La preoccupazione della borghesia per gli autoferrotranvieri comincia il primo dicembre scorso, quando a Milano i lavoratori hanno deciso che gli scioperi simbolici del sindacato non servivano a niente e hanno scioperato senza rispettare le cosiddette “fasce protette”. La stessa cosa è successa il 15 dicembre, quando a non rispettare le consegne sindacali sono stati i lavoratori di diverse città, che hanno sfidato anche le minacce di precettazione, pur di cercare di dare efficacia alla loro lotta. Ed ancora il 20 dicembre e nei giorni immediatamente successivi, quando i lavoratori sono scesi spontaneamente in sciopero contro l’accordo bidone che i sindacati avevano siglato con il governo, che prevedeva un aumento di 80 euro, contro i 106 della piattaforma contrattuale (corrispondente alla perdita di potere d’acquisto calcolato con l’inflazione programmata, cioè un aumento ridicolo, visto che l’inflazione reale è di gran lunga più alta), e 600 euro di arretrati, contro i 2000 e passa dovuti per i mesi di vacanza contrattuale.
Questo accordo è stato proprio l’inizio della controffensiva della borghesia contro questo scoppio di combattività operaia. Una controffensiva affidata a quelli che sono i migliori difensori dell’ordine borghese, i sindacati (ed infatti a niente erano servite le minacce di denuncia per interruzione di pubblico servizio, o di sanzioni per il mancato rispetto della legge che “regolamenta” - ovvero, limita - gli scioperi nel settore dei pubblici servizi). Firmando un accordo con una cifra superiore a quella offerta dalle aziende fino a poche settimane prima, i sindacati volevano dare ai lavoratori l’impressione di aver conseguito una vittoria, e allo stesso tempo volevano metterli di fronte al fatto compiuto: non accettando l’accordo i lavoratori avrebbero dovuto scioperare senza l’avallo dei sindacati. Ed è proprio quello che è successo in diverse città nei giorni successivi all’accordo, per cui i sindacati hanno dovuto continuare il loro sporco lavoro per convincere i lavoratori ad arrendersi. Così si è passati alla firma dell’accordo integrativo con l’ATM di Milano, che concedeva i famosi 25 euro mancanti (ma in cambio di una maggiore flessibilità del lavoro), per cercare di dividere il fronte degli scioperanti, proprio a partire dalla città che aveva dato il via al movimento. Contemporaneamente la CGIL teneva le assemblee con i propri iscritti, per convincerli della bontà dell’accordo, e allo stesso tempo per cercare di intimidirli, mettendo avanti tutti i rischi di scioperi fatti contro le regole stabilite (da loro).
Ma il lavoro più efficace è toccato ai sindacati che meno avevano responsabilità nella lunghezza della vacanza contrattuale e nella sequela di scioperi (sette) senza risultati: i sindacati di base, che erano stati gli unici a non condannare gli scioperi spontanei delle settimane precedenti. In questa maniera essi avevano conservato una certa fiducia presso i lavoratori, per cui si sono potuti presentare come quelli che avrebbero continuato la lotta. Però i sindacati hanno tutti la stessa natura: quelli di sabotatori delle lotte proletarie. Ed infatti anche i Cobas hanno fatto di tutto (riuscendovi questa volta) per spingere i lavoratori a rientrare nei ranghi. Prima hanno proclamato uno sciopero per il 9 gennaio (nel sacrosanto rispetto della tregua natalizia, cioè allo scopo di far allentare la tensione), con tutti i crismi del rispetto della legge di regolamentazione (e per questo si sono presi il plauso anche del giornale di Rifondazione Comunista, Liberazione, che il 10 gennaio presentava lo sciopero in questa maniera: “piena responsabilità dei lavoratori che hanno garantito senza alcuna eccezione le fasce orarie garantite”). Recuperato tempo in questa maniera, i Cobas hanno subito proclamato un altro sciopero per il 26 gennaio, spostato poi al 30 gennaio, preoccupandosi però di continuare a dividere i lavoratori, spostando lo sciopero dei tranvieri milanesi a data da destinarsi con la scusa del concomitante sciopero dei tassisti il 30, venendo ancora una volta meno alla banale considerazione che uno sciopero debba dare un qualche risultato. Naturalmente questo sciopero ha avuto una minore partecipazione, a testimonianza della riuscita dell’opera di pompieraggio fatta dal sindacalismo di base, al punto che possiamo ben pensare che il movimento dei tranvieri è, almeno per il momento, terminato. Terminato con pochi o nessun risultato per i lavoratori, ma comunque con tutta una serie di lezioni che possono tornare utili per le prossime lotte.
Innanzitutto l’importanza di questo movimento sta da un lato nella combattività che si è espressa, una combattività che mostra che la classe operaia sta uscendo da quel periodo di riflusso della combattività che aveva seguito il crollo dello stalinismo, e la conseguente campagna sulla fine del comunismo, che aveva lo scopo di iniettare sfiducia nella classe. E’ stata questa volontà di battersi veramente che ha fatto sì che i lavoratori fossero spinti ad andare al di là delle consegne sindacali e a sfidare anche tutte le minacce di denunce e sanzioni. Un altro aspetto importante è stata la solidarietà e la compattezza che i lavoratori del settore hanno saputo dimostrare, lottando uniti in tutto il paese, giovani e vecchi. Questa compattezza nel settore ha mostrato però anche il più forte limite del movimento, quello di essere rimasto isolato all’interno del singolo settore, cosa che indebolisce l’impatto di qualsiasi movimento.
Allo stesso tempo questo movimento ha mostrato la vera natura dei sindacati, quella di sabotatori della lotta operaia, alla faccia di tutti quelli che pensano che per poter lottare ci vuole un sindacato, questo movimento ha dimostrato che quando c’è una vera volontà di battersi, i lavoratori sono in grado di organizzare la propria lotta cercando i mezzi migliori per darle efficacia. Viceversa quando essi si affidano ai sindacati (siano essi quelli tradizionali, o i nuovi) non solo non riescono a dare nessuna efficacia alla loro lotta, ma subiscono anche tutto il lavoro di pompieraggio che questi fanno. Queste lezioni dovranno tornare preziose ed utili per le prossime lotte, perché i motivi della lotta degli autoferrotranvieri, cioè la necessità di aumentare un salario che non basta più a campare, accomunano tutti i lavoratori, perché l’impoverimento di questi ultimi anni, e il peggioramento delle condizioni di lavoro, ha colpito tutti i lavoratori indistintamente.
9 feb '04 Helios
Il marchio Parmalat è conosciuto in tutto il mondo, non solo per i prodotti venduti ma anche per le sponsorizzazioni miliardarie sulle maglie dei calciatori e sulle auto da corsa. I suoi prodotti ancora oggi sono richiesti, le sue fabbriche continuano a funzionare, in breve non è in discussione la credibilità del marchio dal lato produttivo. Così come non era in discussione la credibilità dei pelati Cirio, altro marchio conosciuto a livello mondiale. L’importanza del caso Parmalat, che apre da più di un mese i telegiornali e le prime pagine dei giornali non solo in Italia, è data dalla scoperta di un buco contabile dalle dimensioni gigantesche, 14 miliardi di euro, vale a dire circa 28.000 miliardi delle vecchie lire, somma che in teoria dovrebbero riavere i vari creditori, banche, sottoscrittori di bond, etc.. Ma che non vedranno più.
La storia della Parmalat inizia a Collecchio, vicino a Parma nel 1962. La famiglia Tanzi passa da una piccola produzione locale di salumi alla vendita del latte prima in zona poi a scala planetaria. Una McDonald’s italiana. Gli affari vanno bene, ci sono appoggi da parte della ex Democrazia Cristiana. Il valore del gruppo procede lentamente per 30 anni fino alla fine degli anni ’80. Negli anni ’90 il valore segue una curva esponenziale passando da circa 500 milioni di euro a circa 7.800 milioni nel 2002! Questi salti erano possibili nell’800 quando il capitalismo in piena espansione poteva contare su un saggio di profitto elevato e su un mercato in piena espansione, che permetteva di ripagare in poco tempo i debiti emessi. Nell’epoca attuale, quando anche i prodotti innovativi ad alto valore tecnologico hanno una breve durata causa il restringimento del mercato, non è possibile che prodotti come latte e merendine diano la possibilità di questa espansione. A meno che…. , a meno che non si faccia ricorso a tante operazioni che noi comprendiamo solo in parte ma che alla fine hanno a che vedere con imbrogli, trucchi, false informazioni, spostamenti di capitali, ricorso a prestiti, i cosiddetti bond, che servono a coprire i debiti in scadenza, e questo se all’inizio è fatto da piccole cifre alla fine diventa un buco colossale di 13-14 miliardi di euro, almeno finora.
Il desiderio e il destino di ogni capitalista è diventare il leader mondiale del suo settore. E magari di altri. Desiderio perché il piccolo imprenditore che ha successo nei suoi affari investe i profitti nell’allargamento della sua impresa, e finché segue le regole questo allargamento va lentamente. Destino perché ogni capitalista per poter sopravvivere deve continuamente lottare contro la concorrenza, una volta a livello locale oggi a livello planetario, in quanto sono in molti a produrre le stesse cose. In questa lotta o si va indietro e si scompare o si avanti e si diventa leader. Lotta senza esclusione di colpi: spionaggio, tangenti, crimini vari. Lo dice persino il magistrato Borrelli in una intervista “Si è passati a un desiderio di ricchezza planetaria, del tutto sganciata dalla produzione. Qui si gioca sul denaro per produrre altro denaro, fino a cifre che danno il capogiro. Capisco la valigetta con 500 milioni di lire portata ad un partito per favorire i propri interessi, ma che vuol dire un buco di miliardi di euro? È una cifra che dà un senso di infinito, che ti fa pensare qualsiasi cosa. Che abbiano finanziato delle guerre, delle rivoluzioni.. Non invidio i magistrati che se ne stanno occupando” (L’espresso 29/2/04). A parte il fatto che i capitalisti non finanziano le rivoluzioni, semmai i colpi di stato, le cose dette dal magistrato sono pane di tutti i giorni per tutti i capitalisti in tutto il mondo.
La ricchezza sganciata dalla produzione è la ricchezza che deriva dall’uso dei cosiddetti strumenti finanziari, che ha come punti di riferimento non tanto la fabbrica o gli allevamenti quanto il casinò dove si deve sperare solo nella buona fortuna. E a questo gioco non partecipano solo i capitalisti alla Tanzi ma tutti i capitalisti degni di questo nome, e più di tutti gli Stati, grandi o piccoli, dall’enclave palestinese di Arafat agli Stati Uniti, che con il loro debito fanno impallidire qualsiasi Tanzi. I casi Parmalat, Cirio in Italia, Enron negli Usa, Vivendi in Francia e tanti altri, sono solo la punta dell’iceberg, quelli che esplodono, ma nella sostanza è tutto il capitalismo che sopravvive su una montagna di debiti statali, industriali e privati. Lo Stato italiano riesce a tirare avanti con il suo debito che è superiore al Prodotto Interno Lordo di un intero anno perché è ancora relativamente forte, per cui riesce a farsi rifinanziare il debito ma altrettanto non è accaduto per Messico e Corea, per i paesi del sud-est asiatico e tanti altri, per finire all’Argentina, che è crollata trascinando con sé tutta la popolazione, non solo i famosi “piccoli risparmiatori” di tutto il mondo. Queste crisi saranno sempre più numerose perché alla base non c’è l’avidità del singolo capitalista ma il funzionamento del sistema capitalista che non riesce più a valorizzare il capitale investito attraverso la vendita dell’intera produzione. Tutti quelli che criticano la mancanza di controllo da parte delle banche, le società di revisione, etc,. mentono perché sanno bene che è tutto il sistema che funziona così. Sanno bene che nel prossimo futuro aumenteranno i casi Parmalat e i casi Argentina, e le conseguenze saranno peggiori. La Cina, per esempio, ha un altissimo tasso di crescita economica e viene lodata per questo ma sarà l’Argentina moltiplicata per mille quando i suoi debiti arriveranno alla scadenza. Il magistrato Borrelli si metterà pure le mani nei capelli per la grandezza della cifra “scomparsa” ma non riuscirà mai a dire che è il sistema capitalista che non funziona e che quindi è necessario abbatterlo per costruire una società senza capitali e senza capitalisti, una società comunista.
31/1/04 Oblomov
Non ci sono speranze nelle false spiegazioni
Di fronte a un mondo che sprofonda rapidamente nel caos, milioni di persone si sono rivolte alla religione – all’islamismo, al cristianesimo, ai numerosi culti New Age – per recuperare qualche speranza. Molti vedono lo stato catastrofico del mondo come il realizzarsi di vecchie profezie. Ma questo volo all’interno di arcaiche mitologie è esso stesso l’espressione di un sistema sociale decadente. E tutte le ideologie apocalittiche hanno un aspetto in comune: ridurre il genere umano in un passivo giocattolo nelle mani delle forze divine, opponendosi così ad ogni comprensione razionale del disordine attuale e di conseguenza a ogni soluzione basata sull’azione umana cosciente.
Molti attribuiscono la responsabilità dei problemi del mondo a singoli capi. Le dimostrazioni di massa contro la visita di Bush in Gran Bretagna sono state largamente animate dalla forte ostilità verso i singoli governanti della Casa Bianca e di Downing Street oltre che alle cricche intorno a loro, come se dei leader diversi o delle compagini governative diverse avessero potuto seguire una strategia sostanzialmente diversa per gli imperialismi USA e inglese. Questa in realtà non è che l’immagine speculare dell’incolpare Bin Laden o Saddam di tutto il terrorismo e dell’insicurezza nel mondo.
Ma forse la più falsa di tutte le false spiegazioni è la moda attuale per l’«anti-capitalismo», l’«anti-globalizzazione» e la «mondializzazione alternativa», rappresentata dallo smisurato Social Forum Europeo recentemente tenuto a Parigi. Uno strano «anticapitalismo» questo, che accetta fondi enormi dallo Stato (per esempio, oltre due milioni di euro sono stati dati al Forum dalle amministrazioni locali di Parigi e delle regioni circostanti); che predica non la fine del mercato ma un «mercato onesto»; che non vuole che gli stati nazionali vengano aboliti ma che siano rafforzati contro il «potere globalizzante delle multinazionali»; che dichiara che il «mondo alternativo» verrà fuori non da quello che Marx chiamò il becchino del capitalismo, cioè la classe operaia internazionale, ma dalla massa amorfa di «cittadini» che reclamano i loro «diritti democratici».
Ognuna di queste spiegazioni serve gli interessi dell’attuale sistema sociale, perché ognuna di esse distoglie e blocca ogni ricerca genuina delle cause che sono alla base del degrado della civiltà attuale. La classe che governa questo sistema, la borghesia, farà tutto quello che è in suo potere per nascondere questa verità: che la forma attuale di organizzazione sociale, l’ordine capitalista che domina l’intero pianeta, è divenuto non solo un ostacolo per l’ulteriore sviluppo sociale, economico e culturale, ma anche una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità.
Per la rivoluzione dei lavoratori
Queste false ideologie non solo bloccano ogni comprensione della causa, ma ostacolano anche la soluzione dei problemi: la rivoluzione della classe operaia, una classe che ha la capacità di distruggere questo capitalismo produttore di morte e stabilire una nuova società basata su relazioni di solidarietà. Il capitalismo è diviso in un disordine caotico di unità nazionali che difendono i loro interessi particolari con ogni mezzo militare – la rivoluzione della classe operaia internazionale fornisce la base per un’unica comunità umana. Il capitalismo è un’economia inevitabilmente attraversata da crisi votata alla produzione per il profitto della borghesia, laddove la classe operaia può stabilire un’organizzazione della produzione impostata per rispondere ai bisogni umani. Il capitalismo dedica le sue energie al raffinamento e al rafforzamento della sua macchina repressiva statale, mentre il rovesciamento del capitalismo apre la possibilità per l’uomo “di organizzare le sue forze politiche e sociali”, come Marx affermò.
Poiché l’attuale organizzazione della società è del tutto contro i reali interessi della gran parte dell’umanità e va a beneficio solo di una infima minoranza di sfruttatori che la governano, essa non può essere riformata. Può essere solo rimpiazzata da una rivoluzione che porta avanti lo stesso programma in tutti i paesi: la distruzione dello stato capitalista; l’affermazione del potere politico dei consigli operai; l’abolizione della proprietà privata e della produzione finalizzata alla vendita e al profitto.
Il passaggio difficile è rompere con tutte le abitudini, l’etica e le ideologie che sono quotidianamente pompate nel nostro cervello dall’ordine esistente. Ed ancora avere la chiarezza teorica per vedere la bancarotta degli attuali rapporti sociali e la fiducia politica di centinaia di milioni di anonimi lavoratori di assumere il completo controllo della gestione della società.
Quelli che si oppongono alla rivoluzione, da destra a sinistra, denunciano questa prospettiva, al meglio, come un’idea utopica e irrealistica, al peggio, come l’apportatrice di nuove e anche più terribili forme di caos e tirannia.
Ma non è un’utopia – ovvero uno schema astratto proveniente dal nulla, il semplice sogno di intellettuali isolati. E’ invece la logica conclusione della lotta di una forza sociale molto concreta – la classe operaia – contro lo sfruttamento. E a dispetto di tutte le proclamazioni del contrario, a dispetto di tutte le sue difficoltà reali, quella lotta oggi sta sempre più alzando la testa.
La ripresa della lotta di classe, avvenuta alla fine degli anni ’60, ha prodotto venti anni di ondate di lotte operaie. Poi, dalla fine degli anni ’80, vi è stata una offensiva della propaganda borghese tendente a demoralizzare i lavoratori con la propaganda sulla “fine della lotta di classe” basata sul crollo del regime sovietico identificato falsamente come un regime comunista. Ma la recente rottura di movimenti a grande scala contro gli attacchi allo stato sociale in Europa, il ritorno di scioperi spontanei in Gran Bretagna, in Italia e in altri paesi, confermano ancora una volta che la classe operaia continua a reagire alla crisi del sistema, di cui è la principale vittima. Per quanto limitati possano sembrare, le lotte difensive di oggi contengono il potenziale per lo sviluppo di lotte più di massa, più coscienti e più politiche in cui la prospettiva della rivoluzione non è più vista come un’utopia, ma come l’unica risposta realistica della classe operaia alla deriva del capitalismo verso la guerra e la barbarie.Nei primi dieci mesi del 2003 ci sono state lotte a grande scala cui hanno partecipato operai di vari settori che hanno lottato con una determinazione sconosciuta fin dagli anni 80. A maggio e giugno milioni di operai in Francia hanno dimostrato contro gli attacchi alle pensioni. In Austria ci sono state una serie di dimostrazioni, anche contro gli attacchi alle pensioni, culminanti il 3 giugno con la più grande dimostrazione vista dalla seconda guerra mondiale quando milioni di persone sono scese in strada (questo è un paese con una popolazione inferiore a 10 milioni).
Ci sono inoltre state lotte significative, ufficiose, isolate, spontanee: lo sciopero a sorpresa degli operai della British Airways a Heathrow, lo sciopero spontaneo fatto da 1000 operai all’Alcatel-Espace a Tolosa a giugno e ad agosto da 2000 operai precari di una raffineria di petrolio di Puertollano (Spagna) dopo un incidente che ha ucciso 7 operai. A settembre circa 2.000 operai del cantiere navale di Humberside, di tre ditte differenti, hanno fatto uno sciopero selvaggio a sostegno di 98 operai in subappalto che erano stati licenziati per aver richiesto un aumento di 1.95 sterline all’ora (€ 3 circa). C’è anche in questi giorni lo sciopero dei lavoratori delle poste in Gran Bretagna, cui partecipano almeno 20.000 operai.
C’è stato un numero crescente di lotte nella maggior parte dei paesi europei e negli Stati Uniti. Per esempio, in California ci sono stati scioperi nel sistema dei trasporti pubblici a Los Angeles che con azioni di solidarietà hanno chiuso le linee di bus, il metro ed il trasporto ferroviario leggero. Uno sciopero di 70.000 operai dei supermercati in California ha interessato per la prima volta da 25 anni quasi 900 negozi. In Grecia c’è stata un'ondata di scioperi nel settore pubblico che ha visto la partecipazione di migliaia di operai compresi gli insegnanti, il personale medico, i pompieri e le guardie costiere. Inoltre sono scesi in sciopero ed hanno dimostrato altri strati quali 15.000 tassisti ateniesi.
Dopo 14 anni senza mobilizzazioni su grande scala, i bassi livelli degli scioperi registrati nei principali paesi capitalisti ed i proclami della classe dominante sulla fine della lotta di classe, queste lotte recenti sono l'espressione di un cambiamento nella situazione sociale.
Che cosa significano queste lotte
Per capire completamente il significato e l'implicazione di queste lotte è necessario metterle nel loro contesto storico. A livello immediato le lotte di questo anno non sono differenti da quelle di altri periodi di lotta dal 1989. Nel 1993 ci sono state enormi dimostrazioni in Italia contro gli attacchi alle pensioni, nel 1995 c’è stato un movimento di classe di grande importanza in risposta ad attacchi simili in Francia. Tuttavia, questo anno abbiamo visto movimenti simultanei, lotte che si susseguivano e lo sviluppo di piccole ma significative lotte non dichiarate. Soprattutto, queste lotte sono state inserite in un contesto di crescente disagio nella classe operaia riguardo al futuro che il capitalismo le riserva.
Ai tempi delle lotte in Francia i confronti sono stati fatti con il maggio 68. Non abbiamo visto questo anno come se fosse un nuovo 68, ma il paragone evidenzia l'importanza del fattore del nascente interrogarsi dei lavoratori sul capitalismo.
“Nel 1968 uno dei fattori principali nel risorgere della classe operaia e delle sue lotte sulla scena della storia a livello internazionale era la conclusione brutale delle illusioni incoraggiate dal periodo della ricostruzione, che per una intera generazione aveva permesso una situazione euforica di pieno impiego durante la quale le condizioni di vita della classe operaia avevano conosciuto un netto miglioramento, dopo la disoccupazione degli anni ’30, il razionamento e le carestie durante la guerra e nell’immediato dopoguerra. Con le prime manifestazioni della crisi aperta, la classe operaia si è sentita sotto attacco non soltanto nelle condizioni di vita e di lavoro, ma anche in termini di mancanza di prospettive per il futuro, di un nuovo crescente periodo di ristagno economico e sociale come conseguenza della crisi mondiale. L’ampiezza delle lotte operaie a partire da maggio 68 ed il riapparire della prospettiva rivoluzionaria hanno indicato chiaramente che le mistificazioni borghesi sulla ‘società dei consumi’ e ‘l’imborghesimento del proletariato’ stavano crollando. Mantenendo le proporzioni, ci sono analogie fra gli attacchi attuali e la situazione a quel tempo. Ovviamente non si tratta di identificare i due periodi. Il I968 è stato un avvenimento storico importante che ha segnato l’uscita da più di quattro decenni di controrivoluzione; ha avuto un effetto sul proletariato internazionale incomparabilmente più grande della situazione attuale.
Ciò nonostante oggi stiamo testimoniando il crollo di ciò che appariva in qualche modo come una consolazione dopo anni di prigione del lavoro salariato e che ha costituito una delle colonne che hanno permesso al sistema di ‘tenere’ per 20 anni: pensione all'età di 60 anni, con la possibilità a quell'età di godere una vita tranquilla libera da numerosi vincoli materiali. Oggi, i proletari si vedono costretti ad abbandonare l'illusione di potere scappare durante gli ultimi anni della loro vita da ciò che è visto sempre di più come un calvario: il degradamento delle condizioni di lavoro in una situazione in cui c’è sempre mancanza di personale e la quantità di lavoro ed il ritmo aumentano costantemente. Sia essi dovranno lavorare per più tempo e questo significa una riduzione della lunghezza del periodo in cui avrebbero potuto infine scappare alla schiavitù salariale, oppure perché non hanno contribuito abbastanza a lungo saranno ridotti ad una miseria nera dove la privazione sostituirà i ritmi infernali. Questa nuova situazione pone, per tutti gli operai, la questione del futuro." ('Di fronte agli attacchi massicci del capitale, il bisogno d’una risposta massiccia della classe operaia’ Rivista Internazionale n°114).
Questa questione è rafforzata dall'esperienza del proletariato negli ultimi 14 anni. Con il crollo del blocco orientale il proletariato è stato spinto in una ritirata profonda. Il crollo ha lasciato gli operai con un sentimento di impotenza mentre l’intera situazione internazionale è cambiata, con il mondo ingolfato nel caos. Nello stesso tempo la classe dominante ha usato il crollo e il crescente ‘boom’ economico degli anni 90 per spingere l'idea che la lotta di classe era morta e che gli operai avrebbero dovuto vedere se stessi come cittadini con una parte nella società. Queste campagne si sono scontrate con la realtà della recessione dall'inizio del nuovo secolo e con lo scoppio successivo della bolla di internet e con la marea di licenziamenti che sta spazzando gli Stati Uniti, l’Europa ed il resto del mondo. Nello stesso tempo, in tutta l’Europa, gli Stati Uniti e altrove, gli stati capitalisti stanno attaccando lo stato assistenziale; tagli ai sussidi e al diritto alla disoccupazione, tagli alle pensioni, attacchi alla salute, allo studio ecc. Tutto questo dimostra alla classe operaia che cosa il capitalismo ha da offrire e genera una determinazione tra gli operai nel rispondere agli attacchi sulle pensioni e altre parti del salario sociale.
Le più piccole, isolate e ufficiose lotte esprimono un crescente scontento nel proletariato contro l’accettazione degli attacchi imposti da chi comanda e dai sindacati. Il personale addetto al controllo a Heathrow, non famoso per la sua militanza, semplicemente non aveva più stomaco per subire un altro attacco o la complicità del sindacato, e così lo hanno buttato fuori. Il fatto che un così piccolo numero di operai abbia potuto causare tali preoccupazioni a capi, sindacati e mezzi di comunicazione era un esempio lampante del fatto che la classe dominante sa che qualcosa sta cambiando nella situazione sociale
La prospettiva
Il potenziale contenuto nella situazione attuale è di importanza storica. Oggi non è come nel 1968, la classe non sta emergendo da un periodo di decenni di sconfitta storica, ma da un decennio e più di ritirata. E prima del 1989 c’erano stati 20 anni di ondate di lotta. Quindi, le attuali generazioni operaie hanno potenzialmente 30 anni di esperienza di confronto con gli attacchi e le manovre della classe dominante cui attingere. Ciò, unito all’interrogativo che si sta facendo avanti sulla natura sempre più globale degli attacchi, potrebbe fornire le condizioni per importanti sviluppi verso gli eventuali decisivi scontri di classe tra il proletariato e la borghesia, che determineranno la capacità del proletariato di passare all'offensiva rivoluzionaria.
Identità di classe, la questione chiave per la classe operaia.
Punto centrale di questa prospettiva sarà la capacità del proletariato di riguadagnare e rinforzare la sua identità di classe. Per ‘identità di classe’ esprimiamo la comprensione di far parte di una classe, con interessi comuni da difendere. Questo senso di classe sarà la base per condurre eventuali lotte su un altro livello attraverso la loro estensione ed auto-organizzazione.
La natura degli attacchi sta dando la possibilità a questo di accadere. Lo smantellamento 'dei tamponi sociali’ dello stato assistenziale, con l'intensificazione dello sfruttamento nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali etc e lo sviluppo della disoccupazione di massa (oltre 5 milioni in Germania, 10% della popolazione attiva, posti persi negli Stati Uniti a un livello sconosciuto per decenni, 800.000 posti persi nel Regno Unito dal 1997, etc) confrontano gli operai con la brusca realtà del capitalismo: o lavori con le budella di fuori per produrre plusvalore o marcisci in povertà. Per decenni la classe dominante ha cercato di usare lo stato assistenziale per ammorbidire l'effetto del capitalismo sulla classe operaia, ma ora la verità di ciò che Marx dice nel capitale sta diventando più chiara: "la produzione capitalista della merce è così la prima formazione economica nella storia dell’umanità in cui la disoccupazione ed la miseria di un grande e crescente strato della popolazione, e la diretta indifesa povertà di un altro strato anch’esso crescente, non sono soltanto il risultato, ma anche una necessità, una condizione per l'esistenza di questa economia. L'insicurezza dell'esistenza dell’intera popolazione lavoratrice e la cronica mancanza.. per la prima volta sono diventati fenomeni sociali normali "(Il Capitale vol.1).
Il contrattacco della borghesia
La classe dominante è completamente informata della minaccia posta dalla classe operaia. Lo stato capitalista ha un intero apparato per occuparsi delle azioni degli operai: i sindacati, la democrazia, l’estrema sinistra, i tribunali, la polizia ecc. Ciò nonostante, il suo più grande timore è che gli operai sviluppino la loro identità di classe e sulla base di questa comincino a porre gli interrogativi politici sulla natura del capitalismo e l'esigenza di un'alternativa.
Quindi, quando la borghesia francese ha dovuto effettuare un attacco frontale contro la classe operaia ha fatto tutto ciò che poteva per fermare lo sviluppo di un senso d'identità di classe. I sindacati e la sinistra hanno presentato questo come una lotta contro 'la linea dura' dell’ala destra governativa, piuttosto che il capitalismo è la causa. Tutti i settori della popolazione sono stati mobilitati. Ed inoltre hanno portato ad esempio gli insegnanti, la cui lotta ha sofferto una brutale sconfitta. In Austria i sindacati sono stati così abili nel contenere la rabbia all'interno di dimostrazioni e di scioperi limitati. In Germania, la classe dominante ha potuto usare le lotte in Francia e Austria mescolandole con una lotta degli operai delle costruzioni nell'est, che, con la richiesta di parità salariale con gli operai nell'ovest, ha alimentato le divisioni. Sono stati abili a utilizzare la rabbia dei lavoratori contro altri lavoratori che non hanno partecipato allo sciopero.
Quest’ultimo attacco è stato un'espressione del problema più largo della decomposizione che il proletariato affronterà nelle lotte future. Il deperimento crescente del tessuto sociale funziona contro lo sviluppo dell'identità di classe perché genera l'idea di ciascuno contro tutti. Ogni individuo o settore operaio è incoraggiato a preoccuparsi della sua sopravvivenza di ogni giorno, anche se questo porta ad attaccare i compagni di lavoro. Durante le lotte degli insegnanti in Francia, i sindacati radicali hanno incoraggiato l'idea di diversi militanti operai di provare ad imporre la lotta ad altri operai bloccando le scuole, le strade etc, conducendo all'ostilità fra gli operai e ad una profonda demoralizzazione. In Spagna (Puertollano) i sindacati hanno mantenuto la lotta degli operai in subappalto separata dagli operai stabili, conducendo ancora all'ostilità ed alla demoralizzazione.
La classe dominante è molto sofisticata ed ha molta esperienza da utilizzare nelle sue lotte contro il proletariato. È essenziale capire questo, perché sottovalutare la capacità del nemico di classe significa disarmare la classe operaia. Le odierne lotte sono soltanto i primi insicuri passi nell'apertura di un periodo di sviluppo potenziale della lotta di classe. La borghesia sta facendo tutto il possibile per minare, deviare e corrompere la combattività della classe operaia e il suo approfondimento della coscienza.
La classe operaia è di fronte ad una sfida enorme. Sta andando per uno sviluppo lungo e tortuoso delle lotte contrassegnate da sconfitte e battute d'arresto. Gli operai dovranno far fronte agli effetti devastanti dell’approfondimento della crisi: disoccupazione di massa e povertà. Prendere parte alla lotta è un processo molto difficile, ma la riflessione seria che deve accompagnare lo sviluppo delle lotte dà loro più significato politico. Lo sviluppo della lotta inoltre permetterà al proletariato di cominciare a tirare fuori gli insegnamenti che già aveva cominciato ad afferrare negli anni 80, in particolare sul ruolo dei sindacati e sulla necessità di allargare le lotte ad altri settori. Questo intero processo sarà alimentato e stimolato da un interrogativo più largo sul sistema capitalista. Il cambiamento della situazione sociale è una sfida storica grande, ma non c’è alcuna garanzia che la classe e le sue minoranze rivoluzionarie saranno capaci di affrontarla. Ciò dipenderà dalla determinazione e dalla volontà della classe e delle sue minoranze.
1/11/03 Phil
Duecento morti e più di 1500 feriti, quattro treni distrutti, corpi umani così terribilmente straziati che possono essere riconosciuti solo con l’analisi del DNA- questo è il bilancio terribile dell’attacco terroristico del cosiddetto “Treno della morte” che violentemente ha scosso il mattino dell’11 marzo a Madrid.
Come gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, questo è un atto di guerra. E ancora una volta le vittime sono essenzialmente tra la popolazione civile indifesa, specialmente lavoratori: quelli che, ogni giorno, dappertutto, affollano i treni della periferia per recarsi al lavoro; figli di lavoratori che, ogni giorno, dappertutto, prendono lo stesso treno per andare a scuola o all’università. Il semplice fatto che tu viva in un quartiere dormitorio nella periferia cittadina e ti tocca prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro fa di te una facile vittima del terrore, e rende possibile che questo terrore arrivi a tali proporzioni enormi e macabre.
Come l’11 settembre, l’11 marzo è una data importante nella storia dei massacri terroristi. Non solo è il più grande massacro inflitto alla popolazione spagnola fin dalla guerra civile del 1936-39, è anche il più grande attacco terroristico in Europa fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La borghesia di diverse nazioni sta versando torrenti di lacrime di coccodrillo sulle vittime. Ha proclamato in Spagna tre giorni di lutto nazionale; ha inondato i media con speciali notiziari, ha dichiarato minuti di silenzio, ha indetto dimostrazioni contro il terrorismo. Da parte nostra, come dicemmo dopo l’11 settembre, neghiamo alla borghesia ipocrita e ai suoi compiacenti media ogni diritto di piangere sui lavoratori massacrati, perché “la classe dominante capitalista si è resa già responsabile di troppi massacri ed eccidi: la tremenda carneficina della Prima Guerra Mondiale, quella ancora più abominevole della Seconda, dove per la prima volta le popolazioni civili furono gli obiettivi principali. Ricordiamoci di cosa è stata capace la borghesia: i bombardamenti di Londra, di Dresda e di Amburgo, d’Hiroshima e Nagasaki, milioni di morti nei campi di concentramento nazisti e nei gulag… Ricordiamoci l’inferno dei bombardamenti sulle popolazioni civili e sull’esercito iracheno in fuga durante la Guerra del Golfo del 1991, e delle centinaia di migliaia di morti… Ricordiamoci le stragi quotidiane in Cecenia, che continuano ancora, perpetuate con la piena complicità degli Stati democratici d’Occidente… Ricordiamoci la complicità degli Stati belga, francese, e americano nella guerra civile in Algeria, i terribili pogrom in Ruanda… E ricordiamoci infine che la popolazione afgana, oggi terrorizzata dalla minaccia dei bombardamenti americani, ha sofferto venti anni di guerra interrotta.(…) Questi sono solo alcuni esempi tra tanti dello sporco lavoro del capitalismo, nel pieno di una crisi economica senza fine e nella sua irrimediabile decadenza. Un capitalismo senza via di scampo.” (a New York e in tutto il mondo, il capitalismo semina morte’, Revue Internationale 107, ottobre 2001).
E da allora la barbarie è peggiorata. Questa terribile lista si è accresciuta con la seconda guerra del Golfo, le uccisioni interminabili nel Medio Oriente, le recenti stragi ad Haiti, gli attentati terroristici a Bali, Casablanca e Mosca. E adesso dobbiamo aggiungere alla lista l’attacco alla stazione di Atocha a Madrid.
Gli attacchi dell’11 marzo non sono un attacco contro la “civiltà”, ma l’espressione della reale natura di questa “civiltà” della borghesia: un sistema di sfruttamento che trasuda da tutti i suoi pori povertà, guerre e distruzione. Un sistema che non ha altra prospettiva da offrire all’umanità che barbarie e distruzione. Il terrorismo non è un sotto prodotto del capitalismo, un figlio bastardo che questo vorrebbe ignorare, ma è un suo prodotto organico, il suo figlio legittimo, come lo è la guerra imperialista; e più il capitalismo affonda nella sua fase finale del suo declino, la fase della decomposizione, e più il terrorismo è destinato a diventare più selvaggio e irrazionale.
Una delle caratteristiche della decadenza del capitalismo è che la guerra imperialista è divenuta il modo di vita permanente del sistema con la conseguenza che “queste classi piccole borghesi hanno perso completamente la loro indipendenza e funzionano solo come una massa di manovra e di sostegno negli scontri tra le diverse fazioni delle classi dominanti, dentro e fuori le frontiere nazionali“ (“Terrore, terrorismo e violenza di classe”, nostro opuscolo, 1978). Dagli anni ’60 fino ad oggi, l’evoluzione del terrorismo conferma completamente questa caratteristica di strumento utilizzato dalle varie fazioni della borghesia nazionale o da ogni imperialismo nella loro lotta contro i rivali sul piano interno e nell’arena imperialista. Il terrorismo diviene un figlio caro al capitalismo, sapientemente nutrito con il sangue degli uni o degli altri. Terrorismo e conflitti imperialisti sono ormai sinonimi. Durante gli anni ’60 e ’70 la borghesia non esitava un solo istante ad utilizzare l’assassinio “selettivo” dei capi politici per regolare i suoi affari interni. Ricordiamo la bomba che ha buttato in aria Carrero Blanco (primo ministro sotto il regime di Franco). Questa azione -il punto più alto del terrorismo dell’ETA- è stata utilizzata dalla borghesia per accelerare il cambiamento del regime in Spagna. La borghesia non si è neanche tirata indietro nell’uso del terrorismo per destabilizzare il Medio Oriente come nel caso dell’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat nel 1981 o di quello israeliano Yitzhak Rabin nel 1995. Quando si tratta di difendere i suoi interessi contro fazioni nazionali rivali o dell’imperialismo concorrente la borghesia non ha scrupoli sul provocare cieche stragi tra la popolazione civile. Giusto per fare un esempio possiamo ricordare l’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano. Allora la borghesia tentò immediatamente di accusare dell’attentato gli anarchici, in particolare Pietro Valpreda. E per dare credibilità a questa teoria arrivò perfino a “suicidare” un altro anarchico, Pino Pinelli, arrestato giusto prima l’attentato e morto facendo un volo dalla finestra della Questura di Milano. In realtà, anche se non c’è alcuna versione ufficiale, l’attentato fu realizzato dai fascisti legati ai servizi segreti italiani ed americani. Durante tutto questo periodo il terrorismo è stato sempre più al servizio dei conflitti imperialisti nel quadro dello scontro tra le due superpotenze.
La tendenza verso il caos generalizzato ha determinato i conflitti imperialisti dopo la fine degli anni ’80, periodo in cui il capitalismo è entrato nella sua fase di decomposizione (1). Il quadro costituito dal confronto tra i due blocchi imperialisti stabilito alla fine della Seconda Guerra Mondiale cede al regno dell’ognuno per sé (2). In questo contesto il terrorismo è divenuto un’arma delle potenze concorrenti. Da una parte, la loro macchina ufficiale di guerra ha utilizzato sempre di più metodi terroristici colpendo sempre di meno i bersagli militari e sempre di più la popolazione civile come nelle guerre del Golfo. Nello stesso tempo, la catena terribile di attacchi dei gruppi terroristici “non ufficiali” contro una popolazione indifesa inaugurata dalle bombe a Parigi nel settembre 1987 è arrivata al parossismo con i due aerei pieni di civili scagliati contro le Torri Gemelle lasciando quasi 3000 morti, ma è continuata con le bombe a Bali, Casablanca, Mosca e adesso Madrid. Sarebbe completamente illusorio pensare che questa barbarie si fermerà. Finché la classe operaia, unica forza sociale che può offrire una prospettiva alternativa alla barbarie capitalista, non metterà fine per sempre a questo inumano sistema di sfruttamento, l’umanità continuerà a vivere sotto la minaccia permanente di nuove e sempre più violente stragi, nuove e sempre più distruttive guerre.
Man mano che la decomposizione di questo sistema andrà avanti, si produrranno sempre più fazioni irrazionali e irresponsabili che nutriranno i gruppi terroristi, i signori della guerra e i mafiosi locali, che possono acquisire armi sempre più distruttive ed un numero maggiore di sostenitori che approfittano del loro crimine. Dopo la caduta delle due torri abbiamo scritto “è impossibile dire con certezza oggi se Osama Bin Laden è realmente responsabile per l’attacco alle Torri Gemelle come lo accusa lo Stato americano. Ma se la teoria Bin Laden risultasse vera questo sarebbe in realtà il caso di un piccolo signore della guerra che scappa al controllo dei suoi ex capi” (Revue Internationale 107). In effetti questa è una caratteristica cruciale della generalizzazione della barbarie: indipendentemente dal sapere quale potenza imperialista o fazione della borghesia trae profitto dalle azioni terroristiche, queste tendono sempre di più a sfuggire ai piani progettati da chi le ha concepite.
Come per l’apprendista stregone, la “creatura” tende a divenire incontrollabile. Al momento in cui scriviamo questo articolo, manchiamo di elementi concreti, e dato che non è possibile avere alcuna fiducia nei media borghesi, proponiamo di applicare il nostro quadro di analisi e la nostra esperienza storica e porre la questione così: chi trae profitto da questo crimine?
Come abbiamo visto prima, il terrorismo e i conflitti imperialisti sono oggi fratelli di sangue. L’attacco alle Torri Gemelle è stato utile all’imperialismo Usa che è stato capace di obbligare i suoi ex alleati, adesso i suoi principali rivali (come la Francia e la Germania), a dare un completo sostegno alle sue campagne militari indirizzate all’occupazione dell’Afghanistan.
Il sentimento provocato dall’11 settembre ha permesso all’amministrazione Bush di far accettare alla maggioranza della popolazione americana la seconda guerra del Golfo del 2003. Per questo è stato pienamente legittimo chiedersi se l’incredibile “mancanza di previsione” dei servizi segreti americani prima dell’11 settembre sia stata il risultato dell’intenzione di “lasciar fare” Al Qaida (3). E’ chiaro che l’11 marzo non porta profitto agli Usa, anzi. Aznar era un pieno sostenitore della politica Usa (faceva parte del “trio delle Azzorre” –Spagna, GB, Usa- i membri del consiglio di sicurezza dell’ONU che si sono incontrati per fare un appello per la seconda guerra del Golfo). Ma Zapatero, suo successore dopo la vittoria del PSOE alle elezioni del 14 marzo, che è stato aiutato molto dalla bomba di Atocha, ha già annunciato che ritirerà le truppe spagnole dall’Iraq. Questo è uno schiaffo all’amministrazione americana e decisamente una vittoria per il tandem franco-tedesco che adesso conduce l’opposizione alla diplomazia americana.
Ciò detto, questo fallimento della politica america non rappresenta in qualsiasi modo una vittoria della classe operaia come alcuni vorrebbero farci credere. Tra il 1982 e il 1996, quando era al governo, il PSOE è stato uno zelante difensore del capitalismo. Il suo ritorno non metterà fine agli attacchi della borghesia al proletariato così come il successo diplomatico di Chirac e Schroeder è un successo per altri due leali difensori del capitalismo, che non porterà assolutamente nulla alla classe lavoratrice.
Ma peggio ancora, gli avvenimenti che abbiamo appena visto hanno reso possibile ottenere per la borghesia intera una vittoria ideologica ben più grande, perché hanno rafforzato la menzogna secondo cui l’antidoto al terrorismo è la “democrazia”, che le elezioni sono un modo effettivo di mettere fine alla politica borghese antioperaia e guerrafondaia, che le manifestazioni pacifiste sono un reale ostacolo all’azione militare. Allora, i lavoratori non solo hanno sofferto un attacco fisico con tutti i morti e feriti dell’11 di marzo, ma hanno anche subito un attacco politico in grande stile. Ancora una volta, il crimine ha portato profitto alla borghesia.
Per questo di fronte alla barbarie terrorista, espressione della guerra imperialista e dello sfruttamento capitalista, c’è solo una risposta…
Con dozzine di corpi ancora non identificati, con dozzine di famiglie di immigrati (29 morti e 200 feriti sono immigrati) che non si fidano di cercare i loro parenti negli ospedali o negli obitori per paura di essere deportati, la borghesia sta creando enormi ostacoli alla classe lavoratrice che cerca di riflette sulle cause e conseguenze di questo attacco. Dai primi momenti dopo le esplosioni, anche prima dell’arrivo sulla scena dei servizi d'emergenza dello Stato, sono state le stesse vittime, i lavoratori e i loro figli che viaggiavano nei “treni della morte”, o quelli che aspettavano nella stazione o che vivevano nelle vicinanze di Santa Eugenia o El Pozo, a mettersi ad aiutare i feriti o a trovare sudari per i morti. Loro erano pienamente animati da un sentimento di solidarietà. Questo sentimento di solidarietà è stato espresso anche da quelle migliaia di persone che hanno dato il loro sangue e che si sono offerti di aiutare negli ospedali, ma anche dai pompieri, gli assistenti sociali e gli ospedalieri che hanno lavorato volontariamente e con lavoro straordinario nonostante la drammatica mancanza di risorse risultata dei tagli imposti dallo Stato alla protezione civile, alla sanità ed alla sicurezza. I rivoluzionari, ed il proletariato del mondo intero, devono proclamare chiaro e tondo la loro solidarietà con le vittime. Solamente lo sviluppo della solidarietà implicita nella lotta dei lavoratori può creare le basi per una società nella quale possono essere aboliti una volta e per sempre crimini così abominevoli. L'indignazione dei lavoratori verso questa atrocità, la sua naturale solidarietà verso le vittime, è stata manipolata dal capitale per difendere i suoi interessi. In risposta alla strage la borghesia ha chiamato i lavoratori della Spagna a dimostrare "contro il terrorismo e per la Costituzione"; ha chiamato i cittadini spagnoli a serrare i ranghi e gridare "la Spagna unita non sarà mai sconfitta”; ha fatto appello ad un voto massiccio per la domenica del 14 affinché "tali atti selvaggi non si ripetano mai più".
Le dosi di patriottismo iniettate sia dalla destra (Aznar ha dichiarato: "loro sono morti perché erano spagnoli") che dalla sinistra ("se la Spagna non avesse preso parte alla guerra nel Golfo, questi attacchi non ci sarebbero stati") puntavano solamente a convincere i lavoratori che gli interessi della nazione sono i loro interessi. Questa è una menzogna, una menzogna vergognosa e cinica! Una menzogna che punta anche a gonfiare le file del pacifismo che, come abbiamo sempre mostrato nella nostra stampa, non ha mai fermato le guerre ma serve a deragliare la lotta contro la vera causa della guerra - il capitalismo.
Il capitalismo non ha nessun futuro da offrire all’umanità eccetto la sua distruzione attraverso guerre sempre più criminali, attacchi terroristici sempre più barbari, povertà crescente e carestia. La parola d’ordine della Internazionale Comunista all'inizio del 20° secolo riassumeva perfettamente la prospettiva che si poneva alla società con l’entrata del sistema capitalista nella fase di decadenza e rimane valida ed attuale come mai: "l'epoca di guerre e rivoluzioni" la cui unica uscita non può essere che "socialismo o barbarie".
Se l’umanità vuole vivere il capitalismo deve morire, e solo una classe sociale può essere il suo affossatore: il proletariato. Se la classe operaia mondiale non riesce ad affermare la sua indipendenza di classe, se non lotta per la difesa dei suoi interessi specifici, e poi per la distruzione di questa società decadente, l’umanità sarà sommersa dalla proliferazione di conflitti tra stati borghesi e bande che non esiteranno ad usare tutti i più indicibili mezzi a loro disposizione.
CCI, 19 marzo ‘04
Note:
Vedi le “Tesi sulla decomposizione”, Rivista Internazionale n° 14
Vedi la “Risoluzione del 15° congresso della CCI sulla Situazione Internazionale”, Rivista Internazionale 113 (inglese, francese, spagnolo)
Vedi il nostro articolo ‘Pearl Harbour 1941, Torri Gemelle, il machiavellismo della borghesia’, Rivista Internazionale 108 (idem)
In questi ultimi mesi, la nostra organizzazione ha ricevuto tutta una serie di lettere di lettori che ponevano la domanda “come si fa ad aderire alla CCI?”
Questa volontà di impegno militante da parte di elementi alla ricerca
di una prospettiva di classe si è espressa in parecchi paesi, ed in
particolare in paesi molto differenti come la Francia e gli Stati
Uniti, la Gran Bretagna o il Bangladesh. A ciascuno di questi lettori,
abbiamo inviato una risposta personale proponendo loro di intavolare
una discussione con la nostra organizzazione per chiarire le nostre
concezioni. Tuttavia, nella misura in cui questa problematica riguarda
altri compagni oltre a quelli che ci hanno direttamente interrogato e
poiché la domanda d’adesione ad un’organizzazione rivoluzionaria è a
pieno titolo una questione politica, ci proponiamo in questo articolo
di dare una risposta globale a tutti quelli che si chiedono in cosa
consista la militanza all’interno di un’organizzazione rivoluzionaria
come la CCI.
In primo luogo teniamo a
salutare l'atteggiamento di questi lettori che oggi manifestano una
volontà di impegno militante. Questa dinamica molto positiva degli
elementi alla ricerca di una prospettiva e di un’attività
rivoluzionaria è l’espressione di una riflessione che si accentua in
profondità in seno alla classe operaia. Malgrado le campagne della
borghesia, malgrado i suoi attacchi contro la corrente della Sinistra
comunista, malgrado le calunnie rovesciate sull'autentica idea di
comunismo (1), questi lettori non si sono lasciati impressionare e
hanno saputo riconoscere la serietà della nostra organizzazione.
Le condizioni per diventare militante della CCI
Il processo d’integrazione di nuovi
militanti in un’organizzazione politica dipende innanzitutto dalla
natura di classe di questa organizzazione. Nei partiti borghesi (per
esempio i partiti stalinisti), basta semplicemente prendere la tessera
del partito e pagare le quote per essere membro dell’organizzazione. I
militanti di questo tipo di organizzazione non hanno per vocazione di
condurre un’attività che mira a sviluppare la coscienza della classe
operaia ma al contrario ad addormentarla ed a deviarla sul campo
borghese, particolarmente quello delle elezioni e delle grandi
manifestazioni democratiche.
Per un’organizzazione rivoluzionaria,
cioè un’organizzazione che difende realmente la prospettiva del
proletariato (la distruzione del capitalismo e l’instaurazione della
società comunista mondiale), il ruolo dei militanti è radicalmente
differente. Il loro scopo non mira a fare carriera come rappresentanti
di questa o quella frazione del capitale, o ad incollare dei manifesti
per le campagne elettorali, ma a contribuire allo sviluppo della
coscienza nella classe operaia. Come l’affermavano Marx ed Engels nel
Manifesto comunista, “i comunisti hanno sul resto del proletariato
il vantaggio di comprendere chiaramente le condizioni, la marcia ed i
risultati generali del movimento proletario”. È per ciò che i militanti di un’organizzazione rivoluzionaria devono loro stessi elevare il proprio livello di coscienza.
In questo senso, la prima condizione per
aderire alla CCI, è che i compagni che pongono la loro candidatura per
diventare militanti della nostra organizzazione manifestino la loro
comprensione ed il loro pieno accordo coi nostri principi programmatici.
Tuttavia, il loro livello di accordo e di
convinzione sulle nostre posizioni politiche non è una condizione
sufficiente per essere militante della CCI. I candidati devono
egualmente manifestare la loro volontà di difendere le posizioni
dell’organizzazione, ciascuno in funzione delle proprie capacità
personali. Non esigiamo dai nostri militanti che siano tutti dei buoni
oratori o che sappiano redigere un volantino o degli articoli per la
stampa. Ciò che importa, è che la CCI come un tutto possa assumere le
sue responsabilità e che ogni militante sia pronto a dare il meglio di
ciò che può dare per permettere all’organizzazione di assumere la
funzione per la quale la classe operaia le ha dato vita.
I militanti della CCI non sono degli
spettatori passivi, né delle pecore che belano dietro una “burocrazia
di capi”, come pretendono i nostri calunniatori. Hanno dei doveri verso
l’organizzazione che è loro compito fare vivere. Innanzitutto pagando
le loro quote (perché senza denaro, l’organizzazione non potrebbe
pagare le spese della stampa, la locazione delle sale, i viaggi, ecc.).
Hanno il dovere di partecipare alle riunioni, agli interventi, alle
diffusioni della stampa, alla vita ed ai dibattiti interni difendendo i
loro disaccordi nel rispetto delle regole di funzionamento stabilite
dai nostri statuti.
Queste esigenze non sono nuove. Già nel
1903, nel dibattito sul primo paragrafo degli Statuti del Partito
Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR), questa questione di “chi è
membro del partito?” aveva opposto i bolscevichi ai menscevichi (2).
Per i bolscevichi, solo coloro che sono parte pregnante dell’insieme
della vita dell’organizzazione potevano essere considerati membri del
partito, mentre i menscevichi ritenevano che bastasse essere d’accordo
con le posizioni dell’organizzazione e portarle il proprio sostegno per
essere considerati militanti. La posizione dei menscevichi è stata
combattuta fermamente da Lenin nel suo libro Un passo avanti, due passi indietro
come visione puramente opportunista, contrassegnata da concezioni
piccolo-borghesi. I detrattori di Lenin lo hanno spesso accusato di
avere una posizione “autoritaria” e di fare la bella parte al “potere
di una piccola minoranza”. È vero proprio il contrario: è la visione
opportunista difesa dai menscevichi che contiene in sé un pericolo.
Difatti, militanti “di base” poco convinti e poco formati saranno più
inclini a lasciare i “leader” pensare e decidere al loro posto rispetto
a militanti che hanno acquisito una comprensione profonda delle
posizioni dell’organizzazione e che si impegnano attivamente nella
difesa di quest’ultima. È la concezione dei menscevichi che permette
meglio che una piccola minoranza possa condurre la propria politica
personale, avventuriera, alle spalle e contro l’organizzazione.
Su questa questione “chi è membro del partito?”,
la CCI si richiama alla concezione dei bolscevichi. È la ragione per
cui facciamo una distinzione molto chiara tra i militanti ed i
simpatizzanti che condividono le nostre posizioni e ci danno il loro
sostegno.
Un buon numero di compagni che
partecipano al nostro fianco agli interventi pubblici, alla diffusione
della stampa e che ci danno un sostegno finanziario non sono pronti,
nonostante tutto, ad impegnarsi pienamente in un’attività militante che
necessita molta energia e perseveranza in un lavoro regolare che si
basa sul lungo periodo. Impegnarsi nella CCI come militanti significa
essere capaci di mettere questa attività al centro della propria vita.
L’impegno in un’organizzazione rivoluzionaria non può essere
considerato come un hobby. Esige da parte di ogni militante una
tenacia, una capacità a mantenere la rotta contro venti e maree, a non
lasciarsi demoralizzare dalle incertezze della lotta di classe, e cioè
una profonda fiducia nelle potenzialità e nella prospettiva storica del
proletariato. La militanza rivoluzionaria esige anche una devozione
leale e disinteressata alla causa del proletariato, una volontà di
difendere quel bene prezioso che è l’organizzazione ogni volta che
questa sia attaccata, denigrata, calunniata dalle forze della borghesia
e dai suoi complici del campo parassitario.
Per diventare militanti della CCI occorre
inoltre integrarsi in un quadro collettivo, fare vivere la solidarietà
tra compagni bandendo l’individualismo piccolo-borghese che trova la
sua espressione particolarmente nello spirito di concorrenza, di
gelosia o di rivalità coi suoi compagni di lotta e che non sono
nient’altro che le stimmate dell’ideologia della classe borghese.
Per diventare militanti di
un’organizzazione rivoluzionaria occorre, come diceva Bordiga, avere
una forza di convinzione ed una volontà d’azione, ivi compresa nella
lotta permanente contro il peso dell’ideologia capitalista nei ranghi
dell’organizzazione.Concretamente, i compagni che vogliono aderire alla CCI devono assumersi delle responsabilità, consistenti nel:
- rendersi disponibili per affrontare
delle discussioni sulla piattaforma del CCI con le delegazioni
incaricate dall’organizzazione. Questo processo di discussione mira ad
approfondire il loro accordo con la nostra piattaforma, che non deve
essere superficiale o approssimativo, ciò che implica che i candidati
non devono esitare ad esprimere i loro disaccordi, le loro divergenze o
incomprensioni affinché queste discussioni possano portare ad un reale
chiarimento;
- cominciare a dare un sostegno materiale
regolare all’organizzazione attraverso una sottoscrizione finanziaria e
partecipando alla diffusione della stampa.
Al termine di questo processo di
discussione sulle nostre posizioni programmatiche, i compagni che
vogliono aderire alla CCI devono anche manifestare il loro accordo con
la concezione della CCI sulla questione del funzionamento
dell’organizzazione e sui suoi Statuti il cui spirito è contenuto
nell’articolo “Struttura e funzionamento dell’organizzazione dei
rivoluzionari”, pubblicato in italiano nella Rivista Internazionale
n°3, settembre 1978.
La politica della CCI verso i candidati
La CCI ha sempre accolto con entusiasmo i
nuovi elementi che vogliono integrarsi nei suoi ranghi. Per questo essa
investe molto tempo ed energia nei processi di integrazione dei
candidati per permettere a questi futuri militanti di essere armati il
meglio possibile nel loro lavoro futuro e per dare loro la possibilità
di prendere parte immediatamente all’insieme delle attività
dell’organizzazione. Tuttavia, questo entusiasmo non significa che
facciamo una politica di reclutamento per il reclutamento, come le
organizzazioni trotzkiste.
La nostra politica non è neanche quella
delle integrazioni premature su delle basi opportuniste, senza
chiarezza preliminare. Noi non siamo interessati al fatto che dei
compagni raggiungano la CCI per poi lasciarci qualche mese o qualche
anno più tardi perché si sono resi conto che l’attività militante è
troppo costrittiva, esige troppi “sacrifici” o ancora perché si sono
accorti a posteriori che non avevano realmente assimilato i principi
relativi alla organizzazione della CCI (in generale, questi compagni
hanno molte difficoltà a riconoscerle e preferiscono abbandonare la
lotta con delle recriminazioni contro la CCI che possono condurli a
giustificare la loro diserzione attraverso un’attività parassitaria).
La concezione dei bolscevichi sulle
questioni di organizzazione ha mostrato tutta la validità di questo
approccio. La CCI non è una locanda dove si entra e si esce né è
interessata ad andare a caccia di militanti.
Non siamo neanche dei mercanti di illusioni. È perciò che i nostri lettori che si pongono la domanda “come si fa ad aderire alla CCI?”
devono comprendere che l’adesione alla CCI richiede del tempo. Ogni
compagno che pone la sua candidatura deve dunque armarsi di pazienza
per impegnarsi in un processo di integrazione nella nostra
organizzazione. Questo processo è innanzitutto una maniera per il
candidato di verificare da sé la profondità della propria convinzione,
in modo che la sua decisione di diventare militante non sia presa alla
leggera o attraverso un “colpo di testa”. Ciò è anche e soprattutto la
migliore garanzia che possiamo offrirgli perché la sua volontà di
impegno militante non si concluda con un insuccesso ed una
demoralizzazione.
Perché l’attività dei rivoluzionari si
inscriva in una prospettiva storica, i militanti devono reggere sul
lungo periodo senza demoralizzarsi. È per ciò che i compagni che
vogliono aderire alla CCI devono guardarsi da ogni immediatismo, da
ogni impazienza nel loro processo di integrazione nella nostra
organizzazione. L’immediatismo è proprio la base di reclutamento dei
gruppi di estrema sinistra della borghesia, che rimproverano
continuamente alla CCI: “Che fate voi ‘praticamente’? Quali sono i risultati immediati che voi ottenete?”
Mai come ora la classe operaia ha bisogno
di nuove forze rivoluzionarie. Ma l’accrescimento numerico delle
organizzazioni della Sinistra comunista non potrà costituire un reale
rafforzamento a meno che non arrivi alla conclusione di tutto un
processo di chiarimento che miri a formare dei nuovi militanti, a dare
loro delle solide basi con cui poter assumere le loro responsabilità
all’interno dell’organizzazione.
1.
Per ricordare, possiamo citare come esempio delle campagne borghesi
contro la prospettiva rivoluzionaria quelle sul tema della “morte del
comunismo” dopo il crollo del blocco dell’Est e dei regimi stalinisti
nel 1989. Abbiamo anche messo in evidenza nella nostra stampa come le
campagne contro il "negazionismo" miravano principalmente a screditare
la Sinistra comunista.
2. Vedi l'articolo "1903-04 e la nascita del Bolscevismo" nella
Rivista Internazionale n° 116 (consultabile sul nostro sito web in
inglese, francese e spagnolo)
Come siamo arrivati a tanto?
Con il crollo dell’ex Unione Sovietica, gli USA, rimanendo l’unica superpotenza del mondo, hanno di fatto prodotto una situazione insolita e anomala. Se è vero infatti che gli USA non hanno in questo momento possibili rivali sul piano militare, è anche vero che questo ruolo di superpotenza lo devono continuamente esercitare per evitare che, in mancanza di una disciplina da blocco imperialista ormai non più esistente, ogni singolo paese possa fare di testa propria ed anche per prevenire possibili processi di aggregazioni imperialiste contro sé stessi. Tutta la politica pacifista condotta nell’ultimo periodo dalle forze di sinistra e da paesi come Francia e Germania, non è altro che una maniera per mettere in difficoltà la politica americana. Le sinistre non sono mai state pacifiste: negli Usa è il governo democratico di J. F. Kennedy che comincia e porta avanti la guerra del Vietnam. In Italia è il governo di sinistra di D’Alema che prende parte piena alla coalizione che si batte contro la Serbia di Milosevic. E che dire del pacifismo di un paese come la Francia che mentre protesta veementemente contro gli USA, facendo sventolare mega-striscioni contro la guerra dai palazzi municipali di Francia, fa i suoi sporchi giochi di guerra in Costa d’Avorio? Gli interventi sempre più puntuali e invasivi degli USA, a partire dalla prima guerra del Golfo ad oggi, esprimono perciò l’esigenza di essere sempre più presenti nelle zone strategicamente nevralgiche del mondo per difendere i propri interessi e, al tempo stesso, per sparigliare le carte degli avversari. E’ così che si spiega la febbre crescente degli USA di intervenire dappertutto nel mondo, anche a costo di farsi saltare le torri gemelle se questo può essere un alibi sufficiente per passare all’offensiva senza discussioni. E’ stato così anche per la seconda guerra contro l’Iraq per scatenare la quale è stato invocato il pericolo dell’uso di micidiali mezzi di distruzione di massa che sarebbero stati nelle mani di Saddam Hussein. Questo alibi è valso a far la guerra e ad occupare un paese senza alcun mandato, senza alcuna giustificazione, con il solo lasciapassare della tracotanza del più forte. Oggi è ormai certo che le armi di distruzione di massa non ci sono. O per lo meno non ci sono più: l’esercito iracheno le ha già utilizzate prima contro l’esercito iraniano per ordine e su forniture degli stessi americani nella guerra Iran-Iraq, poi contro le popolazioni sciite alla fine della prima guerra del golfo, dopo che gli americani avevano istigato queste ultime all’insurrezione contro Saddam per poi abbandonarle alla vendetta del capo sunnita. Oggi come ieri, le grandi potenze imperialiste si fanno la guerra per interposta persona, attribuendo la colpa sempre alla cattiveria o all’avidità di questo o quel governante e sempre nascondendo la vera causa di tutti i conflitti:
“Non occorrevano quattro mesi, alla critica marxista, per ricondurre la guerra in Corea alle sue proporzioni reali, a fissarla nella sua cornice storica. Non era un episodio contingente o locale, un caso, un deprecabile incidente: era una fra le tante, e certo tra le più virulente manifestazioni di un conflitto imperialistico che non ha paralleli né meridiani, ma si svolge sul teatro di tutto il mondo, nei limiti di tempo internazionali dell'imperialismo. I suoi protagonisti non erano né i coreani del Nord rivendicatori di un'unità nazionale spezzata, né i coreani del Sud araldi di un diritto e di una giustizia violati; ma le milizie inconsce e l'ufficialità prezzolata dei due grandi centri mondiali del capitalismo, entrambi protesi per un'ineluttabile spinta interna verso il precipizio della guerra. Non in palio erano la libertà, il socialismo, il progresso, e le mille ideologie in lettera maiuscola di cui é cosparso come di tante croci il cammino della società borghese, ma i rapporti di forza e le condizioni di sopravvivenza dei due massimi sistemi economici e politici del capitalismo, America e Russia”. Amadeo Bordiga, Corea è il mondo, Prometeo n. 1, 1950.
Parafrasando il titolo dell’articolo di Bordiga scritto oltre mezzo secolo fa, possiamo oggi dire Iraq è il mondo. In Iraq si incrociano infatti gli interessi delle principali potenze imperialiste del mondo e l’Iraq ancora mostra la reale prospettiva che si apre all’umanità se l’imbarbarimento di questa società non verrà fermato.
E dove andremo a finire?
La situazione che si vive oggi nel mondo è che, paradossalmente, quanto più gli USA cercano di intervenire per imporre il loro controllo sul mondo, tanto più questo controllo viene messo in discussione. La guerra contro Saddam e la successiva occupazione dell’Iraq, con cui sembrava che gli Usa dovessero divenire padroni della situazione, si sono trasformati in una trappola infernale. La situazione attuale è infatti del tutto incontrollabile con attentati e guerriglia dappertutto. La guerriglia non viene più neanche solo dal temibile triangolo sunnita fedele a Saddam, ma dagli stessi Sciiti delusi dalla politica americana. Peraltro la guerra combattuta dalle tribù irakene segue sempre più la tattica della guerriglia, con agguati, attentati e, più recentemente, rapimenti di militari e soprattutto di civili, allo scopo di scoraggiare quanti sono presenti sul posto anche solo per svolgere un lavoro, diciamo così, non militare. Proprio per l’aggravarsi della situazione Bush ha colto l’occasione per creare un nuovo capro espiatorio, Al Sadr, imam sciita di grande autorevolezza in questo momento che si è dichiarato per il ritiro degli americani dal suolo iracheno e contro la partecipazione ad un governo in queste condizioni. Ma per quanti sforzi facciano gli USA, l’Iraq mostra che non basta sconfiggere il nemico, e non basta neanche più occuparne il territorio, perché in un contesto internazionale in cui ognuno gioca contro tutti gli altri le armi circolano in giro come acqua che scorre e anche un paese allo sbando come l’Iraq finisce per dare dei problemi alla superpotenza americana. E questa constatazione invece di spingere a riconsiderare l’atteggiamento guerriero, come sarebbe più razionale, visto che non dà risultati, porta gli USA ad essere ancora più aggressivi, a dimostrazione che in questo mondo capitalista non c’è ormai più nulla di razionale. E’ di questi stessi giorni l’appoggio di Bush al piano di annessione di parte della striscia di Gaza da parte del governo israeliano di Sharon, piano che non solo butta all’aria tutti i piani di pace preparati finora, anche sotto la spinta degli USA, ma sancisce l’impossibilità di una pace in un Medio oriente che è da sempre uno dei maggiori focolai di tensioni guerriere.
E come si mette per l’Italia?
All’interno di questa situazione l’imperialismo italiano, con alla testa il filoamericano Berlusconi, ha inviato delle truppe in Iraq che giustamente sono state definite dalla sinistra truppe di occupazione. L’intento di Berlusconi and company era infatti di profittare della situazione per avere un minimo di presenza sul posto e se possibile trarre qualche briciola dalle commesse di guerre. A questo ruolo da piccoli sparvieri, hanno risposto le sinistre contestando la legittimità dell’intervento, ma come è noto facendone solo una questione formale perché non ufficialmente autorizzata dall’ONU. Oggi che questa presenza italiana in Iraq si fa sempre più delicata e tragica, con l’episodio di Nassirya prima e il rapimento e l’uccisione degli ostaggi poi, le forze politiche italiane stanno di nuovo dando fondo a tutta la loro fantasia propagandistica per dimostrare che sono meglio gli uni, no anzi gli altri. Tanto più che le elezioni europee si avvicinano. Ma nessuno, di fronte ai morti “italiani”, dice che sono migliaia e migliaia gli iracheni senza identità, senza storia, senza futuro, che giorno dopo giorno vengono ammazzati in una guerra assurda e crudele. Destra e sinistra piangono vittime che sono andate in Iraq al soldo degli americani, per guadagnare da 6000 a 30.000 dollari al mese, per difendere chi con la prepotenza delle armi ha imposto la propria legge su un paese inerme, addirittura si fa circolare l’ultima frase di un povero condannato a morte che dice “adesso vi faccio vedere come muore un italiano...” per trasformare una tragedia umana in una ulteriore propaganda patriottica ad uso di destra e sinistra. Ma per quanto forte possa essere la propaganda dei mass-media al soldo dei vari partiti della borghesia, c’è una dinamica tra i lavoratori che li spinge a chiedersi sempre più prepotentemente il perché delle cose. E’ proprio contro questo pericolo che la borghesia si inventa di continuo i migliori alibi per andare in guerra. Ma è al tempo stesso il dispiegarsi della verità contro le menzogne di tutti i governi e di tutti i partiti borghesi a costituire oggi un potente elemento di presa di coscienza per la classe operaia che per difendersi dagli attacchi sempre più forti e generalizzati alla sua esistenza potrà fare il legame tra la vera natura di queste guerre e la precarietà della propria esistenza e arrivare alla conclusione che effettivamente non c’è altra alternativa: o si distrugge questo sistema o si soccombe completamente alla barbarie.
Ezechiele, 16 aprile 2004
Abbiamo incontrato alcuni elementi di Pagine Marxiste ad una nostra Riunione Pubblica a Milano. La discussione che abbiamo avuto con loro ci ha bene impressionati perché abbiamo avuto la netta sensazione di discutere con elementi interessati a difendere le posizioni di classe e desiderosi di collocarsi su un autentico terreno proletario. Dopo questo incontro abbiamo riletto con maggiore attenzione il primo numero della loro rivista Pagine Marxiste n. 1, ed in particolare l’articolo Le ragioni di una rottura (perché siamo usciti da Lotta Comunista), nel quale si rivendicano come ragioni della rottura:
· alcune di ordine teorico, in particolare la negazione “di fatto (de) il processo di determinazione della struttura economico-sociale sulla sovrastruttura politica” da parte di Lotta Comunista “attuale”;
·altre di ordine strategico, ovvero l’assolutizzazione, sempre da parte del gruppo di origine, de “la tendenza alla centralizzazione politica dell’imperialismo europeo, fino a sostenere che ha già assunto il tratto caratteristico dello Stato…”;
· altre ancora di natura politica, come il mettere in “sordina le iniziative militari dell’imperialismo italiano: in Somalia, in Albania, in Serbia-Kosovo, in Afghanistan, in Irak. La mancata denuncia di queste azioni imperialistiche è oggettivamente una forma di opportunismo – poco ci interessano le motivazioni soggettive”;
· per finire con quelle di tipo organizzativo, affermando che “i rapporti regolari [all’interno di Lotta Comunista, ndr] tra il Centro e il quadro attivo sono stati interrotti dal 1988. (…) La fedeltà personale (non alla causa e neanche al partito) è stata assunta quale criterio principe nella responsabilizzazione dei quadri, in luogo dell’impegno militante e delle capacità teoriche e politiche. L’avanzare ipotesi scientifiche pur sulla base del metodo marxista è divenuto motivo di sospetto, isolamento e allontanamento. La tendenza a ripetere acriticamente è esaltata, la capacità di analizzare frustrata. Grandi capacità e disponibilità all’impegno sono state e vengono in questo modo respinte e bruciate. Il confronto politico è bandito”.
Per quanto ci riguarda, noi abbiamo già espresso un giudizio del tutto negativo su Lotta Comunista come gruppo politico in quanto la riteniamo una formazione falsamente internazionalista, di fatto controrivoluzionaria, dedita in gran parte a curare i propri interessi di burocrazia sindacale all’interno della CGIL (1). Gli elementi di critica di Pagine Marxiste non ci trovano dunque impreparati, ed in particolare comprendiamo la difficoltà a condurre qualunque discussione in quanto “il confronto politico è bandito”, nota caratteristica questa di qualunque gruppo sclerotizzato e di qualunque gruppo controrivoluzionario.
Vogliamo però mettere in guardia gli elementi di Pagine Marxiste dall’utilizzare Lotta Comunista e la sua tradizione di organizzazione come unico elemento di riferimento. E’ vero che la loro stessa partecipazione alla nostra riunione pubblica mostra una chiara volontà di apertura politica, ma questo può non bastare se si ha la pretesa di diventare i veri continuatori di Lotta Comunista e di ricercare la soluzione ai problemi politici in una rilettura dei testi classici della stessa Lotta Comunista che altri avrebbero tradito. Comprendiamo che questo può suonare strano, sbagliato e del tutto non ricevibile per chi ha speso anni e anni in un’organizzazione credendo di stare dalla parte giusta, dalla parte della classe operaia. Ma anche la militanza in Lotta Comunista, che immaginiamo per anni non essere stata messa in discussione, alla fine ha dovuto subire un taglio netto per incompatibilità. Per cui, se proprio si deve ricominciare da capo, tanto vale guardarsi intorno cercando di avere la visuale la più ampia possibile all’interno, evidentemente, di una visione marxista del mondo.
Ci sono altri due elementi che noi riteniamo critici nel processo di riflessione che gli elementi di Pagine Marxiste stanno svolgendo in questa fase, il pericolo di sottovalutare il dibattito sulla storia del movimento operaio a favore di un dibattito sull’attualità e il rifiuto dell’analisi sulla crisi economica del capitalismo.
L’importanza del dibattito sulla storia del movimento operaio
Durante la citata riunione pubblica, gli elementi di Pagine Marxiste a più riprese ci hanno invitato a sviluppare il confronto con loro sulle “strategie per andare avanti piuttosto che sui dibattiti del passato…”, affermando che “le divisioni del passato erano su posizioni dell’epoca…”, e che “oggi la migliore ricetta di qualsiasi gruppo per evitare la deriva opportunista è quella di scontrarsi e portare avanti nei dibattiti le letture marxiste di oggi”. Anche se evidentemente il confronto sui problemi del momento costituisce la migliore verifica della capacità di un’organizzazione rivoluzionaria di essere all’altezza dei suoi compiti, questa capacità non la si acquisisce dal niente ma proprio dalla riflessione e dallo studio di quella che è stata l’esperienza storica del movimento operaio, in particolare attraverso la lettura critica del contributo delle sue avanguardie. E’ per questo motivo che, ad esempio, avevamo promosso la riunione pubblica di presentazione del nostro ultimo opuscolo su “La Frazione di sinistra del PCd’Italia e l’Opposizione internazionale di sinistra, 1929-1933”, da cui avevamo colto l’occasione per trarre alcune lezioni sulla lotta all’opportunismo nel processo di costruzione del partito di classe. Capire le lezioni del passato significa evitare di ripetere gli stessi errori oggi. Questo perché il marxismo non è una bibbia che basterebbe leggere e interpretare ma è un approccio (di classe!) alla comprensione della realtà, che richiede dunque uno sforzo continuo per capire come si muove questa realtà per una corretta collocazione nei suoi confronti. Da questa difficoltà a fare i conti con il passato, dall’eredità che gli elementi di Pagine Marxiste hanno ricevuto da Lotta Comunista, derivano oggi debolezze importanti a livello di analisi della realtà. In particolare, sebbene ci siano spunti ed elementi interessanti a livello di analisi della situazione internazionale, la visione di Pagine Marxiste viene fortemente compromessa dalla incomprensione del problema della crisi economica e della fase di difficoltà storica in cui si trova il capitalismo a partire dalla prima guerra mondiale.
Il nodo della crisi economica
“Io non condivido l’opinione di una crisi del capitalismo che marcia con un’accumulazione elevata: mi pare che il capitalismo stia marciando bene a livello mondiale. Mi preoccuperei del marxismo se così non fosse perché dalle crisi dovrebbero sorgere le lotte di classe” (2) .
Questa frase, pronunciata da uno degli elementi di Pagine Marxiste presenti alla nostra riunione pubblica, mostra emblematicamente il rifiuto di riconoscere una realtà che finanche gli economisti borghesi sono costretti ad ammettere. D’altra parte l’idea che la controprova dell’assenza della crisi possa essere l’assenza della lotta di classe dimostra una visione alquanto meccanicistica che, ad ogni azione (del capitale), vuole una reazione (della classe operaia). Non abbiamo qui lo spazio per sviluppare a fondo questo argomento, ma i compagni possono fare riferimento ai nostri numerosi articoli e in particolare al nostro opuscolo sulla Decadenza del capitalismo. Quello che vogliamo fare presente qui ai compagni di Pagine Marxiste e a tutti i compagni che sono influenzati dalla posizione di un’assenza di crisi nel capitalismo in questa fase storica, è che l’attuale sistema sociale capitalista che risulta incapace:
- di favorire il decollo di nuove potenze economiche sullo scacchiere mondiale (3),
- di integrare nuova forza lavoro respingendo alle frontiere dell’unione europea decine di migliaia di immigrati provenienti da paesi ormai senza più alcuna risorsa;
- di garantire una benché minima garanzia finanche ai proletari dei paesi avanzati che viceversa si vedono confrontati ad un regime di vita sempre più incerto, di sacrifici e di insicurezza;
- di garantire un minimo di controllo sull’insieme della società che vive momenti di precarietà crescenti, dove l’incolumità personale e collettiva, il rischio di attentati e di violenze, sono all’ordine del giorno, è un sistema sociale che non ha più molto da dire all’umanità e che i tempi storici di un suo superamento sono giunti da un bel pezzo.
Ma per questo, e molte altre cose, ci auguriamo che ci sia tutto il tempo per parlare direttamente con i compagni di Pagine Marxiste nel prossimo futuro.
Ezechiele,10 aprile 2004
1. Vedi l’articolo Lotta Comunista: un puntello dei sindacati in Rivoluzione Internazionale n. 29, ottobre 1982.
2. Dall’intervento di un militante di Pagine Marxiste. Naturalmente né questa né i passaggi precedenti sono letterali, ma ci auguriamo di non aver alterato in nessun modo il senso politico di quello che i compagni volevano intendere.
3. L’effimera crescita di paesi quali i dragoni e le tigri dell’est, così come quella dei paesi sudamericani quali il Messico, si sono risolti tutti con la bancarotta dell’intera economia statale.
Nel scorso mese di gennaio la CCI ha ricevuto una dichiarazione da parte di Battaglia Comunista relativa a degli attacchi comparsi sul sito Indymedia che accusano “la setta bordighista di Battaglia Comunista” di aver aggredito un gruppo di militanti alla manifestazione contro la repressione svoltasi a Parma lo scorso 21 dicembre e incitando a “portare una lotta contro tutti quelli che cercano una pacificazione coi fascisti, da Amadeo Bordiga al Campo Antimperialista, da Battaglia Comunista all’editrice bordighista Graphos”. Un altro intervento sullo stesso sito e firmato Antifa Block incitava a “buttare fuori dai cortei” BC ed altre organizzazioni accusate di “propagandare tesi negazioniste (dell’olocausto ebraico) e filofasciste”.
Questo tipo di attacchi contro gli internazionalisti non è purtroppo un incidente isolato: nel 1997 i gruppi della Sinistra Comunista dovettero difendersi contro una campagna che li accusava di “negazionismo di sinistra” (1) sviluppata nella stampa borghese in Francia attraverso testate di tutto rispetto quali Le Monde, Liberation e Figaro, articoli che furono ripubblicati dal settimanale italiano L’Internazionale.
Gli incidenti denunciati da Battaglia Comunista sono parte degli stessi attacchi volti a distorcere o a nascondere le reali posizioni della Sinistra Comunista e ad impedire che la sua voce venga ascoltata. E’ in particolare con l’uso degli ambienti di “militanza antifascista” presenti in tre centri sociali di Milano e attraverso il sito internet Indymedia.it che l’operazione è stata condotta. Al centro dell’attacco è stata individuata una piccola casa editrice, Graphos, che ha pubblicato sia dei libri di autori negazionisti che documenti della sinistra comunista. Graphos non fa parte per nessun motivo della tradizione della Sinistra Comunista, ma l’affermazione secondo cui essa sarebbe di “ispirazione bordighista” (dal documento firmato dai tre centri sociali milanesi: ORSo, Palestra Popolare, RASH), mostra che il reale obiettivo dell’attacco è proprio la tradizione della sinistra comunista. La campagna si pone l’obiettivo di impedire a quelli che sono alla ricerca di una spiegazione coerente della barbarie capitalista di venire in contatto con le reali posizioni della sinistra comunista, le quali soltanto possono fornire il quadro necessario di comprensione.
E’ per questo che noi vogliamo cominciare a rimettere a disposizione di tutte le persone interessate a conoscere le posizioni della sinistra comunista sull’olocausto la ripubblicazione di un articolo scritto all’epoca della campagna anti-negazionista nel 1997 (2). Il testo che dà la posizione bordighista di base su questa questione, “Auschwitz o il grande alibi” può essere scaricato dal sito internet Sinistra.net.
Una volta chiarite le posizioni della sinistra comunista, in un prossimo articolo mostreremo come i metodi che sono stati utilizzati in questo “dibattito”, quali intimidazione, minacce, bugie e distorsione delle posizioni, appartengano alla tradizione controrivoluzionaria dello stalinismo e sono state usate proprio per neutralizzare o eliminare militanti della sinistra comunista. Questi metodi sono invece del tutto estranei alla tradizione della Sinistra Comunista, la cui preoccupazione è quella dello sviluppo della coscienza attraverso un franco dibattito e un confronto politico delle posizioni divergenti.
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Innanzitutto, i gruppi della Sinistra Comunista non hanno mai negato la realtà dello sterminio degli ebrei durante la guerra, solo che non hanno per questo dimenticato di denunciare allo stesso tempo le complicità e la corresponsabilità degli Stati “democratici” nella barbarie della II guerra mondiale. E in effetti i pennivendoli della borghesia, definendo il testo “Auschwitz o il grande alibi” come il “testo fondatore del negazionismo di sinistra”, cercano proprio di discreditare il punto di vista marxista. Questo non solo situa la barbarie nazista nel quadro di quella del mostruoso bagno di sangue della seconda guerra imperialista mondiale, ma denuncia anche la maniera in cui i campi di sterminio nazisti sono serviti dopo il 1945 da alibi ai crimini dei grandi Stati democratici “civilizzati”.Le responsabilità degli “Alleati” nello sterminio degli ebrei
Se l’ideologia dominante si sforza tanto per fare dell’olocausto un crimine inesplicabile, o spiegabile solo con considerazioni metafisiche sul lato “diabolico” della natura umana a cui non potrebbe opporsi che la buona volontà degli uomini, è per meglio scaricare il capitalismo da ogni responsabilità nello sterminio organizzato di milioni di vite umane. E’ per meglio nascondere che lo scatenamento del razzismo, dell’odio per lo straniero o l’ebreo trova le sue radici nell’ideologia nazionalista che caratterizza per eccellenza la classe borghese, nella natura fondamentalmente nazionalista del capitale, quale che sia la veste, “democratica” o “totalitaria”, del suo Stato.
Per il capitale tedesco degli anni 30, per il quale il ricorso al nazismo è la sola strada per tirare la testa fuori dall’acqua, l’antisemitismo non è solo l’ideologia populista ideale, che fornirà a Hitler una base sociale e delle truppe d’assalto tra la piccola borghesia rovinata e portata alla disperazione dalla crisi. L’indicazione degli ebrei come responsabili della crisi e della sconfitta tedesca sancita dal trattato di Versailles, servirà innanzitutto, attraverso l’esproprio, a trovare dei fondi per lo sforzo bellico dell’imperialismo tedesco. La loro deportazione di massa nei campi di lavoro servirà ancora al capitale per sfruttare fino alla morte questa massa miserabile, sempre ai fini dello sforzo di guerra, e per eliminare un surplus di popolazione che non solo i nazisti non volevano, ma di cui nessuno degli stati belligeranti voleva farsi carico.
D’altra parte lo sterminio di massa per eliminare l’eccedenza di popolazione non si è limitato ai soli ebrei. La stessa sorte è stata riservata agli zigani e prima di loro alle migliaia di malati di mente degli ospedali psichiatrici. All’inizio si fucila, poi, per risparmiare munizioni, si passano nelle camere a gas i deportati più deboli o malati, non più in grado di lavorare.
Le prime difficoltà militari dell’imperialismo tedesco accelereranno la politica dello sterminio sistematico. Prima dei forni crematori saranno le popolazioni delle regioni invase dall’armata del Reich che saranno massacrate selvaggiamente. Nel 1941, in Ucraina, l’esercito tedesco ha bisogno di viveri: per evitare una rivolta della popolazione di fronte alla confisca delle derrate alimentari, lo stato maggiore decide di decimare gli abitanti con il mezzo più economico: chiudere i prigionieri nei camion, con il tubo di scappamento rivolto verso l’interno. Sono le prime “camere” a gas.
La loro generalizzazione a partire dalla fine del 1941 è legata all’impossibilità per il nazismo di liberarsi delle popolazioni indesiderate. La chiusura delle frontiere a causa della guerra, il rifiuto di tutti i paesi belligeranti di farsi carico dei rifugiati, condannerà questa popolazione miserabile allo sterminio organizzato nei campi della morte.
Le dichiarazioni d’orrore sulla bestialità del nazismo profuse dai “democratici” vincitori della guerra, non possono cancellare la loro complicità e la loro corresponsabilità nel massacro organizzato.
Più volte, nel corso della guerra, la Germania cerca di sbarazzarsi degli ebrei vendendoli agli Alleati. E’ quanto è rivelato, tra l’altro, dall’avventura di Joel Brandt citata nel testo “Auschwitz o il grande alibi”. Brandt fu incaricato dai nazisti di proporre uno scambio agli alleati: un milione di ebrei dei campi contro 10.000 camion. Si scontrerà con il rifiuto dello Stato britannico che non voleva farsi carico di questa massa di rifugiati, il cui “trasporto avrebbe nuociuto allo sforzo bellico”. Ed anche quando i nazisti propongono di inviare 100.000 ebrei in cambio di niente, fu il rifiuto più assoluto.
Anche il governo americano rifiuta di inviare delle navi a caricare gli ebrei in Europa per “non indebolire lo sforzo di guerra”.
Infine, mentre al momento della “liberazione” le rivelazioni sulla barbarie nazista sono servite da grande alibi per i crimini del campo democratico (3), la propaganda alleata durante la guerra aveva accuratamente evitato di lasciar filtrare le numerose testimonianze sulla sorte riservata agli ebrei nei campi della morte.
La Sinistra Comunista di fronte al fascismo e all’antifascismo
Per chi conosce anche solo un poco le posizioni di Bordiga e della Sinistra Comunista sia sulla natura del fascismo che sulla seconda guerra mondiale, l’accusa di “genitori del negazionismo” e di “collusione discreta” con l’estrema destra (in nome della teoria degli “opposti estremismi”) risulta immediatamente una calunnia. Ma dietro di essa si cela un attacco perfettamente organizzato e concertato contro la classe operaia, la sua tradizione storica e le organizzazioni dell’attuale ambiente politico proletario.
Quando i propagandisti della borghesia accusano la Sinistra Comunista di “collusione discreta” con il fascismo, quello che in realtà vogliono attaccare e discreditare è la comprensione marxista della natura e delle cause del fascismo, quale fu difesa in seno all’Internazionale Comunista da Amadeo Bordiga già negli anni venti.
L’interpretazione ufficiale, condivisa dalla destra all’estrema sinistra, fa del fascismo una specie di aberrazione della storia, l’espressione di forze oscurantiste che avrebbero preso il potere malgrado e contro la volontà della borghesia o dei settori più “progressisti” di questa. A questa interpretazione, grazie alla quale la classe dominante oppone capitalismo e fascismo e fa della “lotta” tra democrazia e fascismo la pietra angolare della storia del ventesimo secolo, Bordiga, e dopo di lui la tradizione della Sinistra Comunista, hanno opposto l’analisi marxista che vede nel fascismo una forma caratteristica del dominio del capitalismo nella sua fase di decadenza.
La Sinistra Comunista ha mostrato come, in Italia e in Germania, la grande borghesia industriale favorì lo sviluppo e poi la presa del potere da parte delle correnti fasciste, prima perché il metodo di dominazione fascista era in grado di favorire rapidamente la concentrazione e la centralizzazione del capitale nelle mani dello Stato, di accelerare la messa in piedi dell’economia di guerra e di mettere a tacere i conflitti interni alla borghesia. In secondo luogo perché la sconfitta della classe operaia, abbattuta dopo il fallimento dell’ondata rivoluzionaria degli anni 17-23, rendeva superfluo il mantenimento dell’armamentario democratico e parlamentare, ormai definitivamente svuotato di contenuto nell’epoca della decadenza del capitalismo.
Niente a che vedere dunque con il “revisionismo storico” che difende il fascismo e non lo condanna certo come forma di dominazione della borghesia al pari della forma democratica.
Piuttosto, è la borghesia “democratica” e di “sinistra” che cerca di far dimenticare che i fronti unici “antifascisti”, dietro cui sono stati invitati a schierarsi i proletari abbandonando ogni difesa dei loro interessi di classe, non hanno mai impedito la vittoria del fascismo. E non è toccato a questo far fronte al pericolo proletario, questo era stato già sventato dalle forze democratiche e socialdemocratiche.
La borghesia tedesca non affidò il potere a Hitler prima di essere certa di aver concluso lo schiacciamento del proletariato grazie ai massacri dei “socialisti” Noske e Scheidemann.
In Italia sono le forze legali della democrazia parlamentare che repressero la fiammata operaia del 1920, mentre i sindacati si occupavano di rinchiudere i proletari nelle loro fabbriche. Le milizie di Mussolini non arrivarono che in seguito per completare la sconfitta (con l’appoggio d’altra parte delle forze legali parlamentari).
Infine, in Spagna è ancora il “Fronte popolare” che disarmò gli operai, che gli farà abbandonare il loro terreno di classe per arruolarli nella difesa della Repubblica (4). E’ la denuncia di questa realtà che la borghesia rimprovera ai militanti di “Bilan”.
Di fronte alla guerra imperialista, l’intransigenza internazionalista della Sinistra Comunista
Ma l’attuale campagna di calunnie contro la Sinistra Comunista ha come obiettivo di fondo il suo principio essenziale, quello che ne fa la sola erede di Marx e Lenin contro i tradimenti successivi dei partiti Socialisti, Comunisti e dei gruppi trotzkisti: il mantenimento di una posizione risolutamente internazionalista di fronte alla seconda guerra mondiale, la denuncia della guerra mondiale in quanto guerra imperialista, la denuncia dell’ideologia antifascista come alibi per irreggimentare il proletariato nel macello mondiale, il rifiuto dell’unione nazionale, la difesa della prospettiva rivoluzionaria del proletariato contro il capitalismo e la sua logica guerriera.
PE / H
1. Negazionismo, o revisionismo storico è stato denominata quella corrente di pensiero, rappresentata per lo più da storici di destra, che tende a negare l’esistenza dell’olocausto degli ebrei da parte dei nazisti.
2. Rivoluzione Internazionale n° 99, “Campagna del capitale sul “negazionismo”. Un attacco alla Sinistra Comunista”.
3. In particolare, la denuncia della borghesia democratica degli orrori del nazismo è servita a giustificare i massacri su grande scala perpetrati dagli alleati, come i bombardamenti di Dresda, Amburgo, Hiroshima e Nagasaki (vedi “I massacri e i crimini delle grandi democrazie”, su Rivista Internazionale n. 16.
4. Sull’avvento del fascismo in Italia, vedi Rivoluzione Internazionale n. 4 e 5. Sul significato del nazismo, vedi Rivista Internazionale n. 18. Sulla guerra di Spagna, vedi testi di Bilan in Rivista Internazionale n. 1, e Rivoluzione Internazionale n. 97.
La natura umana
Questa “natura umana” è un po’ come la pietra filosofale che gli alchimisti hanno ricercato per secoli. Fino ad ora tutti gli studi sulle “invariabili sociali” (come dicono i sociologi), cioè sulle caratteristiche del comportamento umano valido in tutti i tipi di società, hanno messo in evidenza fino a che punto la psicologia e gli atteggiamenti umani sono stati variabili e legati al quadro sociale nel quale si è sviluppato ogni individuo considerato. In effetti se c’è una caratteristica fondamentale di questa famosa “natura umana” che la distingue da quella degli altri animali, è proprio l’enorme importanza dell’”acquisizione” rispetto all’”innato”, è proprio il ruolo decisivo che gioca l’educazione, e dunque l’ambiente sociale nel quale si trova l’uomo adulto.
Marx sottolineava che “l’ape oscura l’abilità di più di un architetto per la struttura delle sue celle di cera; ma ciò che distingue dagli albori il peggior architetto dall’ape più esperta, è il fatto che questo ha costruito la cella nella sua testa prima di costruirla nell’arnia”. E’ in maniera geneticamente programmata che l’ape possiede l’attitudine a costruire degli esagoni perfetti, come il piccione viaggiatore ha la capacità di ritrovare il suo nido a 1000 km di distanza o lo scoiattolo immagazzina le nocciole che non potrebbe trovare dopo. Invece, la forma finale dell’edificio che progetta il nostro architetto sarà determinata non da una qualche eredità genetica ma da tutta una serie di elementi che gli saranno forniti dalla società nella quale vive. Che si tratti del tipo di edificio che gli è stato commissionato, dei materiali o degli attrezzi utilizzabili, delle tecniche produttive dei diversi corpi di mestiere che possono partecipare al prodotto, delle conoscenze scientifiche alle quali si rifà, tutto è determinato dall’ambiente sociale.
Accanto a questo, la parte di ciò che viene da un qualcosa di “innato” trasmesso geneticamente dai genitori dell’architetto si riassume essenzialmente nel fatto che il frutto del loro accoppiamento non è stato un’ape, o un piccione, ma un uomo, cioè un individuo appartenente come loro alla specie umana nella quale, appunto, la parte delle acquisizioni che entrano nella formazione dell’individuo adulto è di gran lunga la più importante.
Lo stesso vale per quello che riguarda la natura dei comportamenti. Ad esempio, il furto è un crimine, cioè una perturbazione del funzionamento della società che, se generalizzato, diventa per essa catastrofico. Chi ruba, o peggio minaccia, aggredisce o uccide delle persone è un criminale, un essere considerato quasi da tutti come un malfidato, un asociale al quale bisogna “impedire di nuocere” (a meno che non lo faccia nel quadro delle leggi esistenti, nel qual caso la sua abilità ad estorcere il plusvalore ai proletari sarà lodata e riccamente ricompensata e la sua efficacia nel massacro di questi gli varrà galloni e medaglie). Ma il comportamento “furto” ed i criminali “ladri”, “rapitori” o “assassini”, così come tutto quello in connessione con questo: leggi, giustizia, polizia, prigioni, film polizieschi, romanzi “gialli” e “neri” potrebbero esistere se non ci fosse niente da rubare perché tutti i beni materiali, per l’abbondanza permessa dallo sviluppo delle forze produttive, sarebbero a libera disposizione di tutti i membri della società? Evidentemente no! E si potrebbero moltiplicare gli esempi che mostrano fino a che punto i comportamenti, le attitudini, i sentimenti, le relazioni fra gli uomini sono determinati dall’ambiente sociale.
Qualcuno potrebbe obiettare che se esistono dei comportamenti antisociali, quale che sia la forma che assumono in funzione delle forme della società, è perché esiste nel profondo della “natura umana” una parte di atteggiamento asociale, di aggressività verso gli altri, di “criminalità potenziale”. Si sente dire: “Spesso il volere non è per necessità materiale”, “il crimine gratuito esiste”, o ancora “se i nazisti hanno potuto commettere tali orrori è perché l’uomo porta in se il male che emerge appena le condizioni sono favorevoli”. Ma cosa significano queste obiezioni se non il fatto che non esiste una “natura umana” in se “buona” o “cattiva”, se non un uomo sociale le cui molteplici potenzialità si esprimono in maniera diversa a seconda delle condizioni in cui egli vive? A tale riguardo le statistiche sono eloquenti: è la “natura umana” che diventa peggiore nei periodi di crisi della società quando si assiste ad un aumento della criminalità e di tutti i comportamenti morbosi? Lo sviluppo di atteggiamenti asociali in un numero crescente di individui non è al contrario l’espressione di una non adeguata crescita della società esistente rispetto ai bisogni umani i quali, eminentemente sociali, non riescono più a trovare soddisfazione all’interno di quella che, appunto, diventa sempre meno una società, una comunità?
Altri basano il loro rigetto della possibilità del comunismo sulla seguente argomentazione: “Voi parlate di una società che soddisferà veramente i bisogni umani, ma la proprietà, il potere sugli altri sono appunto dei bisogni umani essenziali ed il comunismo, che li esclude, è mal posto per una tale soddisfazione. Il comunismo è impossibile perché l’uomo è egoista”.
Il bisogno di proprietà
Nella “Introduzione a l’economia politica” Rosa Luxemburg descrive lo sgomento dei borghesi inglesi quando, all’epoca della conquista dell’India, scoprirono dei popoli che non conoscevano la proprietà privata. Essi si consolavano dicendo che si trattava di “selvaggi”, ma anche a chi era stato insegnato dalla società che la proprietà privata è “naturale”, creava un certo imbarazzo constatare che erano proprio dei “selvaggi” ad avere il modo di vita più “artificiale”. Nei fatti l’umanità aveva un tale “bisogno naturale di proprietà privata” da farne a meno per più di un milione di anni. Ed in molte occasioni è stato a colpi di massacri che si è fatto scoprire agli uomini questo “bisogno naturale”, come appunto è stato il caso degli Indiani citati da Rosa Luxerburg. Lo stesso vale per il commercio, forma “naturale ed unica” di circolazione dei beni e la cui ignoranza da parte degli autoctoni scandalizzava i colonizzatori: indissociabile dalla proprietà privata, il commercio appare e scomparirà con essa.
Un’altra idea corrente è che se non ci fosse il profitto come stimolatore della produzione e del suo progresso, se il salario individuale non fosse la contropartita degli sforzi fatti dal lavoratore, nessuno più produrrebbe. Effettivamente, nessuno più produrrebbe in modo capitalista, cioè in un sistema basato sul profitto ed il salario, in cui la più piccola scoperta scientifica deve essere “redditizia”, in cui il lavoro, per la sua durata, la sua intensità, la sua forma inumana, è diventato una maledizione per la stragrande maggioranza dei proletari. Al contrario, lo scienziato che attraverso le sue ricerche partecipa al progresso della tecnica, ha bisogno di uno “stimolante materiale” per lavorare? In genere egli è pagato meno di un quadro di fabbrica che, lui, non fa fare nessun progresso alla conoscenza. Il lavoro manuale è per forza di cose sgradevole? A cosa farebbe riferimento l’espressione “amore del mestiere” o il gusto per il bricolage ed ogni sorta di attività manuale che spesso sentiamo? In effetti il lavoro, quando non è alienato, assurdo, sfiancante, quando i suoi prodotti non diventano delle forze ostili ai lavoratori, ma dei mezzi per soddisfare realmente dei bisogni della collettività, diventa il primo bisogno umano, una delle forme essenziali di sviluppo delle facoltà umane. Nel comunismo gli uomini produrranno per il loro piacere.
Il bisogno di potere
Dall’esistenza oggi generalizzata di capi, di rappresentanti dell’autorità, si deduce che nessuna società può fare a meno di capi, che gli uomini non potranno mai fare a meno di subire un’autorità o di esercitarla sugli altri. Non possiamo ritornare qui su quello che il marxismo ha da tempo detto sul ruolo delle istituzioni politiche, sulla natura del potere statale e che si riassume nell’idea che l’esistenza di una autorità politica, di un potere di alcuni uomini sugli altri è il risultato dell’esistenza nella società di opposizioni e di scontri tra gruppi di individui (le classi sociali) dagli interessi antagonisti.
Una società in cui gli uomini si fanno concorrenza tra loro, dove gli interessi si contrappongono, dove il lavoro produttivo è una maledizione, dove la coercizione è permanente, dove i bisogni umani più elementari sono calpestati per la grande maggioranza, una tale società ha “bisogno” di capi (come ha bisogno di polizia o della religione). Ma che si sopprimano tutte queste aberrazioni e si vedrà se i capi ed il potere sono sempre necessari. “Si (dirà sempre quel qualcuno), l’uomo ha bisogno di dominare gli altri o di essere dominato. Quale che sia la società, esisterà sempre il potere di alcuni sugli altri”. E’ vero che lo schiavo che ha sempre portato le catene ai piedi ha l’impressione che lui non potrà mai farne a meno per camminare. Per gli uomini il bisogno di esercitare un potere sugli altri è il complemento di quello che si potrebbe chiamare “la mentalità dello schiavo”: l’esempio dell’esercito dove il maggiore stupido e disciplinato è allo stesso tempo quello che abbaia in permanenza contro i suoi uomini, è significativo. Nei fatti se gli uomini hanno bisogno di esercitare un potere sugli altri è perché esercitano ben poco potere sulla propria vita e sull’insieme dell’andamento della società. La volontà di potenza di ogni uomo è in misura della sua impotenza reale. In una società dove gli uomini non sono schiavi impotenti né delle leggi della natura, né delle leggi dell’economia, dove si liberano delle seconde ed utilizzano in modo cosciente le prime, dove sono “padroni senza schiavi”, non hanno più bisogno di questo surrogato della potenza che è il dominio sugli altri.
Ciò che vale per la “sete di potere” vale anche per l’aggressività. Di fronte all’aggressione permanente di una società che marcia sottosopra, che gli impone un’agonia perpetua ed una rinuncia costante dei propri desideri, l’individuo è necessariamente aggressivo: si tratta della semplice manifestazione, ben nota in tutti gli animali, dell’istinto di conservazione. Dotti psicologi affermano che l’aggressività sarebbe un impulso inerente a tutte le specie del regno animale, che avrebbe bisogno di manifestarsi in ogni caso, in ogni circostanza: ma anche se fosse così, che gli uomini abbiano la possibilità di impiegarla per combattere gli ostacoli materiali che intralciano un rifiorire ogni giorno più grande, e vedremo se hanno ancora bisogno di esercitarla contro altri uomini!
L’egoismo degli uomini
Il “ciascuno per sé” sarebbe una caratteristica degli uomini. Senza dubbio è una caratteristica dell’uomo borghese, di quello che “si è fatto da solo”, ma questa non è che l’espressione ideologica della realtà economica del capitalismo e non ha niente a che vedere con la natura umana. Altrimenti bisognerebbe considerare che questa “natura umana” si è trasformata radicalmente dal comunismo primitivo in poi, o anche dal feudalesimo con la sua comunità di villaggio. Nei fatti l’individualismo fa la sua entrata trionfale nel mondo delle idee quando i piccoli proprietari indipendenti appaiono nelle campagne (abolizione del servaggio) e nelle città. Piccolo proprietario “riuscito”, in particolare rovinando i suoi vicini, il borghese aderisce con fanatismo a questa ideologia attribuendole il titolo di “naturale”. Per esempio, non si fa scrupolo a fare della teoria di Darwin una giustificazione della “lotta per la sopravvivenza”, della “lotta di tutti contro tutti”.
Ma con la comparsa del proletariato, classe associata per eccellenza, si apre una falla nel dominio assoluto dell’individualismo. Per la classe operaia la solidarietà è innanzitutto un mezzo elementare per assicurare una difesa elementare dei suoi interessi materiali. A questo punto si potrebbe già obiettare a quelli che dicono che “l’uomo è naturalmente egoista” che se l’uomo è egoista è però anche intelligente e la sola volontà di difendere i suoi interessi lo spinge all’associazione ed alla solidarietà appena le condizioni materiali lo permettono. Ma non è tutto: in questo essere sociale per eccellenza, la solidarietà e l’altruismo sono, tanto in senso che nell’altro, dei bisogni essenziali. L’uomo ha bisogno della solidarietà degli altri, ma ha anche bisogno di manifestare la sua solidarietà agli altri. Ed è qualcosa che si manifesta frequentemente nella nostra società, per quanto alienata sia, e che è riconosciuta in maniera semplice e corrente attraverso l’idea che “ognuno ha bisogno di sentirsi utile agli altri”. Qualcuno dirà che l’altruismo è anch’esso una forma di egoismo poiché chi lo pratica lo fa innanzitutto per compiacere se stesso. Sia! Ma questa sarebbe un altro modo per esprimere l’idea difesa dai comunisti che non c’è opposizione tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo. Una contrapposizione tra l’individuo e la società si manifesta nelle società di sfruttamento, nelle società che conoscono la proprietà privata (cioè privata agli altri) e questo è perfettamente logico: come potrebbe esserci armonia tra, da una parte, degli uomini che subiscono l’oppressione e, dall’altra, le istituzioni che garantiscono e perpetuano questa oppressione. In una tale società l’altruismo può manifestarsi essenzialmente sotto forma di carità o sotto forma di sacrificio, cioè di negazione di se stessi e non come affermazione, crescita comune e complementare di se e degli altri.
Contrariamente a quanto vuol farci credere la borghesia, il comunismo non è affatto negazione dell’individualità: è il capitalismo, dove i proletari diventano un’appendice della macchina produttiva, che opera una tale negazione e che la spinge all’estremo in quella sua espressione specifica di imputridimento che è il capitalismo di Stato. Nel comunismo, in questa società che si è sbarazzata del nemico per eccellenza che è lo Stato la cui esistenza non ha più ragion d’essere, è il regno della libertà che si instaura per ogni membro della società. Dato che l’uomo realizza le sue molteplici potenzialità in modo sociale e dato che scompare l’antagonismo tra interesse individuale e interesse collettivo, si apre un campo nuovo per il rifiorire di ogni individuo.
Inoltre, lungi dall’accentuare l’uniformità generalizzata sviluppatasi con il capitalismo, il comunismo, permettendo di rompere con una divisione del lavoro che fissa ogni individuo in un ruolo che gli viene incollato alla pelle per tutta la vita, è per eccellenza la società della diversità. Ormai ogni nuovo progresso della conoscenza o della tecnica non determina una specializzazione ancora più spinta, ma al contrario allarga ogni volta di più il campo delle molteplici attività attraverso le quali ogni uomo può esprimersi. Come scrivevano Marx ed Engels: “…appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico” (L’ideologia tedesca).
Si, e non se ne dispiacciano i borghesi e tutti gli spiriti scettici o afflitti, il comunismo è fatto per l’uomo, l’uomo può vivere nel comunismo e farlo vivere! (da Révolution Internationale n. 62)
Tutti i giorni ci sono scontri mortali in ogni città irakena. I massacri della popolazione civile si ripetono, come nel villaggio di Makredid dove una festa di matrimonio è stata bombardata facendo almeno 40 morti, per lo più donne e bambini. Le esecuzioni sommarie di ostaggi all’arma bianca da parte di gruppuscoli fanatici e armati sempre più numerosi diventano un’abitudine. Ma quello che c’è veramente di nuovo è l’apparizione, sugli schermi televisivi, della storia delle torture inflitte ai prigionieri irakeni nel carcere di Abu-Graib. E c’è da credere che le torture non riguardano solo questa prigione, e che non sono cominciate nel mese di maggio.
Di fronte a questo immenso “scandalo” che scuote tutto l’esercito americano ma anche l’insieme del governo degli Stati Uniti, la loro difesa è ridicola. Essa consiste nell’affermare che non si tratta che di casi isolati e prodotto di iniziative personali di qualche soldato perverso. Questa difesa immediata è ben presto saltata. Oggi è tutta la catena di comando americana che è sotto accusa, arrivando fino allo stesso Donald Rumsfeld, segretario di Stato per la Difesa.
L’evidente realtà della barbarie delle grandi democrazie capitaliste
Lo Stato americano è entrato per la seconda volta in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein in nome della lotta contro il terrorismo, gli Stati “canaglia” e in difesa della civilizzazione e della democrazia. Le torture inflitte ai prigionieri irakeni mettono chiaramente in luce la vera natura della democrazia. In materia di barbarie essa non ha niente da invidiare a qualsiasi altra forma di dittatura del capitale. Gli Stati Uniti non sono il primo Stato democratico ad utilizzare su larga scala la tortura. Senza dover tornare troppo indietro nel tempo, basta ricordare il ruolo giocato dalla democrazia francese in Ruanda nel 1994, con l’organizzazione cinica di genocidi e di torture che hanno portato al selvaggio massacro di un milione di persone. Ma più chiaramente ancora, durante la guerra in Indocina, poco dopo la fine della seconda Guerra Mondiale condotta in nome della lotta contro il mostro fascista, l’esercito francese non si è fatto scrupolo di fare largo uso della tortura. Tra le innumerevoli testimonianze, quella del giovane tenente colonnello Jules Roy colpisce per la sua drammatica somiglianza con quelle che ci giungono oggi dall’Iraq:
“Su tutte le basi aeree, ai lati delle piste, c’erano delle baracche che venivano evitate e da cui, la notte, uscivano delle urla che facevano paura a sentirsi… Chiesi all’ufficiale che mi accompagnava di cosa si trattasse: ‘Niente, dei sospetti’. Chiesi che la si finisse. Andai alla pagoda. Entrai: c’erano file di prigionieri che passavano davanti a dei tavoli dove degli specialisti bruciavano loro i testicoli con l’elettricità” (Memorie barbare, ed. Albin Michel, 1989).
Da questo punto di vista, le torture inflitte sempre dall’esercito francese durante la guerra d’Algeria alla fine degli anni ’50 non hanno niente da invidiare a quelle praticate in Indovina. In Algeria la tortura è stata voluta dai capi dell’esercito francese, Massu, Bigeard, Graziani, che l’hanno resa un fenomeno di massa. In ogni luogo del territorio algerino c’era un ufficiale di riferimento con la funzione di torturatore, coadiuvato dalla sua squadra di parà “specializzati”. Contrariamente a quello che affermano tutti gli ideologi e gli altri difensori dell’ordine borghese, la democrazia, durante tutta la sua storia, come ogni altra forma di organizzazione del capitale, non ha mai cessato di utilizzare i mezzi più barbari per raggiungere i suoi fini. Le lacrime di coccodrillo versate dal governo francese sugli orrori perpetrati in Iraq appaiono qui chiaramente per quelle che sono: pura ipocrisia! E’ innegabile che la rivelazione delle torture compiute in Iraq implica un nuovo indebolimento della leadership americana. E’ evidente che le principali potenze rivali degli Stati Uniti avrebbero utilizzato questo indebolimento nel senso della difesa dei loro sordidi interessi nazionali. E’ a questa logica che obbedisce il rafforzamento senza precedenti della cooperazione strategica e militare tra la Francia e la Russia. La messa in atto di contatti regolari tra i loro ministri della difesa e i loro Capi di Stato maggiore, così come lo svolgimento di grosse manovre navali, sono l’espressione diretta di questa nuova politica imperialista. Ma più direttamente ancora: “La Francia ha fatto sapere la settimana scorsa, attraverso la voce del suo ministro degli Esteri, Barnier, che non avrebbe mandato soldati in Iraq, ‘né ora, né mai’” (Inserto internet di Le Monde datato 20/05/04). Finora i dirigenti francesi si erano mantenuti su tutt’altra posizione. Finora avevano affermato che per prospettare una partecipazione militare della Francia in Iraq, non poteva esserci altra strada che un ritorno dell’ONU alla testa delle operazioni. Questa soluzione è d’ora in avanti esclusa. L’imperialismo francese ha anche appena rifiutato l’invito di Colin Powell, capo della diplomazia americana, a inviare dei soldati in Iraq con l’incarico limitato di proteggere il personale dell’ONU. Quale che sia l’ampiezza dei massacri e delle torture inflitte alla popolazione irakena, le potenze rivali degli Stati Uniti non possono che gioire segretamente dell’indebolimento della leadership americana in Iraq. E, peggio ancora, esse spingeranno gli USA, a dispetto di ogni preoccupazione per la vita umana, in un logoramento sempre più profondo nel caos irakeno.
In Iraq, un caos e una barbarie senza limiti
E’ un fatto evidente, ormai visibile dovunque, che l’Iraq è un paese in pieno caos. La guerra è ormai permanente e copre tutto il paese. L’esercito americano e i suoi alleati della coalizione affondano sempre più nel pantano, manifestando una crescente perdita di controllo della situazione. Dalla caduta del regime di Saddam Hussein, del 9 aprile 2003, gli Stati Uniti precipitano sempre più, giorno dopo giorno, in una violenza che ormai riescono a controllare sempre di meno. Attentati, cattura di ostaggi e combattimenti di strada si moltiplicano. La rivolta sciita condotta dal leader Moqtadta Al Sadr continua ad estendersi malgrado gli appelli alla calma lanciati dall’ayatollah Al Sistani. L’attentato commesso il 17 maggio, che ha ucciso il presidente del governo provvisorio iracheno, è un nuovo importante rovescio per l’imperialismo americano. Esso esprime il rifiuto da parte delle diverse frazioni etniche irachene di recepire l’indirizzo politico americano, consistente nel mettere in piedi di un governo democratico iracheno agli ordini di Washington. In poco più di un anno di guerra, l’imperialismo americano si ritrova davanti un fronte del rifiuto, ieri ancora impensabile, composto dalle diverse frazioni etniche e religiose: Kurdi, Sciiti, Sunniti. Tutti oggi si oppongono alla presenza americana sul suolo iracheno. Per gli Stati Uniti non c’è più via d’uscita. G. W. Bush non può tuttavia che riaffermare che il trasferimento della sovranità sarà malgrado tutto assicurata il 30 giugno. Un presidente americano provvisorio, un primo ministro e altri ministri dovrebbero essere designati prossimamente, secondo l’amministrazione americana. L’inquietudine di fronte all’evoluzione della situazione in Iraq si manifesta attraverso la richiesta di dare più spazio agli Iracheni, in materia di sicurezza e di installazioni militari, da parte dei principali alleati di Washington. Silvio Berlusconi, recentemente in visita negli Stati Uniti, ha anche fatto sapere che aveva come progetto: “il trasferimento completo di sovranità ad un governo provvisorio iracheno per il 30 giugno, nel quadro di una nuova risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU”. Tutti questi tentativi di nominare un governo provvisorio in Iraq, mentre il paese resta militarmente occupato dagli americani, sono votati al fallimento. Questo governo non potrà avere alcuna legittimità agli occhi dell’insieme degli Iracheni, indipendentemente dalla loro etnia o religione. Questo governo apparirebbe necessariamente come una creazione americana e sarebbe senza dubbio combattuto in quanto tale. L’indebolimento accelerato della leadership americana si manifesta ugualmente attraverso un processo di sgretolamento della coalizione. Dopo la ritirata iniziata dalle truppe spagnole, paesi come l’Honduras, la Tailandia e, in Europa, la Polonia, la Danimarca e l’Olanda hanno espresso la loro crescente inquietudine e il loro eventuale progetto di ritirata pura e semplice della loro partecipazione alle forze della coalizione. J. P. Balkemende, capo di stato dei Paesi Bassi, l’11 maggio scorso, in seguito alla morte del primo soldato olandese in Iraq, ha dichiarato: “che la presenza futura e la legittimità dei 1300 soldati sul posto dipenderanno dal ruolo futuro delle Nazioni Unite in Iraq”. La situazione di caos è tale in questo paese che la borghesia americana, poco importa che si tratti di repubblicani o di democratici, è oggi nell’incapacità di tracciare una reale prospettiva per la politica americana sul terreno. In effetti, tanto la ritirata pura e semplice delle truppe, quanto il loro mantenimento sul posto, o anche un loro rafforzamento, non offre alcuna prospettiva di stabilizzazione della situazione.
La decomposizione della società capitalista, che si esprime con violenza in Medio Oriente, non può che accelerarsi nel periodo prossimo, con scontri militari e attentati suicidi sempre più irrazionali. C’è da temere in particolare, dopo l’eventuale nomina di fine giugno di un governo provvisorio filo americano in Iraq, una forte crescita della violenza che non risparmierà più nessun settore della popolazione irachena. Questo mondo capitalista in fallimento, che sprofonda così irrimediabilmente, mette in pericolo di morte non soltanto la popolazione irachena o del Medio Oriente, ma ben presto quella dell’intera umanità.
Tim (20 maggio)
Ma questi tempi migliori non sono mai venuti, anzi negli ultimi anni i sacrifici chiesti a tutti i lavoratori non hanno fatto che appesantire la situazione di chi già partiva da condizioni peggiori e quindi a questi lavoratori non è restato che la via della lotta per cercare di migliorare la propria situazione.
A pochi mesi dalla lotta degli autoferrotranviari, questo nuovo focolaio di lotta va a confermare una tendenza alla ripresa della lotta di classe che comincia a preoccupare la borghesia. Non c’è solo la volontà di difendere le proprie condizioni di vita a preoccupare (visto che il disastro dell’economia capitalista impone di chiedere nuovi sacrifici e non certo di annullare quelli vecchi), ma il fatto che in questo caso erano le nuove regole che il sindacato aveva fatto accettare ai lavoratori che mostravano tutte le loro pesanti conseguenze, ed il fatto che sono ancora una volta i lavoratori giovani ad essere protagonisti della lotta. Quei giovani su cui più aveva pesato il ricatto della disoccupazione e la campagna propagandistica secondo cui non bisogna più sognare il posto fisso, ma essere disponibili a cambiare lavoro spesso. Certo, non sarebbe male, se esistessero veramente diverse e nuove opportunità di lavoro, visto che il lavoro alienato in fabbrica è una schiavitù, per cui se almeno si potesse ogni tanto cambiare aria ogni lavoratore ne sarebbe contento. Ma la realtà è che se hai un posto te lo devi tenere ben stretto, il che però non vuol dire che ti devi tenere per forza ogni cosa.
Per evitare che si potesse ripetere la situazione degli autoferrotranvieri, e cioè che i lavoratori partissero in lotta da soli, senza rispetto di regole e compatibilità, i sindacati questa volta si sono mossi subito, imponendo la loro direzione alla lotta, in maniera da condurla in vicoli ciechi e poterla chiudere senza troppe difficoltà. La tattica è stata la solita: divisione tra sindacati “duri” e quelli “morbidi”, radicalizzazione formale della lotta per dare l’impressione di una forza apparente e facilitando in questa maniera l’isolamento degli operai di Melfi. Così le RSU di fabbrica hanno preso l’iniziativa della lotta, in modo da poter sostenere che la lotta era in mano alla base, mentre CISL e UIL si sono dissociate e la CGIL ha “criticato” le iniziative prese. E per far vedere che le RSU erano decise ad andare fino in fondo sono stati organizzati i picchetti “duri” (blocco merci in entrata e uscita e ingresso impedito ai crumiri).
Questa apparente radicalità è servita in realtà ad isolare i lavoratori, tenendoli impegnati a presidiare la fabbrica invece che spingerli ad andare a cercare gli altri lavoratori per allargare la lotta. E onde evitare che questa esigenza dell’allargamento fosse portata avanti direttamente dai lavoratori i sindacati nazionali hanno proclamato un giorno di sciopero nazionale di tutto il settore FIAT in “solidarietà” con gli operai di Melfi. Uno sciopero simbolico che non solo non cambiava niente nei rapporti di forza con il padronato, ma che in realtà non ha niente a che vedere con la vera solidarietà di classe: questa infatti non sta nel semplice e isolato sciopero di “appoggio” ad un settore in lotta, ma nell’entrata in lotta di altri settori di lavoratori sulla base della coscienza che la lotta è una sola e che solo lottando uniti si può stabilire un rapporto di forza più favorevole.
Ingabbiati in questa maniera i lavoratori, i sindacati hanno potuto mettere in piedi la solita finzione della trattativa con la controparte, arrivando ad un accordo che raccoglie ben poco di quello che gli operai chiedevano: se il turno notturno di due settimane consecutive è stato abolito, sul piano del recupero salariale i 105 euro ottenuti (e comunque raggiungibili solo nel 2006) sono ben lontani dall’equiparazione ai salari degli altri operai FIAT (ed anche pieno questo salario ormai riesce sempre meno a soddisfare anche i bisogni più elementari dei lavoratori, come ormai sono costretti a riconoscere anche i giornali borghesi). Che i risultati raggiunti fossero ben miseri era abbastanza chiaro a molti lavoratori, ma la stanchezza di una lotta di più settimane, con i presidi davanti alla fabbrica, gli scontri con la “democratica” polizia dello Stato italiano e, soprattutto l’isolamento in cui erano rimasti gli operai di Melfi ha avuto facilmente la meglio sul malcontento restante.
Ma se questa volontà di lotta è stata bruciata in questa maniera, c’è un risultato più importante che i lavoratori tutti possono ottenere da questo episodio, e sono le lezioni che da esso si possono trarre: innanzitutto che non ci si può basare sui sindacati per portare avanti una lotta; i sindacati sono gli agenti sabotatori delle lotte, sostenuti dallo Stato borghese proprio per fare questo lavoro ed evitare così il più possibile il ricorso alla repressione vera e propria (che in questo caso comunque si è affacciata con le cariche della polizia fuori alla fabbrica). Poco alla volta nella lotta dei lavoratori deve tornare la coscienza di questa vera natura dei sindacati, che già durante gli anni ottanta aveva spinto i lavoratori a cercare di organizzarsi in maniera autonoma (vedi comitati di base della scuola nel 1987). Ed un’altra lezione importante, in questo momento in cui la classe mostra una ripresa della combattività, è che la volontà di lotta non basta, come non basta la decisione e la radicalità formale delle forme di lotta: la vera forza di una lotta sta nella sua conduzione autonoma da parte della classe (evitando così anche i sabotaggi sindacali) e nella ricerca dell’unità con gli altri lavoratori, sulla base dell’unicità della condizioni di sfruttamento e dell’unicità del proprio nemico di classe, al di là del settore e della fabbrica in cui si lavora.
Helios
Che in Iraq ci sia una guerra è evidente a tutti. Ogni giorno arrivano notizie di attentati, di scontri a fuoco, di morti e di feriti. Ma, ci dicono i politici italiani, i nostri soldati sono là per una missione di pace. Una volta si diceva che per fare la guerra, come per fare l’amore, bisogna essere in due. Invece in Iraq c’è questa bizzarra situazione per cui le milizie irachene farebbero la guerra contro chi sta lì solo con intenzioni di pace. E, bizzarria nella bizzarria, i guerrafondai sarebbero solo quelli che abitano laggiù e non anche quelli che ci sono andati di propria iniziativa senza nessun invito (una volta si sarebbe detto invasori). Così questi guerrafondai iracheni sparano addosso ai soldati italiani, che rispondono al fuoco, ma evidentemente sulle loro pallottole c’è scritto pace. Chissà se gli iracheni caduti sotto il fuoco italiano saranno morti contenti sapendo di essere morti per la pace.
Quanta vergognosa ipocrisia! Adesso le cose non si giudicano più per quelle che sono, ma per come le chiamano quelli che le fanno. Tu ammazzi, ma basta che dici che lo hai fatto nell’interesse del morto e diventi anche un eroe!
E questa ipocrisia non è solo del governo e della sua maggioranza che hanno votato la spedizione in Iraq e che, contro ogni evidenza, continuano a dire che i soldati italiani devono rimanere là per continuare questa missione di pace. No, ipocriti sono anche quelli delle cosiddette formazioni di sinistra che hanno votato contro la spedizione ma non certo perché si tratta di una missione di guerra, non certo perché sono contro le “guerre preventive”, le “spedizioni umanitarie” e tutte le spregevoli denominazioni con cui le borghesie del mondo intero stanno chiamando i loro interventi di guerra. No, questi signori si oppongono alle decisioni di Berlusconi solo perché questo è troppo ossequioso nei confronti dei piani di Bush, ed infatti continuano a dire che ci vuole una decisione dell’ONU, che loro diventerebbero favorevoli all’occupazione dell’Iraq se questa fosse fatta in nome dell’ONU. Insomma il problema non è che i soldati italiani stanno facendo una guerra ma che lo fanno appoggiando i piani americani. Come se bastasse ancora una volta cambiare un po’ la facciata (in questo caso la bandiera a stelle e strisce con quella dell’ONU) per far sì che una guerra non sia più una guerra, anche se continuano scontri, morti, uccisioni.
E del resto questa stessa sinistra non si è opposta all’invasione dell’Afghanistan, quando ha ritenuto valida la scusa della lotta al terrorismo per i bombardamenti delle popolazioni afgane, anche se ancora una volta ha criticato l’unilateralità della decisione americana. Ed essa stessa non ha esitato, quando era al governo, a mandare i soldati italiani in Kossovo, dove ancora una volta sono state bombardate e massacrate le popolazioni civili, con la scusa di avere per questo un mandato dell’ONU. Questa sinistra non può denunciare la guerra in Iraq perché essa stessa è favorevole a che l’imperialismo italiano si faccia sentire sullo scacchiere internazionale, quello che la distingue dalla destra sono le alleanze e le bandiere con cui portare avanti questo obiettivo: gli USA per Berlusconi e i suoi alleati, l’ONU o meglio ancora l’Unione Europea per Bertinotti e compagni.
Ed infatti questi signori, che pure si infiltrano nelle manifestazioni “per la pace”, anzi le favoriscono, visto che il pacifismo dei benpensanti non è altro che un modo per disarmare la classe operaia, si guardano bene dal denunciare puramente e semplicemente la spedizione italiana come una spedizione di guerra; la loro critica è che, con tutte le buone intenzioni, i soldati italiani non dovrebbero stare là perché “gli altri”, si comportano male, per cui si rischia di essere complici involontari degli assassini. Insomma anche loro contribuiscono alla mistificazione degli italiani “brava gente”, che possono solo fare missioni di pace, mentre sono gli altri a fare le guerre e le torture. Peccato che anche i soldati italiani furono beccati, in Somalia, dove ci fu un altro intervento “umanitario”, a torturare i prigionieri somali, esattamente come hanno fatto i soldati americani in questi mesi in Iraq.
Non saranno certo questi a dire che i soldati italiani stanno in Iraq (come in Afghanistan, in Kossovo, ecc.) per difendere gli interessi dell’imperialismo italiano, per impedire che questo sia tenuto fuori dalla divisione del mondo in sfere di influenza, base strategica per una eventuale guerra generalizzata e per la difesa degli interessi economici immediati. Se l’Italia in tutte queste spedizioni mantiene un basso profilo, è perché questo si addice di più a un imperialismo di basso livello, come quello italiano: per fare un esempio, se gli USA possono, sulla base della loro schiacciante supremazia militare ed economica, sostenere che tocca loro la missione storica di mantenere l’ordine nel mondo (1), un paese come l’Italia non può giustificare il suo intenso impegno militare che presentandolo sotto le bandiere della “pace”, dell’intervento “umanitario”, e così via.
In questa mistificazione il ruolo della sinistra è fondamentale: sono proprio questi partiti che hanno maggiori possibilità di far credere ai proletari che le ragioni dell’interventismo italiano sono tutte benevoli. Essa è quindi complice piena delle malefatte dell’imperialismo italiano nel mondo.
Tutti i paesi e tutte le forze capitaliste portano avanti gli interessi imperialisti del capitale nazionale, quello che cambia è la strategia del momento, è la maniera in cui pensano sia meglio difendere i loro interessi, cosa che spiega non solo la posizione della sinistra in Italia, ma anche quello della destra al governo in Francia, o la stessa sinistra in Germania, che si sono opposti all’intervento americano in Iraq solo perché vedevano giustamente in questo l’affermazione della supremazia americana, mentre in un intervento sotto l’egida dell’ONU potevano sperare di ricavarci qualcosa anche loro.
Helios
1. Anche se quello della “pax americana”, cioè di un ordine che significhi controllo incontrastato degli USA su ogni zona del mondo, resta ormai un sogno impossibile ed ogni intervento americano sia ormai destinato a contribuire ad aumentare il caos e il disordine, come è avvenuto in questi mesi in Iraq.
Il 28 dicembre 2003, all’età di 90 anni, è morto il compagno Robert. Per più di 28 anni Robert, da vero compagno di strada, ha seguito da vicino la nostra organizzazione. Ha partecipato come osservatore, fin dalla costituzione della CCI, a parecchie sue conferenze e congressi ed in modo regolare alle nostre attività pubbliche in Belgio. Malgrado certe posizioni divergenti, si è tuttavia sempre riconosciuto nell’orientamento generale della nostra organizzazione dandole tutto il sostegno possibile. Oggi vogliamo rendere omaggio non solo a Robert come compagno - per avere conservato la sua fedeltà, la sua devozione e la sua passione alla causa rivoluzionaria anche nei momenti peggiori della storia del proletariato - ma anche a tutta una generazione di militanti della classe operaia che sparisce con lui in Belgio. In effetti, Robert è stato l’ultimo comunista rivoluzionario superstite in Belgio appartenente a quella generazione di militanti che ha tenuto alta la bandiera dell’internazionalismo proletario dopo la sconfitta della classe operaia. Apparteneva ad una piccola minoranza di militanti comunisti che è sopravvissuta e ha resistito al periodo turbolento e cupo della terribile controrivoluzione che si abbatté sulla classe operaia tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60.
Fu nei quartieri popolari di Bruxelles che Robert, nella sua gioventù, scoprì tutte le contraddizioni della società capitalista confrontandosi con la dura realtà della lotta di classe. Bruxelles, centro politico del Belgio, concentrava anche le espressioni ed i dibattiti più cruciali di quell’epoca che nutrirono la formazione rivoluzionaria di Robert: discussioni per sapere se occorreva un nuovo partito comunista o fare un lavoro di frazione, per analizzare il significato della guerra in Spagna, riflettere sulla validità della fondazione della 4a Internazionale trotskista, comprendere la natura di classe dell’URSS, l’ascesa del fascismo e difendere l’internazionalismo di fronte all’imminenza della guerra generalizzata, ecc. Tutti questi dibattiti, che si sviluppavano nel campo politicizzato dell’epoca, erano animati dai gruppi ‘trotskysti’ dell’Opposizione Internazionale di Sinistra (PSR, Contre le Courant, ecc.) e della Sinistra Comunista Internazionale (italiana con la rivista Bilan e belga con la rivista Communisme). Robert decise di raggiungere, come militante, le file dell’opposizione trotskysta di Vereecken e Renery (Contre le Courant) che si opponeva alla fondazione della 4a Internazionale, ritenendola prematura, ritenendo che “Trotsky ha contribuito allo scoraggiamento ed alla dispersione delle rare forze rivoluzionarie”. Questo gruppo denuncerà il tradimento socialpatriota dei trotskysti ufficiali durante la Seconda Guerra mondiale e praticherà una politica di disfattismo rivoluzionario al riguardo di tutti gli imperialismi senza distinzione nessuna.
Allo scoppio della guerra il 1° settembre 1939 e di fronte alla repressione ed agli arresti, un certo numero di militanti scelse l’esodo per continuare il lavoro politico. Così Robert fuggì prima a Parigi e poi a Marsiglia, città di asilo provvisorio per molti rivoluzionari. Ma, nei momenti più critici, numerosi erano quelli che persero la convinzione. Robert, invece, conservò tutta la fiducia rivoluzionaria nella classe operaia ed una posizione internazionalista a riguardo dei campi belligeranti.
Mediante le sue relazioni politiche con l’ambiente degli internazionalisti, Robert entrò in contatto con il circolo animato dal nostro vecchio compagno Marc. Quest’ultimo, a partire dall’estate 1940, era particolarmente attivo per rianimare l’attività politica delle Frazioni della Sinistra Comunista Internazionale entrate in letargo alla vigilia della dichiarazione di guerra. Fin dal 1941, le discussioni ed i contatti si svilupparono di nuovo. Nel maggio 1942 si costituì il Nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale con la partecipazione di parecchi nuovi elementi, tra cui Robert. Fu attraverso quest’ultimo che fu realizzato un lavoro comune con gli RKD (ex trotskysti austriaci) ed i CR (Comunisti Rivoluzionari). Infatti, gli RKD, per i loro contatti col gruppo di Vereecken, incontrarono Robert. Questi suscitò l’interesse degli RKD con le posizioni politiche sviluppate dal Nucleo francese della Sinistra Comunista. La caratterizzazione dell’URSS come un’espressione della tendenza universale al capitalismo di Stato, l’internazionalismo proletario rispetto alla guerra, la critica della 4a Internazionale trotskysta, ecc., ed altrettanti punti comuni che andarono a forgiare i legami politici. Un’azione ed una propaganda diretta contro la guerra imperialista indirizzata agli operai ed ai soldati di tutte le nazionalità, ivi compresi i proletari tedeschi in uniforme, saranno condotte in comune.
Il Nucleo francese in cui Robert militò si trasformò, nel dicembre 1944, in gruppo politico e chiese di aderire all’Ufficio Internazionale delle Frazioni in quanto Frazione francese della Sinistra Comunista Internazionale. Tuttavia, la Conferenza di maggio 1945 della Frazione, in seguito all’annuncio della ricostituzione del Partito Comunista Internazionale in Italia ed alla voce della riapparizione politica di Bordiga, decise di sciogliere la Frazione italiana e invitò i suoi membri ad aderire individualmente a questo nuovo partito. Il nostro compagno Marc si oppose fermamente a questo ritorno irresponsabile senza discussione preliminare, né bilancio politico, così come all’integrazione in un partito di cui la Frazione non conosceva neanche le posizioni politiche! Per la stessa occasione, il nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale si vide rifiutare la sua adesione e fu così costretto a cambiare il suo nome per diventare la GCF (Sinistra comunista di Francia). Invece, la Frazione belga, ricostituita dopo la guerra intorno a Vercesi, si congiungerà al PCInt di Damen, Maffi e Bordiga.
Dopo la guerra, Robert tornò in Belgio e non volle restare solo. Decise di raggiungere la Frazione belga senza abbandonare per ciò tutte le sue convinzioni acquisite nel periodo precedente al Nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale. Mantenne il contatto con la Sinistra Comunista di Francia ed in particolare con Marc. Del resto il gruppo in Belgio restava fedele all’essenza delle posizioni di Bilan dell’anteguerra e si ritrovava di fatto in divergenza con il PCInt. La Frazione belga resterà, proprio come aveva fatto prima della guerra, molto più aperta alle discussioni internazionali. Alla fine del 1945, inizio 1946, con un certo imbarazzo, la Frazione belga chiederà delle spiegazioni supplementari al PCInt sui motivi della non adesione della Sinistra Comunista francese. Evidentemente Robert sostenne con molta forza tale richiesta. Così, essa propose un giornale teorico in collaborazione con i trotskysti belgi intorno a Vereecken prima che questo gruppo finisse per perdersi integrandosi definitivamente nella 4a Internazionale. Questa proposta sarà rifiutata dal PCInt. Allo stesso modo, nel maggio del 1947, parteciperà alla conferenza internazionale di contatti convocata dal Communistenbond Spartaco dei Paesi Bassi, che raggruppava, per il Belgio, gruppi imparentati allo Spartacusbond, la Frazione belga della GCI, per la Francia, la Sinistra Comunista di Francia, il 'Prolétaire' dei CR, gli RKD, il gruppo ‘Lotta di classe’ (Svizzera) e la Frazione autonoma di Torino del PCI.
Nel 1950-52 il periodo non dava più speranze di ripresa di lotte rivoluzionarie come all’epoca della fine della Prima Guerra mondiale. Numerose organizzazioni rivoluzionarie si disgregarono. Anche la Sinistra Comunista di Francia (Internationalisme) si disperse. Robert manterrà contatti epistolari regolari con Marc che si ritrovava in Venezuela e contribuì a dargli notizie politiche sulla vita dei gruppi del campo rivoluzionario del continente europeo.
Dopo la morte di Vercesi nel 1957, il gruppo in Belgio rifiutò di sottomettersi alle posizioni del PCInt, ma in seguito si disgregò poco a poco. Successivamente, Robert continua a partecipare alle diverse espressioni organizzate che si ricollegavano alle posizioni della Sinistra Comunista, in particolare al circolo di studio e alla sua rivista Le Fil du Temps (Il Filo del Tempo) di Roger Dangeville (scissione del PCInt che aveva fatto parte, per un certo tempo, del circolo di discussione animato da Maximilien Rubel proveniente dalla Sinistra Comunista di Francia). Finalmente, attraverso Marc, si mise in contatto col gruppo Révolution Internationale in Francia fin dal 1968. Malgrado certe divergenze riguardanti il corso storico ed il partito, Robert era cosciente del valore politico delle organizzazioni rivoluzionarie e della necessità di salvaguardarne il patrimonio. E’ per questo che è rimasto saldamente fedele alla CCI. Così, in tutti i periodi difficili, ci ha sempre sostenuto, partecipando anche alla nostra difesa con le sue prese di posizione.
I militanti della CCI che continuano la lotta rivoluzionaria per la quale Robert ha vissuto e combattuto, lo salutano un’ultima volta conservandone vivo il ricordo. CCI
All’inizio di quest’anno il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) ha iniziato una serie di riunioni pubbliche a Berlino, iniziativa che salutiamo. La prima riunione, che trattava della lotta di classe, ha avuto luogo a metà febbraio; la seconda, a metà maggio, aveva come tema le cause della guerra imperialista. In questo articolo parleremo della prima delle due riunioni, mentre nel prossimo numero ci sarà un articolo sul dibattito sviluppato nella seconda riunione.
Le introduzioni
Un simpatizzante del BIPR ha introdotto la riunione con una presentazione sui punti programmatici e sulla storia di questa organizzazione spiegando che il BIPR è costituito oggi da Battaglia Comunista (Italia), dalla Communist Workers Organisation (Gran Bretagna), da Internationalist Notes (Canada) e da Bilan et Perspectives (Francia); esso si rifà alla tradizione della Sinistra comunista italiana intorno a Bilan degli anni ‘30, ma ci sono anche dei punti di contatto con il Partito Comunista dei Lavoratori della Germania (KAPD). A partire dall’inizio degli anni ‘50 la Sinistra comunista consisterebbe essenzialmente di tre correnti:
- Battaglia Comunista
- i Bordighisti
- la CCI (e le sue organizzazioni antecedenti).
Il compagno ha poi sintetizzato le posizioni programmatiche del BIPR rispetto all’imperialismo, la questione dei sindacati e la relazione tra il partito rivoluzionario e la classe operaia. Su queste si rimanda alle pubblicazioni del BIPR in merito.
E’ seguita una relazione del compagno del BIPR sul tema della riunione: “Le tensioni imperialiste e gli scioperi dell’inverno scorso nelle aziende di trasporto locale in varie città italiane”.
Qui di seguito ci soffermeremo su alcune questioni emerse nella discussione e riassumeremo le posizioni presenti nella relazione introduttiva del compagno del BIPR, nella misura in cui sarà necessario per la comprensione della discussione.
Formazione dei blocchi e cause della guerra
Come già accennato nel volantino d’invito, il BIPR parte dall’idea di una “ricostituzione dei blocchi imperialisti dopo la caduta dei vecchi blocchi”. Vede l’Europa come un polo opposto agli USA e che tende a costituirsi come blocco imperialista. L’Euro, come valuta, è un progetto che si oppone al dominio dei dollari-USA. Il compagno del BIPR ha inoltre sottolineato che gli USA hanno fatto la guerra in Iraq essenzialmente per la difesa delle risorse e delle vie di trasporto del petrolio, in breve: il motivo sarebbe stato (e sarebbe ancora) la tutela della rendita petrolifera.
Lotta di classe
Nella seconda parte della relazione il compagno del BIPR è partito dall’esempio degli scioperi in Italia per parlare dei sindacati di base e del loro ruolo negli scioperi. Ha sottolineato che i sindacati di base, in linea di principio, non hanno un carattere diverso da quello dei sindacati ufficiali e che la classe operaia non può aspettarsi niente da queste organizzazioni. Ha anche ricordato che negli anni ‘80, quando si formarono i Cobas come comitati di lotta, Battaglia Comunista e CCI hanno difeso insieme questi organismi contro la loro trasformazione in sindacati.
Benché la posizione del BIPR non sia stata sempre così lineare, l’esposizione del compagno di Battaglia Comunista non necessitava alcuna replica. La nostra organizzazione ha invece criticato, nel corso della discussione, l’opinione del BIPR sulla cosiddetta ricomposizione della classe operaia. Il BIPR, come molti autonomi, dà molto peso al fatto che fin dagli anni ‘70 la gran parte dell’industria tradizionale è scomparsa e che i posti di lavoro si sono trasferiti nel settore terziario e nel campo informatico, per spiegare la debole combattività del proletariato. Questo sviluppo avrebbe portato a una composizione diversa della classe operaia e sarebbe, assieme alla caduta del blocco dell’est, la causa dell’attuale debolezza di questa, che si difenderebbe solo con esitazione contro gli attacchi della borghesia.
La CCI ha criticato questa analisi come sociologica e, alla fine, fatalistica. Il processo di produzione capitalistico ha cambiato continuamente la composizione della classe operaia a partire dal suo inizio. La classe operaia non può fare niente contro questi cambiamenti. Ai tempi di Marx il proletariato era composto in gran parte da operai di piccole aziende a conduzione familiare, e non da proletariato industriale, ma il grande rivoluzionario non trasse la conclusione che le condizioni per lo sviluppo della coscienza di classe sarebbero state più difficili. La cosa più importante per la classe operaia è generare un adeguato rapporto di forze nei confronti della borghesia. È proprio questa analisi del rapporto di forze tra la borghesia e il proletariato che il BIPR tralascia, sostenendo addirittura che non è proprio possibile fare. Il BIPR non sa, e non può quindi affermare o smentire, se il proletariato è sconfitto o no e se la borghesia può scatenare una guerra mondiale oppure no. La valutazione del corso storico è invece centrale per i marxisti. Solo a partire dalla definizione di questo quadro si può valutare correttamente lo sviluppo della coscienza di classe. La CCI non nega le difficoltà attuali del proletariato, in particolare per quanto riguarda la combattività e la coscienza di classe. Il corso storico (fin dal 1968) va però ancora essenzialmente verso un aumento di scontri tra le classi, anche se lo sviluppo non è rettilineo ed ha subito, nel 1989, un pesante colpo. Per questo, da allora in poi, dagli anni ‘90 ad oggi, bisogna tenere d’occhio soprattutto la maturazione sotterranea della coscienza, che si esprime in maniera più evidente nella comparsa di gruppi e singoli individui che difendono le posizioni internazionaliste e sono interessate alla sinistra comunista.
Il campo politico proletario
La delegazione della CCI presente alla riunione ha espresso un certo stupore rispetto al fatto che, da una parte, sull’invito alla riunione, si sintetizzavano “Alcuni punti sull’allineamento del BIPR”, che la nostra organizzazione può approvare senza eccezioni, dall’altra parte che il BIPR rifiuta di fare insieme una presa di posizione contro la guerra capitalista e il pacifismo con la giustificazione che le nostre posizioni sarebbero troppo diverse. Pur non negando le divergenze che ci sono tra le nostre organizzazioni, abbiamo però messo l’accento su quello che ci accomuna nella sinistra comunista sulla questione della guerra imperialista. C’è un campo politico proletario che consiste di organizzazioni che difendono già da decenni le posizioni internazionaliste e che si richiamano all’eredità delle frazioni di sinistra del Comintern. Queste organizzazioni non hanno mai sostenuto nessuno dei fronti che si sono combattuti nella guerra imperialista, contrariamente ai socialdemocratici, gli stalinisti e i trotzkisti, ma hanno sempre difeso le posizioni di Lenin e della Luxemburg: “Contro la guerra imperialista! – Contro ogni borghesia nazionale! – Per la rivoluzione mondiale del proletariato” A maggior ragione nella fase attuale, nella quale il capitalismo sprofonda sempre di più in guerre e massacri, sarebbe importante che le organizzazioni rivoluzionarie prendano insieme la parola come l’hanno fatto durante la Prima Guerra Mondiale a Zimmerwald e a Kienthal.
Il compagno di BC ha ribattuto che il BIPR già da tempo considera la CCI come la frazione idealista del campo rivoluzionario. Fin dalle conferenze internazionali di 25 anni fa si sarebbero affermati i contrasti tra la sua organizzazione e la nostra. Il BIPR si è separato dal campo politico proletario perché ritiene le altre organizzazioni incapaci di dare un contributo alla creazione del futuro partito. Certo la CCI si trova ancora dalla parte giusta della barricata, ma con i problemi interni degli ultimi anni avrebbe dimostrato che non può dare un simile contributo, anzi, si troverebbe in un processo di frammentazione. Anche la frazione bordighista dell’ex-campo proletario si troverebbe in un processo simile e oggi sarebbe politicamente morta.
A parte il fatto che non condividiamo questa valutazione, è interessante che il compagno di BC non abbia osato applicare questa analisi “della morte politica” anche alla CCI. Troppo evidente è la presenza politica della nostra organizzazione non solo in Germania ma anche a livello internazionale. D’altra parte non è serio parlare di una frammentazione della CCI. Poco convincenti sono anche gli argomenti del BIPR sul fatto che non esisterebbe più un campo politico proletario, perché le posizioni programmatiche della CCI non sono affatto cambiate dalle conferenze internazionali ad oggi. All’epoca era ancora possibile per BC e la CWO sedersi con noi e altri gruppi ad un medesimo tavolo. La vera ragione del settarismo attuale sembra essere il sentimento di concorrenza del BIPR verso la CCI, di fronte all’emergere di una nuova generazione di elementi che si interessano alle posizioni internazionaliste. La concorrenza è però il modo di lavorare dei commercianti nel mercato capitalista, dove ognuno cerca di portare via i clienti all’altro. Per i rivoluzionari non si tratta di trovare velocemente e facilmente dei nuovi membri, ma di lavorare per lo sviluppo della coscienza sulla base della chiarezza politica nella classe operaia e in particolare verso gli elementi più avanzati per permetterne ed accelerarne il processo di maturazione, perché in caso di adesione ad una delle esistenti organizzazioni rivoluzionari questa avvenga sulla base della massima chiarezza sulle posizioni programmatiche. Noi come CCI non abbiamo nessun interesse che il partito nasca solo dalla nostra organizzazione e che gli altri gruppi scompaiano. Vedremmo questo piuttosto come debolezza perché partiamo dall’idea che la creazione del futuro partito sia il risultato di un processo di raggruppamento nel campo rivoluzionario come è avvenuto per il raggruppamento nelle fasi storiche precedenti, ad esempio tra i bolscevichi di Lenin e l’organizzazione di Trotsky nel 1917 o tra la Lega di Spartaco e i Comunisti Internazionali di Germania tra il 1918/19 (però sempre a condizioni che il futuro partito rivoluzionario sia dagli inizi un partito internazionalista).
Un bilancio positivo
Come si è visto nella discussione sono state difese a volte delle posizioni molto diverse. Ma la discussione si è svolta in un’atmosfera di rispetto reciproco e nello sforzo di un’argomentazione chiara. Ciò va salutato, e ci fa piacere constatare come il comportamento di BC verso la CCI sia in piacevole contrasto con il comportamento ufficialmente settario del BIPR verso altre organizzazioni dell’ambito rivoluzionario.
Questo tipo di dibattito deve continuare, a Berlino, a Milano, a Parigi, a Nuova York o in altre città. L’importante è che si eviti ogni opportunismo in questioni programmatiche o organizzative (lo spirito mercantile) e che le diverse posizioni siano affrontate apertamente e discusse. Prima chiarimento, poi raggruppamento.
T/C,
8/5/04
L’autocelebrazione della borghesia non deve illuderci. Quando i borghesi si intendono tra di loro, è sulle spalle degli operai che lo fanno, altrimenti pensano solo ad azzuffarsi.
Il perseguimento dell’integrazione europea, dettato dall’interesse comune delle potenze europee occidentali a creare una fascia protettiva di stati di relativa stabilità per arginare il caos sociale ed economico generato dall’implosione del blocco dell’Est nel 1989, è lungi dal significare “unità”. Campo di scontro privilegiato delle due guerre mondiali, l’Europa costituisce l’epicentro delle tensioni imperialiste e non c’è mai stata reale possibilità di costituzione di una vera unità che permetterebbe di superare gli interessi contrastanti delle differenti borghesie nazionali. In effetti, “a causa del suo ruolo storico come culla del capitalismo e della sua situazione geografica, (...) l'Europa nel ventesimo secolo è diventata la chiave della lotta imperialista per il dominio mondiale” (3).
L'UE, un’espressione delle tensioni imperialistiche del dopo Seconda Guerra mondiale...
Per un certo periodo, la divisione del mondo in due blocchi imperialisti gli ha conferito una certa stabilità; nel momento in cui la CEE (Comunità Economica Europea) era lo strumento degli Stati Uniti e del blocco occidentale contro il suo rivale russo, l’Europa poteva avere una certa realtà. Infatti, dopo la Seconda Guerra mondiale, la costruzione della comunità europea è stata sostenuta dagli Stati Uniti per formare un bastione contro le velleità di avanzamento dell’URSS in Europa e concepita per rafforzare la coesione del blocco occidentale. Tuttavia, per quanto contenute e disciplinate dalla “leadership” americana di fronte alla necessità di far fronte al nemico comune, importanti divisioni si sono sempre manifestate tra le principali potenze europee.
Quando si è avuto il crollo del muro di Berlino nel 1989, l’implosione del blocco dell’Est ha prodotto di riflesso anche lo sgretolamento del blocco avversario e la riunificazione della Germania che accedeva così ad un rango superiore di potenza imperialista: di qui la decisione di mettere a profitto questa opportunità di fare da capofila di un nuovo blocco imperialista opposto agli Stati Uniti. Le ragioni che costringevano gli Stati d’Europa occidentale a “marciare insieme” si sono volatilizzate ed il fenomeno si è brutalmente aggravato da quindici anni a questa parte. Così, contrariamente a tutta la propaganda sulla inesorabile marcia in avanti verso l’unità di una grande Europa, è piuttosto verso l’aggravarsi delle tensioni al suo interno e delle divergenze di interessi che quest’ultima si dirige.
Questo sconvolgimento storico ha rilanciato la lotta per l’egemonia mondiale ed il rimescolamento delle carte sul continente europeo. La lotta accanita tra tutti questi campioni della pace e della democrazia per la divisione delle spoglie dell’ex-blocco russo ha prodotto, per la prima volta dal 1945, il ritorno della guerra in Europa all’inizio degli anni ‘90 nella ex-Jugoslavia (ed al bombardamento da parte delle forze NATO di una capitale europea, Belgrado, nel 1999), dove Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, rivali tra loro, si oppongono, per alleati interposti, all’espansione tedesca verso il Mediterraneo, attraverso la Croazia. La guerra in Iraq ha anch’essa ugualmente mostrato l’assenza fondamentale di unità e i profondi dissensi e le rivalità tra le nazioni europee.
... che si aggravano ancora dopo la Guerra fredda
A partire dal 1989 la Germania non ha smesso un solo momento di manifestare con chiarezza le proprie pretese imperialiste nella sua area tradizionale di espansione “Mitteleuropea”, con la scusa della costruzione dell’Europa. Essa spera di utilizzare il suo peso economico senza pari nei principali paesi dell’Est europeo, così come la prossimità istituzionale creata dall’allargamento dell’Europa per sottomettere questi paesi alla sua sfera di influenza. La borghesia tedesca non può tuttavia che scontrarsi da un lato contro il ciascuno per sé di queste differenti nazioni e dell’altro con la determinazione degli Stati Uniti di sviluppare la loro influenza, in particolare attraverso la NATO.
“Cinque dei nuovi membri – l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Slovacchia e la Slovenia - sono stati accolti in pompa magna, il 29 marzo, a Washington, nei ranghi della NATO, un mese prima della loro integrazione nell’UE. L’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca fanno parte dell’alleanza dal 1999. Gli Stati Uniti già fanno propaganda affinché la Bulgaria e la Romania, gli altri due nuovi partner della NATO, siano ammessi, a loro volta, nell’UE”(4).
Gli Stati Uniti contano sui paesi della “nuova Europa” per paralizzare il suo rivale più pericoloso e fanno i calcoli che “più l’UE si estende, meno si rafforza, e che ciò complica la formazione di un contrappeso politico al potere americano” (4), come lo mostrano le lacerazioni che si sono prodotte per approvare la Costituzione dell’UE.
Così, mentre ad Est, a dispetto del ciascuno per sé, la Germania rafforza le potenzialità di accrescere in tempi brevi la sua influenza imperialista, ad occidente essa si scontra con la Francia e la Gran Bretagna che non possono accettare il potenziale sviluppo dell’imperialismo tedesco.
La Gran Bretagna, che aveva rifiutato a suo tempo gli accordi di Maastricht, gioca da allora e più che mai il ruolo di sostegno degli Stati Uniti, utilizzando ogni pretesto per alimentare la discordia tra le potenze europee. Principale sostenitore dell’intervento militare americano in Iraq, essa subisce non solo il discredito dell’insuccesso americano, ma si ritrova sempre più isolata in Europa. L’impatto del pantano iracheno ha mandato in pezzi la coalizione “filo-americana” formata da Londra, Madrid e Varsavia contro le ambizioni franco-tedesche di opposizione agli Stati Uniti. L’adozione di un orientamento filo-europeo del nuovo governo Zapatero che annuncia il suo ritiro dell’Iraq la priva del suo principale alleato in Europa. Questa defezione ha avuto per effetto di gettare la Polonia, scossa e divisa sulla scelta dei suoi orientamenti imperialisti, in una crisi politica che ha portato alle dimissioni del suo primo ministro e all’implosione del partito al potere. A dispetto delle difficoltà che incontra, la Gran Bretagna sarà costretta a continuare il suo lavoro di sabotaggio di ogni alleanza continentale duratura in Europa.
La Francia, che sognava di staccarsi dalla tutela americana dagli anni ‘50, non può lasciare che la Germania edifichi su misura un’Europa sotto la propria influenza, né soprattutto accettare il ruolo subalterno che lo Stato tedesco vuole riservarle nel quadro dell’allargamento europeo. E’ per tale motivo che essa spera di trovare, nel rafforzamento e nell’allargamento dell’UE, i mezzi per garantirsi un controllo “comunitario” capace di imbrigliare le ambizioni della Germania. Ed è ancora per questo che la si vede riattivare i suoi legami “storici” con la Polonia e la Romania e, più recentemente, sviluppare trame con la Russia per opporsi all’intervento americano in Iraq. A tale proposito, bisogna sottolineare che questa ultima è essa stessa fortemente interessata a questa “alleanza” con la Francia, a causa della sua inquietudine a vedersi privata della sua ex-zona di influenza nell’Europa dell’est e a constatare che i limiti dell’UE e della NATO avanzano fino alle sue frontiere. Ciò permette evidentemente di prendere la Germania nella morsa. D’altra parte, all’interno dell’UE, la Francia si mobilita per riprendere influenza sui paesi del Sud Europa, in particolare la Spagna, contro la posizione egemonica della Germania, e se risponde alle sollecitazioni della Gran Bretagna di sviluppare la difesa europea e costruire una portaerei in comune, è per giocarsi così di fronte alla Germania la carta vincente costituita dal potere militare di cui questa ultima è priva.
A che serve in queste condizioni tutta questa campagna sulla mitica “unità europea”? Come propaganda ideologica che possa mantenere le nostre illusioni su un mondo capitalista che suda morte e miseria da tutti i pori.
La tendenza al caos ed il regno del “ciascuno per sé” non sono affatto appannaggio dei soli paesi dell’ex-blocco dell’Est o del “Terzo Mondo”. La scomparsa della divisione del pianeta in due blocchi, dando il segnale dello scatenamento della guerra di tutti contro tutti, pone la stessa Europa al centro degli antagonismi imperialisti e già rende totalmente illusoria ogni idea di un’unità dell’insieme dei capitali nazionali che la compongono. Inoltre, tra la determinazione degli Stati Uniti - con al seguito la Gran Bretagna che difende qui i suoi propri interessi - a mantenere ad ogni costo la loro supremazia sul mondo, e l’ascesa al potere della Germania, che tende a porsi sempre più come il vero rivale degli Stati Uniti, l’Europa non può che diventare lo sbocco ultimo di questo scontro.
Scott
Le Monde del 2 e 3 maggio 2004.
(2) Le Monde del 4 maggio 2004
(3) Vedere Revue Internationale n°112, “L'Europa: alleanza economica e campo di manovra delle rivalità imperialiste”
(4) Le Monde del 29 aprile 2004
Ormai non passa giorno senza che arrivino notizie di nuovi orrori da qualche angolo del mondo. E questo nonostante il fatto che le varie democrazie occidentali nascondano la gran parte delle notizie, di cui arriva a noi una parte considerevole solo per la loro grande quantità e atrocità (vedi quanto siano tagliate e deformate le informazioni sulla recente strage di Beslan in Ossezia o quelle relative alle torture ai danni dei prigionieri di guerra in Iraq).
Ma se la borghesia non può bloccare tutte le informazioni sulle atrocità che si producono nel mondo, per lo meno si riserva la possibilità di manipolare le informazioni relative in modo che esse non costituiscano elemento di riflessione per i proletari, per evitare che questi non arrivino a capire che la loro origine sta nel modo di funzionamento di questo sistema che, basato da sempre sullo sfruttamento, è ormai arrivato in una fase di convulsioni crescenti che non solo non danno uno sbocco alla sua crisi economica, ma si trasformano sempre più in caos e barbarie generalizzati. Al contrario, la borghesia si dà da fare per utilizzare questi stessi orrori contro i proletari, cercando di portarli a proprio tornaconto.
E’ quanto sta succedendo anche in questi giorni in Italia con l’uccisione del giornalista Enzo Baldoni e il rapimento di Simona Pari e Simona Torretta. Questi episodi, che sono il risultato del caos che si è venuto a creare in Iraq con l’intervento armato degli Stati Uniti e dei loro alleati, tra cui l’Italia, forniscono alla borghesia italiana una chance per uscire dall’imbarazzo di un intervento armato che solo il cinismo della borghesia può definire di pacificazione, attraverso il tentativo di giustificare l’intervento stesso con la barbarie di questi atti dei terroristi e, in più, col tentativo di far stringere la popolazione italiana intorno a quello Stato che ha deciso l’intervento e che fa pagare i suoi costi umani ed economici ai proletari stessi.
E’ con questo obiettivo che Berlusconi ha affermato, dopo l’uccisione di Baldoni, che il fatto che i terroristi arrivassero ad uccidere un pacifista, uno che non aveva responsabilità nell’occupazione militare, dimostrava la loro barbarie (e, sottointeso, giustificava l’opera di polizia che gli eserciti di occupazione stanno operando in Iraq). Quanta sporca ipocrisia! Perché, di cosa erano e sono responsabili le migliaia di civili irakeni morti sotto i bombardamenti americani e sotto il fuoco dei vari eserciti di occupazione? Chi li ha uccisi non si è dimostrato barbaro almeno quanto i terroristi che pretende di combattere? (se non anche di più, viste le proporzioni dei morti fatti dagli uni e dagli altri).
Ed è ancora con questo obiettivo che il giorno dopo il rapimento delle due volontarie di Un Ponte Per, lo stesso Berlusconi ha invocato l’unità nazionale contro il terrorismo, appello subito accolto anche da tutta l’opposizione, ivi compreso quel Bertinotti che si diceva contro la guerra senza se e senza ma e che ha affermato che, in questo momento, bisognava prima occuparsi dei rapimenti e poi, caso mai, chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Irak.
Ancora una volta la sinistra mostra quanto sia prezioso per la borghesia il suo ruolo di mistificazione verso i proletari, che essa sia al governo o all’opposizione. L’appello di Berlusconi aveva ben poche possibilità di avere una qualche influenza sulla stragrande maggioranza della popolazione, mentre il fatto che sia l’opposizione che vi aderisce gli conferisce una autorevolezza inattesa. Una autorevolezza che potrebbe indurre qualche proletario a credere che in fondo una qualche giustificazione nell’intervento militare forse c’è o, almeno, che adesso non ci si può più ritirare fino a che l’Iraq non torni di nuovo stabile (come dice esplicitamente Fassino).
E invece non c’è nessuna motivazione nobile o razionale: dietro l’intervento in Iraq, sia quello di USA e Gran Bretagna che hanno portato avanti l’attacco a Saddam, sia quello dei paesi che si sono aggiunti dopo, con la scusa di dover favorire la ricostruzione e la nascita di un governo democratico, come l’Italia, c’è solo lo scopo di difendere gli interessi imperialisti della propria borghesia contro quelli degli altri paesi. Le truppe italiane stanno in Iraq per motivi uguali ed opposti a quelle degli USA: uguali, perché servono a difendere gli interessi imperialisti sul posto, opposti, perché ognuno vuole difendere i suoi di interessi, e necessariamente a scapito di quelli degli altri.
E questi interessi, degli uni come degli altri, sono antagonisti a quelli dei proletari, che dalle avventure guerriere della borghesia possono solo ricevere morte e miseria, sia in Iraq, dove si muore sotto il fuoco degli interventi antiterrorismo e pacificatori, che in Italia o negli altri paesi occupanti, dove i proletari pagano il costo, enorme, di questi interventi (il solo intervento in Iraq costa circa un migliaio di miliardi all’anno).
Helios
Anche il 2004 si sta chiudendo per l’Italia con una calma piatta dal punto di vista dello sviluppo dell’economia. Ciò vuol dire che i capitali investiti a livello globale non hanno reso niente, come i soldi depositati in banca. Mettendo in conto l’aumento dell’inflazione, sia reale che programmata, vuol dire che siamo in recessione. E questo è sufficiente per spingere la borghesia, statale e privata, non tanto a stringere la cinghia come si usa nelle famiglie proletarie ma ad attaccare con sempre più forza i livelli di vita altrui, dei lavoratori, dei pensionati, di chi usufruisce dei servizi collettivi.
Il debito dello Stato continua ad essere superiore al PIL, e questo nonostante tutte le privatizzazioni che ci sono state. Il deficit per quest’anno corre intorno al 3,1% ed è necessario ridurlo per evitare sanzioni dalla Comunità Europea. In una situazione disperata come questa la borghesia ha dimostrato di non sapere che pesci prendere: qualsiasi misura risulta controproducente. In queste condizioni una delle attività di governo più importanti sul piano economico è quello di promettere, cosa che riesce molto bene a Berlusconi. Ha promesso di tagliare le tasse per stimolare le spese dei privati e favorire gli investimenti, ma non può farlo perché aumenterebbe il deficit, a meno che non raccolga i fondi da qualche altra parte. Da dove? Non è molto difficile indovinarlo. Le varie riforme che stanno approvando non hanno solo un aspetto “culturale”, “ideologico”, ma anche un aspetto economico, un risparmio che si ottiene attraverso una riduzione dei posti di lavoro, la riorganizzazione dell’apparato statale, l’aumento dei ritmi di lavoro e delle mansioni (1).
La riforma sul decentramento non fa altro che trasferire competenze dallo Stato alle Regioni e questo, se in teoria dà l’impressione di una duplicazione dei compiti e quindi del personale, in effetti scarica l’autorità centrale da ogni responsabilità e affida il mantenimento del personale alle singole Regioni che, in mancanza di fondi, si vedono costrette a non coprire i vuoti, tagliare i servizi e, dulcis in fundo, aumentare le tasse. Questo decentramento porterà inoltre a dividere i settori lavorativi interessati sulla base della forza economica della regione, e quindi a peggiorare i salari del personale delle regioni del sud.
La riforma delle aliquote contributive (23%, 33%, 39%), che sulla base della pubblicità governativa tutti vogliono ma che penalizza la fascia centrale dei lavoratori, serve soprattutto a far recuperare a settori piccolo borghesi e borghesi dei capitali da utilizzare per gli investimenti e le spese non di prima necessità, ovvero di lusso. In questo modo il governo spera di far riprendere fiato all’asfittica economia nazionale, che resta ultima nelle classifiche europee, senza aggravi di spesa, scaricando il tutto sulle spalle dei lavoratori. E quei settori più deboli del proletariato, giovani, precari, che avranno qualche euro in più dalla riduzione delle tasse, dovranno subito ridarli indietro grazie agli aumenti previsti per luce, acqua, gas, trasporti e canoni vari.
La nuova manovra finanziaria per l’anno 2005 è stimata in 30 miliardi di euro, cifra di non poco conto (Il sole 24 ore, 22/09/04); il governo successivamente ha parlato di 24 miliardi. La campagna pubblicitaria governativa dice che non saranno toccati la sanità, le spese sociali, gli investimenti e ci sarà solo il contenimento delle spese ministeriali. In parole povere, avendo i ministeri meno soldi a disposizione, effettueranno dei tagli che ricadranno sui lavoratori e i settori del proletariato che già adesso incontrano difficoltà a tirare avanti quali disoccupati, pensionati, immigrati. Si avrà un aumento dei carichi di lavoro perché non ci sarà il turn over (i posti persi con i pensionamenti non saranno ricoperti) e meno soldi per i rinnovi contrattuali, tanto che Fini e i leghisti preparano la messinscena per dividere i lavoratori ed evitare di perdere simpatie. In conclusione meno soldi e più sfruttamento.
Il recente accordo tra Alitalia e sindacati ha mostrato l’inizio di una nuova offensiva contro i lavoratori. Partendo dal presupposto che con gli attuali ritmi di lavoro e salari la compagnia aerea è destinata al fallimento, e questo è già successo ad altre compagnie aeree, i lavoratori sono stati costretti ad accettare un grosso aumento percentuale delle ore lavorate, la riduzione di permessi e ferie, il blocco dei salari, e alcune migliaia di licenziamenti. Questa incredibile mole di sacrifici richiesti ai lavoratori non garantisce comunque niente, perché la rinnovata, eventuale, competitività dell’Alitalia spingerà le altre compagnie a fare altrettanto, con il risultato che ci si ritroverà punto e da capo. Con il ricatto del fallimento della compagnia, i sindacati sono riusciti a fare accettare ai lavoratori dell’Alitalia un vero e proprio salasso, dimostrando così qual è il loro reale ruolo: quello di difensori del capitale nazionale e di sabotatori delle lotte proletarie.
La crisi economica del capitalismo è una spirale senza fine che non risparmia nessun paese del mondo, nessun settore lavorativo e nessun aspetto della vita dei proletari. Perciò tutta la “ragionevolezza” cui ci invitano i sindacati, in attesa di tempi migliori, non è niente altro che un mezzo per scoraggiare i lavoratori a lottare, per fargli accettare i sacrifici oggi, per sconfiggerli definitivamente domani.
L’unico modo per uscire da questo ciclo di sconfitte è prendere coscienza che la crisi è globale e del capitalismo come sistema, quindi è necessario prendere in mano la propria lotta senza affidarla a sindacati o altri e unirsi agli altri settori dei lavoratori. Solo questo può fare paura alla borghesia e ai suoi governi e dare uno stop al peggioramento delle condizioni di vita.
Oblomov
1. I “risparmi” ottenuti con questi tagli e aumenti dei ritmi appaiono di tanto in tanto tra le notizie soprattutto ad uso e consumo dei sindacati che hanno firmato i vari contratti con la nota che i risparmi ottenuti sarebbero stati ripartiti tra coloro che hanno subito sacrifici. Aspetta e spera verrebbe da dire.
La morte di 340 persone nella città di Beslan, nell’Ossezia del nord, la metà delle quali bambini, non può non provocare indignazione, orrore e ripulsione. Come gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, questo è un crimine di guerra le cui vittime sono, come sempre, i membri più indifesi della società civile. A Beslam gli ostaggi sono stati sottomessi all’intimidazione, la fame, la sete, a delle esecuzioni sommarie e molti di quelli sopravvissuti alla prima esplosione nella scuola dove erano rinchiusi, sono stati uccisi alle spalle quando hanno cercato di fuggire. Nei giorni successivi al massacro, tutti i dirigenti dl mondo si sono affrettati ad esprimere “la loro solidarietà con il popolo russo” e con il loro “forte presidente”, M. Putin. Alla Convention repubblicana di New York, Bush non ha esitato ad includere la guerra che conduce lo Stato russo contro il separatismo ceceno nella “guerra contro il terrorismo” portata avanti dagli Stati Uniti. A Mosca, migliaia di persone hanno partecipato ad una manifestazione ufficiale contro il terrorismo dietro le bandiere che dicevano “Putin, siamo con te”.
Ma la solidarietà con le vittime di Beslan è una cosa. Il sostegno allo Stato russo ne è un’altra. Lo Stato russo è altrettanto responsabile di questo massacro che i terroristi che hanno assalito la scuola.
Innanzitutto perché una gran parte dei morti e dei feriti sono stati causati dalle truppe russe che circondavano la scuola e che hanno usato armi automatiche, lanciafiamme e granate in maniera totalmente caotica. Questi metodi brutali non possono non farci ricordare il modo in cui si è concluso l’assedio al teatro di Mosca nell’ottobre 2002; eppure Putin ha rifiutato la benché minima messa in questione dell’operato dell’esercito in questo affare. Ma più importante ancora è il fatto che, come la “guerra” americana “contro il terrorismo” ha fatto dell’Afghanistan e dell’Iraq un terreno di risonanza ideale per le gang terroriste regionali ed internazionali, così il terrorismo ceceno è un prodotto della guerra devastatrice condotta dall’imperialismo russo nel Caucaso.
Il terrore dello Stato russo in Cecenia
Confrontata alla richiesta di indipendenza della Cecenia dopo il collasso dell’URSS, la Russia reagì con una sanguinosa guerra in cui morirono almeno 100.000 persone. Nel 1999, dopo una pausa del conflitto, Putin rilanciò l’offensiva ad un livello ancora più barbaro, radendo praticamente al suolo la capitale cecena, Grozny. Il pretesto per questa rinnovata offensiva fu la serie di attentati a Mosca e Volgodonsk, in cui furono uccise 300 persone. Sebbene furono accusati i terroristi ceceni, vi sono solide basi per pensare che invece gli attentati furono opera del servizio segreto russo. Da allora in poi la Russia ha mantenuto una totale intransigenza di fronte alle rivendicazioni di indipendenza della Cecenia. In effetti la perdita della Cecenia costituirebbe un colpo enorme per gli interessi imperialisti della Russia. Innanzitutto per la posizione strategica della Cecenia rispetto ai campi petroliferi ed agli oleodotti del Caucaso; ma, ancora più importante, perchè la secessione della Cecenia dalla Federazione Russa alimenterebbe il rischio di esplosione di tutta la Federazione con la conseguente impossibilità per la Russia di mantenere la sua pretesa di giocare un ruolo sull’arena mondiale.
Non c’è stato nessun limite ai crimini commessi dall’esercito russo nel Caucaso, come è stato abbondantemente documentato da un certo numero di organizzazioni di “difesa dei diritti umani”. Human Rights Watch, per esempio, parla dell’incapacità di Putin “a mettere in piedi dei processi attendibili per i crimini commessi dai soldati e dalle forze di polizia russe...sparizioni di persone, esecuzioni sommarie e torture hanno enormemente minato la fiducia verso le istituzioni dello Stato russo nella popolazione cecena ordinaria” (citato in The Guardian, settembre 2004)
“L’Occidente democratico” sostiene i crimini di guerra dello Stato russo
Questi crimini sono identici a quelli commessi dai tiranni “ufficiali”, come Saddam Hussein o Milosevic. E durante questi anni di orrori nel Caucaso i capi delle “democrazie occidentali”, i sostenitori degli interventi “umanitari” in Kosovo o in Irak, hanno sostenuto Putin fino in fondo. Blair lo ha anche invitato a prendere il thè con la regina, e Berlusconi nella sua villa in Sardegna. Dietro la loro retorica moralista, i Blair, Berlusconi, Bush e compagni sono interessati solo alle necessità imperialiste dei loro paesi. Oggi queste necessità richiedono che venga preservata l’unità nazionale della Russia - sebbene questa sia un rivale in molte situazioni, come si è visto con la sua opposizione alla guerra in Irak, - e che essa non sprofondi nel caos. La Russia è un enorme arsenale di armi nucleari e uno dei principali produttori di energia a livello mondiale. Le conseguenze di un’eventuale esplosione della Federazione russa, tipo quella che mandò in pezzi l’Unione Sovietica, sono troppo pericolose per le borghesie occidentali. Questo non significa che domani (o in qualche caso già oggi) le grandi potenze non cercheranno di trarre vantaggio dalle difficoltà interne della Russia per fare avanzare i loro interessi nella regione. Ma per ora ognuno di loro, inclusi i principali rivali degli Stati Uniti, Francia e Germania, affrontano la questione Russia con estrema cautela. Il presidente Chirac in Francia e il cancelliere Schröder in Germania hanno recentemente fatto visita a Putin riaffermando, alla vigilia della presa swgli ostaggi, il loro totale sostegno alla sua politica in Cecenia ed hanno dato il loro avallo all’elezione farsa del nuovo presidente filorusso della Cecenia, Alu Alkharov, che è succeduto al suo predecessore Kadryov, morto ammazzato.
Alla Russia ed agli Stati Uniti conviene proclamare che entrambe stanno combattendo una “guerra al terrorismo”. Chiudendo gli occhi sulla barbara occupazione militare della Cecenia e sul sostegno della Russia ai piccoli capi di guerra locali nel Caucaso, Woshington riceve in cambio una certa accondiscendenza tacita della Russia rispetto alla sua politica nel Medio oriente, in Irak e altrove.
Contro il terrorismo e il nazionalismo, la rivoluzione proletaria mondiale
Nella misura in cui è la barbarie dello Stato russo in Cecenia che ha generato la barbarie delle bande terroriste, alcuni critici degli eccessi dello Stato russo ci chiedono di “comprendere” le azioni dei terroristi, così come ci chiedono di “comprendere” le azioni suicide organizzate da Hamas e dai gruppi similari in Palestina, o anche di “comprendere” gli attacchi di Al Qaida l’11 settembre. In effetti noi “comprendiamo” che quelli le cui famiglie sono state massacrate e violentate dalle truppe russe, o bombardate dagli aerei e i tanks israeliani o americani, sono spinti ad atti violenti di disperazione, di rivincita e di suicidio. Ma possiamo altrettanto “comprendere” che delle reclute russe terrificate siano spinte a degli atti di una tale brutalità folle contro la popolazione civile in Cecenia. Questa “comprensione” non ci porta né a sostenere l’esercito russo, né a sostenere i nazionalismi ed i loro capi fondamentalisti alla ricerca i potere che sfruttano la disperazione dei poveri e degli oppressi e li spingono a fare atti terroristici contro i poveri e gli oppressi delle altre nazioni. Di fronte alla scelta tra il terrore dello Stato russo ed il terrorismo ceceno, tra l’esercito d’ occupazione israeliano e l’Hamas, tra gli Stati Uniti e Al Qaida, noi diciamo: è una falsa scelta! Noi non ci stiamo a sostenere una frazione del capitalismo contro un altro, a ricercare il “male minore” in nessuna delle guerre imperialiste che scuotono il pianeta oggi.
Noi comprendiamo le radici dell’odio nazionale e razziale, ed è per questo che ci opponiamo a tutte le sue espressioni. Il nazionalismo fanatico di quelli che hanno preso gli ostaggi a Beslan li ha portati a considerare le loro vittime meno che umani: e ora, un potente sentimento di rivincita contro i loro atti inumano serpeggia non solo in Ossezia ma in tutta la Russia. Lo Stato Russo utilizzerà questo sentimento per giustificare nuovi atti di aggressione in Cecenia e altrove: i suoi capi militari hanno già minacciato di fare degli “attacchi preventivi” dappertutto nel mondo. Questo eterminerà nuove rappresaglie terroriste e la spirale infernale di morte continuerà, come in Israele, in Celestina e in Irak.
Contro qualsiasi divisione nazionale e religiosa, noi difendiamo la solidarietà degli sfruttati senza considerazioni di razza, di nazionalità o di religione. Contro tutti gli appelli alla solidarietà con il “nostro” Stato o i “nostri” rappresentanti nazionali, noi difendiamo la solidarietà di classe del proletariato in tutti i paesi.
Questa solidarietà, questa unità di tutti gli sfruttati non può forgiarsi che nella lotta contro lo sfruttamento. Essa non ha niente a che vedere con gli appelli alla carità, con l’illusione che la solidarietà si riduce all’invio di denaro o di coperte alle vittime della guerra e del terrore. Le guerre ed i massacri che si estendono su tutto il pianeta sono il prodotto della società capitalista decadente nella sua fase terminale: non ci si può opporre e combatterla che con la lotta comune per una nuova società dove la solidarietà umana sarà la sola legge. Una delle madri disperate di Beslan diceva che l’inumanità dell’assedio le aveva fatto pensare che era “l’inizio della fine del mondo”. La scomparsa di ogni decenza umana, dei legami sociali più elementari che evidenzia il massacro di bambini, ci mostra veramente che il mondo capitalista arriva alla sua fine, in un modo o nell’altro. Uno di questi modi è la via capitalista che porta allo sterminio dell’umanità; l’altro, è la via proletaria che porta al rovesciamento rivoluzionario del capitalismo ed alla costruzione di una società comunista senza clasi né sfruttamento, senza Stati, senza frontiere e senza guerre.
CCI, 10 settembre 2004
A metà
luglio la Daimler ha posto un ultimatum ai suoi dipendenti di
Sindelfingen-Stoccarda (Bade-Würtemberg): o accettano di
sacrificare alcune "agevolazioni" (1) permettendo così
una riduzioni dei costi di produzione, o la produzione della nuova
Mercedes classe-C sarà trasferita a Brema ed a East London
(in Sud Africa).
In risposta,
il 15 luglio, il sindacato dei metallurgici IG Metall ha chiamato
i lavoratori della Daimler a scioperi e manifestazioni di
protesta. Il sindacato ha giustificato il suo "atteggiamento
combattivo" con il fatto che lo scorso anno l'azienda ha
fatturato 5,7 miliardi di euro di utili.
Sessantamila operai della Daimler, principalmente le squadre della mattina, si sono messe in sciopero e hanno manifestato in tutta la Germania (2) ricevendo il sostegno delle popolazioni locali. La partecipazione degli operai a Brema, dove ci si aspettava la soppressione di 6.000 posti di lavoro a Stoccarda, è stata altrettanto meno numerosa e combattiva. Questa giornata d'azione ha mostrato una collera considerevole, ma anche dei reali sentimenti di solidarietà tra i ranghi operai. Nelle manifestazioni gli operai hanno spesso denunciato lo sviluppo di un ricatto dello stesso tipo in altre imprese ed i tentativi di imporre più ore lavorative senza compenso salariale. Per loro, la posta in gioco era rompere la logica padronale illustrata dall'accordo concluso alla Siemens, nelle fabbriche di Bocholt e Kamp-Lindfort, che implica un ritorno alle 40 ore "in cambio" del non trasferimento della produzione in Ungheria.
Durante questa giornata d'azione, il governo ed i politici hanno cominciato a fare pressione sulla Daimler affinché la direzione arrivasse velocemente ad un accordo con un gesto di buona volontà consistente nell'accettare il 10% di diminuzione degli stipendi dei dirigenti. Il movimento di protesta è proseguito con 12.000 operai in sciopero il 17 luglio a Sindelfingen e con manifestazioni nella regione di Stoccarda fin dall'inizio della settimana successiva. Operai di altre fabbriche di Stoccarda, ed anche i portavoce di una "iniziativa degli operai impiegati precari", avrebbero partecipato a queste manifestazioni (sebbene supponiamo che si sia trattato essenzialmente di delegati sindacali).
Il giovedì 24 si sono aperti i negoziati con la IG Metall che "minacciava" di chiamare i 160.000 dipendenti della Daimler allo sciopero se non si fosse concluso un accordo. Accordo che è stato firmato il venerdì, soddisfacendo tutte le esigenze della direzione in cambio della "garanzia dell'impiego" fino alla fine del 2011.Va da sé che i media, il padronato ed i sindacati hanno salutato questo accordo come una vittoria della ragione ed un modello per salvare il posto di lavoro in Germania. La reazione degli operai è stata diversa ed ha evidenziato una grande collera. Degli operai hanno protestato energicamente contro il fatto che il sindacato ed il consiglio di fabbrica avevano firmato un tale accordo a loro nome, senza averne alcuna autorizzazione.Ma naturalmente questo non è stato mostrato nei notiziari della sera alla televisione.
È chiaro che gli operai hanno subito una sconfitta e sanno che i sindacati c'entrano in qualche modo. Se nel corso del movimento non sembra esserci stata la minima contestazione verso i sindacati, in seguito a questa sconfitta può svilupparsi una prima riflessione sul loro ruolo e ciò in un bastione sindacale come la Daimler dove gli operai aderenti all'IG Metall sono circa il 90%.
Riproduciamo qui di seguito estratti del volantino che la nostra sezione in Germania ha diffuso nel corso del nostro intervento in queste lotte.
1. la "pausa-pipì" di 5 minuti ogni ora; il modo di conteggio delle ore straordinarie notturne, che permette che sia pagata un'ora di più rispetto alle altre fabbriche della Mercedes. Inoltre, rispetto ai loro colleghi di Brema, questi operai beneficiano di tre giorni di ferie annue supplementari.
2. La Daimler ha 160.000 operai in tutta la Germania di cui 41.000 a Sindelfingen e 15.500 a Brema, 20.900 a Untertürkheim, sempre nella regione di Stoccarda, e 5.200 a Düsseldorf.
Un militante di Battaglia Comunista (1) ha fatto la presentazione centrata sulle cause della guerra in Iraq e sulla politica attuale degli Stati Uniti. Il compagno ha sviluppato l’analisi del BIPR secondo la quale “la crociata americana contro il terrorismo” ha essenzialmente dei fini economici: il rafforzamento del controllo americano sulle riserve di petrolio nel mondo, in modo da consolidare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale e recuperare un profitto supplementare dalla “rendita petrolifera”. In seguito all’indebolimento della loro competitività gli Stati Uniti devono far ricorso all’appropriazione parassitaria di plusvalore prodotta nel mondo intero per mantenere la propria economia a galla. Inoltre, è stato detto che giocano un ruolo anche delle considerazioni strategiche, spesso in legame con il controllo delle riserve di petrolio, che mirano a creare una divisione tra la Russia e la Cina, l’una dall’altra ed entrambe dai campi petroliferi importanti, ed a fare in modo che l’Unione europea resti fedele e divisa.
Questa analisi ha suscitato differenti reazioni da parte dei partecipanti alla riunione pubblica. Mentre un compagno degli “Amici di una società senza classi” (FKG) - che era stato in precedenza uno dei fondatori del gruppo “Aufbrechen”- ha salutato la capacità del BIPR di identificare le cause concrete della guerra, il portavoce del gruppo GIS (“Grupe Internazionale Sozialistinnen”) ha espresso dei dubbi su questa analisi. Quest’ultimo ha sottolineato che il fatto che gli Stati Uniti acquisiscano delle liquidità finanziarie internazionali è innanzitutto e soprattutto l’espressione di una politica classica di indebitamento. In più, il compagno ha riaffermato quanto già difeso alla precedente riunione pubblica del BIPR, cioè che gli sforzi per dominare militarmente le risorse petrolifere hanno dei fini più militari che economici. Un membro del gruppo “International Communists”, da parte sua, ha messo in evidenza che non ci sono solo gli Stati Uniti, ma anche le altre grandi potenze imperialiste, ed in primo luogo gli Stati Europei, che si battono oggi per il dominio del mondo. Egli ha esposto la tesi secondo la quale mentre gli Stati Uniti mettono sulla bilancia soprattutto la loro potenza militare, le banche europee ci mettono principalmente il loro potere economico.
La critica della CCI all’analisi del BIPRNel suo primo contributo alla discussione la CCI ha preso in esame le argomentazioni del BIPR. Secondo queste argomentazioni gli Stati Uniti hanno in buona misura perso la loro competitività sul mercato mondiale. Per compensare questo indebolimento –deficit giganteschi della bilancia commerciale e di quella dei capitali, debito pubblico crescente- l’America scatena la guerra ai quattro angoli della terra per attirare capitale, attraverso il controllo del petrolio e l’egemonia del dollaro.Dal punto di vista della CCI questa analisi è politicamente molto pericolosa perché essa esamina le cause della guerra imperialista a partire dalla situazione particolare di un dato Stato invece di partire dallo stadio di sviluppo e dalla maturità delle contraddizioni del sistema capitalista nel suo insieme. Niente di strano allora che questa analisi somigli per grandi linee agli argomenti del campo anti-mondializzazione pro-europeo, o dei social-democratici di sinistra tedeschi come Oskar Lafontaine, che spiegano l’inasprimento delle tensioni imperialiste con il cosiddetto carattere particolarmente parassitario dell’economia americana.
In secondo luogo questa analisi è incapace di rispondere alle due seguenti questioni:
- perché l’economia degli Stati Uniti –che sono ancora il capitalismo più forte del mondo, con le compagnie più grandi, con una cultura nazionale particolarmente ben adattata ai bisogni del modo di produzione capitalista- incontra tali problemi a livello di concorrenza internazionale?
- perché la borghesia americana non reagisce a questo problema facendo ciò che sarebbe più facile e più logico e cioè degli investimenti massicci nel suo apparato produttivo in modo da riconquistare il suo margine di concorrenza? Invece di fare questo, perché reagisce, come afferma Battaglia, spargendo guerra attraverso il pianeta?
In realtà il Bureau Internazionale confonde causa ed effetto. Non è perché ha perso la sua competitività che l’America si arma fino ai denti. Al contrario, è questa perdita reale del suo vantaggio nella concorrenza economica ad essere una conseguenza degli sforzi fatti nella corsa agli armamenti. Una tale evoluzione non è, inoltre, una specificità dell’imperialismo americano. Il principale rivale di lunga data dell’America, l’URSS, è già sprofondata soprattutto per essersi armata fino alla morte. La verità è che il gonfiarsi del budget militare, a spese dello sviluppo delle forze produttive, e l’assoggettamento progressivo dell’economia al militarismo sono delle caratteristiche essenziali del capitalismo putrescente.In terzo luogo, è vero che nel capitalismo crisi e guerra sono inseparabili. Ma il legame tra le due non è quello della tesi semplicistica della guerra per il petrolio o per l’egemonia del dollaro. Il legame reale tra le due lo si può vedere, per esempio, nella costellazione che ha portato alla Prima Guerra mondiale. A quell’epoca non c’era una depressione economica comparabile a quella scoppiata più tardi, nel 1929. La crisi del 1913 aveva ancora alla base un carattere di crisi ciclica ed era in realtà relativamente moderata. Non c’era crisi commerciale, del budget dello Stato o della bilancia dei pagamenti in Gran Bretagna, in Germania o nelle altre principali potenze protagoniste, comparabili in qualche modo alla crisi di oggi, non c’erano neanche delle turbolenze monetarie particolari (all’epoca il riferimento all’oro era universalmente riconosciuto). Tuttavia, la prima conflagrazione imperialista mondiale ha avuto luogo. Perché? Quali sono le leggi generali dell’imperialismo che sono alla base della guerra moderna?
Più uno Stato capitalista è sviluppato, più la concentrazione del suo capitale è possente, più grande è la sua dipendenza rispetto al mercato mondiale, più esso è dipendente dagli accessi alle risorse del globo e del dominio su di esse. E’ per questo che, nell’epoca dell’imperialismo, ogni Stato è costretto a tentare di stabilire una zona d’influenza intorno a sè. Le grandi potenze considerano necessariamente che il mondo intero è la loro zona di influenza – perché solo così possono sentirsi sicure nella loro esistenza. Più la crisi economica è forte, più la battaglia per il mercato mondiale è forte, più questo bisogno viene sentito in maniera imperiosa. La Germania dichiarò guerra alla Gran Bretagna nel 1914 non a causa della sua situazione economica immediata, ma perché per una potenza la cui sorte dipendeva sempre più fortemente dall’economia mondiale, non era più tollerabile che il suo accesso al mercato mondiale dipendesse dalla benevolenza della Gran Bretagna, la potenza dominante sugli oceani e su buona parte delle colonie. Questo significa che la borghesia tedesca ha deciso di agire d’anticipo, in modo da rovesciare la situazione prima che essa peggiorasse, come avvenne poi con la crisi del 1929, quando essa venne esclusa da gran parte del mercato mondiale dalle grandi potenze coloniali. E’ questo che spiega perché, all’inizio del 20° secolo, la guerra scoppiò prima della crisi economica mondiale.
Il fatto che le potenze capitaliste entrino sempre più brutalmente in conflitto tra loro implica che le guerre imperialiste portano in maniera crescente alla reciproca rovina degli Stati che partecipano al conflitto. Rosa Luxemburg l’aveva già messo in evidenza nella sua Brochure di Junius nel 1916. Ma anche l’attuale guerra in Iraq lo conferma. In altri tempi l’Iraq era, alla periferia del capitalismo, una delle fonti più importanti di lucrosi contratti per l’industria europea ed americana. Oggi non solo la crisi economica, ma soprattutto le guerre contro l’Iran prima e l’America dopo, hanno completamente rovinato l’Iraq. La stessa economia degli Stati Uniti subisce un nuovo colpo a causa delle esorbitanti spese militari in Iraq. Dietro l’idea che la guerra attuale sia stata scatenata a causa di una speculazione monetaria o di una presunta “rendita petrolifera” si nasconde il fatto di credere che la guerra sia ancora lucrosa, che il capitalismo sia ancora un sistema in espansione. Non solo la politica degli Stati Uniti, ma anche quella di Bin Laden e compagni è stata interpretata in questo senso dal rappresentante di Battaglia, che presenta quest’ultima come l’espressione di un tentativo delle “200 famiglie dell’Arabia Saudita” di conquistare una parte maggiore di profitti dalla loro propria produzione di petrolio.
Il pericolo dell’empirismo borghese
Dopo che il BIPR e la CCI hanno presentato i loro propri punti di vista sulle cause della guerra, si è svolto un vivace ed interessante dibattito. Era evidente che i partecipanti alla riunione erano molto interessati a conoscere meglio le posizioni delle due organizzazioni della sinistra comunista presenti e allo stesso tempo ci tenevano a che i due gruppi si rispondessero l’un l’altro. Ed accanto alle domande ci sono state anche obiezioni e critiche. Un compagno dell’FKG, ad esempio, ha accusato la CCI di “bassa polemica” sulla base del nostro paragone tra l’analisi del BIPR e quella del movimento no-global. Egli ha sottolineato che far emergere il ruolo di aggressore degli Stati Uniti oggi non aveva niente a che vedere con la minimizzazione del ruolo dell’imperialismo europeo fatta dai suoi simpatizzanti borghesi. Ha mostrato, il che è corretto, che anche nel passato gli internazionalisti proletari avevano analizzato il ruolo di Stati particolari nello scatenamento delle guerre imperialiste, senza per questo rendersi colpevoli di concessioni riguardo ai rivali di questi Stati.
Tuttavia, la critica fatta dalla CCI non riguardavano l’identificazione degli Stati Uniti come principale fautore delle guerre attuali, ma piuttosto il fatto che le cause di queste guerre non erano ricercate nella situazione dell’imperialismo nel suo insieme, ma venivano ridotte alla situazione specifica degli Stati Uniti. Il rappresentante di Battaglia, da parte sua, non ha negato del tutto la somiglianza tra l’analisi fatta dalla sua organizzazione e quella di diverse correnti borghesi, pur argomentando che però questa analisi, nelle mani del BIPR, trova le sue radici in una visione del mondo completamente differente, una visione proletaria. Certamente è ancora così, per fortuna. Ma noi continuiamo a pensare che una tale analisi non solo indebolisce l’efficacia della nostra lotta contro l’ideologia della classe nemica, ma soprattutto mina alla base la fermezza del nostro punto di vista proletario.
Secondo noi, la somiglianza tra l’analisi del BIPR e il punto di vista borghese è il risultato del fatto che i compagni stessi hanno adottato un approccio borghese. E’ questo modo di procedere che noi abbiamo chiamato empirismo, volendo intendere con questo la tendenza di fondo del pensiero borghese ad essere trascinato su delle false piste da alcuni fatti particolari di una certa rilevanza, invece di scoprire, grazie ad un approccio teorico più profondo, il legame reale tra i differenti fatti. Un esempio di questa tendenza del BIPR si è avuto durante la discussione, nella maniera in cui il compagno ha presentato il fatto che, senza l’afflusso costante di capitali stranieri, l’economia borghese crollerebbe; per il BIPR questo costituirebbe la prova che la guerra in Iraq serviva a costringere le altre borghesie a prestare denaro all’America. In risposta a questo abbiamo ricordato che quello che è certo è che senza questi prestiti e questi investimenti, l’economia degli Stati Uniti subirebbe un ripiegamento; questo è già di per sé un obbligo sufficiente per spingere i capitalismi giapponesi ed europei a comprare azioni e titoli americani dato che essi stessi non sopravvivrebbero a un crollo degli Stati Uniti (2).
Durante questa fase della discussione sono state sollevate varie questioni critiche verso la CCI. I compagni hanno messo in questione l’importanza data al significato delle questioni strategiche nella nostra analisi degli scontri imperialisti. Il compagno del FKG (3) ha criticato il fatto che - a suo parere – la CCI spiega le tensioni imperialiste attraverso le rivalità militari senza legarle alla crisi economica ed escludendo a quanto sembra i fattori economici. Ha portato l’esempio degli obiettivi economici della Germania nella Seconda Guerra mondiale, per insistere, contro la posizione della CCI, sul fatto che gli Stati imperialisti cercano nella guerra una soluzione alla crisi economica. Un compagno austriaco, membro fondatore in questo paese del “Groupe Comuniste International”, ha chiesto se la CCI dà una certa importanza al ruolo del petrolio o se, al contrario, considera che è una semplice coincidenza se il bersaglio della “lotta al terrorismo” è precisamente una regione dove si trovano le maggiori riserve di petrolio del mondo. Inoltre, il rappresentante del GIS ha chiesto una precisazione sulla nostra presa di posizione secondo la quale la guerra moderna non è una soluzione, ma è essa stessa l’espressione dell’esplosione della crisi.
La delegazione della CCI ha risposto che, dal nostro punto di vista, il marxismo, lungi dal negare il legame tra crisi e guerra, è capace di spiegarlo in modo molto più profondo. Nondimeno, per la CCI, la guerra imperialista non è l’espressione delle crisi cicliche tipiche del 19° secolo, ma è il prodotto della crisi permanente del capitalismo decadente. In quanto tale essa è il risultato della ribellione delle forze produttive contro i rapporti di produzione della società borghese che sono diventati troppo stretti per esse. Nel suo libro L’Anti-Dühring, Engels afferma che la contraddizione centrale nella società capitalista è quella che esiste tra una produzione che diventa già socialista ed un’appropriazione di questa produzione che resta privata ed anarchica. Nell’epoca dell’imperialismo, una delle principali espressioni di questa contraddizione è quella che esiste tra il carattere mondiale del processo di produzione e lo Stato-nazione in quanto strumento più importante di appropriazione privata capitalista. La crisi del capitalismo decadente è una crisi di tutta la società borghese. Essa trova la sua espressione strettamente economica nella depressione economica, la disoccupazione di massa, ecc. ma essa si esprime anche a livello politico, militare, cioè attraverso dei conflitti armati sempre più distruttivi. La caratteristica di questa crisi di tutto il sistema è l’accentuazione permanente della concorrenza tra gli Stati-nazione sia a livello economico che militare. E’ per questo che, nel corso della riunione, siamo intervenuti contro l’ipotesi del rappresentate de “l’Internationale Comuniste” (vedi sopra), secondo la quale, nella lotta per l’egemonia mondiale, la borghesia americana utilizzerebbe dei mezzi militari e la borghesia europea dei mezzi economici. In realtà, questa lotta è condotta utilizzando tutti i mezzi possibili. La guerra commerciale è altrettanto feroce che la guerra militare. E’ vero, evidentemente, che ogni frazione nazionale della borghesia, attraverso la guerra, cerca sempre “soluzione” alla crisi. Ma poiché il mondo, dall’inizio del 19° secolo, è già stato spartito, questa “soluzione” non può essere prospettata che a spese degli altri, in genere a spese degli Stati capitalisti confinanti. Nel caso delle grandi potenze, questa “soluzione” non può che risiedere che nel dominio del mondo ed in quanto tale esige l’esclusione o la subordinazione radicale delle altre grandi potenze. Questo vuol dire che questa ricerca di una via d’uscita dalla crisi prende sempre più un carattere utopico ed irrealista. La CCI parla appunto di una “irrazionalità” crescente della guerra.
Nel corso della decadenza capitalista succede regolarmente che la potenza che prende l’iniziativa di dichiarare la guerra, ne esce alla fine vinta: la Germania nelle due guerre mondiali ad esempio. Ciò manifesta la natura sempre più irrazionale ed incontrollabile della guerra. Quello che critichiamo nell’analisi del BIPR non è affatto l’affermazione che la guerra ha delle cause economiche, ma la confusione tra le determinazioni economiche ed il guadagno economico. In più critichiamo il fatto che si spiega ogni movimento nella costellazione imperialista attraverso una causa economica immediata, ciò che , a nostro avviso, costituisce una tendenza materialista volgare. Questo si è visto precisamente sulla questione del petrolio. Va da se che la presenza di risorse petrolifere in Medio-Oriente gioca un ruolo considerevole. Tuttavia le potenze industriali - principalmente e soprattutto gli Stati Uniti - non avevano bisogno di occupare militarmente questi campi petroliferi per stabilire il loro predominio economico su questa materia prima o altre. Quello che è in gioco è innanzitutto l’egemonia militare e strategica su delle risorse di energia potenzialmente decisive negli episodi di guerra.
Il BIPR ha rigettato in modo veemente l’affermazione della CCI secondo la quale la guerra moderna sarebbe l’espressione dell’impasse del capitalismo. Il rappresentate di Battaglia Comunista ha sì ammesso che la natura distruttrice del capitalismo conduce prima o poi alla distruzione dell’umanità. Ma fino a che questa calamità finale non ha luogo, il capitalismo può continuare la sua espansione in modo illimitato. Secondo il compagno di Battaglia, non sono le guerre attuali, imposte dagli Stati Uniti, ma le “vere guerre imperialiste” del futuro (per esempio tra l’America e l’Europa) ad essere lo strumento di questa espansione, dato che una distruzione generalizzata aprirebbe la via ad una nuova fare di accumulazione. Noi siamo stati d’accordo col fatto che il capitalismo è capace di sparzzar via l’umanità. Tuttavia, la distruzione della produzione in eccesso, considerata da un punto di vista storico, non è comunque stata sufficiente a superare le crisi cicliche del capitalismo ascendente del 19° secolo. E’ per questo che, secondo Marx ed Engels, era necessario anche l’apertura di nuovi mercati. Mentre nel quadro dell’economia naturale la sovrapproduzione non poteva che apparire come un eccesso in rapporto ai limiti fisici massimali del consumo umano, nel regime di produzione di beni di consumo, e soprattutto nel capitalismo, la sovrapproduzione è sempre espressa in rapporto al consumo esistente di quelli che possiedono il denaro. Si tratta di una categoria economica più che fisiologica. Ciò significa che la distruzione attraverso la guerra non risolve di per sé il problema fondamentale della mancanza di domanda solvibile.
Innanzitutto, il punto di vista difeso dal BIPR, rispetto alla possibile espansione del capitalismo fino al momento della distruzione fisica, non è compatibile con la visione di una decadenza del capitalismo – visione che il BIPR sembra abbandonare sempre più. In effetti, dal punto di vista marxista il declino di un modo di produzione si è sempre accompagnato ad uno sviluppo crescente degli ostacoli alle forze produttive derivanti dalla produzione esistente e dai rapporti di proprietà. Sembra che, per Battaglia, la guerra giochi ancora il ruolo di motore dell’espansione economica come nel 19° secolo. Quando il compagno di Battaglia, durante la riunione, parlava di “guerre veramente imperialiste” ancora a venire, egli non faceva che confermare la nostra impressione, e cioè che questa organizzazione considera le guerre per periodo attuale come una semplice continuazione della politica economica degli Stati Uniti condotta con altri mezzi, e non come dei conflitti imperialisti. Da parte nostra abbiamo insistito sul fatto che queste guerre sono anch’esse delle guerre imperialiste e che le grandi potenze imperialiste attraverso esse entrano in conflitto le une contro le altre, non direttamente ma, per esempio, passando per le guerre alla periferia. La serie di guerre nell’ex-Yugoslavia, che all’origine fu suscitata dalla Germania, conferma anche che in questo processo gli Stati Uniti sono ben lungi dall’essere i soli aggressori.
Nella sua conclusione alla discussione il compagno del BIPR ha difeso l’idea che questa discussione avrebbe dimostrato che il dibattito tra il BIPR e la CCI è “inutile”. E ciò perché per decenni, il BIPR accusa la CCI di “idealismo” e la CCI accusa il BIPR di “materialismo volgare” senza che nessuna delle due organizzazioni abbia modificato il suo punto di vista.
A nostro
avviso si tratta di una valutazione piuttosto negativa su di una
discussione nella quale, non solo le due organizzazioni, ma anche
tutto un ventaglio di gruppi e di persone differenti hanno
partecipato in maniera molto attiva. E’ evidente che la
nuova generazione di militanti che si interessano alla politica
nell’area di lingua tedesca trova molto interessante venire
a conoscere le posizioni delle organizzazioni internazionaliste
esistenti, informarsi degli accordi e dei disaccordi che esistono
tra queste. Che cosa c’è di meglio per rispondere a
questa domanda se non un dibattito pubblico? Per quanto ne
sappiamo, nessun rivoluzionario serio fino ad oggi ha mai pensato,
per esempio, a mettere in dubbio l’utilità del
dibattito tra Lenin e Rosa Luxemburg sulla questione nazionale,
solo perché né l’uno né l’altra
hanno mai modificato la propria posizione di base sulla questione.
Al contrario: la posizione attuale della Sinistra Comunista sui
cosiddetti movimenti di liberazione nazionale si fonda in gran
parte sui risultati di questo dibattito.
La CCI, da parte sua, resta completamente favorevole al dibattito pubblico e continuerà a chiamare a tali dibattiti ed a parteciparvi. Questo dibattito rappresenta in effetti un momento indispensabile del processo di presa di coscienza del proletariato.
Welt Revolution (sezione della CCI in Germania)
1. Organizzazione fondatrice, con la Communist Workers Organization, del BIPR
2. Potremmo aggiungere che, malgrado la rivalità con gli Stati Uniti, i suoi rivali continueranno a piazzare i propri capitali nell’economia più stabile che esiste, perché questo paese, nel futuro prossimo, resterà, militarmente ed economicamente, il paese più forte del mondo.
3. Gli “Amici di una società senza classi”
Il padronato sembra avere ottenuto ciò che desiderava. Milioni di salariati sono stati mandati in vacanza con la notizia che la più grande compagnia europea industriale, la Mercedes a Stoccarda-Sindelfingen, sta economizzando sui costi di produzione, circa mezzo milione di euro, a spese dei suoi dipendenti. Vogliono che ci sia ben chiaro che anche là dove le imprese hanno fatto dei profitti, gli operai sono impotenti di fronte al ricatto del decentramento della produzione e sotto la minaccia di licenziamenti massicci. Pensavano che durante le vacanze ci saremmo rassegnati di fronte all'obbligo di lavorare di più con salari più bassi. E approfittando proprio delle vacanze estive quando le forze operaie sono disperse e quando, essendo isolati, si avverte di più il sentimento di impotenza, vogliono farci credere che è stata aperta una breccia. Una breccia a spese degli operai che non riguarda solo i lavoratori della Daimler-Chrysler, ma tutti gli schiavi salariati.
L'economia di mercato offre solo povertà, insicurezza ed una miseria senza fineSolo qualche settimana dopo che il personale delle fabbriche Siemens a Bocholt e Kamp-Linfort ha ceduto al ricatto che lo ha costretto ad accettare il ritorno alla settimana di 40 ore senza nessun compenso salariale; dopo la decisione presa in Baviera di allungare la giornata di lavoro senza aumento di salario, ivi compreso il settore pubblico, il padronato ha cominciato a reclamare - secondo i casi - l'allungamento della settimana lavorativa a 40, 42, addirittura a 50 ore. A Karstadt, per esempio, in un settore commerciale, si è detto agli impiegati: o lavorate 42 ore o 4.000 posti di lavoro saranno soppressi. Che si tratti del settore della costruzione, della Man o della Bosch, dovunque è stata posta la stessa esigenza.
L'esperienza delle settimane passate conferma ciò che sempre più lavoratori cominciano ad avvertire: l'economia di mercato (con o senza il discorso "sociale") non ha niente da offrire se non povertà, insicurezza e miseria senza fine.
Lo spettro della solidarietà operaiaOltre al riconoscimento amaro ma necessario di questa realtà, altre lezioni devono essere tratte ed assimilate dalle lotte delle settimane scorse.
In seguito alle lotte alla Daimler-Chrysler, la classe dominante vuole portarci a pensare che non serve a niente opporre una resistenza, che la logica della competizione capitalista si imporrà in un modo o nell'altro e che è dunque preferibile sottomettersi all’idea che, dopo tutto, gli sfruttatori e gli sfruttati sono nella stessa barca, per "conservare il lavoro in Germania". Dal punto di vista della classe operaia devono però essere tratte conclusioni completamente differenti. Più di 60.000 operai della Daimler-Chrysler hanno partecipato in queste ultime settimane agli scioperi ed alle azioni di protesta. Operai della Siemens, Porsche, Bosch ed Alcatel hanno partecipato alle manifestazioni a Sindelfingen. Queste azioni mostrano che gli operai hanno cominciato a riprendere la strada della lotta. Di fronte alla prospettiva di un aggravamento della sofferenza e della miseria per gli operai del mondo intero nei prossimi anni, il fatto più importante non è che ancora una volta i capitalisti si sono organizzati per imporre la loro volontà ma il fatto che, questa volta, gli attacchi non sono stati accettati passivamente.
La Daimler-Chrysler ha giocato consapevolmente la carta della divisione tra gli operai delle differenti fabbriche, minacciando di sopprimere dei posti di lavoro negli insediamenti di Sidelfingen, Untertürkheim e Mannheim a profitto di quello di Brema, con lo spostamento verso quest'ultimo, a partire dal 2007, della produzione dei nuovi modelli di classe-S. Il fatto che i salariati di Brema abbiano partecipato alle manifestazioni di protesta contro le riduzioni degli stipendi, contro l'allungamento del tempo di lavoro e l'eliminazione degli insediamenti nel Bade-Würtemberg, ha costituito certamente l'elemento più importante di queste lotte. Facendo in parte fallire la strategia del padronato, questi, con la loro azione, hanno messo in evidenza che la risposta operaia alla crisi del capitalismo si trova solamente nella solidarietà operaia. Questa solidarietà è la forza che rende possibile la lotta e che le dà tutto il suo significato.
La classe dominante vuole darci l'impressione che la lotta alla Mercedes non l'ha per niente impressionata. Ma se si esaminano attentamente gli avvenimenti degli ultimi giorni, ci si accorge come la classe dominante è stata in realtà molto attenta all'espressione della resistenza della classe operaia. Essa teme soprattutto che i diseredati prendano coscienza che la solidarietà è non solo l'arma più efficace al servizio della difesa dei propri interessi, ma contiene anche il principio fondamentale di un ordine sociale superiore alternativo alla società attuale.
Una "azione concertata" della classe capitalistaNon è un caso se, immediatamente dopo il ritorno alle 40 ore settimanali alla Siemens nella regione della Ruhr, un'altra sfida aperta ed enorme è stata lanciata agli operai della Daimler-Chrysler. La Siemens è servita da avvertimento agli operai: dovunque ci saranno minacce di chiusura di fabbriche, loro dovranno accettare il peggioramento delle condizioni di lavoro e di salario, e più ore di lavoro. Alla Mercedes di Stoccarda, per il momento, non si poneva la necessità di chiudere la fabbrica, essendo considerata questa ancora efficace e redditizia. La Daimler-Chrysler è stata scelta per lanciare un secondo messaggio: l'intensificazione senza limite dello sfruttamento non si deve applicare solo dove l'impresa o la fabbrica sta con le spalle al muro. Tutte le imprese sono coinvolte. La Daimler-Chrysler costituisce appunto la vetrina dell'industria tedesca: la più grande concentrazione della classe operaia industriale in Germania, al centro del Bade-Würtemberg con le sue centinaia di migliaia di operai dell'industria. Il significato del messaggio forte e chiaro dei capitalisti è questo: se la frazione della classe operaia più forte, conosciuta per la sua esperienza di lotta e la sua combattività, non può opporsi a tali misure, allora la classe operaia da nessuna parte in Germania lo potrà.
Non è un caso se il padronato ha riunito le sue forze in quelli che sono chiamati “sindacati dei datori di lavoro”. Ciò gli permette di coordinare gli sforzi contro la classe operaia. Inoltre questi organismi sono integrati nell'apparato di Stato. Il che significa che la strategia del padronato è legata ad una strategia globale diretta dal governo a livello nazionale e regionale, e dunque dalla socialdemocrazia al potere. All’interno di questa strategia, c’è una divisione del lavoro tra il governo e le imprese. La maggior parte delle riforme decise dal governo federale e direttamente messe in applicazione dallo Stato sono di solito programmate durante la prima metà del mandato. Negli ultimi due anni sono stati messi in atto gli attacchi più incredibili contro il livello di vita degli operai: la "riforma sanitaria", la legislazione "Hartz" contro la disoccupazione, "l'ammorbidimento" delle leggi sulla protezione dei disoccupati, ecc. Attualmente, nel periodo che conduce alle prossime elezioni generali, al SPD non dispiace lasciare al padronato l'iniziativa degli attacchi, con la speranza che la popolazione continui ad identificarsi con lo Stato, ad andare a votare, ed a non perdere totalmente fiducia nella socialdemocrazia.
Non bisogna dunque stupirsi delle dichiarazioni del SPD che esprimono le sue simpatie con gli operai della Daimler-Chrysler. In realtà gli attacchi attuali sono legati direttamente alle "riforme" del governo federale. Non è certamente una coincidenza se l'invio, molto pubblicizzato dai mass media, di un nuovo questionario ai disoccupati (destinato a identificare ed utilizzare le loro risorse finanziarie e quelle delle loro famiglie al fine di diminuire i loro sussidi), è venuto fuori contemporaneamente agli attacchi contro la Daimler. La fusione delle indennità di disoccupazione di lunga durata con l'aiuto sociale minimo, così come il rafforzamento della sorveglianza ed il controllo dei disoccupati, servono ad "alleggerire" il bilancio dello Stato dal carico dei più poveri tra i poveri. Ma servono anche ad intensificare l'efficacia di tutti i mezzi possibili di ricatto contro quelli che hanno ancora un impiego. Per questi, deve essere chiaro che se alzano la voce e non accettano tutto ciò che gli si chiede, anche loro saranno spinti in una povertà senza fondo.
Il nervosismo della classe dominante di fronte alla solidarietà operaiaMa il fatto che gli attacchi del capitale non vengono accettati senza lotta è confermato non solo dalle mobilitazioni alla Daimler, ma anche dal modo con cui la classe borghese ha reagito. È stato subito evidente che i politici, i sindacati, il consiglio sindacale di fabbrica, ma anche il padronato, avevano realizzato che il conflitto alla Daimler doveva essere risolto il più velocemente possibile. La strategia capitalista è stata, all’inizio, orientata in modo da opporre gli operai di Stoccarda a quelli di Brema. Ci si aspettava una resistenza da parte degli operai del Sud-est della Germania, più fiduciosi in loro stessi ed direttamente attaccati. Ma quello che ha sorpreso è stato l'entusiasmo con il quale gli operai di Brema hanno al movimento. Lo spettro della solidarietà operaia, per molto tempo considerata come morta e sepolta, o come minimo dichiarata tale, minacciava di ritornare. Di fronte a questo i rappresentanti del capitalismo sono diventati visibilmente nervosi.
I porta voce dei partiti politici rappresentati al parlamento - compresi i liberali del FDP, il partito che si auto-dichiara dei ricchi – hanno cominciato ad interpellare la direzione della Daimler-Chrysler affinché accettasse una diminuzione dei propri stipendi. Questa misura sarebbe comunque stata polvere negli occhi. Essendo lei a decidere sugli stipendi, la direzione ha sempre il potere di compensare tali "diminuzioni". In più non è questo che può aiutare gli operai a pagare la scuola per i figli o l’affitto di casa.
Perché i dirigenti politici hanno chiesto ad una direzione padronale un tale gesto? Per propagare l'ideologia della compartecipazione sociale, che rischiava di essere messa a mal partito da un conflitto sociale.
È per la stessa ragione che i politici hanno scatenato le loro critiche contro l'arroganza dei padroni. Nella situazione attuale in cui i padroni si assumono da soli l’onere degli attacchi, mentre lo Stato vestendosi di neutralità cerca di tenersi nell’ombra, il problema sorge quando questo giochetto diventa visibile. Padroni come Schremp o Hubbert non hanno la finezza della socialdemocrazia quando si tratta di infliggere una sconfitta esemplare alla classe operaia evitando però di provocarla troppo. La classe dominante teme soprattutto che gli operai comincino a pensare troppo alla loro lotta ed alle prospettive della loro vita nel capitalismo. In questo contesto, le critiche fatte dal cancelliere Schröder sono significative: "Il mio parere è di lasciare questi problemi in seno alle imprese, e di parlarne il meno possibile" (sottolineato da noi).
Da quando lo stalinismo è crollato - forma di capitalismo di Stato particolarmente inefficace, rigida e super regolamentata - è stato ripetuto a sazietà che non c'è più nessuna prospettiva per il socialismo e che la lotta di classe e la classe operaia non esistevano più. Ma niente è più probante delle grandi lotte della classe operaia per mostrare al mondo che, né la classe operaia, né la lotta delle classi sono cose del passato.
La politica di divisione dei sindacati e dei mass-mediaNon vogliamo sopravvalutare le lotte alla Daimler. Esse non sono sufficienti per impedire che si apra una nuova "breccia" capitalista nelle condizioni di vita degli operai. Innanzitutto perché il conflitto è restato limitato essenzialmente agli operai della Daimler. Tutta la storia mostra che solo l'estensione della lotta alle altre frazioni della classe operaia è capace, anche se temporaneamente, di fare arretrare la borghesia. Inoltre, questa lotta non ha, mai, nemmeno cominciato a rimettere in causa il controllo sindacale. L'IG Metall ed il consiglio locale di fabbrica si sono mostrati, ancora una volta, maestri nell'arte di mettere al centro delle questioni che “distinguerebbero” la situazione degli operai della Mercedes da quella di altri operai: la redditività degli uni vista come il loro "proprio" problema, le riserve dei pacchetti di commesse come affare di ciascuna fabbrica, l'efficacia più apprezzata degli operai metallurgici del Bade-Würtemberg. Ciò ha permesso che venisse bloccata una solidarietà più attiva, più forte. I media, da parte loro, hanno ripreso lo stesso tema mettendo avanti la gelosia che esiste verso gli operai della Daimler, presentati come quelli particolarmente privilegiati. E’ stato sorprendente, per esempio, vedere i media rendere conto quotidianamente della situazione a Sindelfingen (dove sono stati menzionati persino i passaggi pedonali fatti di marmo), mentre la situazione a Brema (dove gli elementi di solidarietà erano più esplicitamente presenti) è passata totalmente sotto silenzio.
Anche ben prima che fossero rese pubbliche le esigenze della direzione di fare economia, il consiglio di fabbrica aveva proposto già un'austerità dell'ordine di 180 milioni di euro per anno. Ed appena la direzione ha accettato la messa in scena consistente nel "partecipare ai sacrifici", l'IG Metall ed il consiglio di fabbrica hanno espresso un "accordo globale" per un piano che soddisfa in ogni punto le esigenze della direzione ma che viene presentato come una vittoria per gli operai poiché permetterebbe la "garanzia di lavoro" per tutti.
I sindacati dividono gli operai e difendono gli interessi dell'impresa a spese degli sfruttati non è perché sarebbero l'incarnazione del diavolo, ma perché da molto tempo fanno parte del capitalismo e sono parte pregnante della sua logica. Pertanto la solidarietà operaia, l'estensione delle lotte, possono essere realizzate solo dagli operai stessi. Ciò esige assemblee di massa sovrane, un modo di lotta orientato verso la partecipazione diretta dei differenti settori degli operai occupati e dei disoccupati. Il che non può essere realizzato che al di fuori e contro i sindacati.
Una lotta che deve far riflettere la classe operaia
Siamo ancora lontani da una pratica di lotta autonoma fondata sulla solidarietà attiva. Tuttavia, già oggi, sono percettibili i germi di queste lotte future. Gli stessi operai della Daimler erano perfettamente coscienti che non si battevano solo per loro stessi ma per gli interessi di tutti gli operai. Ed è incontestabile che la loro lotta - nonostante le campagne odiose sui privilegi accordati a Sindelfingen - ha incontrato la simpatia della classe operaia nel suo insieme, ciò che non si vedeva dallo sciopero di Krupp Rheinhausen nel 1987.
A quell’epoca, gli operai della Krupp avevano cominciato a porre la questione dell'estensione attiva della lotta verso altri settori ed a rimettere in causa il controllo sindacale sulla lotta. Il fatto che oggi queste questioni non siano ancora realmente poste mostra tutto il terreno che la classe operaia ha perso in questi ultimi quindici anni, in Germania come nel resto del mondo. Ma, d'altro canto, lotte come quella della Krupp, o quelle dei minatori inglesi, significarono la fine di una serie di lotte operaie durata dal 1968 al 1989 e a cui ha fatto seguito un lungo periodo di riflusso. Al contrario, le lotte attuali, sia nel settore pubblico in Francia ed in Austria lo scorso anno, o adesso alla Daimler, sono l'inizio di una nuova serie di lotte sociali importanti. Queste si svilupperanno in modo più difficile e più lento che in passato. Oggi la crisi del capitalismo è molto più avanzata, la barbarie generale del sistema molto più visibile, la calamità minacciosa della disoccupazione ben più onnipresente.
Ma oggi, ben più che nel caso della Krupp-Rheinhausen, la grande ondata di simpatia per gli operai in lotta che ha pervaso la popolazione è più direttamente legata al riconoscimento, che si manifesta progressivamente, della gravità della situazione. La classe dominante ed i suoi sindacati si affrettano a presentare l’imposizione dell'allungamento della durata di lavoro come una misura temporanea per salvaguardare i posti di lavoro finché "non sarà ritrovata la competitività". Ma gli operai cominciano a comprendere che ciò che sta accadendo è molto più di questo. Infatti! Sono le acquisizioni non solo di decenni, ma di due secoli di lotte operaie che rischiano di essere liquidate. Quello che sta accadendo è che la giornata di lavoro, come agli inizi del capitalismo, si allunga sempre di più ma nelle condizioni di lavoro del capitalismo moderno, con l'inferno dell'intensificazione del lavoro. Sta succedendo che, sempre più, la forza di lavoro umano, in quanto sorgente delle ricchezze della società, è deprezzata ed è a lungo termine destinata a sparire. Tutto ciò non costituisce il segno della nascita dolorosa di un nuovo sistema, ma è al contrario l'espressione di un capitalismo moribondo che è diventato un ostacolo al progresso dell'umanità. A lungo termine, gli sforzi incerti di oggi verso una resistenza operaia, verso il ritorno alla solidarietà, vanno di pari passo con una riflessione in profondità sulla situazione. Questo può e deve condurre a rimettere in questione questo sistema barbaro, nella prospettiva di un sistema sociale superiore, socialista.
Welt Revolution
(sezione della CCI in Germania, 22 luglio 2004)Il capitalismo confrontato all'apertura della sua fase di decomposizione
Nel 1991, la guerra del Golfo segnò per la prima volta l'apertura ad ampio raggio del nuovo disordine mondiale, anche se questo conflitto permise momentaneamente agli Stati Uniti di riaffermare il loro ruolo di prima potenza. In quell'epoca, fu il governo americano a volere questa guerra, facendo sapere a Saddam Hussein, tramite la sua ambasciatrice April Glaspie, che un eventuale conflitto tra l'Iraq ed il Kuwait sarebbe stato considerato un problema "interno al mondo arabo", lasciando intendere che gli Stati Uniti non erano interessati alla questione. In effetti, la trappola così tesa a Saddam Hussein spinse questi ad invadere militarmente il Kuwait, fornendo il pretesto ad un intervento massiccio degli Stati Uniti. Per l'imperialismo americano, questa guerra fu lo strumento della riconferma brutale della loro autorità sulle principali potenze rivali come la Germania, la Francia ed il Giappone che, dal 1989 e dal crollo del blocco sovietico, tendevano in modo sempre più chiaro a difendere solo il loro interesse imperialista, sviluppando una politica crescente di contestazione alla leadership americana. È innegabile che in quell'epoca la potenza americana ottenne una vittoria sull'insieme della scena mondiale. Si permise anche il lusso di lasciare Saddam Hussein padrone di Bagdad affinché l'Iraq non affondasse in un caos totale come accade oggi. Ma questa vittoria non poteva che essere di corta durata. Dal momento che nessuna calma a livello della concorrenza economica si intravedeva, le tendenze centrifughe al "ciascuno per sé" di ogni potenza imperialista non potevano che ampliarsi, spingendo così inesorabilmente di nuovo gli Stati Uniti ad utilizzare la loro supremazia militare, per tentare di frenare la contestazione crescente al loro riguardo. Così già nel 1991 potevamo percepire che "sia sul piano politico e militare, sia sul piano economico, la prospettiva non è alla pace e all'ordine ma alla guerra ed al caos tra nazioni". (Revue Internationale n°66, articolo "Il caos"). Questa tendenza alla decomposizione del capitalismo ed all'indebolimento della leadership americana proseguiva e si confermava durante tutti gli anni 1990. In realtà, sono queste stesse potenze che, solamente alcuni mesi dopo la prima guerra del Golfo, avrebbero causato un nuovo scatenamento della barbarie che finì nel portare nel 1992 uno smembramento totale della regione dei Balcani. Infatti, fu la Germania che, spingendo la Slovenia e la Croazia a proclamare la loro indipendenza nei confronti della vecchia confederazione iugoslava, fece esplodere questo paese, giocando un ruolo di primaria importanza nello scoppio della guerra nel 1991. Di fronte a questa avanzata dell'imperialismo tedesco, furono le altre quattro potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia) a sostenere ed incoraggiare il governo di Belgrado a condurre una controffensiva particolarmente omicida. Tuttavia, l'indebolimento storico degli Stati Uniti già iniziato nel 1991 li portava a dei cambiamenti di alleanza successivi che si traducevano nel loro sostegno nel 1991 alla Serbia, alla Bosnia nel 1992 ed alla Croazia nel 1994. I Balcani si trasformarono allora irrimediabilmente, come l'Afghanistan qualche tempo più tardi, in un vero pantano fatto di guerre civili permanenti. Ancora oggi in Afghanistan, nessuna autorità, locale o americana, può esercitarsi all'infuori della capitale Kabul. Gli anni 1990 conoscono così una generalizzazione progressiva del caos, espressione dell'evoluzione della decomposizione della società capitalista, decomposizione che conosce una violenta accelerazione all'inizio degli anni 2000.
Un mondo precipitato nell'anarchia e la barbarieÈ impossibile descrivere oggi la situazione in Iraq. Il Courrier International del 14 giugno titolava: "In Iraq, la violenza, sempre". La sola giornata del giovedì 24 giugno è un esempio drammatico dello stato di guerra civile in cui si trova immerso l'Iraq. In questo giorno, nella sola città di Mossul ci saranno stati almeno sette attentati, facendo ufficialmente non meno di 100 morti. Nello stesso tempo, scontri armati proseguivano in numerose città irachene come a Bakuba o Najaf. Dopo pochi giorni dal trasferimento di potere al nuovo governo iracheno, il paese è immerso in un caos totale, un'anarchia generalizzata dove le forze politiche e militari possono solo controllare zone geograficamente limitate. Il primo ministro iracheno Iyad Allaoui si sforza di annunciare, con grande supporto pubblicitario, che prenderà personalmente in mano la lotta contro la violenza, e ciò dopo una forte ascesa degli scontri militari, attentati ed altri sabotaggi di oleodotti, fino alle prese di ostaggi che finiscono spesso con omicidi sanguinosi. La decapitazione degli ostaggi, filmata e proiettata su tutti gli schermi del mondo, diventa oggi una pratica corrente, un mezzo di guerra come un altro, alla stessa stregua di un terrorismo che ha per obiettivo la distruzione di massa. Nella storia tortura e terrorismo hanno sempre fatto parte dei conflitti armati, ma restavano dei fenomeni secondari. Questa degradazione delle regole di scontri è sicuramente una delle espressioni maggiori dell'accelerazione della decomposizione del sistema capitalista.
La prospettiva in questo paese può essere solamente verso una destabilizzazione crescente. L'indebolimento, la perdita di controllo degli Stati Uniti sono patenti. Il New York Times dichiara: "Le forze della coalizione non hanno solamente fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione irachena, ma anche a realizzare un altro obiettivo designato come prioritario dall'amministrazione provvisoria: il ristabilimento totale dell'elettricità prima dell'inizio del caldo estivo". Oggi in Iraq, ad una popolazione confrontata a condizioni di sopravvivenza spaventosa manca tutto, acqua compresa. Sempre più chiaramente, i Curdi, gli Sciiti ed i Sunniti esprimono i propri interessi divergenti. Inoltre, un fenomeno nuovo sta diffondendosi: l'apparizione di bande armate, fanatizzate, che passano all'offensiva armata contro gli interessi americani all'infuori di ogni controllo assunto dalle organizzazioni etniche o religiose nazionali. Prima ancora di essere insediato, il governo provvisorio appare totalmente impotente e screditato.
Il Washington Post afferma: "Sebbene l'amministrazione Bush abbia parecchie volte promesso che gli iracheni avrebbero ritrovato la loro intera sovranità, è chiaro che spetta agli ufficiali americani conservare il dominio sulla questione essenziale della sicurezza. Questo significa uno sprofondamento crescente della potenza americana nel pantano iracheno, rivelando allo stesso tempo anche l'incapacità americana a gestire militarmente la situazione irachena. Questo indebolimento accelerato si è concretizzato attraverso l'obbligo per gli Stati Uniti di far passare all'ONU un progetto di risoluzione americano-britannico, proposto a fine maggio al Consiglio di sicurezza, che prevede, tra altri, il collocamento in zona di forze multinazionali sotto un comando americano. Questo ricorso obbligato all'ONU da parte dell'amministrazione americana è la manifestazione diretta della sua incapacità ad assicurare il suo dominio con le armi, anche in un paese tanto debole come l'Iraq. Dietro le prime dichiarazioni di facciata che assumono il tono di soddisfazione, l'appetito delle altre grandi potenze che vogliono approfittare di ogni indietreggiamento degli Stati Uniti per difendere i propri interessi imperialisti si sono manifestati chiaramente. Il 27 maggio, la Cina ha diffuso un documento sostenuto da Russia, Francia e Germania che solleva obiezioni e avanza proposte di un ulteriore cambiamento di questa risoluzione. In particolarmente il governo provvisorio doveva godere della "piena sovranità sulle questioni economiche, di sicurezza, di giustizia e diplomazia". Inoltre, queste potenze hanno proposto che il mandato della forza multinazionale in Iraq si sarebbe dovuto concludere a fine gennaio 2005 e che il governo provvisorio doveva essere consultato per le operazioni militari tranne che per le misure di autodifesa. In effetti, questo documento, direttamente rivolto contro gli Stati Uniti, dimostra che la sola preoccupazione di queste grandi potenze è di affossare ed indebolire per quanto possibile la prima potenza mondiale senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze di un tale conflitto per la popolazione irachena e per tutta la regione.
Ma l’Iraq è solo la manifestazione più estema di qualcosa che investe il mondo intero. Per esempio, si assiste oggi ad una destabilizzazione dell'insieme dell'Asia del Sud-ovest. In Arabia Saudita, gli attentati attribuiti ad Al-Qaida si moltiplicano, manifestando sempre più l'enorme ascesa delle tensioni tra i regimi di Ryad e gli elementi Wahhabites sempre più numerosi a fanatizzarsi. Anche la virulenza dei dirigenti sciiti iracheni non manca di avere delle ripercussioni sulla stabilità in Iran. In quanto alla Turchia, la tensione è particolarmente forte. Il 1 giugno, il PKK (Partito dei lavoratori curdi) ha annunciato che metteva unilateralmente fine al cessate "il fuoco" nella guerra condotta contro lo Stato turco. La Neue Zueriche Zeitung del 3 giugno riportava che "ambienti dell'esercito turco pensano che centinaia di ribelli armati del PKK si sono introdotti nella Turchia dal Nord dell'Iraq durante le ultime settimane. Il governo turco accusa gli Stati Uniti di non avere fatto niente contro la presenza del PKK nel Nord dell'Iraq". Lo stesso quotidiano di Zurigo osserva che "un nuovo scoppio della guerra potrebbe essere devastante per l'insieme della regione".
Peraltro, da quando si è insediata l'amministrazione Sharon al potere in Israele, la situazione in Medio Oriente non ha fatto che affondare in una guerra permanente ed in ciechi massacri di popolazione. Dietro il progetto di un grande Medio Oriente, di un ritiro ipotetico da parte degli israeliani dalla Striscia di Gaza e di un'occupazione militare crescente della Cisgiordania, si materializza, alla stessa stregua di quella degli Stati Uniti, una politica di fuga in avanti da parte del governo israeliano. È patente che la logica guerriera prende in modo assoluto il sopravvento su tutte le altre modalità di difesa degli interessi nazionali israeliani. Questa politica, suicida, ha anche provocato un innalzamento di tensioni tra Israele ed Egitto, restando quest'ultimo, tuttavia, dopo lo Stato ebreo, uno dei soli alleati degli Stati Uniti nella regione. In realtà, l'amministrazione americana pesa sempre meno sull'orientamento della politica guerriera israeliana. Ciò traduce l'incapacità attuale degli Stati Uniti ad essere i gendarmi del mondo. Questa realtà esprime solo, ad un livello più alto, la perdita di controllo di tutte le altre grandi potenze sulle zone che tentano ancora di mantenere sotto la loro influenza.
I raid militari condotti in Inguscezia nella notte tra il 21 ed il 22 giugno e che hanno fatto almeno 48 morti di cui il ministro Kostoiev, vanno a ricordare che è l'insieme delle vecchie repubbliche del Sud dell'URSS, e non solamente la Cecenia, che è immerso nell'anarchia e la guerra civile. In quanto alla Francia, questa, dopo la sua partecipazione attiva per circa dieci anni al massacro di circa un milione di persone in Ruanda, oggi può solo constatare la propria impotenza, essendo i Tutsi di nuovo in questo metà-giugno al centro di un conflitto che tocca la repubblica del Congo. Le Soir (quotidiano belga) del 4 giugno afferma: "Gli incidenti all'est del paese fanno temere il peggio a numerosi osservatori: il riemergere della guerra in una regione devastata da conflitti di frontiera, politici ed etnici sanguinosi”.
La decomposizione del capitalismo: una realtà in piena accelerazioneGli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 a New York avevano fatto affermare agli Stati Uniti che essi avrebbero braccato il terrorismo ai quattro angoli del pianeta, riportando così la democrazia e la pace. Il risultato oggi si scrive con lettere di sangue dovunque nel mondo. L'anarchia totale che si vede in Iraq e che si estende progressivamente a tutta l'Asia del Sud-ovest dimostra la perdita di controllo crescente delle grandi potenze di questo mondo sull’orientamento generale della società. La dinamica della guerra in Iraq è solamente l'esempio drammatico e barbaro di ciò che spetta a tutta l'umanità se la classe operaia lascia andare il capitalismo alla sua unica prospettiva. L'ingranaggio in cui sono trascinate tutte le potenze imperialiste, comprese le più forti, non può che produrre, in maniera più drammatica, guerre come quella che si svolge in Iraq. Attualmente questa barbarie in piena evoluzione tocca il cuore dell'Europa, con gli attentati terroristici dell'11 marzo scorso a Madrid il cui obiettivo era il massacro più alto possibile della popolazione operaia. È importante che il proletariato comprenda che, contrariamente a ciò che tende di farci credere la borghesia, questa evoluzione guerriera, totalmente irrazionale e barbara, non è dovuta alla follia di alcuni dirigenti del mondo. È di dominio pubblico per esempio che J.Kerry, il candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali americane, non ha nessuna alternativa da proporre all'attuale orientamento in politica estera dell'amministrazione Bush. Qualunque sia il risultato di queste elezioni, il fondo della logica imperialista americana non sarà per niente modificato. La fuga in avanti militare dell'America che rifiuta il suo indebolimento storico e la sua perdita di controllo sul mondo è un fatto totalmente irreversibile. Il disordine mondiale attuale non è dovuto, come afferma la propaganda della borghesia, ad un fanatico religioso chiamato Ben Laden o ad un'amministrazione americana composta di altri fanatici della guerra ad oltranza come Rumsfeld o Wolfowitz. Proprio al contrario, è il fallimento in corso del capitalismo mondiale, che spinge questo in una logica di guerra totalmente irrazionale che determina l'evoluzione dei comportamenti della borghesia e delle squadre che governano gli Stati. In questo senso, il capitalismo tenderà sempre più, nell'avvenire, a portare al potere delle frazioni della borghesia più fanatizzate, comprese quelle delle più grandi potenze di questo mondo. Come hanno sempre affermato i marxisti, solo il proletariato porta in sé la capacità di distruggere il capitalismo ed impedire a questo mondo di crollare nella peggiore delle barbarie. La classe operaia deve ricordarsi che a mettere fine al primo macello mondiale fu la rivoluzione del proletariato in Russia nell'ottobre 1917.
Tino (25 giugno)
Innanzitutto va messa in evidenza l’esagerazione delle reazioni della maggioranza di governo che ha trattato l’azione dimostrativa, un po’ goliardica dei “disobbedienti”, come se si trattasse di un crimine efferato, da condannare senza appello e con la minaccia delle peggiori punizioni: “un’azione criminale” secondo il ministro Maroni, da trattare con “tolleranza zero” secondo il sottosegretario Sacconi, proposta subito raccolta dal ministro dell’interno Pisanu che a caldo ha affermato “la prossima volta pugno di ferro”, e qualche settimana dopo ha promesso l’arresto immediato agli autori di altre bravate simili. Quanto perbenismo, quanto rigore nel rispetto della “legalità” da parte di gente che questa legalità se la mette tutti i giorni sotto i piedi, che ruba e truffa per miliardi e poi si fa delle leggi apposite per evitare la condanna!
Ma che una destra borghese, e per giunta al governo, alzi la voce in difesa della legalità borghese non sorprende nessuno. Meno scontata può sembrare la reazione simile avuta dagli esponenti della sinistra, che anche loro invece si sono subito schierati in difesa della legalità violata: “vandalico e illegittimo” ha commentato Antonio Di Pietro, “bocciatura totale e senza appello” per Walter Veltroni, mentre Bertinotti ci ha tenuto a dire “la condanno senza esitazioni” (1)
Meno scontata questa reazione, ma solo in apparenza. La sinistra borghese è sempre stata in prima fila nella difesa dell’ordine e della legalità, soprattutto di fronte alle possibili reazioni proletarie alla fame e alla miseria, ed ha sempre svolto con zelo questo suo ruolo quando è stata al potere. Basta ricordare cosa diceva il ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti a proposito degli assalti ai forni fatti dalla popolazione affamata nell’immediato dopoguerra:
“Ai primi Presidenti e ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello: non sarà sfuggito all’attenzione delle Signorie Loro Illustrissime che, specie in questi ultimi tempi si sono verificate in molte province del Regno manifestazioni di protesta da parte di reduci e disoccupati, culminate in gravissimi episodi di devastazione a danno di Uffici pubblici e di depositi alimentari(…) Questo Ministero, pienamente convinto dell’assoluta necessità che una energica azione intrapresa dalla polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico debba essere validamente affiancata ed appoggiata dall’autorità giudiziaria, si rivolge alle Signorie Loro invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie ed i relativi giudizi dovranno essere esplicati con assoluta urgenza, onde assicurare una pronta ed esemplare repressione, (…)” (Ripreso da Rivoluzione Internazionale n.96, giugno 1996)
Al confronto i vari Veltroni e Bertinotti sono dei ....“buonisti” (o, per meglio dire, meglio che non sono al governo, se no seguirebbero l’esempio del loro grande maestro).
Pur non avendo responsabilità di governo, pur non dovendo prendersi in prima persona il carico di reprimere i movimenti di dissenso, la sinistra ha tenuto comunque a dimostrare la sua natura di strenuo difensore dell’ordine e del sistema capitalista, e questo ad ogni buon conto, onde evitare che i proletari possano pensare di farsi beffe delle leggi borghesi: chi ruba è un criminale! Dicono loro. Ed infatti i capitalisti che rubano plusvalore a milioni di operai sono i peggiori criminali della storia! Diciamo noi.
Ma questa nostra denuncia dell’ipocrisia e del perbenismo borghese e piccolo-borghese, non significa che siamo per il cosiddetto “esproprio proletario”, infatti una cosa è l’azione collettiva della classe che reagisce alla miseria, come appunto nel dopoguerra, un’altra è l’azione dimostrativa isolata da qualsiasi contesto di lotta di classe come in questo caso. Il termine “esproprio proletario” era in voga ai tempi dei movimenti studenteschi degli anni sessanta e settanta che pretendevano di parlare al posto della classe operaia, anzi di dare l’esempio agli operai “imborghesiti” dai sindacati. Con una bella faccia tosta, infatti, Casarini e compagni si sono rivolti ai lavoratori dell’ipermercato assaltato con frasi tipo “ma ti rendi conto che ti sfruttano?” (no, sicuramente non lo sapevano), o, peggio ancora, menando le mani contro i commessi che cercavano di non farli entrare. Nel ‘68, i “radicali dell’epoca andavano fuori alle fabbriche per convincere gli operai a fare sciopero anche quando non ce n’erano le condizioni. E per dare l’esempio di quello che secondo loro era la lotta di classe, organizzavano manifestazioni violente ed “espropri proletari”, vere e proprie provocazioni che per fortuna gli operai non seguivano. E proprio per questo, i teorici di quei movimenti si inventavano nuovi soggetti sociali, destinati a fare la rivoluzione al posto di una classe operaia tradizionale ormai addormentata. Sono di allora le teorie sui “tecnici” come i nuovi soggetti rivoluzionari, e questo solo perché non erano i tradizionali operai con la tuta blu. Oggi ci sono i Francesco Caruso (poveri noi!!) che cercano di rinnovare queste teorie, scoprendo una ”nuova classe sociale” che sarebbero i precari, i lavoratori senza garanzie e sicurezze. Come se fosse il livello di sfruttamento che rende rivoluzionaria una classe o uno strato sociale, e non il posto che occupano all’interno della società. La classe operaia è caratterizzata dal suo ruolo di principale produttore di ricchezza e dal fatto di avere in cambio della ricchezza prodotta solo una sua parte, mentre il resto viene rubato loro dai capitalisti che vivono e riproducono il loro sistema grazie a questo plusvalore estorto agli operai. Questa è la condizione di tutti gli operai del mondo intero, quale che sia il loro grado di sfruttamento, quali che siano le regole che governano il loro lavoro. La precarietà, se costituisce una caratteristica sempre più dominante per i lavoratori del mondo intero è in realtà una situazione che attraversa l’insieme della società: precarietà nella sicurezza del posto di lavoro (che colpisce anche la piccola e media borghesia, vedi i tanti manager finiti in rovina appresso alle aziende di cui si facevano difensori); precarietà nella vita quotidiana (a causa della crescita della criminalità), o nella semplice speranza di vita, visto il dilagare della guerra a sempre più paesi del mondo, ivi comprese le cittadelle del capitalismo, raggiunte anche loro dalla guerra sotto la forma del terrorismo, che minaccia anche la popolazione più inerme ed innocente (si pensi alle vittime dell’attentato ai treni di Madrid, tutti lavoratori pendolari).
Perciò chi crede di individuare una situazione che investe tutti o quasi gli strati sociali come LA condizione per individuare un soggetto rivoluzionario, non solo non capisce niente di marxismo, ma in realtà contribuisce alla campagna che tende a negare la lotta di classe e il ruolo della classe operaia. Spacciando le azioni avventuriste per lotta di classe, tagliando a fette la classe operaia dividendola tra precari e non , tra “garantiti e non”, Caruso, Casarini e compagni si schierano a fianco di tutti i borghesi che lavorano contro la classe operaia e la sua lotta: gli uni (i difensori ufficiali della borghesia) negando ogni possibilità di lotta di classe, gli altri (i presunti sovversivi) facendo passare per lotta di classe quello che non lo è, e contribuendo alla divisione della classe operaia.
Helios
1. Le citazioni sono prese dagli articoli dedicati all’avvenimento dal quotidiano La Repubblica nei giorni 7, 8 e 9 novembre.
Il NCI ha preso conoscenza delle tre “dichiarazioni” del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” del 2 ottobre, 12 ottobre e 21 ottobre. Il NCI dichiara solennemente che il contenuto di queste dichiarazioni è una sequela di menzogne e di calunnie vergognose lanciate contro la CCI.
Il NCI si dissocia da queste dichiarazioni del detto “Circolo”, dichiarazioni lanciate, alle sue spalle e senza che esso sia stato consultato, da un individuo che faceva parte del NCI, ma che il Nucleo oggi rigetta.
Il NCI mantiene la sua dichiarazione, fatta nel mese di maggio 2004, che condanna la FICCI ed i suoi comportamenti. Così come mantiene le sue analisi, in particolare sugli avvenimenti in Argentina del 2001 e sulla questione della decadenza del capitalismo.
Il NCI continua la discussione allo scopo di chiarificarsi a livello politico, con il sostegno della CCI.
Le menzogne, le calunnie, sono comportamenti indegni e che non appartengono alla classe operaia.
Il NCI si impegna a fare un riassunto della sua traiettoria dalla sua nascita fino ad oggi.
Il NCI, nella sua riunione del 27 ottobre 2004.
Con la morte di Arafat la borghesia ha perso uno dei suoi. Ed è per questo che i media, i dirigenti non solo arabi ma anche occidentali si sono mobilitati per rendergli un ultimo vibrante omaggio e che la cerimonia funebre al Cairo, poi a Ramallah è stata trasmessa dalle catene televisive del mondo intero, quando nei fatti non si trattava neanche di un capo di Stato.
Arafat, un feroce nemico del proletariatoLui aveva ben altri titoli di “gloria” per i suoi pari. Quello che ci hanno presentato come un “grande uomo”, una grande figura degli ultimi cinquant’anni, e che dopo la sua morte rischia di diventare un eroe leggendario del mondo arabo, era soprattutto un grande procacciatore di carne da cannone, un nemico feroce del proletariato.
Dietro il mito della creazione di uno Stato palestinese ha trascinato e mandato per trent’anni generazioni di operai a farsi massacrare fanaticamente nell’arena delle guerre imperialiste, per la “causa incondizionata”, la più tipicamente borghese, il nazionalismo. E’ stato uno dei pionieri del reclutamento in massa dei ragazzini di una dozzina d’anni o di adolescenti per inviarli al massacro tanto nei ranghi dei “feddayin” o delle forze armate del Fatah, che come martiri kamikaze, portatori di bombe distruttrici. Ha incoraggiato bambini ancora più piccoli a partecipare attivamente all’Intifada. La difesa della “causa palestinese” alla quale avrebbe sacrificato la sua esistenza, ha permesso ad Arafat di ricevere il sostegno di una larga parte della borghesia, nel quadro degli scontri interimperialisti, simboleggiato dall’ammissione ufficiale dell’OLP all’ONU nel 1974, sotto i nutriti applausi dell’assemblea, quando era ancora sotto la protezione dell’URSS. Ha avuto diritto ad un’altra salve d’onore ufficiale, questa volta sotto l’alto padronato diretto della borghesia americana, con l’attribuzione del premio Nobel per la Pace nel 1994, condiviso con il Primo ministro israeliano Izthak Rabin per gli accordi di Oslo del settembre 1993. Ha ricevuto il sostegno ammirato di uomini di destra e di sinistra e soprattutto di tutte le organizzazioni della sinistra “radicale” del capitale per essere stato un indefesso campione nella mistificazione della “lotta di liberazione nazionale”, nel nome della “difesa eroica del popolo palestinese”.
Il suo passato è quello di un volgare capo banda che ha fatto la maggior parte della sua “carriera” commissionando attentati terroristici ciechi e particolarmente sanguinari contro il “nemico israeliano”. Si è imposto come capo guerriero alla testa dell’OLP a colpi di fucilate, di ricatti e di regolamenti di conti. Ha acquisito il suo statuto di uomo politico nella stessa maniera, eliminando senza pietà e spesso col sangue i suoi principali concorrenti. Dispotico, pieno di ambizione, imbevuto di potere, sguazzante in un ambiente corrotto fino al midollo, circondato da cortigiani che diventavano molto presto dei traditori o dei potenziali rivali, i suoi metodi mafiosi da piccolo caid erano il prodotto del capitalismo decadente che lo ha generato. Cumulando le funzioni di leader politico, capo dell’esercito e delle forze di repressione all’interno dell’Autorità palestinese, non ha mai esitato a imprigionare, torturare e far sparare sul quel “popolo palestinese” che pretendeva di “difendere”. È così che non ha mai smesso di rafforzare tutti gli strumenti di oppressione e di sfruttamento delle masse palestinesi. La sua funzione essenziale è stata anche quella di stroncare senza pietà, nel nome del mantenimento dell’ordine e mano nella mano con l’esercito israeliano, ogni tentativo di ribellione e le proteste disperate di una popolazione imbavagliata, ricattata, affamata, che sprofonda in una miseria sempre più nera, mentre viene già decimata, messa a lutto e terrorizzata dai bombardamenti, dai massacri, dal pesante tributo pagato quotidianamente all’Intifada.
Verso un incremento del caos e della barbarieLa morte di Arafat rappresenta per la borghesia un vero sisma non solo per la situazione della Palestina, del Vicino e del Medio-Oriente, ma anche perché va a modificare la situazione per l’insieme degli Stati arabi ed ha delle ripercussioni sull’evoluzione dell’insieme delle relazioni internazionali.
In questo covo di briganti imperialisti, sotto il pretesto della difesa della causa palestinese e del rafforzamento dell’amicizia con i diversi Stati arabi, la Francia ha approfittato dell’occasione per attirare verso di sé i favori dei dirigenti arabi e palestinesi, al fine di mettere la sua zampa imperialista in Medio-Oriente. Essa ha assestato un bel colpo sul piano diplomatico facendo ricoverare Arafat nell’ospedale militare della regione parigina dove poi è morto. Non limitandosi a precipitarsi al suo capezzale, Chirac ha potuto in questo modo attirare un nugolo di dirigenti dell’OLP e dell’Autorità palestinese e moltiplicare le trattative con questi ed altri leader arabi. In esclusiva, il governo francese ha potuto riservare un aereo e rendergli gli onori militari con un cerimoniale degno degli omaggi resi ad un vero capo di Stato prima di farlo trasferire al Cairo e poi a Ramallah. In Palestina, al momento dei funerali, il mondo ha potuto vedere volteggiare dalle finestre le bandiere palestinesi insieme a quelle francesi mentre la folla portava i ritratti di Chirac a fianco a quelle del Raïs. La Francia che pretende di agire in nome della pace non può che gettare olio sul fuoco nel tentativo di ostacolare gli interessi degli Stati Uniti.
Del resto, questo avvenimento favorisce soprattutto il regime di Sharon in Israele il cui principale obiettivo, proclamato in questi ultimi mesi, era di eliminare, anche fisicamente, il leader palestinese. Non è strano che delle voci di un avvelenamento del Raïs da parte dei servizi segreti israeliani, il Mossad, siano circolate con insistenza tra numerosi dirigenti palestinesi e siano condivise dall’80% dell’opinione pubblica da Gaza a Ramallah. L’eliminazione di Arafat che divide ed indebolisce il campo palestinese non può che confortare l’equipe Sharon nella sua politica di accelerare il ritiro delle forze israeliane dalla striscia di Gaza per meglio circondare la Cisgiordania ed isolarla totalmente attraverso la costruzione del muro intorno ad essa. La borghesia israeliana è consapevole di trovarsi in una posizione di forza tale da poter imporre i suoi diktat. Nei fatti è un incoraggiamento ad una fuga in avanti nella politica aggressiva e bellicista di Sharon, che mira allo schiacciamento completo dei Palestinesi da parte dello Stato israeliano.
Ma la scomparsa di Arafat tocca ugualmente gli affari della borghesia americana perché questi ultimi mesi, attraverso le esigenze israeliane che reclamavano la sua eliminazione come condizione per la ripresa di qualsiasi negoziato, il personaggio Arafat era diventato un ostacolo sinonimo di blocco della situazione nel Vicino-Oriente. La Casa Bianca punta così sullo scompiglio, il rischio di caos e le divisioni dei Palestinesi per tentare di riprendere in mano le cose a suo vantaggio.
Ma le dichiarazioni ottimiste e rassicuranti sullo “sblocco” delle negoziazioni, avanzate sia da Israele che dagli Stati Uniti, così come da una larga parte della stampa europea, non devono farci illudere. La prospettiva aperta dalla morte di Arafat non è in alcun modo un passo verso la pace, ma può essere solo una nuova accentuazione delle tensioni imperialiste. Non c’è alcun dubbio che Israele e gli Stati Uniti vogliono spingere al massimo la pressione sui Palestinesi, disorientati e divisi.
Si tratta di un indebolimento considerevole del campo palestinese. Con la sepoltura di Arafat abbiamo assistito, nei fatti alla sepoltura definitiva degli accordi di Oslo del 1993. È la fine della speranza della costituzione di uno Stato palestinese che questi accordi hanno fatto intravedere per dieci anni.
La processione dei dirigenti palestinesi al capezzale di Arafat a Parigi durante la sua lunga agonia, non ha risolto lo spinoso problema della successione. È chiaro che malgrado le divisioni e le rivalità del campo palestinese, la corruzione, la repressione ed il discredito che pesava su di lui, egli era un “capo” storico che concentrava tutte le chiavi del “potere” di questo mezzo-Stato (dell’Autorità palestinese, dell’OLP, del braccio armato del Fatah) ed un simbolo di unità. La sua scomparsa apre il vaso di Pandora e come prima cosa un’aspra guerra tra le differenti frazioni palestinesi. Tra i molteplici clan, nessuno sembra in grado di imporsi. Anche se la “vecchia guardia” ha momentaneamente messo a tacere le sue divisioni per nominare un direttorio provvisorio e decidere sulle elezioni per dotarsi di un “capo” entro gennaio, tutti questi uomini di apparato, ridotti a piccoli burocrati arrivisti, sono assenti sul campo e sono incapaci di controllare sia la popolazione che un’organizzazione militare totalmente divisa e parcellizzata, la cui coesione poteva essere mantenuta solo dall’autorità e la personalità di Arafat. Quanto ai piccoli capi di guerra mafiosi, l’autorità della maggior parte di questi non va al di là di un quartiere o un villaggio. Tre esempi sono sufficienti a dimostrare il carattere ingovernabile della situazione: meno di 48 ore dopo il decesso del Raïs e la nomina di Mahmoud Abbas (conosciuto anche sotto il nome di battaglia di Abou Ammar), come nuovo capo dell’OLP, questo ha subito un tentativo di attentato che si è concluso con due morti durante una cerimonia di condoglianze a Gaza che riuniva dei dirigenti palestinesi. Altro esempio, il primo discorso del nuovo presidente dell’Autorità palestinese, Rawhi Fattouh, per mancanza di esperienza, era qualcosa di incomprensibile e la maggior parte dei commenti è stata “chi è e da dove viene fuori questo?”. Infine, e soprattutto, due dei principali rami militari più influenti, l’Hamas e la Djihad islamica, hanno immediatamente annunciato che boicotteranno le elezioni del capo dell’Autorità palestinese in gennaio. Questi apparati militari sono completamente scoppiati come lo testimoniano le lotte e le rivalità imperialiste latenti tra l’Hamas, l’Hezbollah, la Djihad islamica, le Brigate dei Martiri d’Al-Aqsa (anche ribattezzata Brigate Yasser Arafat), il Fatah (sostenuta da questo o quello Stato), così come le rivalità tra i dirigenti politici Mahmoud Abbas, l’attuale Primo ministro dell’Autorità Ahmed Qoreï, che controlla le forze di sicurezza, il più “popolare” capo del Fatah in Cisgiordania, Marwan Barghouti, capo del Fahat Farouk Kaddoumi o ancora il vecchio ministro dell’Interno Mohammed Dahlan.
Non solamente la situazione è portatrice di sanguinosi regolamenti di conti per la successione di Arafat, ma questa non può che generare una recrudescenza di attentati suicidi sempre più devastanti in una popolazione palestinese ridotta alla disperazione e resa fanatica dall’odio e dall’isteria nazionalista di cui viene nutrita da decenni. Questa spirale di violenza sempre più incontrollabile rischia di mettere fuoco alle polveri in una parte ben più vasta del Medio-Oriente.
Win (18 novembre 2004)
Il New York Post, giornale conservatore controllato da Murdoch, ha accusato il film di fare una propaganda grossolana. Ed è stata certamente propaganda, così come lo sono state le notizie regolarmente pubblicate e diffuse ogni giorno dai mezzi di comunicazione, che si trattasse del NY Post o del prestigioso New York Times. Nella fase preliminare dell’invasione all’Iraq tutti questi giornali e tutti i network di trasmissioni televisive nelle loro cronache politiche erano stati totalmente favorevoli alla guerra.
Dopo l’estate invece ci sono
stati notevoli contrasti all’interno della classe dominante in America. Non riguardo
alla necessità di invadere l’Iraq, ma essenzialmente sull’efficacia della
gestione della guerra da parte dell’amministrazione di Bush. Sul fatto se
questa avesse combinato guai tali da rendere più difficili gli sforzi
dell’imperialismo americano a dominare il mondo ed a mobilitare la popolazione
americana per future azioni militari. Un contrasto quindi non su guerra si,
guerra no, ma sulle modalità di attuazione di un accordo complessivo su di un
orientamento politico imperialista preciso: fare ciò che è necessario per
mantenere l’America come unica superpotenza e impedire l’avvento di ogni rivale
o blocco potenziale.
In tutto il chiasso su Fahrenheit
9/11 è stato evidente che ciò che dicevano i cronisti dipendeva dalla
frazione della borghesia alla quale facevano riferimento: se cioè sostenevano
le politiche dell’amministrazione Bush, oppure se pensavano che
l’amministrazione aveva fatto un pasticcio che doveva essere riparato.
Comunque, una cosa è chiara. Fahrenheit
9/11 non è né contro la guerra, né anti-imperialista. E’ semplicemente
anti-Bush. Moore fa un ottimo lavoro nel colpire Bush. La pellicola mette in
scena un insieme di immagini efficaci sull’orrore della guerra, e sulla rozza
incapacità di Bush e della sua amministrazione, e si affida essenzialmente ad
una serie di riprese imbarazzanti di cui non era prevista la diffusione pubblica:
per esempio, Paul Wolfowitz, l’architetto della strategia imperialista
americana in Iraq, è ridicolizzato nella scena in cui usa la saliva per
lisciarsi i capelli prima di apparire in un’intervista televisiva. Moore si
avvantaggia delle ben note manchevolezze di Bush quando parla in pubblico per
evidenziarne la stupidità e la pochezza. In una scena, Bush non riesce a
ricordare il vecchio proverbio inglese che dice più o meno “fregami una volta e
sei tu l’imbroglione, fregami due volte e il fesso sono io…”, facendo una ben
magra figura. Da un punto di vista politico più serio, un’altra scena mostra
Bush che di fronte a un pubblico di opulenti sostenitori riuniti per raccogliere
fondi, dice qualcosa tipo “voi siete i ricchi e i molto ricchi, qualcuno vi
chiama élite, io vi chiamo la mia base”. Bella roba!
Il film contiene immagini interessanti, come l’intervista ad una madre di Flint, Michigan, prima a favore della guerra e che ora dopo la morte del figlio vi si oppone, o una scena in cui Moore chiede ai membri del Congresso se sarebbero disposti a mandare i propri figli a combattere in Iraq, ottenendone in cambio solo sguardi di incredulo rifiuto. Il film danneggia la campagna propagandistica di Bush per giustificare la guerra – già abbondantemente discreditata nei mass media – ma decisamente non è contro la guerra. Moore per esempio sostiene chiaramente l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’imperialismo americano, e concretamente accusa Bush di non essere abbastanza bellicoso riguardo all’Afghanistan. Mette in ridicolo la sua amministrazione per aver avuto legami diplomatici con il regime talebano prima dell’invasione e anche per aver ricevuto la visita dei rappresentati talebani nello Stato del Texas, lo stato di Bush. Moore attacca Bush per non aver invaso prima l’Afghanistan. Così come critica il fatto che il presidente abbia aspettato due mesi prima di attaccare – dando a Bin Laden “due mesi di vantaggio”. E anche che abbia inviato troppo poche truppe in Afghanistan.
Il fallimento in Iraq è
attribuito alle mancanze personali e all’avidità di Bush. Secondo Moore infatti
i rapporti d’affari della famiglia di Bush con la famiglia reale saudita, e dunque
i personali interessi economici, hanno guidato la politica estera americana.
Mette in evidenza il fatto che la maggior parte dei terroristi dell’11 settembre
erano sauditi, come Bin Laden. Anche se si astiene appena dal chiedere di
dichiarare guerra contro la famiglia reale saudita, praticamente accusa Bush di
tradimento per aver passato la sera del 13 settembre 2001 in visita
all’ambasciata saudita di New York, e per aver protetto gli interessi sauditi
negli Stati Uniti. Questa “analisi”, che Moore ha
definito “molto forte” nelle interviste televisive sul film, è la tipica
propaganda capitalistica che consiste nell’attribuire la colpe dei mali della
società agli individui e alle loro politiche piuttosto che al sistema
capitalistico in se’. Moore nasconde completamente il fatto che il capitalismo
americano e i suoi interessi imperialistici sono i responsabili della guerra in
Iraq.
Da buon rappresentate della
borghesia Moore vuol farci credere che la situazione attuale è il prodotto
dell’incompetenza e della stupidità di Bush e della sua amministrazione
incapace di stabilizzare l’Iraq. Ma ciò è completamente falso, perché questa
situazione di instabilità è il prodotto della situazione storica del
capitalismo oggi. Evocare l’incompetenza di questo o quel capo di Stato come
causa delle guerre permette alla borghesia di nascondere la spaventosa
responsabilità del capitalismo decadente e dell’insieme della classe borghese.
Una tale logica assolve questo sistema da tutti i crimini trovando dei capri
espiatori: la follia di Hitler sarebbe la causa della Seconda Guerra mondiale;
la mancanza di umanità e l’inconseguenza di Bush sarebbe la causa della guerra
e degli orrori in Iraq. In tutti e due i casi, questi uomini, con il loro
temperamento e le loro specificità, corrispondono agli interessi della classe
che li ha portati al potere.
Hitler fu sostenuto dall’insieme della borghesia tedesca perché si mostrava capace di preparare la guerra resa inevitabile dalla crisi del capitalismo e dalla disfatta dell’ondata rivoluzionaria seguita all’Ottobre 1917. Lo squilibrio mentale di un Hitler –o piuttosto il fatto di mettere un tale squilibrato al potere – non fu nient’altro che l’espressione stessa dell’irrazionalità della guerra nella quale si lanciava la borghesia tedesca. Lo stesso è per Bush e la sua amministrazione. Questi portano avanti la sola politica che oggi è possibile, dal punto di vista capitalista, per difendere gli interessi imperialisti americani, la loro leadership mondiale, cioè quella della guerra, della fuga in avanti nel militarismo.
La pretesa “incompetenza”
dell’amministrazione Bush, in particolare a causa dell’influenza che ha potuto
avere al suo interno la frazione guerrafondaia ed oltranzista di Rumsfeld e
Wolfowitz, la sua incapacità ad agire sulla base di una visione a lungo
termine, sono rivelatrici del fatto che la politica della Casa Bianca è al
tempo stesso la sola possibile e quella votata all’insuccesso. Il fatto che
Colin Powell, appartenente alla stessa amministrazione e certo capace di condurre
una guerra, abbia espresso delle messe in guardia rispetto alla preparazione
del conflitto che non sono state ascoltate, è una conferma ulteriore di questa
tendenza all’irrazionalità.Non bisogna farsi alcuna
illusione: è l’insieme della borghesia americana che sostiene una politica
militarista, perché questa è la sola possibile per difendere gli interessi
imperialisti.
La vera discussione
all’interno della classe dominante statunitense non era se gli USA avrebbero
dovuto invadere l’Iraq, ma su quale fosse il modo più appropriato per preparare
l’invasione – quali giustificazioni ideologiche avrebbero dovuto essere usate
(armi di distruzione di massa e i legami con al Qaeda oppure le violazioni dei
diritti civili), quanto gli USA avrebbero dovuto premere per ottenere il
sostegno internazionale per l’invasione, e quali tattiche e dottrine militari
avrebbero dovuto essere utilizzate nell’invasione e l’occupazione
In secondo luogo Fahrenheit 9/11 non serve solo a nascondere la natura profondamente borghese della politica imperialista americana ed a orientare la gente verso il partito democratico, ma anche quello di ridare tono alla mistificazione elettorale che ha subito un colpo con il disastro delle elezioni del 2000, dove si sono dovuti fare tutti i conteggi perchè si sospettavano imbrogli. In conclusione, si può andare a vedere Fahrenheit 9/11 per ridere di Bush, e per osservare un’abile propaganda politica borghese, ma che non si pensi neanche per un minuto di stare davanti ad una denuncia politica cinematografica contro l’imperialismo e contro la guerra, con una analisi pertinente degli avvenimenti attuali. Quale che sia la frazione della borghesia al governo, l’imperialismo americano continuerà a spargere guerra.Il solo modo per porre fine alla guerra è porre fine al capitalismo.
Da Internationalism, n°131 (settembre-ottobre 2004)
Sezione della CCI negli Stati Uniti
Pubblichiamo qui di seguito una Dichiarazione del “Nucleo Comunista Internacional” (NCI) d’Argentina nella quale questo prende posizione sulle tre dichiarazioni del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” che costituiscono un violento attacco contro la CCI [1]. Come si può leggere in questo testo “Il NCI dichiara solennemente che il contenuto di queste dichiarazioni (del “Circulo”) è una sequela di menzogne e di calunnie vergognose lanciate contro la CCI”. Nella misura in cui questo “Circulo” si presenta sul suo sito web come il “continuatore del NCI”, andiamo a vedere brevemente quale legame esiste realmente tra l’uno e l’altro.
Quale legame tra il “Circulo” e il NCI?
Il NCI è un gruppo di elementi in ricerca che avevano rotto con il trotskismo ed hanno scoperto nel 2002 su internet le organizzazioni della corrente della Sinistra comunista. Hanno preso contatto con la CCI nell’ottobre 2003. Durante questo periodo hanno portato avanti delle discussioni sulle posizioni della CCI, e questo li ha portati ad elaborare una piattaforma (che riprendeva per grandi linee quella della CCI) ed a costituire il NCI.
Nell’aprile 2004, una prima delegazione della CCI incontra il NCI a Buenos Aires. Il NCI e la CCI decidono in comune accordo che la stampa della nostra organizzazione (in spagnolo ed in altre lingue) pubblicherà degli articoli redatti dal NCI su differenti aspetti della situazione in Argentina o internazionale (in particolare sul movimento dei “piqueteros”).
Nel maggio 2004 il NCI, che ha preso conoscenza dei Bollettini della pretesa “Frazione interna della CCI” (FICCI), decide all’unanimità di inviare alla CCI una “Presa di posizione” (datata 22 maggio), nella quale esso afferma di “considerare la FICCI come un’organizzazione al di fuori della classe operaia, di cui preconizziamo l’esclusione e l’espulsione dal seno del proletariato, a causa della sua condotta di carattere borghese”. Dei larghi estratti di questa “Presa di posizione” sono stati pubblicati nella nostra stampa in spagnolo ed in francese e sul nostro sito Internet.
Nell’agosto 2004, un secondo incontro ha avuto luogo in Argentina tra il NCI e la CCI. Il 27 agosto la CCI tiene la sua prima riunione pubblica a Buenos Aires (di cui facciamo un resoconto nella nostra stampa territoriale in francese e spagnolo).
All’inizio del soggiorno della delegazione della CCI, un membro del NCI, B., spinge perché la CCI pubblichi immediatamente un comunicato che annunci che il NCI sarà integrato nella CCI. Gli altri compagni del NCI valutano invece (ed era anche la nostra opinione) che non era opportuno precipitare un tale processo di integrazione. Durante tutto il periodo il cui la nostra delegazione è stata sul posto, B. non ha in alcun momento espresso il benché minimo disaccordo con la CCI.
Nel mese di settembre, B. invia alla CCI varie mail provocatrici allo scopo di spingere la CCI a rompere con lui (e con il NCI a nome del quale lui parla, mentre gli altri compagni del NCI non sono neanche al corrente delle lettere scambiate tra B. e la CCI). Non è che alla vigilia della riunione pubblica del BIPR, a Parigi il 2 ottobre, che la CCI ha scoperto per caso, attraverso un legame sul sito Internet del BIPR, l’esistenza di un “Collettivo di Comunisti internazionalisti” che si è accertato poi essere ... il famoso “Circulo”!
Un impostore al di sopra di ogni sospetto
Quindi, mentre la delegazione della CCI era ancora a Buenos Aires alla fine di agosto, il cittadino B. aveva già voltato faccia e non ha avuto né il coraggio, né l’onestà di informarci dei suoi “cambiamenti” di posizione. In più, già da qualche tempo egli discuteva sottobanco con la FICCI, pur continuando ad imbrogliarci fino a voler precipitare l’integrazione del NCI nella CCI. Il doppio (o triplo?) gioco di questo individuo (e la sua incredibile faccia tosta!) è stato scoperto dalla CCI solo dall’inizio di ottobre. In seguito alla pubblicazione da parte della FICCI della sua prima Dichiarazione fatta a nome del NCI, la CCI ha iniziato a rendere pubblico il carattere torbido dei comportamenti di questo preteso “circulo” [2].
Da questi fatti deriva che:
-questo “circulo” non rappresenta che un solo individuo, l’elemento B., che era membro del NCI ed ha rotto con la CCI (senza aver emesso il minimo disaccordo) per avvicinarsi alla FICCI ed al BIPR;
-gli altri membri del NCI non hanno rotto con la CCI, come pretendono la FICCI ed il BIPR sul loro sito Internet.
Ed è proprio per questo che noi abbiamo potuto smascherare questo impostore. Abbiamo saputo attraverso una nostra telefonata (che rivelerebbe “le metodologie nauseabonde della CCI”, secondo i termini usati dal signor B.), che gli altri compagni del NCI non erano assolutamente informati dell’esistenza di questo “Circulo” che pretendeva di rappresentarli! Loro non conoscevano l’esistenza delle sue “Dichiarazioni” nauseabonde contro la CCI le quali, come ripetono con insistenza, sarebbero stare adottate... “collettivamente” a “l’unanimità” e dopo “consultazione” di tutti i membri del NCI! Il che è una pura menzogna.
L’elemento B. aveva redatto DA SOLO (all’unanimità degli assenti!) queste “Dichiarazioni” calunniose contro la CCI.
Come ha potuto agire all’insaputa del NCI?
Nei fatti questo elemento era il solo a detenere le chiavi degli strumenti informatici del NCI (indirizzo e-mail, sito Web), il che gli ha permesso di costituire alle spalle dei compagni del NCI un gruppo fittizio (il famoso “Circulo”) che parlava a nome e al posto del NCI (vedi il nostro articolo su Internet, in lingua francese e spagnola: “Impostura o realtà?”). I militanti del NCI, non avendo i mezzi per accedere a Internet, non potevano scoprire le sue manovre. Nei fatti, questi hanno iniziato a prendere conoscenza dei testi pubblicati a loro nome, così come delle lettere scambiate nel corso dell’ultimo periodo tra la CCI ed il NCI (in realtà il solo B. visto che lui sequestrava la corrispondenza elettronica), solo quando la CCI ha inviato loro questi documenti attraverso la spedizione postale.
Quale significato bisogna dare alle “metodologie nauseabonde” di questo impostore?
In tutta evidenza le sue azioni torbide sono quelle di un elemento manipolatore che non ha nessuna convinzione politica reale e che, come la FICCI, non trova posto nel campo del proletariato. Il carattere grossolano delle sue menzogne, come la sua febbrile agitazione su Internet, ci avevano permesso di affermare, ben prima che il NCI scrivesse la sua Dichiarazione, che “solo quelli che hanno, non un ‘piccolo nucleo’, ma un pisellino al posto del cervello” potevano credere a queste frottole (Vedi sul nostro sito Internet: “Circulo de Comunistas Internacionalistas”: Una nuova strana apparizione).
È quello che è successo alla Ficci ed al BIPR che hanno dato credito alle menzogne del “Circulo” annunciando pubblicamente che il NCI aveva rotto con la CCI e, soprattutto, pubblicando sul loro sito Web (in più lingue) la sua seconda Dichiarazione, del 12 ottobre, che ha la pretesa di “dimostrare” la “nauseabonda metodologia della CCI”. Giocando con il suo computer, il nostro Webmaster (e grande bugiardo!), era riuscito a farsi conferire un posto da superstar internazionale grazie alla chiassosa pubblicità non solamente della FICCI, ma anche del BIPR.
Che la FICCI abbia fatto un’alleanza entusiasta con il cittadino B. non ha niente di sorprendente: chi si somiglia si accoppia. Ma ben più grave è il fatto che una organizzazione della Sinistra comunista, il BIPR, abbia potuto servire a dar valore all’elemento B. e dare una cauzione ai suoi metodi “nauseabondi”.
Questo “circolo di comunisti(a) internazionalisti(a)” non è nient’altro che una gigantesca impostura.
È nostra responsabilità denunciarlo come tale e mettere in guardia l’insieme del campo politico proletario contro le azioni di questo “circolo” particolarmente... vizioso!
La CCI (3 novembre 2004)
1. Le Dichiarazioni del:
- 2 ottobre nella quale il “Circulo” solidarizza con la FICCI (pubblicata sul sito Web della FICCI);
- 12 ottobre “contro la metodologia nauseabonda della CCI” (pubblicata sul sito della FICCI e del BIPR);
- 21 ottobre intitolata “Risposta al supplemento Révolution Internationale de France” che esiste oggi solo in spagnolo sul sito del “Circulo”.
2. Vedi i nostri tre articoli su Internet in lingua francese e spagnola sul “Circulo de Comunistas Internacionalistas”: “Una strana apparizione”, “Una nuova strana apparizione”, “Impostura o realtà?”
Nella prima parte di questo articolo dedicato alla riunione pubblica del BIPR (Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario) che si è tenuta a Parigi il 2 ottobre sul tema "Perché la guerra in Iraq?", e che i nostri lettori possono consultare sul nostro sito Internet, abbiamo messo in evidenza come la politica di raggruppamento senza principio del BIPR ha portato questa organizzazione della Sinistra comunista a lasciarsi prendere in ostaggio da un gruppo parassitario (auto-proclamatosi "Frazione Interna della CCI") ([1]). In questa seconda parte dell’articolo, rendiamo conto del dibattito che si è svolto sulla questione della guerra in Iraq.
Abbiamo sempre affermato (in particolare nella stampa) l'assoluta necessità per le organizzazioni che si richiamano alle correnti della Sinistra comunista di condurre un dibattito pubblico, di confrontare le loro posizioni affinché gli elementi alla ricerca di una prospettiva di classe possano farsi un'idea chiara delle differenti posizioni che esistono all’interno del campo proletario.
Un'analisi a geometria variabile?
Sebbene il BIPR (come il PCint e la CWO che l'hanno costituito) abbia sempre difeso l'internazionalismo proletario, durante i peggiori orrori nazionalisti della borghesia, la sua analisi delle cause dei differenti conflitti durante questi ultimi venti anni, è passata totalmente a fianco dell'essenziale. Anche, per quanto riguarda la guerra attuale in Iraq, il BIPR nella sua esposizione introduttiva ha reiterato l’analisi secondo la quale questa nuova guerra avrebbe una razionalità economica (la rendita petrolifera ed il dominio degli Stati Uniti sulle sorgenti de"l'oro nero"). Il BIPR ha difeso questa stessa analisi già in passato, in particolare all'epoca della guerra in Afghanistan nel 2001: "... gli Stati Uniti hanno bisogno che il dollaro resti la moneta del commercio internazionale se vogliono mantenere la loro posizione di super potenza mondiale. Così, innanzitutto, gli Stati Uniti cercano disperatamente di assicurare che il proseguimento del commercio globale del petrolio si faccia in dollari. Ciò vuole dire avere un'influenza determinante nell'itinerario dei condotti di petrolio e di gas anche prima dell'implicazione commerciale americana nell'estrazione alla loro sorgente. Ciò accade quando delle semplici decisioni commerciali sono determinate dall'interesse dominante del capitalismo americano nel suo insieme e lo Stato americano si impone politicamente e militarmente nell'interesse di obiettivi più vasti, obiettivi che si oppongono spesso agli interessi di altri Stati e sempre più a quelli dei suoi alleati europei. In altri termini, questo è il cuore della concorrenza capitalista nel ventunesimo secolo (…)” (citato nella nostra Révue Internationale, n°108, gennaio 2002, nella nostra polemica col BIPR sulla questione della guerra).
Un'analisi simile veniva difesa all'epoca della prima guerra del Golfo nel 1991: "Nei fatti, la crisi del Golfo è realmente una crisi per il petrolio e per chi lo controlla. Senza petrolio a buon mercato i profitti cadono. I profitti del capitalismo occidentale sono minacciati ed è per questa ragione e nessun’altra che gli Stati Uniti preparano un bagno di sangue in Medio Oriente". (citato nella nostra Révue Internationale n°64).
Di fronte all’evidente evoluzione della realtà, il BIPR è stato costretto tuttavia, a proposito del conflitto attuale in Iraq, ad evolvere un po' nella sua analisi. Nella sua introduzione alla riunione il BIPR ha posto come spiegazione di questa nuova guerra tre questioni:
1) le ragioni geostrategiche;
2) la difesa del dollaro come moneta dominante e la rendita petrolifera;
3) il controllo delle zone di produzione petrolifera per una ventina di anni.
Dopo questa presentazione la CCI è intervenuta per mettere in evidenza che l'offensiva americana in Iraq ha essenzialmente delle cause strategiche. Se la domanda del petrolio gioca un ruolo importante, non è soprattutto per ragioni economiche, ma fondamentalmente per ragioni strategiche e militari. Abbiamo ricordato che l'importanza strategica del petrolio non data né da oggi, né dagli anni 1960, ma da prima della Prima Guerra mondiale, dalla meccanizzazione degli eserciti.
Nei nostri interventi abbiamo in particolare sottolineato che la presentazione fatta mostrava una certo avanzamento del BIPR poiché nell'elenco delle cause dell'offensiva americana in Iraq, si poneva al prima posto l'esistenza di ragioni "geostrategiche". In effetti il compagno che ha fatto la presentazione ha “corretto” il nostro intervento affermando che avevamo sentito male (o capito male) il contenuto di questa presentazione poiché, quale che sia l’ordine in cui le cause sono state presentate ... le “cause strategiche” dell’offensiva americana in Iraq, sono per il BIPR “secondarie”!
Il compagno ha affermato anche che, per evitare ogni "malinteso" da parte nostra, avrebbe dovuto distribuirci l'esposizione scritta. Successivamente, il BIPR ha pubblicato sul suo sito Internet in francese questa esposizione scritta. Così il lettore potrà, collegandosi, vedere che il fatto principale sostenuto è proprio quello che avevamo sentito: "Se l'oro nero figura nei calcoli iracheni di Washington, è come risorsa strategica piuttosto che economica. Con questa guerra si tratta innanzitutto di perpetuare l'egemonia americana - e, in questo senso, di avere delle garanzie per l'avvenire - che gonfiare subito i profitti d’Exxon". Non si potrebbe essere più chiari (e noi siamo completamente d’accordo con questa analisi)!
Questa piccola contorsione che consiste nell'affermare che la CCI avrebbe "sentito male" o "capito male" ha permesso al BIPR, durante la discussione, di determinare un impasse totale sulle "cause strategiche" della guerra in Iraq. In realtà, essa è servita solo a mascherare da una parte che le analisi del BIPR sono a geometria variabile e dall’altra che non tutti i compagni del BIPR sono d’accordo con le analisi "ufficiali" della loro organizzazione.
Gli argomenti della CCI
Nei nostri interventi abbiamo insistito sul fatto che, con l'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza all'inizio del ventesimo secolo, la guerra ha perso ogni razionalità economica per il capitale globalmente inteso ed anche, e sempre più, per ogni Stato in particolare. Abbiamo ricordato che il concetto di decadenza del capitalismo non è un'invenzione della CCI ma l’analisi adottata dall’'Internazionale Comunista nel 1919. Anche l'analisi dell'irrazionalità della guerra in questo periodo di decadenza non è proprio un'idea strampalata uscita della testa degli "idealisti" della CCI. È la Sinistra Comunista francese (GCF), a cui la CCI si è sempre rivendicata, a sviluppare questa analisi affermando che nel periodo di decadenza del capitalismo "la produzione è essenzialmente mirata alla produzione di mezzi di distruzione, in vista cioè della guerra. La decadenza della società capitalista trova la sua espressione eclatante nel fatto che dalle guerre in vista dello sviluppo economico (periodo ascendente), l'attività economica si riduce essenzialmente alla preparazione della guerra (periodo decadente)" (Rapporto della Sinistra Comunista francese alla Conferenza del luglio 1945, citato nella nostra Révue Internationale n°18,"Il corso storico") ([2]).
Abbiamo messo anche in evidenza che il rigetto del carattere irrazionale, sul piano economico, delle guerre nel periodo di decadenza, e la loro irrazionalità crescente nella fase estrema di questa decadenza (quella della decomposizione del capitalismo) porta il BIPR a non fare nessuna differenza tra la funzione delle guerre coloniali e di costruzione di Stati nazionali nel 19° secolo e le guerre che si sono scatenate dal 1914.
Abbiamo pertanto ricordato la nostra analisi secondo la quale nel 19° secolo le guerre erano "redditizie". Avevano una razionalità economica poiché permettevano l'espansione del capitalismo a scala planetaria, mentre nel 20° secolo le guerre hanno preso un carattere sempre più irrazionale. Ed è ancora più evidente oggi: con l'entrata del capitalismo nel suo periodo di decomposizione (aperto con la disgregazione dei due blocchi imperialistici generati dalla Seconda Guerra mondiale) questa irrazionalità sul piano economico ha raggiunto un livello superiore come si è potuto vedere, per esempio, nei Balcani o in Cecenia.
L'ordine mondiale istituito dalla conferenza di Yalta nel 1945 ha ceduto oggi il posto ad un'era di disordine mondiale caratterizzato dallo scatenamento del “ciascuno per sé” sulla scena imperialista. La miopia del BIPR lo porta a non percepire che la logica imperialistica del capitalismo in periodo di decadenza tende ad ubbidire solo e sempre più alla propria logica: quella della fuga in avanti, sfrenata, nella guerra ed in una barbarie crescente. L'intervento della CCI ha messo anche in evidenza le implicazioni dell'analisi del BIPR secondo cui la guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq avrebbe ancora una razionalità economica (in particolare la famosa "rendita petrolifera"). In realtà, una tale visione conduce il BIPR a sottovalutare l'estrema gravità della situazione storica attuale (segnata da uno sviluppo di un caos sanguinoso) e, dunque, la gravità della posta in gioco per la classe operaia e per l'avvenire dell'umanità.
Abbiamo inoltre ricordato anche il quadro in cui la CCI ha analizzato le cause di questa nuova guerra in Iraq: "Nel contesto del fallimento del capitalismo e di decomposizione della società borghese, la realtà ci mostra che l'unica politica possibile per ogni grande potenza è provare a mettere gli altri in difficoltà per tentare di imporre se stessa. È la legge del capitalismo. Questa instabilità, questa anarchia crescente e questo caos che si estendono non sono la specificità di questa o quella zona esotica ed arretrata, ma sono proprio il prodotto del capitalismo nella sua fase attuale irreversibile di decomposizione. E dato che il capitalismo domina su tutto il pianeta, è il pianeta intero che è sempre più sottoposto al caos" (Révue Internationale n°118).
La mancanza di serietà degli argomenti del BIPR
Il BIPR non è stato in grado di confutare con un minimo di serietà i nostri argomenti. Rispetto all’analisi della decomposizione del capitalismo, il solo "argomento" politico che abbiamo potuto sentire da parte del BIPR è consistito nello stigmatizzare ancora una volta “l'idealismo" della CCI con un sarcasmo fuori luogo: “con la vostra analisi della decomposizione, tutto è in tutto, il caos, Dio, gli angeli, ..."!
Ma non è tutto. Siamo rimasti sbalorditi nel sentire degli argomenti da fare rigirare Marx ed Engels nelle loro tombe:
1) Quando abbiamo posto la domanda: "Il BIPR difende ancora oggi l’analisi secondo la quale se una terza guerra mondiale non è scoppiata prima del crollo del blocco dell'Est è a causa della bomba atomica e de 'l'equilibrio del terrore"? Sulle prime nessun militante del BIPR ha voluto rispondere alla nostra domanda. Solo quando abbiamo ripetuto questa domanda per la terza volta, uno di loro si è degnato di risponderci, in modo molto conciso (e senza nessuna argomentazione): l'equilibrio del terrore è "UNO dei fattori" che spiega perché la borghesia non ha potuto scatenare una terza guerra mondiale... Insomma, l'analisi classica dei settori borghesi dominanti che, per decenni, hanno venduto ai proletari la spaventosa corsa agli armamenti in nome della "preservazione della pace". Nessun commento!
Oltre a vedere che il BIPR faceva sua la pochezza della propaganda borghese, tutti gli elementi in ricerca presenti a questa riunione pubblica sono restati a pancia vuota: sono usciti dalla riunione senza conoscere quali sono gli "altri fattori" (e soprattutto qual'è il fattore determinante) che, secondo il BIPR, hanno costituito un ostacolo ad una terza guerra mondiale. Invece hanno potuto sentire che per la CCI il fattore essenziale sta nel fatto che, dalla fine degli anni 1960, un nuovo corso storico (quello degli scontri di classe) era stato aperto, segnando la fine del lungo periodo di controrivoluzione che si era abbattuto sul proletariato dopo la sconfitta dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23. Se una terza guerra mondiale non è esplosa, non è a causa dell'arma atomica e de "l'equilibrio del terrore", ma proprio perché la classe operaia mondiale non era pronta a versare il suo sangue dietro le bandiere nazionali.
2) Per quanto riguarda l'analisi marxista della decadenza del capitalismo, abbiamo sentito un portavoce del BIPR risponderci in questi termini: "sono stanco di discutere da 25 anni con la CCI”. In effetti, la CCI è talmente "limitata" che non vuole mai capire l’ABC del marxismo, il quale avrebbe insegnato (secondo questo rappresentate del BIPR) che "nel capitalismo bisogna distinguere due cose: la formazione sociale ed il modo di produzione. Si può considerare che c'è decadenza della formazione sociale (anche se io non amo la parola 'decadenza'), ma il modo di produzione non è decadente. Perché se una rivoluzione sociale non interviene, avremo sempre i due, con il crollo della società nella barbarie”.
Prendendo tutte le precauzioni d'uso (è vero che se una rivoluzione non interviene avremo un crollo nella barbarie), il BIPR ha affermato tranquillamente che il capitalismo può essere in decadenza in quanto "sistema sociale", al livello della sua sovrastruttura (ideologie dominanti, cultura, svaghi, costume, morale, eccetera..) ma non in quanto "sistema economico", sul piano cioè della sua infrastruttura (a livello del suo modo di produzione e del modo con cui gli uomini sono organizzati per produrre la loro esistenza).
Ed è nel nome del marxismo, del "materialismo" e certamente contro la visione "idealistica" della CCI che è stato assestata una tale lezione di "dialettica"! Preferiamo lasciare a Marx la cura di confutare simili insulsaggini: "un modo di produzione o un stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato e questo modo di cooperazione è anche esso una ‘forza produttiva’". "La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è in primo luogo direttamente intrecciata all'attività materiale ed alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale". ("L'ideologia tedesca"). Questo "linguaggio della vita reale", il BIPR sembra ignorarlo. Ma, come diceva Spinoza, "l'ignoranza non è un argomento" !
Per il marxismo, la decadenza come l'ascesa di un modo di produzione colpisce tutti gli aspetti della società, perché è lo stato delle infrastrutture (l'economia) che determina quello delle sovrastrutture (la vita sociale), anche se l'evoluzione o l'involuzione di una civiltà non si sviluppa in modo omogeneo in tutti i suoi aspetti. Affermare il contrario non è né materialista, né marxista. E’ cadere nell'idealismo più stupido.
3) Durante la discussione, uno dei nostri simpatizzanti ha chiesto al BIPR: "Se si segue la vostra analisi del ciclo ‘crisi/espansione/nuova crisi, ecc.’, quale è la vostra posizione sulle lotte di liberazione nazionale? Queste sarebbero ancora valide oggi? E ciò vuole dire che i sindacati avrebbero ancora una natura operaia?".
Sulla domanda delle lotte di liberazione nazionale il BIPR non ha dato nessuna risposta. Invece, un compagno del presidium ha affermato che se il BIPR non è per il lavoro nei sindacati è "perché l'esperienza ha mostrato che non serve a niente e non perché il capitalismo sarebbe in decadenza". Noi siamo intervenuti per chiedere al BIPR se rigettava pertanto la posizione difesa dal PCInt nel 1947 citata tuttavia in esergo nelle sue "Tesi sul sindacato oggi e l'azione comunista" (adottate al 4° congresso del PCInt): "Nell'attuale fase di decadenza della società capitalista, il sindacato è chiamato ad essere uno strumento essenziale della politica conservatrice e di conseguenza ad assumere una funzione precisa di organismo dello Stato". (sottolineato da noi).
Il compagno del presidium che ha risposto alla domanda sulla natura dei sindacati, è sembrato allora molto sorpreso che il BIPR o il PCInt. abbiano potuto avere una tale analisi. Visibilmente sembrava scoprire questa posizione programmatica della propria organizzazione (che è comunque pubblicata anche sul sito Web del BIPR)!
Evidentemente la messa in discussione dell'analisi della decadenza del capitalismo elaborata dall'Internazionale comunista, non può che condurre il BIPR a "rivedere" certe posizioni della sua propria piattaforma.
La mancanza di serietà nel dibattito
All'infuori del nostro contributo al dibattito, e delle domande poste dai nostri simpatizzanti (alle quali il BIPR non ha risposto, o ha risposto in modo perlomeno molto confuso) si può segnalare l'intervento di un elemento del campo consiliarista (che noi conosciamo da molto tempo) che è consistito essenzialmente nel criticare la nostra analisi della decadenza del capitalismo (basata sulla teoria della saturazione dei mercati sviluppata da Rosa Luxemburg ne “L'accumulazione del capitale”). Questo elemento è venuto a farci ancora una volta una "lezione di marxismo" difendendo l'idea che il capitalismo globale è ancora oggi in piena fase di accumulazione allargata come dimostrerebbe il formidabile sviluppo economico della Cina!
Quest’analisi (che è oggi molto diffusa tra gli "esperti" della classe dominante) non ha dato adito alla minima critica da parte del BIPR. La CCI è intervenuta quindi per dimostrare che la pretesa "espansione economica" della Cina è costruita sulla sabbia (vedi l’articolo sulla Cina sul n°350 del nostro giornale in Francia, Revolution Internationale)
Inoltre abbiamo dovuto uno dei due supporter della FICCI fare un lungo intervento, incomprensibile e totalmente incoerente, che mirava a "dimostrare" che l'analisi della CCI (e dunque dell'Internazionale Comunista) sulla decadenza del capitalismo è un'assurdità e si situa al di fuori del marxismo.
Altrettanto significativa è stata la "prestazione" dei due "tribuni" della FICCI che si sono agitati non per prendere posizione sull'analisi del BIPR esposta dal presidium, ma per tentare di "demolire" le analisi della CCI ([3]).
La mancanza totale di serietà della FICCI si è ancora una volta manifestata clamorosamente per il comportamento di due dei suoi membri, e dei loro due sostenitori che, invece di prendere la parola per sviluppare un'argomentazione politica, si sono accontentati durante tutta la riunione di adottare un atteggiamento fatto di sogghigni, di sarcasmi (ed anche di applausi di fronte alle critiche portate alle analisi della CCI, come se fossero venuti ad assistere ad una partita di calcio). Questa mancanza di serietà ha del resto profondamente scioccato gli elementi in ricerca che erano presenti. Uno di essi ha chiesto la parola e ha affermato che questo tipo di atteggiamento in una riunione politica non l'aveva “incitato ad iscriversi nella discussione". E’ chiaro quindi che se la CCI non fosse stata presente e se non avesse portato materia alla discussione, non ci sarebbe stato alcun dibattito contraddittorio, alcun confronto delle differenti posizioni. La FICCI, che pretende essere il "vero difensore della piattaforma del CCI", si è, in effetti, guardata bene dall’avanzare la minima divergenza, la minima critica all'analisi del BIPR.
Sul concetto di decadenza del capitalismo (che il BIPR sta "ridefinendo", nei fatti rigettando) i membri della FICCI non hanno speso una parola. Cos’ come hanno evitato pudicamente ogni confronto col BIPR sulla domanda: perché la borghesia non è stata in grado di scatenare una terza guerra mondiale prima del crollo del blocco dell'Est?
La pretesa apertura al dibattito pubblico, per il "chiarimento" ed il "confronto" dei differenti punti di vista in seno al campo proletario a cui si rivendica la FICCI è solamente un bluff adornato da una buona dose di ipocrisia. In realtà, per costituire un "fronte unico anti-CCI", il BIPR e la FICCI preferiscono nascondere i loro disaccordi e discuterli nelle loro riunioni "private"!
Da parte nostra, se ci siamo rifiutati di fare il benché minimo "dibattito" con gli elementi della FICCI (e ciò nonostante i loro interventi provocatori) è perché la CCI è venuto ad una riunione pubblica del BIPR e soprattutto non voleva permettere a questi individui il sabotaggio del dibattito. È per ciò che siamo intervenuti per confutare gli argomenti del BIPR e non quelli di questa autoproclamata "frazione" che si è comportata come una banda di teppisti, rubando del materiale e del denaro alla CCI.
La CCI ha partecipato a questa riunione anche perché non teme il confronto pubblico delle sue divergenze con il BIPR. In questo senso non condividiamo la posizione del BIPR (reiterata alla fine della riunione) secondo la quale il dibattito tra la CCI ed il BIPR "non serve a niente". La nostra concezione del dibattito pubblico non è quella di un braccio di ferro tra i gruppi della Sinistra comunista per sapere che è più “forte", o chi “conquisterà” più elementi. Se siamo interessati alla discussione pubblica di queste divergenze è essenzialmente per permettere agli elementi in ricerca di conoscere non solo le posizioni della CCI ma anche quelle degli altri gruppi del campo proletario. Solo questo comportamento può permettere loro di chiarirsi e di non sbagliare porta se vogliono diventare militanti.
Di fronte agli elementi alla ricerca di una prospettiva di classe, è compito delle organizzazioni rivoluzionarie dare una risposta a tutte le loro domande, convincerli col massimo di chiarezza, di rigore e di serietà nell'argomentazione. Come è loro compito difendere, nelle riunioni pubbliche, la serietà del dibattito politico bandendo ogni atteggiamento parassitario che consiste nell'inquinare questo dibattito attraverso sarcasmi, sogghigni o applausi.
CCI (18 ottobre)
[1] Per ragioni di spazio e di equilibrio del nostro giornale, non pubblichiamo qui la prima parte di questo articolo intitolato "Il BIPR preso in ostaggio da teppisti!”, che il lettore potrà trovare sul nostro sito Web. Chi non avesse la possibilità di consultare il nostro sito Internet, può chiedere questo articolo direttamente al nostro indirizzo. Gli manderemo gratuitamente una copia. Manderemo loro anche la risposta che il BIPR ha pubblicato, sul suo sito Web, sotto i titolo "Risposta ad un'organizzazione in via di disintegrazione".
[2] Un membro della FICCI ha fatto un intervento per tentare di "ridicolizzare" la nostra visione dell'irrazionalità della guerra accusandoci di "revisionismo" ed arrivando ad affermare che siamo "dei Kautsky"! In realtà, sono i tromboni di questa pretesa "frazione" che mostrano di essere i veri "revisionisti", poiché abbandonano oggi l'analisi sviluppata dalla GCF a cui la CCI, per quanto la riguarda, si sempre è rivendicata. Questi rinnegati che pretendono essere i "veri difensori delle posizioni programmatiche della CCI", oggi (per lisciare il BIPR) rigettano questa posizione elementare della nostra piattaforma sulla quale si fonda il nostro quadro di analisi della decadenza del capitalismo.
[3] E per combattere le analisi "kautskiane" e "revisioniste" della CCI, abbiamo ascoltato dalla bocca di quelli che il BIPR chiama i vecchi "dirigenti della vecchia guardia della CCI" (sic!) degli "argomenti" che rasentano il cretinismo. Abbiamo appreso, tra altre "perle" della FICCI, che:
- "La guerra in Iraq rappresenta un guadagno economico maledettamente importante per gli Stati Uniti!"
- Nel pantano iracheno, "l'esercito americano si rinforza" !
- "Prima di comprendere la questione della guerra, il proletariato deve subirla e deve soffrire sulla sua pelle”! Nessun commento.
Pubblichiamo una sintesi della riunione pubblica che la CCI ha potuto tenere a Buenos Aires nell'agosto 2004 grazie al NCI (Nucleo di Comunisti Internazionalisti) d'Argentina di cui abbiamo pubblicato parecchi contributi nella nostra stampa. Malgrado le loro deboli forze e le condizioni estremamente difficili in cui si trovano, questi compagni si sono implicati attivamente nel dibattito per difendere le posizioni di base del campo proletario.
Il 27 agosto la CCI ha tenuto una riunione pubblica a Buenos Aires sul tema della decadenza del capitalismo. Parecchi partecipanti hanno affermato di essere stati piacevolmente sorpresi dalla discussione, viva ed animata, con la partecipazione attiva dei presenti. Hanno visto che questa riunione si trovava agli antipodi di quelle dei gruppi della sinistra o dell'estrema sinistra del capitale in cui un oratore o parecchi oratori a turno scaricano discorsi interminabili che stancano le persone lasciandole demoralizzate. Al contrario, la riunione pubblica della CCI ha dimostrato di essere un luogo dove si può discutere ed opporre argomentazioni diverse con lo scopo della chiarificazione politica che è un'arma della classe operaia. Perché è solo attraverso il fuoco del dibattito che può scaturire la scintilla della chiarezza.
La decadenza del capitalismo minaccia la sopravvivenza dell'umanità
La presentazione ha evidenziato le seguenti questioni: come spiegare le due guerre mondiali, le interminabili guerre regionali e le guerre del caos attuale corredato di un terrorismo cieco e barbaro? Come spiegare la degradazione inesorabile delle condizioni di vita di tutti gli operai del mondo, ivi compreso i "privilegiati" della Germania, della Francia, degli Stati Uniti, ecc.? Come spiegare l'aumento della fame nel mondo, le epidemie e le malattie più spaventose? Come spiegare lo sfaldamento crescente delle relazioni sociali che genera l'insicurezza, il degrado morale, il dilagare delle droghe, la fuga nell'irrazionale, la barbarie più abietta? Come spiegare la minaccia crescente delle enormi catastrofi ecologiche?
La borghesia, in tutte le sue varianti, ci offre ogni sorta di false spiegazioni: ci sarebbe una crisi di ristrutturazione del capitalismo; un capitalismo "riformato" con un intervento dello Stato in grado di corregge le sue tendenze più negative permettere un "altro mondo" possibile, ecc. Di fronte a ciò, la spiegazione data dalla CCI ha messo in evidenza che il capitalismo è un sistema sociale decadente che, dalla Prima Guerra mondiale, si è trasformato in un ostacolo per lo sviluppo dell'umanità. Il proseguire della sua sopravvivenza porta con esso la minaccia di distruzione della specie umana. Come diceva l'Internazionale Comunista al suo primo congresso (marzo 1919): "Il periodo attuale è quello della decomposizione e del crollo di tutto il sistema capitalista mondiale ed sarà quello del crollo della civiltà europea se non si distrugge il capitalismo insieme alle sue insolubili contraddizioni " ([1]).
La classe operaia è l'unica classe sociale capace di distruggere il capitalismo
Questa presentazione, che si è limitata a venti minuti per lasciare il massimo tempo alla discussione, non è stata messa apertamente in questione da nessuno dei partecipanti. La discussione si è incentrata su due questioni:
- Chi può distruggere il capitalismo?
- Che cosa sono veramente la rivoluzione proletaria ed il comunismo?
In generale i partecipanti hanno espresso il loro accordo col fatto che il proletariato è la classe rivoluzionaria che ha nelle proprie mani la lotta per la distruzione del capitalismo. Tuttavia sono stati sollevati dei dubbi, che la discussione ha poi permesso di dissipare:
- il proletariato di oggi è forse completamente differente da quello della fine del diciannovesimo secolo e dell'inizio del ventesimo secolo ed è capace di comprendere la possibilità e la necessità di distruggere il capitalismo visto la sua supposta maggiore "integrazione" alla società capitalista?
- Con la chiusura crescente delle fabbriche, e per il fatto che numerosi operai sono oggi disoccupati, il proletariato non ha perso le sue armi classiche di lotta e, tra le altre, l'arma dello sciopero?
Sebbene non possiamo qui riportare per esteso le risposte date nel corso della riunione pubblica, vogliamo ricordare che dalla discussione è emerso con chiarezza che il proletariato:
- continua ad essere il produttore collettivo delle principali ricchezze della società capitalista la quale non potrebbe esistere senza lo sfruttamento della classe operaia;
- ha come armi principali la sua unità, la sua coscienza e la sua capacità ad organizzarsi massicciamente. È da queste armi che dipende quella dallo sciopero.
Nella discussione si è affrontata anche un’altra questione basilare e cioè che il comunismo non ha mai avuto niente a che vedere con il capitalismo di Stato dell'ex-URSS, di Cuba o della Cina. Rivendicandosi all’"analisi marxista", due partecipanti hanno difeso, il preteso carattere "socialista" (o "come un passo verso il socialismo") dei regimi dell'ex-URSS, della Corea del Nord, di Cuba ecc, affermando che in questi paesi ci sono state delle "rivoluzioni socialiste". Altri compagni hanno risposto loro in modo molto netto con i seguenti argomenti:
- il "socialismo in un solo paese" è un tradimento del proletariato. La sua rivoluzione sarà mondiale o non sarà. Il comunismo non potrà cominciare ad essere costruito che a partire dalla distruzione del capitalismo in tutti i paesi;
- in Russia, in Cina, nella Corea del Nord, ecc., ciò che ha regnato e regna tuttora è solo una forma particolare di capitalismo di Stato, cioè di una tendenza generale che domina tutto il capitalismo mondiale e che si impone sotto diverse forme in tutti i paesi: negli Stati Uniti per esempio, prende la forma "liberale" di una fusione tra la classica borghesia privata e gli interventi molto forti dello Stato in tutti i campi della vita economica, sociale, militare, ecc.;
- la sola rivoluzione proletaria che abbia avuto luogo nel ventesimo secolo, è la rivoluzione russa del ’17 con l'ondata rivoluzionaria che ne è seguita in altri paesi e si è propagata fino in Argentina (la Settimana Tragica). È la sconfitta del proletariato in questi paesi - e principalmente in Germania - che ha posto il bastione proletario in Russia in un tragico isolamento ed in un processo di degenerazione che ha aperto la porta alla controrivoluzione stalinista;
- questa controrivoluzione si è imposta nel nome del "comunismo", della "dittatura del proletariato" e del partito bolscevico che era stato all'avanguardia della rivoluzione. La menzogna del "comunismo" in Russia ha fatto molti danni sulle generazioni proletarie successive. Questi danni hanno provocato una perdita di fiducia di queste nuove generazioni nelle proprie forze ed un dubbio sulla prospettiva comunista.
Per mancanza di tempo la discussione si è dovuta fermare e parecchi partecipanti hanno manifestato la necessità di proseguire il dibattito. In particolare, uno di essi ha proposto di mettere in discussione l’argomento della dittatura del proletariato e come lottare oggi per realizzarla. È stato convenuto anche che una sintesi di questa riunione fosse pubblicata su Internet per permettere il proseguimento della discussione attraverso tale mezzo.
Da Accion Proletaria n° 178, pubblicazione della CCI in Spagna
[1] "Lettera di invito al Partito Comunista tedesco" al primo congresso dell'IC.
Ormai tutti sanno che dire legge Finanziaria e dire stangata è la stessa cosa. E quella 2005 di Berlusconi non smentisce questa convinzione. Dietro la cortina di fumo della riduzione dell’IRPEF, che è irrisoria e tutta a favore dei redditi medio-alti, c’è tutta una serie di aumenti di tasse e bolli (che superano le riduzioni dell’IRPEF) e di tagli di spesa che significheranno servizi sociali sempre peggiori, possibili aumenti di tasse comunali e regionali, e il sicuro licenziamento di decine di migliaia di lavoratori del pubblico impiego mascherato sotto la forma del blocco del turn over o della mancata conferma dei lavoratori precari (in particolare nella scuola).
L’opposizione di sinistra subito strilla che è tutta colpa della natura di questo governo, un governo di destra poco sensibile alle ragioni dei lavoratori e per giunta guidata da uno che pensa solo ai suoi affari e non sa mettere mano all’economia.
Certo, è vero, la sinistra ha dimostrato, in otto e passa anni di governo, di saper difendere gli interessi del capitale nazionale meglio di Berlusconi e compagni, ma a quale prezzo? Sempre e soprattutto a spese dei redditi dei lavoratori, con i tagli ai servizi sociali, con la precarizzazione dei posti e dei contratti di lavoro. Se oggi la sinistra cerca di buttare tutto addosso a Berlusconi non è solo per salvare se stessa, ma, e soprattutto, per cercare di nascondere la vera ragione delle politiche di sacrifici che tutti i governi del mondo, poco importa se di destra o di sinistra, mettono in piedi ormai da anni.
In Germania, per esempio, è il governo socialdemocratico di Schroeder che in un programma di austerità battezzato “Agenda 2010” (il che è praticamente una minaccia) ha cominciato a mettere in atto una diminuzione dei rimborsi per le spese sanitarie, un aumento dei contribuiti per la cassa malattia, l’aumento dei contributi previdenziali e l’abolizione del limite d’età per il pensionamento che già oggi è di 65 anni.
Questo perché la vera ragione di tutti i piani di austerità, delle ristrutturazioni, dei licenziamenti, è la crisi storica del capitalismo, che porta questo sistema a togliere poco alla volta ai lavoratori tutte quelle poche sicurezze che con decenni di lotte e di sacrifici i lavoratori si erano conquistati: la sicurezza di un salario, di un posto di lavoro, di una pensione, di una cassa mutua, e così via.
Né ci si può illudere che prima o poi finirà: questa crisi non ha soluzione e tutti i sacrifici richiesti oggi non servono a una ripresa per domani (quanti decenni sono ormai che cercano di illuderci con questa prospettiva?), ma solo a mantenere un margine di profitto alle aziende e la sopravvivenza dello Stato borghese (nella sua funzione di capitalista collettivo e di garante della pace sociale).
La sola strada per difendersi da tutto questo è la lotta. Una lotta che lentamente sta riprendendo un po’ in tutto il mondo: in Italia, con i ferrotranvieri e gli operai di Melfi nell’inverno scorso; in Germania, dove i lavoratori del settore automobilistico hanno dato luogo a scioperi e manifestazioni contro i piani di licenziamenti e di riduzione salariali, riuscendo a instaurare manifestazioni di solidarietà tra lavoratori contro i tentativi di divisione del sindacato (1); in Spagna, dove sono gli operai dei cantieri navali che si battono contro la riduzione dei posti di lavoro.
Tutte queste lotte si svolgono ancora sotto le costrizioni dei lacci sindacali, e anche per questo non riescono ancora a superare il livello di un solo settore lavorativo (laddove la generalizzazione degli attacchi richiederebbe una risposta unita di tutti i lavoratori). Ma per poter dare una minima efficacia alle loro lotte i lavoratori saranno costretti a liberarsi di questi lacci, di questi agenti sabotatori delle lotte, che vengono sostenuti dallo Stato borghese proprio per questo scopo. E saranno le esigenze stesse della lotta, in primo luogo quello di ritrovare il senso della solidarietà e della unità di classe, che spingerà i lavoratori a riconoscere questo ruolo dei sindacati e cercare strade autonome per evitare nuove sconfitte e nuove delusioni.
Helios, 16/12/2004
1. Nel senso che i lavoratori delle fabbriche che avrebbero dovuto accogliere la produzione delle officine che venivano chiuse, si sono opposti anche essi ai piani di ristrutturazione. Tutto il contrario insomma di quanto fatto dai sindacati italiani che hanno invitato i lavoratori del settore aeronautico della Campania a sollevarsi contro l’intenzione di far costruire il prossimo modello di aereo europeo in Puglia.
Recentemente la CCI ha
inviato una delegazione in Argentina. Essa è stata accolta molto calorosamente
dai membri del NCI che ci hanno confidato che avevano un solo timore: che la
CCI cambiasse idea e che li abbandonasse rinunciando a questo viaggio!
Nel corso di questo nuovo
soggiorno i compagni del NCI hanno preso la decisione di inviare per posta
tradizionale la loro Dichiarazione del 27 ottobre (pubblicata in questo stesso
numero) a tutte le sezioni del BIPR e agli altri gruppi della Sinistra
Comunista allo scopo di ristabilire la verità: contrariamente alle false
informazioni fatte circolare dal BIPR (in particolare nella sua stampa in
italiano), il NCI non ha rotto con la
CCI!
Per due volte i membri del NCI hanno chiesto per telefono all’individuo B. di venire a spiegarsi davanti al NCI e alla delegazione della CCI. Il signor B. ha rifiutato ogni incontro e ogni discussione e ci ha riattaccato il telefono in faccia. Questo comportamento rivela tutta la doppiezza di questo individuo: preso con le mani nel sacco, adesso si nasconde come un coniglio nella sua tana!
I compagni del NCI ci hanno riportato elementi supplementari sul comportamento di questo piccolo avventuriero di provincia. Il signor B. aveva un profondo disprezzo per gli altri membri del NCI. Questi sono operai che vivono nella miseria, mentre B. esercita una libera professione e si era anche vantato di essere il solo membro del NCI a “potersi pagare il proprio viaggio in Europa”. I compagni del NCI ci hanno anche svelato i metodi di B.: egli teneva divisi i militanti del NCI facendo in maniera tale che essi non potessero mai riunirsi tutti assieme. Li tratteneva individualmente o a piccoli gruppi per tenere delle discussioni personali con essi. B. non voleva che i membri del NCI approfondissero le questioni politiche e passava velocemente da un tema all’altro. È perciò che i compagni del NCI avevano stimato che essi non erano pronti ad aderire alla CCI quando B. aveva fatto tutti gli sforzi, nello scorso agosto, per fare integrare il NCI nella CCI in maniera prematura. Infine i compagni del NCI ci hanno detto di aver preso coscienza del fatto che fino ad allora avevano avuto molte difficoltà a criticare i metodi di questo “piccolo capo” stalinista (senza dubbio a causa del peso del loro passato nelle organizzazioni gauchistes).
Questo individuo aveva anche
cercato di seminare zizzania in seno alla CCI. All’inizio di settembre ci aveva
mandato una e-mail nella quale accusava uno dei nostri compagni (che faceva
parte della delegazione che era stata in Argentina nel mese di agosto) di
avere, con i suoi comportamenti, costretto un membro del NCI a traslocare. Nel
corso di questo nostro ultimo viaggio, questo militante del NCI ci ha assicurato
che questa era una menzogna pura e semplice: se lui ha dovuto traslocare è
stato solo perché non poteva più pagare l’affitto! Abbiamo conservato una
traccia scritta di questa ripugnante menzogna del signor B.
Malgrado lo choc subito con
la scoperta delle menzogne e delle manovre messe in atto, a nome loro e a loro insaputa, da questo sinistro personaggio, i
compagni del NCI hanno espresso la loro determinazione a proseguire una
attività politica commisurata alle loro deboli forze. È grazie alla loro accoglienza
molto fraterna e al loro impegno politico che la CCI ha potuto tenere una seconda
riunione pubblica il 5 novembre a Buenos
Aires, il cui tema è stato scelto dal NCI (vedere il nostro sito in spagnolo).
Durante tutto il tempo del suo soggiorno a Buenos Aires la delegazione della CCI è stata ospitata dai compagni del NCI che ci hanno offerto calorosamente questa loro disponibilità nonostante le loro spaventose condizioni di vita. La maggioranza di loro è disoccupata, senza nessun sussidio da parte dello Stato. Un altro compagno (la cui compagna è stata licenziata) ha appena perso il suo alloggio.
Malgrado le terribili
difficoltà materiali che essi incontrano nella vita quotidiana, i membri del
NCI hanno insistito con la nostra delegazione: essi vogliono implicarsi di più
in un attività militante e in particolare continuare la discussione con la CCI.
Quelli che sono disoccupati vogliono ritrovare un lavoro non solo per poter
continuare a sopravvivere e nutrire i loro figli, ma anche per uscire dal sottosviluppo
politico in cui il signor B. li ha mantenuti.
Rompendo con il cittadino B.
e con i suoi metodi borghesi, i compagni del NCI si comportano come dei veri
militanti della classe operaia. Essi hanno tracciato delle prospettive di
lavoro con la delegazione della CCI. In prima istanza hanno deciso di formarsi
nella utilizzazione degli strumenti informatici per potersi servire di Internet
e fornirsi di un indirizzo e-mail (1).
Al momento della partenza
della nostra delegazione, i compagni del NCI ci hanno ringraziato per la nostra
visita. Ci hanno detto che non avevano mai incontrato (nel loro percorso
politico passato) una organizzazione come la CCI, con un tale rispetto dei
militanti. Hanno insistito più volte che la CCI li chiami regolarmente per
telefono.
Così, la CCI non abbandonerà il NCI. Non permetterà al signor B. (e al suo piccolo “circolo” vizioso) di esercitare il minimo ricatto, la minima pressione di qualsiasi natura per cercare di distruggere questo “piccolo nucleo” in un paese isolato. E’ perciò che su richiesta unanime di tutti i militanti del NCI la CCI continuerà ad usare la sua “metodologia” (definita “nauseabonda” dal signor B. e dai suoi complici della FICCI!) consistente nel fare loro dei colpi di telefono regolari (2).
C.C.I. (17 novembre 2004)
1. Per ogni corrispondenza e ogni sostegno finanziario al NCI, scrivere alla casella postale o all’indirizzo e-mail di Accion Proletaria, sezione della CCI in Spagna.
2. È in questi termini che nella sua “Dichiarazione” del 12 ottobre, questo mitomane manipolatore aveva sparso le sue menzogne nauseabonde attribuendo alla CCI le sue proprie turpitudini (come i suoi alleati della FICCI, che gli hanno dato il loro “benvenuto” nel loro Bollettino n.28!): “Noi facciamo questa dichiarazione in seguito a una serie di denunce effettuate dai militanti del Circolo di Comunisti Internazionalisti, e su loro richiesta, che raccontano che essi sono stati oggetto di chiamate telefoniche da parte della CCI. Tuttavia, queste chiamate telefoniche non erano innocenti. Esse avevano la subdola intenzione di distruggere il nostro piccolo nucleo (...). Su loro richiesta unanime, i compagni che la CCI ha chiamato a telefono per seminare i germi della diffidenza e della distruzione del nostro piccolo gruppo, propongono all’insieme dei membri del Circolo dei comunisti internazionalisti il rigetto totale del metodo politico della CCI che essi considerano come tipicamente stalinista” ! (Vedere ugualmente il nostro articolo su Internet: “Circolo di Comunisti Internazionalisti”: impostura o realtà?”
Come abbiamo già detto sulla nostra stampa, la vittoria dell’uno o dell’altro non costituiva la posta in gioco per la borghesia americana. Nondimeno, il fatto che il candidato su cui era caduta la sua scelta non è stato eletto a causa di una difficoltà a canalizzare questa parte dell’elettorato particolarmente permeabile ai temi più arcaici ed oscurantisti, costituisce un’espressione dell’indebolimento della potenza americana. In effetti l’empasse al quale è confrontata la leadership americana sulla scena mondiale si riflette in una certa difficoltà della borghesia americana a controllare il gioco politico.
Di fronte alla politica imperialista degli Stati Uniti che può esprimersi e svilupparsi solo in una direzione militare e guerriera, la conferma dell’equipe Bush per i prossimi quattro anni designa una evoluzione della situazione mondiale ancora più drammatica e barbara. La classe operaia non può aspettarsi niente dalle elezioni negli Stati Uniti, così come in qualsiasi altra parte del mondo. Ha invece tutto da temere dalla caduta del capitalismo nel caos e la barbarie.
Tino (18 novembre 2004).
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/economia-italiana
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/2/26/rivoluzione-proletaria
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/54/terrorismo
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/4/85/iraq
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/6/107/iraq
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/influenzati-dalla-sinistra-comunista
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/7/109/sinistra-comunista
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/imperialismo-italiano
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[17] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario
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[23] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[24] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/interventi
[25] https://it.internationalism.org/en/tag/2/28/stalinismo-il-blocco-dellest
[26] https://it.internationalism.org/en/tag/5/99/collasso-del-blocco-dellest
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[28] https://it.internationalism.org/en/tag/4/95/argentina
[29] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/internazionalisti-argentina
[30] https://it.internationalism.org/en/tag/4/87/palestina
[31] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/parassitismo
[32] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[33] https://it.internationalism.org/en/tag/4/90/stati-uniti