine “British” a livello di cartelli e di slogan.
Sebbene non si possa negare il fatto che gli operai delle raffinerie e delle centrali elettriche abbiano abboccato in parte all’esca nazionalista, la realtà è molto più complessa, come si può vedere da questa dichiarazione di un operaio disoccupato che protesta fuori di una centrale elettrica gallese: “Sono stato licenziato come stivatore due settimane fa. Ho lavorato nei bacini del Barry e di Cardiff per 11 anni e sono venuto qui oggi sperando che possiamo scuotere il governo. Io penso che tutto il paese dovrebbe mettersi in sciopero poiché stiamo perdendo tutta l’industria britannica. Ma non ce l’ho con i lavoratori stranieri. Non li posso biasimare per il fatto che vanno dove c’è lavoro”. (The Guardian on-line 20.1.2009). Altri operai dell’industria hanno a loro volta fatto la constatazione che migliaia di lavoratori britannici del petrolio e delle costruzioni stanno attualmente lavorando all’estero.
Di fronte ad una crisi economica dalle proporzioni devastanti, non è sorprendente che i lavoratori abbiano difficoltà a trovare la strada più efficace per difendersi. Gli operai del settore energia hanno mostrato un reale desiderio di organizzarsi, di estendere la lotta e di manifestare a favore dei compagni di altri impianti e di altre parti del paese, ma lo slogan nazionalista che essi hanno adottato sta andando contro l’intera classe lavoratrice e contro la sua capacità di unirsi.
La classe dirigente non ha soluzione a questa crisi, una crisi di sovrapproduzione che è andata accelerandosi con il tempo. Essa non può più farla scomparire con ulteriori iniezioni di credito - la montagna di debito che ne risulta fa parte ovviamente del problema. La chiusura di ogni paese dietro le barriere protezioniste - che è la logica de “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi” – l’abbiamo già vista negli anni ‘30 ed è stata una maniera per acuire la concorrenza fra gli Stati nazionali e per trascinare gli operai verso la guerra.
La classe operaia non ha soluzioni immediate o locali alla catastrofe economica. Ma può difendersi contro i tentativi del capitalismo di farle pagare la crisi. Ed unendosi nell’autodifesa, superando tutte le divisioni e i confini, può cominciare a scoprire che ha una risposta storica al crollo del capitalismo: una rivoluzione internazionale ed una nuova società a livello mondiale basata sulla solidarietà umana e non sul profitto capitalista.
Corrente Comunista Internazionale 31.1.09
Una serie di messaggi pubblicati stamattina su Indymedia hanno dato la notizia secondo cui "La polizia ha occupato tutto lo stabile compreso l'archivio Primo Moroni e la libreria e non è possibile entrare. Hanno blindato il quartiere con tutte le specie di polizia e si sta creando un presidio con tutte le compagne ed i compagni disponibili. Si ricorda a tutti che anche il Torricelli/Circolo dei malfattori in via Torricelli è sotto sgombero e che si prevede possa succedere qualcosa entro i primi giorni di febbraio."
Quello a cui assistiamo è dunque l'agire del pugno forte dello Stato che cerca di ridurre al silenzio le voci di dissenso che esistono nella realtà sociale. Ma noi crediamo che ci sia in più un atteggiamento volutamente provocatorio tendente appunto ad attirare i compagni nella trappola della violenza per la violenza. L'ormai famosa intervista a Cossiga di cui abbiamo già riprodotto degli ampi estratti in un precedente articolo sul movimento degli studenti[1] non poteva essere più eloquente:
"Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno. Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano".[2]
Un tentativo simile era stato già compiuto lo scorso autunno quando le bande neofasciste di Casa Pound, del Blocco Studentesco e di altri gruppi messi su allo scopo avevano cercato invano di creare la provocazione e di innescare la violenza nel movimento degli studenti, in modo da deviarlo dal suo cammino. Vedi in particolare l'episodio di piazza Navona documentato dal video di YouTube di cui diamo il collegamento web in nota.[3] Ma questo tentativo è risultato del tutto privo di successo nella misura in cui, se gli studenti si sono dichiarati nelle loro manifestazioni antifascisti, lo hanno fatto perché hanno giustamente riconosciuto il carattere provocatorio di questi gruppetti, rifiutando tuttavia di intraprendere una campagna di scontri con questi.
Oggi il tentativo si ripete in un momento diverso e in un contesto diverso. In un momento diverso perché la dinamica del movimento degli studenti si è ridotta e c'è minore mobilitazione anche per la fase di esami cui gli studenti - almeno quelli universitari - devono sottoporsi. E in un contesto diverso perché si va a stuzzicare di proposito proprio quel settore dei Centri sociali dove le tentazioni a ripagare la violenza dello Stato con la stessa moneta, usata tutta e subito, è più forte. Non è un caso che nei vari post di Indymedia o di altri blog siano affiorate in maniera piuttosto esplicita anche suggerimenti di questo tipo.
Noi pensiamo che la violenza sia uno strumento necessario e importante nella lotta di classe, ma che resti appunto uno strumento, mentre l'obiettivo primo che si deve porre un movimento di lotta è comprendere il perché della sua lotta e indirizzare questa lotta in una direzione coerente con le sue prospettive. In questo senso riteniamo che l'azione della polizia svolto stamattina sia una vera e propria trappola da cui i compagni devono guardarsi e su cui fare la massima chiarezza per poter efficacemente proseguire sul loro cammino.
L'altro elemento che pure va preso in considerazione per capire come mai proprio adesso lo Stato si ricordi che esiste un centro occupato ormai da una vita è che, in una fase di difficoltà politica da parte della borghesia derivante sia dalla profondità della crisi che il capitalismo sta attraversando che dalla ripresa della lotta di classe a livello internazionale, occorre crearsi degli alibi per poter attaccare tutte le voci del dissenso, e particolarmente quelle di sinistra. In tal senso ancora una volta è Cossiga ad anticipare il motivo che seguirà successivamente la borghesia, quello che tende a connotare come terrorista tutto quello che si muove in sento antitetico al sistema attuale delle cose:
"Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigate rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università. E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale". E` dunque possibile che la storia si ripeta? "Non è possibile, è probabile. Per questo dico: non dimentichiamo che le Br nacquero perché il fuoco non fu spento per tempo".
Anche su questo ovviamente c'è da riflettere e, sebbene un personaggio come Cossiga, grande protettore di servizi segreti e delle loro malefatte, artefice di Gladio e al centro dei più inconfessabili segreti di Stato, sia veramente l'ultima persona che può permettersi di avanzare tali accuse, ciononostante bisogna capire che quello che dice Cossiga non è il delirio di uno sprovveduto ma è semplicemente il programma politico della borghesia nei confronti di una classe operaia non più disposta ad accettare di subire supinamente le restrizioni, gli abusi e le violenze alle sue condizioni di vita e di lavoro che vanno aumentando sempre di più.
Stante la situazione naturalmente la Riunione Pubblica indetta dalla nostra organizzazione per domani pomeriggio alla Calusca non potrà tenersi e viene rimandata a data da destinarsi. Ciononostante riteniamo di mantenere l'appuntamento con i compagni che avevano intenzione di partecipare alla nostra riunione dando loro appuntamento alla stessa ora, le 17,00 di pomeriggio, fuori della libreria Calusca o dove il movimento deciderà di riunirsi (vedi Indymedia Lombardia), per solidarizzare con gli altri compagni presenti e per discutere assieme i motivi di quello che è accaduto e come reagire.
Corrente Comunista Internazionale 22 gennaio 2009
[1] "Noi la crisi non la paghiamo", pubblicato sul nostro sito web all'indirizzo https://it.internationalism.org/node/662 [78].
[2] Intervista di Andrea Cangini a Cossiga di giovedì 23 ottobre 2008: "Bisogna fermarli, anche il terrorismo partì dagli atenei" pubblicata su Quotidiano nazionale. L'intervista integrale può essere letta su rassegna.governo.it/rs_pdf/pdf/JMS/JMSRA.pdf.
[3] https://www.youtube.com/watch?v=aOLJKz1577M&eurl=https://politicaesocieta.blogosfere.it/2008/10/cossiga-la-strategia-di-piazza-navona-blocco-studentesco-e-collettivi-ecco-chi-v&feature=player_embedded [79].
Tra il 1998 ed il 2003, la RDC, con l’aiuto dell’Angola, della Namibia e dello Zimbabwe, ha respinto gli attacchi del Ruanda e dell’Uganda, e le ostilità sono continuate da allora, in particolare nel Kivu. Queste hanno raggiunto un tale livello da costringere i gruppi armati ad un accordo di pace, firmato a gennaio dello scorso anno, incluso un cessate il fuoco completo.
Ma non è durato a lungo: nuovi combattimenti sono scoppiati in agosto provocati dall’attacco di alcune città e campi (sia di militari che di rifugiati) da parte del Congresso nazionale della difesa del popolo di Laurent Nkunda, una milizia forte di 5500 uomini. Gli spostamenti di popolazioni si sono allora aggravati. A causa dei due precedenti anni di conflitto vi erano già 850.000 persone che si erano spostate. Dal mese di agosto, altre 250.000 sono scappate dai luoghi di combattimento, e per molti di loro era la seconda o la terza volta. In tutta la RDC ci sono 1,5 milioni di profughi e più di 300.000 che sono scappati dal paese.
Con Goma, capitale del Nord Kivu, assediata dalle forze di Nkunda, ma anche parzialmente terrorizzata dai soldati congolesi che ritirandosi devastano e saccheggiano al loro passaggio, esistono seri rischi di una ripresa della guerra totale. Dal 1998, si contano già 5,4 milioni di morti, per la guerra e le violenze a questa legate, per la carestia e le malattie. Il direttore del Comitato internazionale di salvataggio considera che “Il conflitto in Congo è quello più sanguinoso al mondo degli ultimi 60 anni” (Reuters).
Per mascherare la responsabilità criminale delle grandi potenze, i media borghesi presentano sistematicamente il sanguinoso conflitto come una “guerra etnica”, (cioè una guerra tra “selvaggi”). Di fatto,è vero che esistono degli scontri di vendette tra etnie. Laurent Nkuanda grida forte che le sue forze armate si trovano al Nord ed al Sud Kivu perché la RDC avrebbe dovuto portare differenti frazioni hutu di fronte alla giustizia. Il ruolo di gruppi come le Forze democratiche di liberazione del Ruanda, che si è espresso con il genocidio di 800.000 Tutsi, è lo stesso di quello delle forze di Nkuanda, che si danno al saccheggio sistematico, violentano ed uccidono mentre attraversano il paese. Non è la prima volta che l’appello “alla difesa del popolo” serve in realtà a terrorizzare le popolazioni. In Ruanda e nella RDC, l’incitamento all’odio etnico ed al desiderio di vendetta continua a contaminare la situazione.
In realtà, non sono le popolazioni di questa regione - miserabili, super sfruttate a ed oppresse dai loro governanti e dalle bande armate - a farsi la guerra, ma sono quelli che le strumentalizzano, e cioè le grandi potenze imperialiste, che sostengono i regimi africani ed i loro oppositori locali. Sono le grandi potenze che manovrano, apertamente o di nascosto, i regimi ed i loro oppositori criminali che continuano ancora a massacrare così fortemente le popolazioni.
Vogliamo sottolineare in particolare il cinismo criminale delle autorità francesi. Facendo eco al suo presidente che spinge direttamente l’Angola ad intervenire militarmente in favore del regime congolese (sostenuto da Parigi), Bernard Kouchner, il suo ministro degli affari esteri si è ancora una volta distinto comportandosi da cinico politico guerrafondaio. Infatti, all’indomani della ripresa della carneficina del 29 ottobre, è stato il primo a chiedere pubblicamente l’invio di rinforzi militari (1500 uomini) nel Kivu con la motivazione che “è un massacro come probabilmente non si è mai visto in Africa”.
La RDC è un territorio 90 volte più grande del Ruanda, con una popolazione 6 volte maggiore, ma ha, tuttavia, una forza militare relativamente modesta, anche con l’aiuto dei 17.000 uomini dell’ONU. Il ritiro veloce del suo esercito davanti ad una nuova offensiva era scontato. Lo stato di questo esercito decomposto riflette le condizioni della classe dominante che non può controllare le sue frontiere o coloro che le attraversano. La realtà di dozzine di gruppi pesantemente armati, la maggior parte dei quali sostenuti da paesi come il Ruanda e l’Uganda, alcuni più determinati ad agire sui conflitti etnici, altri che cercano piuttosto di profittare dello sfruttamento delle risorse naturali, è un’espressione del processo di gangsterizzazione della società capitalista. In un mondo dominato dal “ciascuno per sé”, il governo della RDC non può avere la situazione in mano, ma le bande armate non possono avere altra ambizione che di diventare delle bande ancora più grandi, se vogliono sopravvivere.
Sotto l’egida dell’ONU dal 1994 (data del “genocidio ruandese”), le guerre e gli “accordi di pace” si succedono intorno ai Grandi Laghi, malgrado le risoluzioni e gli interventi di questo organismo. È chiaro che il suo ruolo principale consiste nel mascherare la vera ragione dell’intervento delle grandi potenze in questa zona ed a mistificare le coscienze scandalizzate dai loro crimini. La presenza delle forze ONU nella RDC si riassume attraverso: “(...) la più ambiziosa missione di mantenimento della pace dell'ONU,che ha inviato 17.000 uomini nel paese. Del resto, i risultati ottenuti da questa missione sono forse ancora più inquietanti. Non solo i caschi blu si sono mostrati incapaci di bloccare l’avanzata ribelle, ma non sono riusciti neanche a proteggere le popolazioni civili, che in realtà è proprio il loro mandato”[1].
L’ONU non è solamente inutile, esso è semplicemente criminale. In realtà, i 17.000 uomini in zona non stanno lì per “proteggere” le popolazioni, come preteso nelle dichiarazioni di questo “organismo”, ma per coprire “legalmente” i crimini dei differenti promotori che si nascondono dietro “l’aiuto umanitario” sotto il fallace pretesto che i caschi blu non hanno mandato per affrontare i gruppi armati. Fu questo il caso alla vigilia delle mostruose carneficine ruandesi, quando gli uomini dell'ONU - con alla loro testa i Caschi blu belgi - furono evacuati dai loro governi appena comparvero i temibili “machete”. Ed anche recentemente, nel 2004, è sotto lo sguardo dei Caschi blu che è stato permesso il massacro di popolazioni durante i combattimenti per il controllo della città di Bukavu.
Da questo si capisce meglio perché numerosi abitanti rigettano apertamente i loro “falsi protettori” dell’ONU lanciando al loro passaggio pietre ed altri proiettili per protestare contro la loro passività criminale.
In fin dei conti tuttavia, le popolazioni della RDC - e con esse la classe operaia - non sono purtroppo giunte alla fine della loro pena. Infatti, sebbene totalmente smembrata ed in totale decomposizione dopo 12 anni di distruzioni massicce, la RDC non smetterà tuttavia d’attirare più che mai i diversi avvoltoi assetati di sangue. Da un lato, perché è piena di ogni sorta di materie prime particolarmente ricercate sul mercato mondiale[2], dall’altro, perché essa costituisce di fatto un punto strategico per il suo immenso territorio, 4 volte la Francia, il Congo Kinshasa, e con esso tutta la regione, resterà il bersaglio privilegiato di tutte le potenze imperialiste che se lo contendono con le unghie e con i denti. Il capitalismo non è solamente in crisi economica: è anche il campo di morte che corrode la faccia del pianeta.
Caramina (21 novembre)
L’aggravamento della crisi economica mondiale rivela sempre più il fallimento di un sistema che non ha più alcun avvenire da offrire ai figli della classe operaia. Ma questi movimenti sociali non sono soltanto dei movimenti della gioventù ma si integrano nelle lotte operaie che si sviluppano a livello mondiale. La dinamica attuale della lotta di classe internazionale, marcata dall’entrata delle giovani generazioni sulla scena della storia, conferma che l’avvenire si trova sicuramente nelle mani della classe operaia. Di fronte alla disoccupazione, alla precarietà, alla miseria e allo sfruttamento, il vecchio slogan del movimento operaio “Proletari di tutti i paesi, unitevi” è più che mai attuale.
Invitiamo i nostri lettori a prendere visione dei nostri contributi sull’argomento (*) e a partecipare alla discussione che si svilupperà su questi temi in occasione delle nostre prossime riunioni pubbliche che avranno luogo a:
Per maggiori informazioni, fare riferimento al riquadro “Riunioni Pubbliche” che si trova qui a destra.
(*) La classe operaia sta già rispondendo alla crisi capitalista [80], Solidarietà con il movimento degli studenti in Grecia! [81], Grecia: una dichiarazione di lavoratori in lotta [82], La lotta degli studenti, in Italia come in Europa, una tappa importante della lotta di classe [83], Noi la crisi non la paghiamo [78]. Vedi anche gli altri articoli sulla pagina in lingua francese.La borghesia e la stampa ai suoi ordini si preoccupano del "ritorno del pensiero marxista" e de "l'attualità di Marx e del marxismo" meno di venti anni dopo aver proclamato trionfalmente "la morte del marxismo e del comunismo" e aver cercato di seppellirli in pompa magna dopo il crollo del blocco dell'Est e dei regimi stalinisti. Che essi tremino di nuovo non è per niente strano nella misura in cui, di fronte allo scatenarsi della crisi e agli orrori mostruosi perpetrati da questo sistema putrescente, la ripresa internazionale delle lotte operaie spinge i proletari verso la presa di coscienza che esiste una prospettiva per fare uscire l'umanità dall'impasse in cui l'ha condotta il capitalismo.
Alcuni sputano il loro veleno proclamando apertamente il loro terrore ancestrale e la loro fobia verso Marx ed i rivoluzionari e continuando a coprirli di fango e delle peggiori calunnie. Rimettono in giro la più grande menzogna della storia propagata lungo tutto il XX secolo: l'identificazione di Marx, del marxismo, del comunismo e della classe operaia con una delle forme peggiori della contro-rivoluzione, il terrore staliniano. Questi serpenti a sonagli continuano ad agitare freneticamente le loro appendici ideologiche e si commuovono per il "ritorno pericoloso dell'ideologia totalitaria", corollario, secondo loro, degli "eccessi del liberalismo" e dell'aumento vistoso delle diseguaglianze sociali. Si tratta in realtà della stessa paura per la rivoluzione proletaria che anima oggi tutti quelli che si mettono a incensare Marx per esorcizzarlo cercando di recuperarlo. Così, si vedono sempre più giornalisti o universitari che non esitano a lodarlo per farne il progenitore ed il padre profetico tutelare degli "altermondialisti", o ancora il precursore degli ecologisti. Tutto ciò viene ad illustrare ancora una volta la messa in guardia che Lenin faceva con lucidità:
"Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce." (Lenin, Stato e Rivoluzione, cap. 1).
Questa citazione quasi profetica si è rivelata con tutta la sua pertinenza nella menzogna permanente che tutti i regimi staliniani del pianeta che hanno imperversato per cinquanta anni hanno utilizzato per giustificare lo sfruttamento feroce dei proletari intrecciando elogi ai grandi rivoluzionari. Servendosi di Marx e di Engels, mummificandoli come Stalin aveva fatto con Lenin, costruendo loro delle statue, hanno teso sistematicamente a smussare, a svuotare o a deformare il contenuto rivoluzionario delle loro idee e delle loro azioni, con l'aiuto attivo delle borghesie "democratiche" che veniva in soccorso per fare una pubblicità aperta e massima dell'assolutismo e della repressione "marxiste" dei paesi stalinisti.
E se la borghesia cerca ancora oggi di fare di Marx una "icona inoffensiva" è proprio perché quest'ultimo era un autentico rivoluzionario che ha sviluppato nel corso della sua vita la lotta la più accanita contro il capitalismo al punto che la sua opera, ed il suo metodo, si mostrano di una tale potenza rivoluzionaria da affermarsi ancora oggi come l'arma la più efficace per la lotta dei proletari in vista del rovesciamento del capitalismo. Per tutta la borghesia, più che mai, come lo proclamava già la prima frase del Manifesto, "Uno spettro si aggira per l'Europa (ed oggi per il mondo intero): lo spettro del comunismo."
W (20 settembre 2008)
[1] Vedi Révolution Internationale n° 366, mars 2006 : "A propos du livre d'Attali : Karl Marx était-il un démocrate ou un révolutionnaire? [84]"
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/1/20/icconline
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/4/71/germania
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[5] https://fr.internationalism.org/ri350/ficci.htm
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/parassitismo
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/95/argentina
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/internazionalisti-argentina
[10] https://fr.internationalism.org/icconline/2005_stockwell
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/4/55/africa
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/4/82/unione-europea
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/interventi
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/lettere-dei-lettori
[18] https://fr.internationalism.org/icconline/2006/sorbonne
[19] https://fr.internationalism.org/france-cpe-3
[20] https://fr.internationalism.org/icconline/2005_banlieues_emeutes.htm
[21] https://fr.internationalism.org/RI366_supplement2.htm
[22] https://fr.internationalism.org/ri330/ficci.html
[23] https://fr.internationalism.org/ri338/rp.html
[24] https://it.internationalism.org/en/tag/3/44/corso-storico
[25] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[26] https://it.internationalism.org/en/tag/2/33/la-questione-nazionale
[27] https://es.internationalism.org/rm/2006/95_siturev
[28] https://it.internationalism.org/en/tag/4/94/sud-e-centro-america
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[41] https://es.internationalism.org/cci-online/200602/434/cuatro-intervenciones-publicas-de-la-cci-en-brasil-un-reforzamiento-de-las-pos
[42] https://it.internationalism.org/Opuscoli/Ottobre17
[43] https://es.internationalism.org/cci/200605/911/el-trotskismo-contra-la-clase-obrera
[44] https://es.internationalism.org/cci-online/200708/2006/estudiantes-en-venezuela-la-perspectiva-de-lucha-proletaria-el-camino-para-su
[45] https://es.internationalism.org/cci-online/200706/1928/chavez-explota-a-favor-del-capital-los-suenos-de-las-capas-mas-necesitadas
[46] https://es.internationalism.org/cci-online/200706/1934/acentuacion-de-la-precariedad-en-nombre-del-socialismo
[47] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[48] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
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[53] https://fr.internationalism.org/ri390/salut_au_comite_communiste_de_reflexion.html
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[55] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[56] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[57] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1968-maggio-francese
[58] https://it.internationalism.org/en/tag/2/31/linganno-parlamentare
[59] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-italiana
[60] https://world.internationalism.org
[61] https://it.internationalism.org/en/tag/4/63/india
[62] https://it.internationalism.org/rint29/etica
[63] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/influenzati-dalla-sinistra-comunista
[64] https://it.internationalism.org/en/tag/2/30/la-questione-sindacale
[65] https://it.internationalism.org/content/824/solo-una-lotta-unita-e-solidale-consente-di-resistere-agli-attacchi
[66] https://docentiprecari.forumattivo.com/t593-nuova-piattaforma-della-rete-nazionale-precari-della-scuola
[67] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[68] https://it.internationalism.org/rint29/risoluzioneinternazionale
[69] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[70] https://fr.internationalism.org/rint138/debat_interne_au_cci_les_causes_de_la_periode_de_prosperite_consecutive_a_la+_seconde_guerregmondiale_4.html
[71] mailto:[email protected]
[72] http://www.darwinisme.org
[73] https://it.internationalism.org/content/scioperi-nelle-raffinerie-di-petrolio-e-nelle-centrali-elettriche-inglesi-la-lotta-di-classe
[74] https://it.internationalism.org/content/gb-scioperi-nelle-raffinerie-di-petrolio-e-nelle-centrali-elettriche-gli-operai-cominciano
[75] https://it.internationalism.org/en/tag/4/72/gran-bretagna
[76] https://it.internationalism.org/en/tag/4/61/cina
[77] http://www.ateneinrivolta.org/content/lettera-di-militari-greci-che-si-rifiutano-di-reprimere-la-lotta-di-studenti-e-lavoratori
[78] https://it.internationalism.org/content/noi-la-crisi-non-la-paghiamo
[79] https://www.youtube.com/watch?v=aOLJKz1577M&eurl=https://politicaesocieta.blogosfere.it/2008/10/cossiga-la-strategia-di-piazza-navona-blocco-studentesco-e-collettivi-ecco-chi-v&feature=player_embedded
[80] https://it.internationalism.org/content/la-classe-operaia-sta-gia-rispondendo-alla-crisi-capitalista
[81] https://it.internationalism.org/content/solidarieta-con-il-movimento-degli-studenti-grecia
[82] https://it.internationalism.org/content/grecia-una-dichiarazione-di-lavoratori-lotta
[83] https://it.internationalism.org/content/la-lotta-degli-studenti-italia-come-europa-una-tappa-importante-della-lotta-di-classe
[84] https://fr.internationalism.org/ri366/attali.htm
[85] https://it.internationalism.org/en/tag/2/24/marxismo-la-teoria-della-rivoluzione