In Cina esplosioni e crolli di gallerie si succedono ad un ritmo spaventoso. Nello scorso mese di agosto, nella provincia di Guangdong, 101 minatori sono rimasti bloccati in una miniera allagata da milioni di metri cubi di acqua. Nello stesso momento una esplosione in una miniera della provincia di Guizhou uccideva 14 operai. Recentemente, una nuova esplosione in una miniera a nord della Cina nella provincia di Dong fend è costata la vita, di nuovo, a 134 minatori. Questo autunno, gli incidenti hanno colpito questo settore in pratica quotidianamente. Questi incidenti a ripetizione fanno delle miniere cinesi le più pericolose del mondo, ufficialmente 6000 morti all' anno, probabilmente vicino a 20.000 secondo fonti indipendenti. 45 volte più di quelle dell'Africa meridionale, e cento volte di più di quelle degli Stati Uniti. L'esempio delle miniere di carbone dimostra drammaticamente la realtà barbara che si nasconde dietro i famosi tassi di crescita del capitalismo cinese. Nelle province di Stianxi, di Hebei, del Heilongjiang ed in Mongolia interna, le risorse carbonifere sono abbondanti. Da 10 anni, il governo, per aumentare ad ogni prezzo la produzione, ha privatizzato massicciamente le miniere. Risultato, la licenza si acquista a buon prezzo da funzionari sensibili alle tangenti. In queste miniere, vi si entra e si lavora bocconi, senza attrezzatura di sicurezza. In queste condizioni di sfruttamento feroce, le catastrofi possono solamente moltiplicarsi. "Nel 2005, il numero di morti supera quello del 2004: 717 morti per i primi 6 mesi dell'anno, contro 347 dello stesso periodo l'anno scorso (Secondo il Bollettino di informazione della commissione di sicurezza di stato)" (1). I minatori in Cina conoscono molto bene tutti i rischi, ma per essi non c'è scelta. O accettare questo rischio o vedere la propria famiglia morire di fame. E per uno stipendio da fame di 1 dollaro per giorno, 7 giorni su 7, in condizioni disumane. Le condizioni di sfruttamento e di lavoro non sono migliori nelle miniere pubbliche, dove tutto è sacrificato alla redditività. I funzionari, responsabili provinciali e governativi, marci dalla corruzione, nascondono la realtà con tutti i mezzi possibili ed immaginabili. In Francia c’è la buona politica di tentare di trascinare gli operai nella difesa del servizio pubblico. La Cina dimostra che quando la possibilità lo permette il capitalismo non fa nessuna differenza tra settore pubblico e settori privati. Così, nei grandi siti carboniferi pubblici: "Bu Guishing conferma che certi funzionari locali si affrettano a chiudere gli sfruttamenti pericolosi appena hanno sentore di una visita di ispezione delle autorità provinciali. Queste ultime trovano delle macchine ancora calde, ma la miniera è svuotata del suo personale, ciò che rende ogni ispezione impossibile". (2) In Cina, si può valutare la classe operaia a 100 milioni di abitanti, senza contare "gli operai contadini", con una precarizzazione che non smette di accelerarsi ed un tasso di disoccupazione di più del 50%. Gli operai licenziati vengono chiamati i xiapangs (scesi dal posto). Le condizioni di vita spaventose, in cui ogni giorno la classe operaia deve rischiare la sua vita per non morire di fame, provocano, malgrado la repressione, esplosioni di collera spesso violente. "Quasi ogni giorno, proteste, scioperi operai o agitazioni contadine di ampiezza più o meno grande, hanno luogo in Cina. Ween Tiejun, uno specialista delle questioni sociali, le valuta in 60.000 all'anno". (1)
Il disprezzo della borghesia per la vita dei proletari"Avviso alla popolazione di Harbin: in risposta ai timori dell'inquinamento del fiume Song in seguito ad un'esplosione verificatasi in una fabbrica chimica della città di Jilin, l'ufficio dell'ambiente naturale di Jilin ha dichiarato che nessuna traccia di inquinamento era ancora stata scoperta". (2). Come tutte le borghesie del mondo, la borghesia cinese pratica la menzogna sfrontata in materia di informazione, nel disprezzo totale della vita umana. La catastrofe è stata riconosciuta solamente il 22 novembre, mentre questa ha avuto luogo effettivamente il 13 novembre. Le prime dichiarazioni delle autorità per giustificare i tagli all’erogazione di acqua, parlano di "manovre di manutenzione”. Harbin è un'agglomerazione di 9 milioni di abitanti, situata sul corso inferiore del Song hua, da cui questa importante città attinge da centinaia di anni l'acqua necessaria alla popolazione. L'inquinamento di benzene, prodotto estremamente pericoloso per la vita umana, ha colpito tutto il corso superiore del fiume, la strato di inquinamento si estende su più di 80 km. Ma peggio ancora, l'inquinamento del corso superiore del Song hua va a causare obbligatoriamente un disastro umano in tutte le città e distretti situati a valle, come Harbin, ma anche Mulan, Tonghe e Jiamusi.
A fine novembre, una nuova esplosione chimica colpiva il sud-ovest del paese, senza che fino ad oggi nessuna notizia affidabile sia uscita dalla Cina. E' così che possiamo leggere su Libération del 28 novembre: "Le vittime delle miniere di Dong feng, come i danni ambientali, ancora difficili da valutare nell'opacità generale della catastrofe di Jalin, si aggiungono ad un elenco che si allunga quotidianamente".
La necessaria solidarietà di classe con gli operai in CinaQuesta successione di catastrofi in Cina rivela agli occhi del proletariato del mondo intero la realtà del "miracolo economico cinese". I tassi di crescita vicini al 10% nascondono lo sfruttamento feroce degli operai in questo paese, così come il disprezzo totale per la vita umana da parte della borghesia cinese, ad immagine della borghesia di tutti i paesi del mondo. La Cina è un mastodonte economico costruito su della sabbia che si sviluppa succhiando per il momento, come un vampiro, il sangue del proletariato e distruggendo in modo accelerato le risorse e l'ambiente naturale. Di fronte alla miseria ed ai pericoli ai quali espone il suo proletariato, le esplosioni di collera, spesso represse molto violentemente, possono solo moltiplicarsi in futuro. "Proprio il 26 giugno 2005, 10.000 persone che sfilano nelle vie di Cizhou, provincia di Anhui, danno fuoco alle automobili della polizia e al commissariato. Il fatto è stato provocato da un semplice scontro con uno di questi nuovi ricchi che conta la Cina di oggi che ha investito un liceale. L'incidente si è trasformato in sommossa quando la polizia si è schierata dalla parte del conducente". (1).
Gli operai di tutti i paesi, anche loro sfruttati dalla propria borghesia, devono sentirsi solidali con i loro fratelli di classe in Cina. La borghesia dei paesi più evoluti versa continuamente lacrime di coccodrillo sulla sorte degli operai cinesi. In realtà quest'ultima utilizza al massimo il fatto che gli operai in questo paese sono costretti, per sopravvivere, a lavorare in condizioni particolarmente dure, permettendo uno sfruttamento feroce per installare delle imprese a redditività massima. Inoltre si serve di questo sfruttamento feroce per giustificare in paesi come la Francia o l’Italia la necessità di accettare abbassamenti di stipendio crescenti per evitare le delocalizzazioni, tentando così di aizzare ipocritamente una parte del proletariato contro un'altra. In verità sola la classe operaia, in quanto classe internazionale, difendendo dovunque i suoi stessi interessi, può sentire nella sua carne le condizioni di vita degradata che subiscono gli operai in Cina. In questo paese, malgrado tutta la volontà di battersi, la classe operaia è immersa in una marea umana di popolazione senza lavoro che subisce la repressione violenta dell'apparato di Stato cinese. Tocca agli operai dall'Europa attraverso lo sviluppo della loro lotta di classe di offrire una prospettiva al proletariato in Cina; è la sola via di fronte a questo avvenire capitalista fatto di catastrofi e di barbarie.
Tony
1." Cina, il rovescio della potenza", di Cai Chongguo.
2. Courrier International : La fortuna è fuori dai pozzi
I moti in Francia nella lettura dei gruppi politici proletari
Con questo articolo torniamo ancora una volta sui moti in Francia che si sono sviluppati tra la fine di ottobre e il mese di novembre 2005 perché, oltre a esprimere il nostro punto di vista sugli avvenimenti (1), ci preme intervenire criticamente nei confronti di alcune analisi sbagliate che, seppure espresse in buona fede, finiscono per seminare confusione tra le giovani generazioni alla ricerca di una chiarezza politica. A tale proposito siamo già intervenuti nei confronti del BIPR per mettere in evidenza la doppiezza del suo intervento, che si è espressa con il fatto che tale organizzazione ha presentato due analisi del tutto diverse nei due paesi principali in cui è presente, l’Italia e l’Inghilterra (2). Con il presente articolo torniamo dunque sull’argomento per mostrare le debolezze che si sono mostrate nell’analisi di questi moti, debolezze che si sono propagate fin dentro lo stesso campo politico proletario. Come abbiamo detto durante gli scontri, “gli atti di violenza ed i saccheggi che vengono commessi, notte dopo notte, nei quartieri poveri, non hanno niente a che vedere, né da vicino né da lontano con una lotta della classe operaia (…) Quello che sta avvenendo in questo momento in Francia non ha niente a che vedere con la violenza proletaria contro la classe sfruttatrice: le principali vittime delle violenze attuali sono gli operai. E, al di là di quelli che subiscono direttamente le conseguenze dei danni provocati, è l’insieme della classe operaia del paese che è toccata: la campagna mediatica intorno agli avvenimenti attuali maschera di fatto tutti gli attacchi che la borghesia scatena in questo momento anche contro i proletari, così come le lotte che questi cercano di condurre per farvi fronte.”
La stragrande maggioranza dei gruppi proletari (3), nonostante la pretesa di richiamarsi alla tradizione del marxismo, hanno teso a salutare queste lotte arrivando talvolta a riconoscerle come autentiche espressioni della lotta di classe:
“Il giovane proletariato delle banlieue (…) ha reagito d’impulso con una potente scarica di violenza che da anni tiene in corpo e che è diventata incontenibile. (…) Viva il proletariato delle periferie che si rivolta contro la disperazione e la degenerazione in cui lo costringe a vivere questa società opulenta!” (Il Comunista n° 97-98, novembre 2005).
“Per noi, dunque, quei moti erano (…) una prima, importante rottura della pace sociale in un’Europa da lungo tempo immersa in un sonno interclassista e riformista. (…) I comunisti devono affermare con forza che i ribelli delle banlieue sono proletari, contro tutte le manovre in atto volte a presentarli semplicemente come "immigrati" o come appartenenti a questo o quel gruppo etnico o nazionale o religioso.” (Programma Comunista n. 1, gennaio-febbraio 2006) (4).
“Storcano pure il naso i benpensanti di destra e sinistra, ma questo è il "nuovo" proletariato senza riserve, precario, sottopagato, schiavizzato, che sa di non poter "rivendicare" un lavoro che non c'è. (n+1 newsletter n° 85, 20 novembre 2005).
“Siamo dinnanzi ad un fatto epocale. (…) Questa è la nostra classe che sta reagendo alle sue spaventose condizioni di esistenza e lo fa con gli strumenti che ha a disposizione... benzina, bande giovanili, scontri notturni.” (militante di BC sul forum).
Bisogna pur dire che un po’ tutti quanti questi gruppi, chi più chi meno, hanno messo avanti i limiti soggettivi del movimento. Ma quello che certamente costituisce il minimo comune denominatore di tutte le prese di posizione è l’affermazione del bisogno del partito inteso come strumento taumaturgico capace di trasformare le rivolte in rivoluzione, come ad esempio fa Programma Comunista nel suo ultimo numero: “Manca in tutto ciò – ed è la mancanza più drammatica – il partito rivoluzionario: vale a dire ‘quell’organo e strumento che solo è in grado (…) di recepire la spinta che viene dal basso, di raccogliere l’energia rabbiosa che si sprigiona dal profondo di una società marcia e putrescente, e di dirigerla contro la vera cittadella del potere capitalistico, lo Stato(…)”.
In effetti, come abbiamo già riportato nel nostro precedente articolo di polemica con il BIPR (v. nota 2), Lenin si guardava bene dal terminare ognuno dei suoi articoli con la frase “ci vuole il partito”. Questo mettere avanti a ogni spron battuto la questione del partito non solo è, da parte di chi lo fa, uno sterile esercizio retorico, ma per di più risulta essere del tutto controproducente ai fini della presa di coscienza da parte della classe operaia. C’è infatti da interrogarsi sull’effetto che ciò può avere su degli operai che cominciano a porsi delle questioni e che a un certo punto si trovano tra le mani un volantino o un articolo in cui si dice “ci vuole il partito, noi siamo il partito”, allorché il presunto partito brilla per la sua inconsistenza (per non dire per le sue contraddittorie prese di posizione). Anche per degli operai che potrebbero avvicinarsi alle posizioni della Sinistra comunista, questa insistenza esclusiva su “ci vuole il partito” - senza spiegare chiaramente che IL PARTITO non cadrà dal cielo ma che è esso stesso prodotto e fattore attivo della ripresa della lotta di classe e che, anche prima dell’apparizione del PARTITO con la P maiuscola, la classe operaia deve sviluppare le sue lotte, la sua coscienza, tentando di evitare le trappole che le tende la borghesia - non può che avere un ruolo demoralizzante e sviluppare tra di loro un sentimento di paralisi.
Di fatto questo ricorso ossessivo alla frase “ci vuole il partito” esprime la megalomania di tutti questi gruppi ognuno dei quali, ritenendosi solo al mondo, si sente il messia che salverà l’umanità. Fondamentalmente questa megalomania è il risultato della loro impotenza che, secondo un famoso detto, porta a parlare di vodka quando la vodka non c’è. E questa megalomania, (alla pari del loro settarismo) - che molti lavoratori che cominciano a svegliarsi alla politica non possono non constatare - costituisce un potente fattore non certo d’incitazione di questi operai ad andare più avanti nello studio delle posizioni della Sinistra comunista, ma di scetticismo verso queste posizioni.
Purtroppo, in aggiunta a quanto abbiamo già detto, c’è stato chi, facendo leva sullo scenario di disoccupazione che grava oggigiorno sulla classe operaia, è arrivato a ipotizzare non solo una mutazione della composizione della classe operaia, ma finanche una “conseguente” mutazione dei suoi metodi di lotta, identificando proprio nelle violenze dei rivoltosi delle banlieue francesi una possibile forma dell’attuale nuovo modo di lottare della classe operaia:
“La crisi del capitalismo e le risposte date dalla borghesia in questi ultimi decenni hanno prodotto un cambiamento significativo nella composizione del proletariato.” (Battaglia Comunista)
“Perciò oggi cade completamente la separazione netta tra l'operaio e il diseredato precario, il proletariato s'è diffuso, è aumentata la massa dei senza-riserve nella quale è precipitato anche l'ex salariato con posto fisso garantito. Chi voleva il movimento reale, eclatante, incendiario, è servito. (…) I “teppisti" di Francia e del mondo stanno impartendo lezioni di "marxismo oggettivo", senza rivendicazioni e senza interlocutori” (n+1 newsletter n° 84, 7 novembre 2005).
“Il cambiamento nella composizione del proletariato si riflette inevitabilmente nelle modalità in cui si manifesta lo scontro di classe. Chi si aspetta che il conflitto sociale debba avvenire sempre e solo negli stessi termini di trenta o cinquanta anni fa non ha compreso fino in fondo le modificazioni intervenute all’interno del proletariato. (…) Lo schema classico in base al quale lo scontro sociale parte da una base economico-sindacale per crescere sul piano politico, per le nuove generazioni di proletari precari ed esclusi dal mondo del lavoro non è più del tutto vero, poiché il conflitto sociale si manifesta potenzialmente su un terreno immediatamente politico, ma affinché ciò accada, e l’esperienza francese sta lì proprio a rimarcarlo, occorre la presenza del partito rivoluzionario.” (Battaglia Comunista)
Per capire i moti in Francia bisogna tornare al marxismo
Questi passaggi ci mostrano che ci troviamo di fronte ad un allontanamento significativo dal marxismo in materia di classe operaia e di lotta di classe. Perciò non possiamo che ritornare al marxismo e al suo metodo scientifico per rimettere il problema sui suoi piedi e cercare di risolverlo. Ciò è tanto più importante nella misura in cui, con l’approfondirsi della crisi, strati non sfruttatori ma anche non proletari saranno sempre più ridotti alla miseria assieme alla classe operaia e la loro rivolta, se non integrata all’interno dell’azione della classe operaia, potrà presentarsi come una falsa alternativa al sistema, come è accaduto per le banlieue francesi o le lotte in Argentina del 2001, e costituire una trappola per le lotte future.
La natura rivoluzionaria della classe operaia non è dovuta semplicemente alle sue condizioni di indigenza, al fatto di essere povera né al fatto di essere sfruttata. Di poveri e di sfruttati nella storia dell’umanità ce ne sono stati parecchi, come gli schiavi dell’epoca romana e greca, i servitori della gleba dell’epoca feudale, e questi poveri e sfruttati della storia, al di là del carattere eroico di rivolte a cui a volte hanno dato luogo, come quella di Spartaco contro l’impero romano decadente o quella dei contadini contro il feudalesimo nel 1381 in Inghilterra, non hanno mai spostato di un centimetro il corso della storia. Il carattere rivoluzionario della classe operaia dipende invece dalla collocazione che questa ha all’interno del sistema capitalista, di cui è il motore. Infatti la classe operaia è la principale produttrice di ricchezza in una società che non è più una società di penuria ma una società di sovrabbondanza. E’ dunque dal ruolo obiettivo che ha all’interno di questa società e dalla consapevolezza del fallimento dell’attuale modo di produzione che il proletariato può derivare non solo la sua forza contrattuale nei confronti della borghesia per le sue lotte rivendicative, ma soprattutto maturare la consapevolezza della possibilità e della necessità del rovesciamento rivoluzionario di questa società.
“La classe operaia è rivoluzionaria nel vero senso del termine perché i suoi interessi corrispondono a un modo di produzione sociale completamente nuovo. Essa ha un interesse oggettivo a riorientare la produzione senza sfruttamento del suo lavoro e per la soddisfazione dei bisogni dell’umanità in una società comunista. Essa ha inoltre tra le mani, anche se non dal punto di vista legale, i mezzi di produzione di massa che possono permettere la realizzazione di questa società. L’interdipendenza già completa di questi mezzi di produzione a livello mondiale significa che la classe operaia è già una classe veramente internazionale, senza alcun interesse in conflitto o in concorrenza, laddove tutti gli altri strati e classi della società, che soffrono nel capitalismo, sono inesorabilmente divisi.” (5)
Questo legame stretto tra il carattere rivoluzionario della classe e la sua collocazione specifica all’interno della società capitalista significa ancora che, se settori di classe vengono sradicati dal loro contesto sociale, questi possono smarrire il loro carattere rivoluzionario. Il che significa che i giovani delle periferie, benché figli di proletari più o meno inseriti nella produzione, nella misura in cui sono collocati in una situazione sociale degradata e non essendo mai entrati nel ciclo produttivo, possono finire per avvertire, piuttosto che la loro identità di classe, le spinte irrazionali di una società allo sfascio.
Per cui se è vero che questi giovani rivoltosi francesi sono anche figli di proletari, dobbiamo riconoscere che il loro è solo uno sfogo di rabbia con un metodo di lotta che non ha niente a che vedere con quello del proletariato perché c’è un uso della violenza in sé, senza alcun obiettivo da raggiungere, mentre la lotta proletaria si pone sempre un obiettivo.
La classe infatti non è una moltitudine amorfa davanti alla quale basta mettere il condottiero capace di guidarla per fare la rivoluzione. Esaltare questi avvenimenti come lotta di classe dimostra solo una grande sfiducia nella classe operaia, proprio perché si presuppone che questa possa solo arrivare ad esprimere episodi di intolleranza violenta che poi il partito miracolosamente sarebbe in grado di trasformare in processo rivoluzionario.
Eppure in altri posti, ivi compresa la stessa Francia (Marsiglia), proprio in questi ultimi mesi la classe operaia sta dimostrando di essere capace di riprendere la via della lotta, di riannodarsi alle sue esperienze precedenti, come la comprensione che non è la propria fabbrica o il proprio settore che subisce la crisi ma tutta l’economia, o ancora di esprimere atti concreti di solidarietà, come è accaduto in:
- Argentina, dove c’è stata una ricerca attiva tra vari settori di proletari per lottare assieme;
- Inghilterra, con lo sciopero degli addetti all’aeroporto di Heatrow, sviluppatosi dopo solo qualche settimana dagli attentati di Londra del 7 luglio e quando la borghesia tentava di rilanciare l’unione nazionale attraverso la campagna antiterrorista, dove un migliaio di lavoratori dell’aeroporto si sono messi in sciopero spontaneamente per solidarietà con i 670 operai dell’impresa americana di ristorazione Gate Gourmet, la gran parte dei quale di origine indo-pakistana;
- Spagna, dove il 23 dicembre, negli stabilimenti automobilistici della SEAT di Barcellona, gli operai del turno di mattina e del pomeriggio si sono spontaneamente messi in sciopero in solidarietà con 660 compagni di lavoro a cui la direzione aveva spedito quel giorno stesso una lettera di licenziamento;
- USA, dove lo sciopero dei 33700 lavoratori del metrò ha paralizzato la città di New York per tre giorni durante la settimana di Natale, esprimendo così la lotta operaia più significativa degli ultimi 15 anni negli Stati Uniti nella misura in cui i lavoratori si sono messi in lotta in solidarietà per le nuove generazioni di lavoratori, per quelli che addirittura devono ancora essere assunti. (6)
La prospettiva della lotta di classe
La gran parte dei gruppi che pretende di appartenere alla sinistra comunista, lungi dal fare riferimento al comune patrimonio storico, si perde dietro le chimere che la borghesia si incarica di gonfiare a dismisura, come le lotte disperate delle periferie francesi o le lotte interclassiste di Val di Susa o contro l’inceneritore ad Acerra. In realtà, come abbiamo già detto, “i rivoluzionari attribuiscono una grandissima attenzione ad ogni forma di rivolta sociale, qualunque ne siano i protagonisti o le prospettive. Allo stesso modo il proletariato, e noi al suo interno, non siamo «indifferenti» alle condizioni di vita abominevoli (fame, oppressione, repressione, ecc.) di cui sono vittime dei settori considerevoli della società non appartenenti al proletariato. Ma accordare un’attenzione non vuole dire considerare tutte queste manifestazioni di violenza sociale come lotte del proletariato o che queste manifestazioni abbiano una qualunque potenzialità di mettere in discussione lo sfruttamento capitalista.” (vedi nota 2).
Non è partendo dai moti di strati disperati che si può rimettere in piedi una dinamica di classe. E’ viceversa a partire dalle lotte autentiche della classe operaia, come quelle che abbiamo citato sopra, che strati marginali del proletariato, settori sottoproletari, strati genericamente non proletari e non sfruttatori, piuttosto che lasciarsi andare ad una violenza senza domani, possono essere gradualmente integrati nelle lotte del proletariato. E in questo, il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria è assolutamente insostituibile nell’indicare e difendere senza cedimenti i metodi di lotta propri dell’unica classe sociale che può distruggere il capitalismo e costruire una società comunista.
2 febbraio 2006 Ezechiele
1. Vedi il nostro volantino pubblicato sul sito web dal titolo “Tumulti nelle periferie francesi: Di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire” e l’articolo pubblicato sul giornale n. 143 “La borghesia utilizza gli scontri nelle periferie contro la classe operaia”.
2. Vedi l’articolo pubblicato sul nostro sito web: “Gli avvenimenti delle periferie francesi mettono a dura prova la vocazione del BIPR ad essere ‘partito’”.
3. Qualche eccezione per fortuna c’è: “Certo spontanea, ma è una manodopera a disposizione di qualunque partito. (…) I giovani declassati delle banlieue, quando anche la morte diventa un gioco, vogliono distruggere tutto e tutti. Se stessi per primi. Non hanno nulla da perdere. Ma neppure nulla da guadagnare. Al contrario la disciplinata rivolta della classe operaia, che dovrà scoppiare, illuminata dal partito di classe, che saprà dove davvero colpire e cosa è necessario distruggere, ha un mondo intero da conquistare, e sa di averlo.” (Il Partito, n.°314, ott-nov 2005). Il fatto che dei bordighisti siano capaci di fare delle analisi giuste, malgrado la presenza di posizioni completamente errate, come quella sul sindacato, dimostra che si può ancora sperare che questi compagni possano un giorno aprire gli occhi e spiega perché noi ci rivolgiamo a loro come dei militanti della nostra classe.
4. Da notare che Programma Comunista, in questo stesso articolo, oltre a fare una denuncia dell’“opportunismo” dei vari Lutte Ouvriere, Scalzone, Negri, ecc., ha la pretesa di criticare anche i vari gruppi di sinistra comunista tra cui la CCI. Peccato però che, a questo punto, Programma si limiti a citare dei brevi passaggi di articoli senza neanche dire il nome del gruppo e senza sviluppare alcun commento, a parte la battuta di chiusura: “parole tutte in libertà”. Per quanto ci riguarda possiamo dire che se Programma avrà la capacità politica di esprimere una critica alle nostre posizioni politiche, saremo ben lieti di prenderla in considerazione.
5. “Moti sociali: Argentina 2001, Francia 2005, solo la lotta di classe del proletariato prospetta un avvenire.” Rivista Internazionale (versione in inglese, francese, spagnolo) n. 124.
6. Scarica gli articoli relativi alle varie lotte dal nostro sito.
Le reazioni al nostro primo articolo
In seguito alla pubblicazione, nel numero scorso del giornale, del primo articolo di questa serie, abbiamo ricevuto delle lettere di simpatizzanti di Lotta Comunista (LC). Questi compagni hanno espresso il loro disaccordo con le critiche da noi sviluppate a proposito della mancanza di una visione internazionale nella concezione di Cervetto sulla costruzione del partito. Queste lettere ci hanno fatto molto piacere perché il nostro interesse non è tanto la critica in sé a Cervetto o a Lotta Comunista, ma piuttosto suscitare una riflessione ed un dibattito su una questione di estrema importanza, come quella di come lavorare per la costruzione del futuro partito mondiale. Ci soffermeremo quindi sulle questioni poste da questi lettori prima di affrontare, in un prossimo articolo, la questione della presa di coscienza, del rapporto partito/classe e dei sindacati.
Le questioni poste dai compagni sono le seguenti:
- “Le critiche rispetto al ‘nazionalismo’ presunto di LC nel rimanere in Italia mi sembrano fuori luogo: LC ha sedi in Francia e pubblica i suoi libri in tutte le lingue occidentali; i libri quindi vengono diffusi in tutti i paesi europei”;
- “A me non pare che Cervetto abbia posto limiti alla “sola” Italia. Cervetto parla dell’Italia, certo, ma perché è il paese in cui vive. Non mi pare usi un tono esclusivista nel suo ragionamento. Al contrario, mi sembra ponga un modello da cui partire (in quegli anni) per arrivare ad una dimensione mondiale. Non era quello in fondo che si proponeva il vecchio partito bolscevico russo con la fondazione della III Internazionale?”
Diciamo subito che sappiamo bene che LC ha pubblicato dei libri in altre lingue così come abbiamo incrociato suoi militanti o simpatizzanti in altri paesi d’Europa come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna ed anche alle conferenze organizzate in Russia e intitolate a Trotsky. Ma può forse questo essere sufficiente per dare una patente di internazionalismo a LC? Qualunque partito borghese tende ad avere una risonanza e dei partner a livello internazionale; d’altra parte esiste ancora addirittura una Internazionale Socialista dei vari partiti socialdemocratici del mondo. Vogliamo forse dire che questi sono partiti internazionalisti? Questo per dire che non è l’essere presenti a livello internazionale che dà ad un gruppo politico il carattere di internazionalista. Rispetto poi all’idea che “Cervetto parla dell’Italia perché è il paese in cui vive”, questo è piuttosto il retaggio acritico di una visione secondinternazionalista secondo cui in ogni paese occorre costruire un partito che risponda alle esigenze specifiche di quel paese, cosa che, come abbiamo detto nel precedente articolo, è valsa nella fase ascendente del capitalismo, anche se corroborata da una visione e da un quadro internazionale (vedi appunto la II Internazionale). Per quanto riguarda il cenno al partito bolscevico bisogna ricordare che questo nasce e si sviluppa in un periodo storico che fa da cerniera tra la fase ascendente e quella decadente del capitalismo ed è grande merito di questo partito e dello stesso Lenin aver percepito il cambiamento di fase storica che si stava operando, di capire la necessità di acquisire una nuova concezione del partito: non più partito di massa, ma partito mondiale di minoranze rivoluzionarie (III Internazionale) (1).
Ciò detto, dobbiamo riconoscere che la debolezza secondinternazionalista segnalata è importante, ma non costituisce in sé un elemento decisivo per un’organizzazione proletaria. Possiamo fare presente, tra l’altro, che lo stesso BIPR ha un’organizzazione sostanzialmente federalista nei vari paesi e predica espressamente, in completa contraddizione con l’esperienza storica, che le singole organizzazioni nazionali debbano avere il tempo di svilupparsi sui problemi locali prima di poter convergere nel partito a livello mondiale. (2)
Se dunque abbiamo concluso l’articolo precedente dicendo che quella di Cervetto è una visione borghese del partito, non è perché LC non ha militanti in altri paesi, o ne ha pochi, o perché ha iniziato la sua attività politica in Italia ma perché, al di là di un richiamo formale all’internazionalismo, il metodo utilizzato e la strada percorsa da Cervetto corrispondono ad una logica propria di un partito borghese sia a livello teorico che a livello di azione pratica sul piano organizzativo e di intervento nella classe.
Quale metodo sul piano teorico? Cervetto nei suoi scritti ha ribadito più volte che costruire il partito significa operare su due piani: elaborazione teorica ed intervento nella lotta della classe. Pienamente d’accordo. Ma cosa significa? Rispetto alla elaborazione teorica, tutta la storia del movimento operaio mostra come le differenti avanguardie abbiamo sempre teso a confrontarsi con le espressioni politiche proletarie del passato o con quelle che emergevano negli altri paesi sulle questioni centrali che si ponevano alla lotta di classe, nella consapevolezza che non si era gli unici al mondo e che queste minoranze erano l’espressione dell’eterogeneità del processo di presa di coscienza del proletariato internazionale. Da Marx a Lenin, dalla Luxemburg a Bordiga, ed anche nel peggior periodo di controrivoluzione, da Bilan ad Internationalisme (3), il metodo utilizzato è stato sempre quello di sottoporre le proprie convinzioni alla verifica dei fatti ed al confronto con le espressioni del movimento operaio internazionale e con le sue differenti esperienze, operando se necessario un’autocritica. Questo è l’unico metodo possibile per poter lavorare al raggruppamento delle forze rivoluzionarie per la costruzione del partito mondiale.
La comprensione di questo processo nella visione di Cervetto - e dunque di LC - manca totalmente. L’ottica di Cervetto (e di LC) - chiaramente espressa in “Lotte di classe e partito rivoluzionario” e nei successivi testi – non è solo un’ottica localista e chiusa nel quadro nazionale, ma anche un’ottica che, non facendo riferimento al mondo reale, alle lezioni delle sconfitte storiche del movimento rivoluzionario, finisce per essere il parto di una mente ingegnosa quanto si vuole ma pur sempre completamente soggettiva. Il risultato è che, partendo dalla presunzione di essere gli unici eredi al mondo di Marx e di Lenin, si stravolge completamente il prezioso lavoro politico di questi, deformandone i contenuti. D’altra parte, proprio per non avere alcuna conoscenza della storia del movimento operaio se non quella di un parzialissimo Lenin e per non conoscere neanche l’esistenza dei gruppi del campo proletario, molti simpatizzanti di LC tendono ad attribuire come meriti di Cervetto delle cose che lui ha mutuato malamente da altri. Un esempio per tutti: LC ha sempre sostenuto che uno dei grandi meriti di Cervetto è di aver elaborato, alla fine degli anni ’50, la teoria dell’ “imperialismo unitario” (cioè la natura imperialista della Russia) e individuato la tendenza al capitalismo di Stato. Ora, a parte il fatto che già il PCInt (4) era su queste posizioni, andando a ritroso si vede che Bilan negli anni ’30 ed Internationalisme negli anni ‘40 erano giunte ad una posizione molto chiara su queste questioni, tanto da permettere già nel ’36 a Bilan di denunciare la guerra di Spagna come una carneficina imperialista, mentre Cervetto faceva il partigiano antifascista nel secondo dopoguerra.
Quale metodo nell’attività politica? A partire da questa impostazione non è strano capire come si sia arrivati all’idea di partito teorizzata da Cervetto. Avendo la verità, o meglio la scienza in tasca e dovendo semplicemente trasmettere questa scienza agli operai, lo strumento partito inventato da Cervetto è un’organizzazione che tende a radicarsi con tutti i mezzi possibili in Italia, anche con la forza se necessario, puntando ad avere quanti più militanti è possibile, conquistando posizioni di potere nei punti nevralgici del sistema per poi diffondersi ad altri paesi per andare a illuminare della propria scienza i proletari di tutto il mondo. E per raggiungere questo obiettivo tutti i mezzi “tattici” sono buoni, l’importante è scegliere il momento giusto nel posto giusto.
Stiamo banalizzando la posizione di Cervetto? Non ci pare.
Qual è nella pratica l’attività di LC? Vediamo.
L’attività essenziale di LC è il lavoro nei sindacati e nei testi di Cervetto viene più volte indicata come priorità assoluta la propaganda specificamente indirizzata verso la base del PCI (5). L’idea è reclutare nuovi militanti all’interno di una platea che si ritiene più recettiva (nel sindacato ci sono gli operai, nel PCI gli elementi politicizzati a sinistra). Per mettere in pratica questa indicazione, LC mandava i nuovi militanti reclutati nel movimento studentesco della fine degli anni sessanta a lavorare in fabbrica, a diventare operai, con l’idea che se sei un comunista “operaio” non solo vieni ascoltato di più dai proletari, ma puoi farti eleggere rappresentante sindacale, entrare negli organi di questo e dunque acquisire una platea di ascolto più vasta. Questa politica di radicamento forzato ha spinto LC in certi momenti a concentrare il suo campo di azione a quei luoghi che le davano l’impressione di presentare condizioni più favorevoli per il reclutamento, come ad esempio nel ’66 a Genova che diventa, come proclama G. Poggi (uno dei fondatori di LC insieme a Cervetto) in un suo articolo, la “punta avanzata della ripresa del leninismo in Italia”. Quando la situazione non è più favorevole a Genova, il centro di azione diventa il movimento studentesco: dato che “Il partito rivoluzionario deve svilupparsi, …, organizzativamente utilizzando le possibilità che gli sono date”, ecco che “La crisi della scuola deve essere utilizzata leninisticamente e deve essere utilizzata ai fini della classe operaia e della sua lotta contro il sistema capitalistico ed imperialistico mondiale” e allora “le masse studentesche” diventano “per la loro natura un settore di incubazione di nuovi quadri politici, sensibili, più di altri strati, a queste crisi di transizione (ristrutturazione del settore scolastico, ndr) e suscettibili a fornire gruppi e base a nuovi movimenti politici espressi dalle nuove condizioni”. Chiaramente “I quadri provenienti dalle agitazioni studentesche ed i quadri provenienti dalle agitazioni di fabbrica si salderanno nella lotta e nel partito leninista. Se invece le agitazioni studentesche finiranno col fornire nuovi gruppi alle lotte imperialistiche, all'opportunismo riformato o ai giovani capitalismi, la lotta di costruzione del partito leninista avrà, come tante volte nella storia, ostacoli addizionali da superare. Questo è in fondo il problema dello sviluppo del partito leninista”. (le citazioni sono prese da “Tesi sulla tattica leninista nella crisi della scuola”, Cervetto, maggio 1968, nostra sottolineatura). Dunque gli studenti centro nevralgico per la lotta operaia, quando al tempo stesso i professori di scuola ed in genere i lavoratori statali e dei servizi venivano considerati parassiti vivendo del plus valore estorto alla classe operaia industriale. Qual è il metodo di lavoro di LC? Sulla ormai famosa pratica della vendita porta a porta non vale proprio la pena di soffermarsi. Quello che invece è indicativo della concezione tipicamente borghese di questo gruppo è l’atteggiamento intimidatorio e gangsteristico che LC ha sempre adottato nei confronti di chi ritiene essere un rivale sul campo. Chi ha vissuto il ’68 non può dimenticare i violenti scontri fisici tra i militanti di LC e quelli di Avanguardia Operaia o del Movimento Studentesco di Capanna (6) per il controllo del territorio, in particolare della casa dello studente a Milano. Atteggiamento che non è affatto cambiato nel tempo: basti citare che il 25 gennaio del 2004 a Genova, ad una riunione indetta dalla casa editrice Graphos e dal Circolo di Studi Politici Labriola sulla guerra in Iraq, una dozzina di militanti di LC ha impedito la tenuta della riunione con minacce, insulti ed aggressioni alle persone presenti dicendo espressamente di essere il servizio d’ordine di LC, “operai dell’Ilva”, mandati dalla direzione con l’ordine di impedire la riunione perché tra i partecipanti c’erano ex militanti di LC usciti con posizioni dissidenti (7). Gli insulti di “sporco fascista” e “neonazista” si riferivano poi al fatto che la Graphos aveva pubblicato libri di autori negazionisti (8). Queste pratiche sono tipiche dei partiti borghesi e piccolo borghesi, di destra o di sinistra che siano. Così come è insito nella natura dei partiti borghesi enunciare grandi principi e mettere poi sotto i piedi questi stessi principi quando serve per farsi spazio. L’unica differenza è che LC lo fa in nome della “tattica”: - LC dice che il parlamento, le elezioni non sono più strumenti da utilizzare per la lotta di classe, ma intanto sul referendum per l’abrogazione del divorzio nel ’74 dice alla classe che bisogna andare a votare per il NO; - dice che è contro tutti i partiti parlamentari, quelli stalinisti in testa, contro lo Stato e la democrazia e poi, negli anni ‘80, firma un comunicato stampa di condanna del terrorismo assieme al PCI, alla Democrazia Cristiana, al Partito Socialista ed altri partiti borghesi invitando “tutti i lavoratori a respingere il grave attacco portato avanti da quelle forze economiche e politiche che tendono a destabilizzare la democrazia del nostro paese”; - dice che democrazia e fascismo sono due facce del capitalismo e poi negli anni ‘70, quando l’antifascismo era il cavallo di battaglia di tutta la sinistra del capitale, pratica l’antifascismo militante, facendosi tra l’altro promotrice di una raccolta di firme per mettere fuori legge l’MSI (il vecchio partito di destra da cui ha avuto origine l’attuale AN di Fini). E ancora oggi rivendica pienamente tutto il trascorso antifascista ed il ruolo svolto nella Resistenza come partigiano dello stesso Cervetto all’interno dei GAAP (Gruppi Anarchici di Azione Proletaria). Rivendica cioè quella che è stata l’arma antioperaia più potente usata dalla borghesia e soprattutto dai partiti stalinisti, quali il PCI, nel dopoguerra per sconfiggere il proletariato trascinandolo nella difesa della faccia “democratica” del capitale contro quella “reazionaria”, come era già avvenuto nella Spagna del ’36. Dire “Viva la Resistenza operaia” (così è titolato un opuscolo di LC del ’75) significa avallare l’operato delle stesse formazioni partigiane che eliminavano - armi alla mano - i proletari che rifiutavano di schierarsi con la propria borghesia nazionale per andare a sparare contro altri proletari con una divisa diversa e le avanguardie rivoluzionarie che denunciavano la vera natura della lotta antifascista (9); significa nei fatti avallare la mistificazione democratica e perciò contribuire ad ostacolare il processo di presa di coscienza da parte della classe operaia sul fatto che non ci sono Stati, patrie da difendere; significa quindi nel concreto mettersi sotto i piedi l’internazionalismo proletario; - ultimo, ma non per importanza, Cervetto si è presentato come l’unico vero marxista e leninista, almeno da Lenin in poi, e LC rivendica pienamente questo ruolo così come tutta la traiettoria politica di Cervetto e sua. Bene! Qual è l’origine di LC? Nel 1951 Cervetto, Masini e Parodi, tutti ex partigiani provenienti dal movimento anarchico, costituiscono i GAAP come tendenza “classista” in seno al movimento anarchico, con l’idea di combattere il “nullismo” di questo sulla base di un ritorno allo studio di Marx. Nell’autunno del ’56 i GAAP costituiscono un Movimento per la Sinistra Comunista insieme ad un gruppo trotskista (Il GCR), Azione Comunista (gruppo formatosi come tendenza del PCI da Seniga, Raimondi e Fortichiari (10)) e da Battaglia Comunista (PCInternazionalista, unico gruppo veramente rivoluzionario che fortunatamente se ne distacca presto). Ben presto restano solo i GAAP e Azione Comunista, con la testata comune “Azione Comunista”, fino al ’65 quando si opera la scissione definitiva tra la frazione di Raimondi filo maoista da una parte e Lotta Comunista dall’altra. Come si vede, mentre si studiano Marx e Lenin, non si trova niente di strano a raggrupparsi con una tendenza del PCI o con un gruppo trotskista, cioè con un gruppo di una corrente politica che sostiene e difende l’imperialismo russo. Così come occorrono ben dieci anni per rompere con chi sostiene l’imperialismo cinese. E questo quando già da tempo i gruppi della Sinistra Comunista avevano chiaramente denunciato la natura imperialista di questi Stati. Rispetto poi all’anarchismo, già ampiamente criticato da Marx, e dallo stesso Lenin, e che ha dimostrato chiaramente la sua estraneità al movimento operaio nel momento in cui ha sostenuto il massacro dei proletari e la loro sconfitta nella guerra di Spagna nel ’36, l’unica critica “scientifica” che ne fa Cervetto è che esso è ormai superato: “Se l’anarchismo è rimasto tagliato fuori dalla realtà è perché è stato superato dalla storia. È inutile recriminare, studiare tutti gli aspetti del superamento” (“Strategia e tattica per un partito rivoluzionario” in L’Agitazione n.7, ottobre 1956). È quindi normale che ancora nel 2001 Lorenzo Parodi (dirigente di LC), rivendichi il fatto che nel ’49 si era “disposti a chiamarci ancora anarchici anche quando non eravamo più tali, perché dovevamo recuperare i gruppi di giovani disposti a rigettare il nullismo anarchico” (“Genova Pontedecimo 1951”, Lotta Comunista n.367, marzo 2001). Bella coerenza marxista, bel rigore leninista! Come abbiamo visto, tutta l’azione politica di LC è ispirata da una logica che mette al centro l’acquisizione di posizioni di potere sul territorio, indipendentemente dal processo di maturazione della classe operaia, anzi esattamente in contrapposizione a qualunque processo di chiarificazione. Nel prossimo articolo vedremo come questo sia legato alla maniera deformata con cui Cervetto (e LC) ha recepito il “Che fare?” di Lenin. Eva 1. Per un approfondimento su le fasi storiche del capitalismo e la relativa formazione del partito vedi l’opuscolo “La decadenza del capitalismo” e l’articolo “Sur le parti et ses rapports avec la classe” (Revue Internazionale n. 35, 4° trimestre 1983). 2. Vedi a tale proposito l’articolo: La costituzione del BIPR : un bluff opportunista, nella Rivista Internazionale n. 40 e 41 (edizione in lingua inglese, francese o spagnola). 3. Bilan, Frazione di Sinistra del PCI emigrata in Francia negli anni ’30 e Internationalisme, Sinistra Comunista Francese che negli anni ’40 continuò il lavoro di bilancio iniziato da Bilan. 4. Partito Comunista Internazionalista. 5. PCI: il vecchio partito stalinista italiano. 6. Si tratta di due formazioni politiche extraparlamentari che si svilupparono a partire dal movimento degli studenti a Milano. 7. Dal comunicato della Graphos ([email protected] [5]) del 27/01/2004 a cui, a quanto ne sappiamo, non c’è mai stata replica da parte di LC. 8. Negazionismo, o revisionismo storico è stato denominata quella corrente di pensiero, rappresentata per lo più da storici di destra, che tende a negare l’esistenza dell’olocausto degli ebrei da parte dei nazisti. 9. Vedi tra l’altro l’eliminazione fisica degli internazionalisti Atti e Acquaviva. 10. Va ricordato a tale proposito che Seniga è l’uomo di fiducia dello stalinista di ferro Secchia che, grazie a tale fiducia, se ne scappa con le casse del partito comunista italiano facendo perdere le proprie tracce… salvo poi riprendere la propria attività politica con Cervetto e compagni. Vedi a tale proposito M. Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata.
Ripresa economica? La richiesta di Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Confindustria, che venga inserita nelle prossime finanziarie una “ulteriore riduzione del costo del lavoro” rispetto a quella che gli industriali italiani hanno già ottenuto non è senza senso. «Dobbiamo riprendere il dialogo con il sindacato - ha detto Montezemolo - per affrontare i temi della flessibilità e della produttività. Togliamo tabù storici del nostro paese. Il Centro-sinistra o chi governerà deve dirci con chiarezza che tipo, che modello di relazioni industriali e di mercato del lavoro vuole» (1). Sul versante della produttività, ha aggiunto Montezemolo, tra il 2000 e il 2004, si è registrata in Italia una riduzione del 2,8 per cento, mentre l'Europa e gran parte dei paesi più industrializzati si sono mossi in netta controtendenza rispetto al nostro Paese. Stesso discorso anche per il costo del lavoro: tra il 2000 e il 2004 «è aumentato del 15,8%» a fronte di una dinamica opposta in altri paesi industrializzati e nelle economie emergenti. Come dice Montezemolo, negli altri paesi industrializzati c’è stato un grande aumento della produttività e una diminuzione del costo del lavoro. E lui non vuole essere da meno. Leggiamo sui giornali che la Ford taglia per circa 30.000 posti di lavoro, Deutsche Telekom altri 30.000 e sicuramente potremmo riempire la pagina di questo giornale con le varie richieste di tagli della forza lavoro. Il quadro dell’economia mondiale che abbiamo davanti non è quello di una ripresa dello sviluppo, cioè della possibilità di espandersi per tutti, ma di una lotta senza quartiere a chi riesce a togliere il terreno sotto ai piedi dell’avversario. Infatti la Ford, come la General Motors, deve far fronte alla concorrenza dei costruttori asiatici nel Nord America. In questo quadro dove si lotta per sopravvivere ci si può chiedere: La locomotiva Usa continua a correre?
E' vero che gli Stati Uniti “continuano a correre”, a differenza dell’Europa dove la domanda interna rimane piuttosto fiacca, e non sembrano neanche marginalmente toccati dai segni di indebolimento della congiuntura internazionale, mantenendo un passo di crescita decisamente vivace. La dinamica media annua del Pil è stimata intorno al 3,6% nel 2005, a fronte del brillante 4,2% realizzato nel 2004, con probabilità di una modesta frenata nel corso del 2006. I consumi delle famiglie continuano a fornire il principale contributo al processo di “ripresa.” Già! I consumi delle famiglie fanno correre gli Usa! E da dove prendono i soldi le famiglie? Dai loro conti in banca, dai loro risparmi, oppure dai prestiti, dai mutui che le banche offrono a tassi agevolati? La pubblicità degli ipermercati, delle catene commerciali e delle stesse banche non fa che spingere all’acquisto di ogni tipo di merce, dall’elettronica alla casa dove tutto è rateizzato, altro che “qui si fa credito solo ai novantenni accompagnati dai genitori” come era scritto sui cartelli dei negozi tempo fa. Non c’è alternativa al sistema che deve smerciare il più possibile i suoi prodotti e può farlo solo ricorrendo al finanziamento del debito sperando nel rimborso futuro. Ma “osservatori più o meno blasonati e qualificati quasi quotidianamente si pronunciano sulla crescita del mercato immobiliare e sul fatto che sia inevitabilmente destinato a crollare. Secondo alcuni, il crollo dei prezzi delle case, a livello mondiale, potrebbe essere già cominciato. Nell'ultimo rapporto dell'International Monetary Fund di Washington, preparato dall'economista Marco Terrones, è scritto che nel 2006 potrebbe verificarsi un collasso dell'economia mondiale scatenato dall'aumento dei tassi di interesse e segnalato dal crollo dei prezzi delle case in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all'Europa al Canada».(3) Quindi la locomotiva americana, oltre che avere come principale base di sostegno il consumo delle proprie famiglie e non l’esportazione, corre con la prospettiva di un collasso dell’economia mondiale, altro che nuovo sviluppo dovuto alle economie emergenti asiatiche che prima o poi faranno la fine delle tigri, dei dragoni, della Russia e dell’Argentina. “Sul fronte dei conti con l'estero, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti, attualmente intorno al 6% del Pil, non dà segni di rientro e tende anzi a peggiorare. I flussi in uscita di dollari per l'acquisto di beni prodotti all'estero sono, infatti, molto superiori a quelli in entrata per la vendita dei beni esportati (con un rapporto quasi di 2 a 1).” Le prospettive dell’Italia Il fabbisogno statale e delle amministrazioni pubbliche è in sensibile crescita, il debito pubblico è in aumento, per la prima volta dopo la fase di ininterrotta discesa in atto dalla metà degli anni 90; ciò si verifica mentre i tassi d'interesse riprendono a salire. Questo significa una inversione di tendenza difficilmente controllabile. Gli obiettivi programmatici di contenimento del deficit pubblico, far scendere il rapporto con il Pil dal 4,3% al 3,8% entro il prossimo anno, si scontrano con i dati tendenziali dell'indebitamento netto in forte crescita. Cala l'avanzo primario, sale il debito: il saldo primario di bilancio, che si ottiene sottraendo al deficit la spesa per interessi sul debito, si è pressoché azzerato nel corso del 2005, dopo un decennio di valori positivi. Questo avanzo netto, oggi esauritosi, è l'indicatore della capacità dell'Italia di ripagare nel lungo termine l'ingente debito pubblico accumulato, riducendone in primo luogo il rapporto nei confronti del Pil, stimato oggi vicino al 110% dal 106-107%, il livello minimo toccato negli scorsi due anni. Con un saldo primario negativo, in altre parole, riparte il circolo vizioso del debito, in crescita rispetto al Pil e rimborsato a scadenza con il ricorso a nuovi debiti. Al palo anche le produzioni “made in Italy”. I settori punte di diamante della produzione italiana (industria delle calzature, apparecchi elettrici e di precisione, mezzi di trasporto, industria tessile) hanno accusato pesanti flessioni. Quali alternative? In un quadro talmente degradato dell’economia mondiale, le possibilità del capitalismo di continuare ad accumulare profitti si possono trovare solo in settori che non hanno nulla a che fare con lo sviluppo economico ma che procedono di pari passo con le economie “illegali”, cioè con settori che lo stesso capitalismo deve far finta di combattere: droga, prostituzione, schiavitù e lavoro nero, tratta degli immigrati, frodi alimentari, furti. E parlando di furti non si fa riferimento a bande di periferia che scippano o a rapinatori che assaltano banche; si fa riferimento ai banchieri, cioè ai proprietari o dirigenti delle stesse banche, ai borghesi delle multinazionali che non sapendo più come sopravvivere, cioè vedere crescere le proprie ricchezze, si danno al racket organizzato, a togliere le monetine dai conti correnti dei propri clienti, un poco al mese per non dare nell’occhio, a tresche finanziarie di spostamenti di capitali da una banca ad una finanziaria o viceversa, dall’Italia alla Svizzera o a Singapore. Non è stato solo il caso della Parmalat o della Cirio dell’anno scorso o dell’Endosa americana, non è solo il caso della Banca Popolare Italiana i cui dirigenti sono stati arrestati, è invece la norma del sistema oggi. È tutto il sistema capitalista che è marcio, chi più chi meno. Non c’è settore che non venga toccato, c’è chi acquista il grano contaminato da sostanze cancerogene dal Canada, chi fa truffe telefoniche modificando il collegamento a internet, chi si prepara all’assalto del TFR e dei fondi pensione e chi più ne ha ne metta. Tornando agli arresti eccellenti di un mese fa, dei dirigenti della Banca Popolare Italiana, ex Banca Popolare di Lodi: “sotto la guida di Fiorani la banca lodigiana ha rappresentato per anni l’epicentro di evidentissimi affari illeciti (..). Fiorani è accusato di aver diretto una stabile, radicata e articolata organizzazione in Italia e all’estero dedita alla spoliazione di Bpl e di Bpi e all’occultamento dei proventi del riciclaggio”. Tra l’altro “rubavano soldi ai correntisti morti”, e davano “soldi ai politici di livello nazionale”. (La Repubblica, 14 dicembre 2005). Siamo di fronte ad una nuova tangentopoli? Nient’affatto. Il dare soldi ai politici è il modo di esistere fisiologico della borghesia, i politici non sono altro che i rappresentanti legali degli interessi globali della borghesia. Se negli Usa è la legge che consente il finanziamento dei politici mentre in Italia è vietato, questo non esprime che un diverso senso del pudore da parte delle diverse borghesie. In questo contesto, Tangentopoli non è stata il tentativo di superare questa caratteristica della vita della borghesia quanto piuttosto l’espressione di una lotta interna alla borghesia italiana che ha usato il divieto di dare mazzette ai politici per eliminare dalla scena politica dei partiti legati agli interessi degli Usa, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, quando questi non erano più utili dopo la caduta del blocco sovietico. Ciò che è accaduto negli ultimi mesi, l’inchiesta sui “bad boys” cresciuti all’ombra di Fazio, fa parte invece del tentativo della borghesia di reagire alla decomposizione del suo sistema, decomposizione che porta allo sfacelo dell’organizzazione esistente, alla scomparsa di ogni forma di legalità. Questo gruppo definito da La Repubblica “bad boys” viene accusato di preparare un golpe finanziario! (14 dic. ’05 pag. 3). Infatti oltre alla scorretta scalata di Antonveneta ha tentato anche la scalata alla Bnl e alla Rcs che detiene il controllo del Corriere della Sera. L’intervento della magistratura è servito a fermare la discesa agli inferi per una estate, sicuramente arriveranno altri “boys” a cercare lo stesso bottino, perché in tempo di crisi storica del capitalismo questo è l’unico modo per accumulare capitali: non serve produrre merci, l’importante è saper rubare.
23 gennaio ’06
Oblomov
1. Tutti i riferimenti presenti nell’articolo, se non diversamente descritto, sono presi da “Il sole 24 ore” attraverso il sito web www.nordestimpresa.com [9].
2. Montezemolo, stranamente, dà la colpa non ai lavoratori ma al settore pubblico che chiede prezzi troppo alti e fa concorrenza ai privati.
3. Riportato su www.corriere.com [10], Corriere canadese on-line. Vedi anche Rivista Internazionale n°27.
L’8marzo studenti della Sorbona hanno occupato le loro facoltà per tenere assemblee generali e discutere della loro partecipazione al movimento di protesta contro il CPE (contratto di prima occupazione) e gli ignobili attacchi portati contro i giovani lavoratori dal governo Villepin. Il rettorato di Parigi ha preteso lo sgombero dei locali considerati “monumenti storici”. Gli studenti rifiutano e sono accerchiati dalle forze dell’ordine che trasformano l’Università in una vera trappola per sorci . Gli studenti vengono trattati come topi, privati di cibo e di ogni contatto con i loro compagni delle altre università in lotta nel cuore della capitale (in particolare Censier, Jussieu, Tolbiac). Venerdì 10 marzo gli studenti delle altre facoltà decidono di recarsi in massa e PACIFICAMENTE alla Sorbona per portare la loro solidarietà e del cibo ai loro compagni affamati e presi in ostaggio su ordine del rettore dell’Accademia di Parigi e del ministero degli Interni. Una parte di loro, accompagnati dai lavoratori precari dello spettacolo in lotta, riescono ad entrare nei locali e decidono di prestare man forte ai loro compagni presenti sul posto da più di due giorni. Nella notte tra il 10 e l’11 le forze dell’”ordine”, a colpi di manganelli e di gas lacrimogeni , invadono la Sorbona. Cacciano gli studenti in lotta e ne arrestano diverse decine.
“L’ordine” dei manganelli e delle bombe lacrimogene
Gli studenti e i giovani in lotta non si fanno nessuna illusione sul ruolo delle pretese “forze dell’ordine”. Esse sono le “milizie del capitale” (come gridavano gli studenti) che difendono non gli interessi della “popolazione” ma i privilegi della classe borghese. “L’ordine repubblicano” è il “disordine” di una società che condanna alla disoccupazione, alla precarietà e alla disperazione delle masse crescenti di giovani che si arrabattano per cercare di avere una vita decente. Ciononostante alcuni di quelli che erano venuti a dare man forte ai loro compagni chiusi nella Sorbona hanno cercato di discutere con i celerini: essi non erano venuti per saccheggiare i locali, non erano venuti per “fare la pelle ai poliziotti” né per divertirsi e far festa come sostenevano i mezzi di informazione borghesi. Essi erano venuti per portare dei viveri ai loro compagni che avevano fame e portar loro un po’ di solidarietà!
Quelli che hanno cercato di discutere con i celerini non sono degli ingenui. Al contrario, essi hanno fatto prova di maturità e di coscienza. Essi sapevano che dietro i loro scudi e i loro manganelli questi uomini armati fino ai denti sono anche degli esseri umani, dei padri di famiglia i cui figli saranno essi stessi colpiti dal CPE. Ed è questo che questi studenti hanno detto ai celerini, alcuni dei quali hanno risposto che non avevano altra scelta che quella di obbedire agli ordini.
Oggi “l’ordine regna alla Sorbona” e il suo presidente, Jean Robert Pitte, ha dichiarato che questo avrebbe permesso agli studenti di “lavorare in normali condizioni da lunedì”. Gli sbarramenti di uomini armati e la prospettiva di una precarietà sempre più grande: ecco le condizioni “normali” dell’”ordine” capitalista. A quelli che vengono attaccati con misure ignobili come il CPE e che vogliono utilizzare le facoltà come luoghi di discussione e di dibattito per organizzare la loro risposta viene inviata la repressione, le bombe lacrimogene e i manganelli. Ecco il vero volto della nostra bella “democrazia repubblicana”. Ecco il vero volto del famoso “Libertà, uguaglianza, fratellanza” uscito dalla rivoluzione borghese del 1789!
Gli studenti in lotta non sono dei sovversivi!
Sulle reti televisive e sui giornali si cerca continuamente di presentare il movimento degli studenti come dei semplici scontri con la polizia, come dei tumulti.
I mezzi di informazione sono al servizio della classe dominante. Noi denunciamo la propaganda fraudolenta e menzognera delle loro manipolazioni ed intossicazioni ideologiche. Noi denunciamo il “Times” che, nella sua edizione dell’8 marzo, anche prima degli scontri alla Sorbona, titolava in prima pagina: “RIOTS…” E’ falso! Gli studenti non sono dei sovversivi (“riots”, in inglese, significa sommossa). Questa falsificazione del giornale al servizio di Tony Blair (che viene in soccorso del governo francese) non ha che un solo scopo: fare una amalgama tra la violenza cieca e disperata che ha incendiato le periferie nello scorso novembre e la LOTTA DI CLASSE dei figli della classe operaia e dei lavoratori (in particolare gli insegnanti e il personale IATOS) che si sono uniti al loro movimento. E non è un caso se al momento della manifestazione degli studenti, che si è pacificamente svolta giovedì 9 marzo sugli Champs Elysées, circolava un volantino molto losco di un “comitato per l’estensione della sommossa”. Chi ha fatto circolare questo foglio per far credere che le manifestazioni degli studenti erano teleguidate da un preteso “comitato di estensione della SOMMOSSA”? Elementi del sottoproletariato manipolati dal governo e dal suo Ministero dell’Interno, dei farabutti e altri provocatori o dei partiti politici che vogliono spingere gli studenti, pezzo dopo pezzo, a gettarsi mani e piedi legati sotto i colpi della repressione, allo scopo di salvare la sorte di Villepin e del suo CPE?
Non cediamo all’impazienza e alla demoralizzazione !
Oggi la Sorbona è di nuovo sotto il controllo delle “autorità”. Gli studenti in lotta non potranno riunirsi in questo luogo simbolo del Maggio ’68. Ma noi non siamo feticisti. Noi non abbiamo bisogno di “simboli” nella lotta, perché la nostra lotta non è “simbolica”. Essa è reale e viva! Se essi vogliono recuperare il loro “monumento storico”, che se lo tengano. Si può andare a costruire altrove un vero “monumento” che lascerà tracce nella Storia! Ci si può riunire in altre facoltà meno “chic” e piene di amianto. E se ci cacciano, si troveranno altri posti!
E se bisogna durare fino al tempo delle ciliegie, andremo a fare le nostre Assemblee generali nei giardini pubblici, all’ombra degli alberi e in mezzo ai fiori! In mezzo alle madri che verranno a portare i loro bebè a passeggio e che potranno partecipare ai dibattiti!
Come diceva un professore in sciopero in una Assemblea Generale della facoltà di Parigi - Censier: gli studenti di oggi hanno inventato qualcosa di nuovo e di molto importante. L’immaginazione creatrice che è caratteristica della classe operaia in lotta è già al potere in certe università! E’ il caso di quella di Censier dove l’assemblea studentesca del 9 marzo ha deciso di tenere Assemblee Generali comuni con il personale della Facoltà in sciopero e di aprire la Facoltà il sabato e la domenica per permettere ai lavoratori della regione parigina di venire a discutere con gli studenti le prospettive della lotta, di una lotta che è quella di tutta la classe operaia, perché è tutta la classe operaia che è attaccata. E anche se alcuni sognano di fare del 18 marzo una manifestazione di chiusura, se essi arrivano di qui ad una settimana a sabotare il movimento e a portarci alla sconfitta, noi avremo (forse) perso una battaglia, ma non avremo perso la guerra!
Ritorneremo alla carica appena le nostre forze saranno ricostituite. Perché la più grande vittoria della lotta è la lotta stessa! E’ l’esperienza dell’unità, della solidarietà. Sono le lezioni che avremo tirato che ci permetteranno di ripartire in lotta ancora più forti e più uniti!
I futuri disoccupati e i futuri precari in lotta della primavera del 2006 sono già andati più lontani dei loro predecessori, quegli “arrabbiati” che avevano costruito le barricate nel Maggio 1968 e che pensavano di partecipare ad un “conflitto contro le vecchie generazioni”, a una “rivolta contro l’autorità”. Gli anni ’60 erano ancora degli anni di illusione. Oggi, con la crisi mondiale dell’economia capitalista, con gli attacchi incessanti contro le condizioni di vita dei lavoratori, siamo entrati nell’era dei veri “anni della verità”! E come diceva il vecchio Karl, è nella pratica che l’uomo fa la prova della verità, della profondità e della potenza del pensiero!
Solidarietà con gli studenti futuri disoccupati e precari in lotta!
Abbasso la repressione contro i figli della classe operaia!
No alla dispersione delle nostre forze!
Per vincere, costruiamo un fronte compatto e unito di tutta la classe operaia!
Corrente Comunista Internazionale (11 marzo 2006)
Tutto ciò che racconta il governo del presidente argentino Kirschner sulla "fantastica ripresa " dell'economia argentina dopo il crollo del 2001, è solamente una frottola. La realtà subita quotidianamente dai lavoratori e dall'immensa maggioranza della popolazione è sempre più opprimente. Alcune cifre possono dimostrarla: la popolazione che vive sotto la soglia di povertà è passata dal 5% nel 1976 al 50% nel 2004. La carestia, limitata fin là alle province del Nord, Tucumán o Salta, dove l' 80% dei bambini soffrono di malnutrizione cronica, invade oramai le zone povere della spaventosa cintura di bidonville del sud di Buenos Aires.
È contro una tale situazione, insopportabile, che gli operai si sono rivoltati. Tra giugno ed agosto, si è assistito alla più grande ondata di scioperi da 15 anni (1). Le lotte hanno toccato ospedali come quelli di Quilmes e Moreno, imprese come Supermercados Coto, Parmalat, Tango Meat o Lapsa, la metropolitana di Buenos Aires, i lavoratori comunali di Avellaneda, Rosario e di città più importanti della provincia meridionale di Santa Cruz, i marittimi ed i pescatori a livello nazionale, gli impiegati della giustizia ovunque nel paese, gli insegnanti di cinque province, i medici del comune di Buenos Aires, gli insegnanti delle università di Buenos Aires e Cordoba... Tra queste lotte, la più notevole è quella dell'ospedale di pediatria Garrahan (Buenos Aires) per la combattività e lo spirito di solidarietà che sono state espresse.
Le lotte hanno ottenuto qua e là alcuni miglioramenti salariali effimeri, ma di fronte ad un capitalismo che sprofonda sempre più in una crisi senza uscita, la conquista principale delle lotte non si trova sul campo economico, ma sul campo politico. Le lezioni tratte da queste lotte serviranno alla preparazione di nuove che saranno inevitabili. Ne va così dell'importanza della solidarietà, dello spirito di unità che maturano presso gli operai, la comprensione di chi sono i loro veri nemici, ecc.
Il proletariato si afferma come classe in lotta
Nel 2001, c'è stata in Argentina una rivolta sociale spettacolare che fu salutata dal campo altermondialista come una situazione "rivoluzionaria." Ma questa mobilitazione si è posta chiaramente su un campo inter-classista, con spinte nazionaliste e "riforme" della società argentina che potevano solo determinare il rafforzamento del potere capitalista. In un articolo che abbiamo pubblicato nella Rivista Internazionale n. 25, abbiamo messo in rilievo il fatto che "Il proletariato in Argentina si è trovato immerso e diluito in un movimento di rivolta inter-classista. Questo movimento di protesta popolare in cui la classe operaia è stata annegata, non ha espresso la forza del proletariato ma la sua debolezza. Perciò la classe non è stata in grado di affermare né la sua autonomia politica, né la sua auto-organizzazione". (2)
Affermavamo anche che: "Il proletariato non ha bisogno di consolarsi né di aggrapparsi a illusorie chimere. Quello di cui ha bisogno, è ritrovare la strada della sua propria prospettiva rivoluzionaria, di affermarsi sulla scena sociale come la sola ed unica classe capace di offrire un avvenire all'umanità, e, sulla base di questa posizione, di trascinarsi dietro gli altri strati sociali non sfruttatori". Dicevamo che le capacità di lotta del proletariato argentino non si sono esaurite, lungi da ciò, e che queste dovevano di nuovo svilupparsi, ma che era fondamentale che "venga tratta una lezione chiara dagli avvenimenti del 2001: la rivolta inter-classista non indebolisce il potere della borghesia, ma principalmente, quello del proletariato". (2)
Oggi, quattro anni più tardi, l'ondata di scioperi in Argentina ha mostrato un proletariato combattivo che si presenta sul suo proprio terreno di classe e comincia a riconoscersi come tale, anche se ciò avviene ancora timidamente. Del resto, la stessa sinistra del capitale non cerca di negare l'evidenza. Così, la pubblicazione Lucha di Clases: Revista Marxista di Teoría y Política di luglio 2005, riconosce che "uno dei fatti più notevoli di quest'anno, è stato il ritorno attivo dei lavoratori al centro della scena politica argentina, dopo anni di indietreggiamento. Siamo davanti ad un lungo ciclo di lotte rivendicative, dove i lavoratori lottano per il miglioramento del loro stipendio e contro le condizioni degradate del lavoro, cercando di riappropriarsi delle conquiste perse nei decenni passati", aggiungendo che "nel momento in cui i lavoratori dell'industria e dei servizi cominciavano a fare sentire la loro voce altre voci osservavano il silenzio: quelle che avevano decretato la ‘fine del proletariato’".
Questa apparizione combattiva del proletariato non è un fenomeno locale dovuto alle particolarità argentine. Senza per questo negare l'influenza di fattori specifici, in particolare l'abbassamento veloce e violento del livello di vita delle grandi masse della popolazione, conseguenza di un degrado economico che si è accelerato con il crollo del 2001, questa ondata di scioperi fa parte del movimento internazionale di ripresa della lotta di classe che abbiamo segnalato dal 2003. Essa ne fa pienamente parte per le sue caratteristiche e le sue tendenze di fondo.
In un testo pubblicato recentemente (3), abbiamo messo in evidenza le caratteristiche generali di questa ripresa: lenta e difficile, non ancora concretizzatasi in lotte spettacolari, che avanza non tanto grazie ad una successione di lotte vittoriose, ma attraverso sconfitte da cui gli operai traggono le lezioni che faranno vivere delle lotte future ben più forti. Il filo conduttore che le accompagna e che contribuisce alla loro lenta maturazione è "il sentimento, ancora molto confuso ma che non può che svilupparsi nel periodo che è davanti a noi, che oggi non esiste soluzione alle contraddizioni che assillano il capitalismo sia sul piano della sua economia, sia per altre manifestazioni della sua crisi storica, come la permanenza degli scontri guerrieri, l'ascesa del caos e della barbarie di cui ogni giorno che passa dimostra un poco più chiaramente il carattere inarrestabile". All'epoca di questa ondata di scioperi, è apparso, come in altre lotte altrove nel mondo (Heathrow in Gran Bretagna, Mercedes in Germania) un'arma fondamentale per fare avanzare la lotta proletaria: l'espressione della solidarietà proletaria.
Nel Subte (metropolitana di Buenos Aires), tutto il personale si è fermato spontaneamente dopo la morte di due operai della manutenzione, causata dalla mancanza totale di misure di protezione contro gli incidenti del lavoro. I lavoratori degli ospedali della capitale federale hanno prodotto parecchie azioni di solidarietà con i loro compagni del Garrahan. Nel Sud (provincia di Santa Cruz), lo sciopero degli impiegati municipali nelle città principali ha suscitato una forte simpatia da parte di larghi strati della popolazione. A Caleta Olivia, lavoratori del petrolio, impiegati della giustizia, insegnanti, disoccupati, si sono uniti alle manifestazioni dei loro compagni impiegati municipali. A Neuquen, gli operai della salute si sono uniti spontaneamente alla manifestazione degli insegnanti in sciopero che marciavano verso la sede del governo provinciale. Repressi violentemente dalla polizia, i manifestanti sono riusciti a raggrupparsi e hanno potuto vedere come dei passanti si univano alla manifestazione criticando duramente la polizia che si ritirava ad una distanza prudente.
È anche da segnalare il modo unitario con cui è stata posta la rivendicazione salariale dai salariati dell'ospedale pediatrico Garrahan: al posto di esigere degli aumenti proporzionali che non fanno che approfondire le differenze tra le differenti categorie e spingono alla divisione ed alla concorrenza tra lavoratori, hanno lottato per un aumento uguale per tutti favorendo così i settori meno remunerati.
La risposta della borghesia
Sarebbe tuttavia stupido credere che la classe dominante sarebbe rimasta con le braccia incrociate di fronte agli sforzi del suo nemico mortale per riappropriarsi della sua identità di classe e della sua prospettiva rivoluzionaria. Essa risponde, inevitabilmente, impiegando l'arma della repressione, ma anche attaccando ampiamente la coscienza di classe degli operai.
Ecco ciò che abbiamo visto concretamente in Argentina. Il governo federale ed i governi provinciali hanno adoperato la forza poliziesca contro gli scioperanti: arresti, processi, sanzioni amministrative sono cadute numerose su molti lavoratori. Ma il grosso della risposta della borghesia si è concentrato in una manovra politica destinata ad isolare i settori più combattivi, calunniare gli operai in lotta, condurre i differenti focolai di combattimento verso il vicolo cieco e la demoralizzazione e scrivere bene nelle teste che "la lotta non paga", che la mobilitazione non porta a niente.
Perciò, lo Stato ha preso la lotta dell'ospedale Garrahan - che, come abbiamo detto, ha avuto un ruolo di primo piano nell'ondata di scioperi - come bersaglio per le sue manovre. In primo luogo, ha scatenato una campagna assordante trattando gli operai da "terroristi", presentandoli come scellerati che metterebbero avanti i loro "interessi particolari" contro la salute dei bambini curati all'ospedale. Con un’ipocrisia da vomitare, questi governanti che lasciano morire di fame migliaia di bambini, manifestano improvvisamente una "preoccupazione" per i bambini "minacciati" da questi "abominevoli" scioperanti.
Tutto ciò è stata un'evidente provocazione per isolare i lavoratori di Garrahan, completata dall'accusa assurda secondo la quale essi sarebbero manipolati da una pretesa cospirazione politica "anti-progressista" ispirata da Menem e Duhalde (4).
Ma ciò che ha indebolito di più la lotta dei lavoratori di Garrahan è stato "l'aiuto" prestato dalle organizzazioni di piqueteros (5). Queste si sono appiccicate come sanguisughe alla lotta di Garrahan (e hanno fatto la stessa cosa con gli operai di Tango Meat) nel nome della "solidarietà". E' così che gli operai di Garrahan si sono visti associati - ed il governo ed i suoi media non hanno mancato l'opportunità di farne la più grande pubblicità - ai metodi di blitz delle organizzazioni di piqueteros che, al posto di colpire la classe dominante, mirano solo a dividere gli operai e porre un freno allo sviluppo della loro solidarietà. Le organizzazioni di piqueteros, per esempio, hanno bloccato il ponte Pueyrredón, punto nevralgico della capitale, alle ore di punta, provocando degli ingorghi enormi che hanno colpito soprattutto numerosi lavoratori della periferia sud di Buenos Aires. O come è accaduto a Cañadón Seco, nel Sud, dove una quarantina di persone ha tagliato gli accessi della raffineria di Repsol-YPF senza la minima consultazione preliminare con i lavoratori della fabbrica.
La vera solidarietà non può svilupparsi che al di fuori e contro le gabbie sindacali, è una lotta comune dove si integrano nuovi settori di lavoratori, dove ci sono invii di delegazioni, manifestazioni ed assemblee generali, dove gli operai, direttamente, vivono, lottano, riflettono e comprendono insieme, ed è così che di altri oppressi e sfruttati potranno unirsi ad essi. In un tale movimento, le divisioni che dividono gli operai cominciano a sparire perché essi possono verificare concretamente che appartengono alla stessa classe, perché prendono coscienza della loro forza e della loro unità.
Questa solidarietà diretta, attiva, di massa, l'unica che dà la forza e fa avanzare la lotta proletaria, è stata sostituita da una "solidarietà" di intermediari, le organizzazioni "sociali" con i loro dirigenti in testa, passiva e minoritaria che produce l'euforia di credere che si "è sostenuti dalle masse che sono dietro queste organizzazioni". Si finisce per rendersi conto con amarezza che si è ancora più isolati e divisi di prima.
CCI, 16 settembre 2005
1. "Il mese di giugno ultimo ha conosciuto il livello più elevato dei conflitti dell'ultimo anno: 127 movimenti che hanno toccato il 80% del settore pubblico, il 13% nei servizi ed il 7% restante nei differenti rami dell'industria. Questo mese ha superato in conflitti quelli registrati in tutti gli altri mesi di giugno dal 1980. L'analisi dei conflitti del lavoro dei mesi di giugno dei ultimi 26 anni, 1980 inclusi, mostra che il mese di giugno del 2005 è più elevato". (Colectivo Nuevo Proyecto Histórico, gruppo sorto in Argentina, nel suo testo "Sindicato y necesidades radicales").
2. “Rivolte popolari in Argentina: Solo l'attestarsi del proletariato sul suo terreno può fare indietreggiare la borghesia” (Rivista Internazionale n. 25).
3. Révue Internationale n. 119: “Risoluzione sulla lotta di classe".
4. Ex presidenti argentini particolarmente impopolari.
5. Sui piqueteros, leggere "Rivolte popolari in America Latina: l'indispensabile autonomia di classe del proletariato" (Révue Internationale n. 117 e “Argentina: la mistificazione dei piqueteros”, (Révue Internationale n. 119).
L’anno 2005 era cominciato già sotto i peggiori auspici: col sentimento di orrore provocato dalle devastazioni dello tsunami nel Sud-est asiatico che aveva provocato più di 300.000 morti. Esso si conclude con una doppia minaccia ancora più pesante di conseguenze: l’inquinamento delle acque in seguito all’esplosione di una fabbrica chimica che mette a repentaglio la vita di più di 5 milioni di persone in Cina ed in Russia ed il rischio di propagazione di un nuovo flagello, l’influenza aviaria, su qualsiasi angolo del pianeta, col flusso migratorio degli uccelli nella primavera prossima.
Nel frattempo, è con lo stesso sentimento di impotenza che abbiamo assistito alle devastazioni del ciclone Katrina che ha cancellato dalla carta geografica la città di Nuova Orleans ed i suoi dintorni, poi ad un’ondata senza precedenti di uragani devastatori nel golfo del Messico, al terremoto nel Cashemir pakistano ed ad altri cataclismi similari. Queste immagini di apocalisse non sono il prodotto di una fatalità, semplici catastrofi naturali. Sono le leggi del capitalismo che le hanno trasformate in spaventose e drammatiche catastrofi sociali: è l’incuria di questo sistema che è in causa, nella sua incapacità di avvertire e di premunire dagli effetti di queste catastrofi, nella sua incapacità di proteggere le popolazioni e di soccorrerle efficacemente.
Peraltro, la concorrenza commerciale ad oltranza, la ricerca dello sfruttamento massimo e della redditività immediata, la trasgressione permanente delle norme di sicurezza più elementare, il disprezzo più totale della vita umana, provocano catastrofi sempre più omicide, come quelle aeree a ripetizione.
Ma la follia e la barbarie del capitalismo si manifestano ancora più chiaramente attraverso il carattere sempre più irrazionale delle guerre e dei conflitti sanguinosi che devastano il pianeta, per gli appetiti imperialisti di tutti gli Stati, generando sempre più caos e distruzione. Oltre all’incitamento di odi interetnici e di guerre di clan endemiche come in Africa, i focolai quotidiani di massacri in Iraq, in Libano, nel Medio Oriente, nel Caucaso, trovano un prolungamento al ricorso sistematico di attentati kamikaze e nella loro moltiplicazione come arma della guerra imperialista. Dall’11 settembre 2001, le crociate anti-terroristiche non hanno fatto che esacerbare e dar loro un’altra dimensione, suscettibile di colpire ciecamente qualsiasi angolo del globo: lo si è visto con la serie di attentati di Londra l’estate scorsa, ma anche in Indonesia, in Egitto ed in India.
Questa dominazione della barbarie su una larga parte del pianeta converge in un’accelerazione senza precedenti di attacchi contro la classe operaia nei paesi centrali del capitalismo. Questa si ritrova colpita in pieno dall’aggravamento della crisi economica. E sono le stesse misure ad essere messe in atto da tutti i governi, sia di destra che di sinistra. I proletari sono sottomessi a condizioni di sfruttamento sempre più insopportabili che si manifestano in un elevato deterioramento delle loro condizioni di vita ed un impoverimento crescente dovunque. L’aggravamento della disoccupazione, l’intensificazione dei piani di licenziamento in tutti i settori e la precarizzazione del lavoro vanno ad aggiungersi al deterioramento delle loro condizioni di lavoro, allo smantellamento della protezione sociale, all’abbassamento del loro potere di acquisto, al degrado delle loro condizioni abitative. Non solo il capitalismo getta sulla strada sempre più larghe frazioni della classe operaia ma si rivela sempre più incapace di assicurar loro i mezzi di sopravvivenza più elementare. L’ampiezza e la profondità degli attacchi della borghesia contro la classe operaia rivelano lo sprofondamento inesorabile del capitalismo nelle convulsioni della sua crisi mondiale. In quanto alla borghesia, essa dimostra che non ha più i mezzi per spostare nel tempo i suoi attacchi contro le più vitali condizioni di esistenza di quelli che sfrutta.
Il capitalismo è costretto a svelare più apertamente il suo fallimento. L’accelerazione drammatica di questa situazione sull’intero pianeta dimostra chiaramente che non solo questo sistema di sfruttamento è incapace di assicurare una migliore sorte per l’umanità ma minaccia al contrario, in modo permanente, di risucchiare il pianeta in un baratro di miseria e di barbarie. Di fronte alla gravità di una tale posta esiste una sola via d’uscita: il capovolgimento di questo sistema mediante l’unica classe che ha da perdere solo le catene del suo sfruttamento, il proletariato. La classe operaia detiene la chiave dell’avvenire. Lei sola, attraverso lo sviluppo delle sue lotte, ha i mezzi per trarre fuori l’umanità da questo vicolo cieco. È l’unica classe capace di opporsi alla perpetuazione di questo sistema di sfruttamento. È l’unica classe della storia portatrice di un’altra società il cui motore non sarebbe più il profitto e lo sfruttamento ma la soddisfazione dei bisogni umani.
W (16 dicembre 2005)
Il 23 dicembre, gli operai della SEAT, sia del turno di mattina che del pomeriggio, sono scesi spontaneamente in sciopero per solidarietà con 660 dei loro compagni a cui la compagnia aveva, quella mattina stessa, consegnato la lettera di licenziamento.
E’ stato l’inizio di una risposta ad un attentato criminale alle loro condizioni di vita. Un attentato perpetrato con premeditazione e perfidia dal Triangolo Infernale costituito dal padronato, dalla Generalidad (governo della Catalogna) e dai sindacati. Un attentato che va ben al di là dei 660 licenziamenti, perché ad essi si aggiungono i licenziamenti per motivi disciplinari dei lavoratori che parteciparono alle azioni di lotta dell’inizio di dicembre, i 296 licenziamenti mascherati da “dimissioni volontarie”, i piani di intensificazione dello sfruttamento con l’aumento della produzione, estorta ai lavoratori con le loro ore di permesso,… In definitiva, un attacco brutale che apre la porta a nuovi attacchi. Non a caso il presidente della compagnia ha annunciato con cinismo e provocatoriamente che “i provvedimenti contemplati nell’accordo non assorbono tutta l’eccedenza di personale”.
I compagni della SEAT e tutti i lavoratori DEVONO LOTTARE, ma per poter lottare con forza dobbiamo acquisire il più rapidamente possibile le lezioni della strategia di manipolazione e di smobilitazione che PADRONATO, GOVERNANTI E SINDACATI hanno perpetrato ai danni dei lavoratori.
Una strategia calcolata per la smobilitazione dei lavoratori
Da quando, a metà di agosto, l’azienda annunciò la “necessità” di procedere ad una riduzione del personale, “scambiabile” con una riduzione salariale del 10%, gli imprenditori, insieme a quelli che si dicono nostri “rappresentanti”, cioè i sindacati e il governo di “sinistra” della Generalidad, si sono divisi i compiti per impedire che una vera lotta operaia potesse impedire la realizzazione di questo piano.
Per più di tre mesi, a partire da agosto fino all’inizio di novembre, i rappresentanti sindacali si sono prodigati per addormentare l’inquietudine che serpeggiava tra i lavoratori di fronte alla minaccia dei licenziamenti, sostenendo che questi non erano giustificati, poiché “l’impresa fa profitti”, che la crisi della SEAT sarebbe “congiunturale” o dovuta a una “cattiva politica commerciale”. Con queste falsità cercavano di far abbassare la guardia dei lavoratori, facendo credere loro che si trattava di una bravata di un insaziabile padronato che gli studi economici dei sindacati o la pressione del governo “progressista” e di “sinistra” della Generalidad sarebbero riusciti a parare. Lo stesso padronato contribuì a rendere efficace l’inganno, nascondendosi per settimane, fino a che, il 7 novembre, annunciò il suo Piano di Regolazione degli Impieghi per 1346 lavoratori. Lo stesso giorno i sindacati avevano proclamato uno sciopero parziale, che i lavoratori debordarono con manifestazioni che andarono a bloccare le strade nella Zona Franca e a Martorell. Di fronte a tale situazione la Piattaforma Unitaria (a cui partecipavano UGT, CCOO, e CGT, principali sindacati del paese) convoca uno sciopero di un giorno per il 10 novembre, e una manifestazione per “esigere” che la Generalidad “ si implichi nel conflitto a favore dei lavoratori”. Con questa azione in pratica i tre sindacati chiedono di affidare la nostra sorte a quelli che sono i nostri carnefici, ai maestri della bella chiacchiera e della pugnalata traditrice. Lo Stato non è il rappresentante del popolo ma il difensore incondizionato degli interessi del capitale nazionale. Tutte le autorità – dal presidente del governo fino all’ultimo sindaco – stanno lì per vegliare alla sua difesa. Dopo questa sciocchezza i 3 sindacati si fermarono e non vollero convocare niente fino all’1 dicembre, cioè 3 settimane in cui i lavoratori furono mantenuti nella passività e in attesa, bloccati da interminabili “negoziati” e poi dalla “mediazione” del Signor Rané, consigliere al Lavoro. Una tattica con la quale tra “pressione” e “petizione”, gli operai sono presi in giro ed ingannati.
La Piattaforma Unitaria dei 3 sindacati promise di tornare alla carica dopo la settimana del “ponte” (dal 5 al 10 dicembre). Ma era un’altra menzogna! Adducendo i limiti legali che imponeva il Piano di Regolazione degli Impieghi, le pressioni della Generalidad … “dimenticarono” le mobilitazioni e il 15 dicembre le CCOO e la UGT firmarono i 660 licenziamenti (la CGT si era separata il 13).
Ma il peggio doveva ancora venire: per una intera settimana fu mantenuto il silenzio sul nome delle vittime, lasciando per l’ultimo giorno prima delle vacanze il “regalo” delle lettere di licenziamento che, al colmo del cinismo e della umiliazione, trattavano i destinatari più o meno come “fannulloni e delinquenti”. E’ stata una manovra vile (mentre ci avevano detto che avevano firmato il “migliore accordo possibile”), ma che dimostra anche che i sindacati CI TEMONO, perché se si fossero sentiti sicuri lo avrebbero annunciato prima e non avrebbero moltiplicato i vigilantes privati che presidiavano le sedi della UGT e delle CCOO.
La CGT tende ora a presentarsi come il “sindacato buono”, che sta a fianco dei lavoratori. Certo è che 145 dei licenziati sono suoi iscritti. Ma la sofferenza di questi compagni e la solidarietà con essi non può nascondere che essa non ha costituito nessuna alternativa a CCOO-UGT e, al contrario, è stata loro dietro. Perché partecipò alla farsa della “negoziazione” e “lotta” della Piattaforma Unitaria da cui si è staccata nella tardiva data del 13 dicembre? Perché quando le CCOO e l’UGT firmarono, l’unica mobilitazione che la CGT convocò fu una concentrazione fuori dalla fabbrica di cui ben pochi lavoratori si resero conto e a cui parteciparono solo 200 persone? Perché la mattina del 23 di fronte agli scioperi spontanei “la CGT decise di limitare la protesta ad un’ora” ? (Riassunto di Kaosenlared del 24/12/05) Quando era il momento di porre tutte la carne sul fuoco e c’erano le forze, come si verificò con il turno pomeridiano che, riunito in assemblea, decise di scioperare per tutto il turno? Perché tutta la sua alternativa si riduce a “considerare caso per caso ognuno dei licenziamenti e vedere se ricorrere al tribunale”?
La lotta deve essere condotta dall’ASSEMBLEA DEI LAVORATORI
Fino al 23 dicembre i lavoratori sono stati vittime di una SMOBILITAZIONE, di una STRATEGIA PER IMPEDIRE UNA RISPOSTA. I Sindacati non ci giocano solo quando firmano i licenziamenti, ci giocano preventivamente quando organizzano i loro “Piani di lotta”. La loro azione contro gli operai si concretizza in tre aspetti intimamente legati:
- i loro patti ed accordi con padronato e Governo
- i loro piani di “lotta” che sono in realtà strategie contro la lotta
- la loro difesa incondizionata dell’interesse dell’impresa e della economia nazionale che pretendono di far coincidere con quelli dei lavoratori quando in realtà essi sono diametralmente opposti.
Per questo la principale lezione della lotta alla SEAT, che comincia ad essere compresa nella pratica stessa degli operai con gli scioperi spontanei e le assemblee del 23, è che NON SI PUO’ AFFIDARE LA LOTTA AI SINDACATI.
Il 23 i licenziati, invece di tornarsene a casa a rimuginare in solitudine sulla angosciante prospettiva conseguente alla disoccupazione, si sono diretti verso i loro compagni e questi, invece di farsi prendere dal falso sollievo del “non è toccata a me” o dalla risposta individualista “se la cavi chi può”, hanno mostrato la loro solidarietà con la LOTTA. Questo terreno della solidarietà, della risposta comune dei licenziati e di quelli che hanno conservato il posto di lavoro, dei disoccupati e dei lavoratori in attività, dei lavoratori precari e di quelli stabili… è la base di una risposta efficace agli inumani piani dei capitalisti.
L’anno2006 comincia con il dramma dei 660 licenziati della SEAT, ma qualcuno può credere che questi saranno gli ultimi? Tutti sappiamo che non è così. Che la pugnalata dei licenziamenti, che il crimine degli incidenti sul lavoro, che l’angoscia del non potersi permettere una vita decente, che la minaccia alle pensioni, che la “riforma” del lavoro che sta preparando l’infernale trio Governo – Padronato – Sindacati, saranno la fonte di nuove sofferenze. Che nel settore dell’automobile, che in tutti i paesi continueranno gli attacchi alle condizioni di vita degli operai, che i mali della guerra, della fame, della barbarie che accompagnano il capitalismo, come la falce accompagna la morte, continueranno.
Per questo non si può che mettersi in lotta. Ma perché la lotta sia efficace e forte è necessario che si sviluppi LA SOLIDARIETA’ DI CLASSE e che essa sia ORGANIZZATA E CONTROLLATA DAGLI OPERAI STESSI.
Solidarietà di classe
Il problema della SEAT non si limita ai 660 licenziamenti, ma è un problema di tutto il personale. Ed il problema non è solo degli operai della SEAT, ma di TUTTI I LAVORATORI, siano essi impiegati pubblici con il “posto sicuro” (ma fino a quando?), che delle imprese private, siano essi senza documenti o con documenti, siano di aziende con profitti o di quelle in perdita. Tutti siamo o saremo nella stessa condizione dei nostri compagni della SEAT!
La nostra forza è la SOLIDARIETÀ DI CLASSE, lottare uniti. Una lotta limitata alla SEAT e chiusa nella SEAT sarebbe una lotta destinata alla sconfitta.
Ma in che consiste la solidarietà? Consiste nel boicottaggio delle auto del marchio SEAT (perché, per caso le altre marche non licenziano?). Consiste nell’accamparsi fuori alle porte della fabbrica da parte dei licenziati? Consiste in “dichiarazioni di appoggio” del settore “critico” delle CCOO o dell’EUA – che appoggia indirettamente il Tripartito, complice della canagliata della SEAT? Consiste en “azioni popolari” nei quartieri?
Questa “solidarietà” è altrettanto falsa quanto lo sono stati i “piani di lotta” della Piattaforma Unitaria della SEAT! L’unica solidarietà effettiva è UNIRSI ALLA LOTTA! Fondere operai dei differenti settori, dei differenti quartieri, in una STESSA LOTTA, rompendo queste barriere che tanto ci indeboliscono: l’impresa, il settore, la nazionalità, la razza, mediante la forza diretta delle delegazioni, delle assemblee e delle manifestazioni congiunte.
Assemblee sovrane
L’esperienza della SEAT è chiara: ormai sappiamo che succede quando lasciamo che sindacati, comitati di fabbrica o “piattaforme unitarie” giochino con i nostri destini. La direzione della lotta deve restare fin dall’inizio nelle mani dei lavoratori. Sono loro che devono valutare le forze su cui possono contare, le rivendicazioni da portare avanti, le possibilità di estendere la lotta. Le risposte non devono seguire le provocazioni dell’impresa o i “piani di lotta” dei suoi complici sindacali, ma la decisione collettiva dei lavoratori organizzati in Assemblee e Comitati eletti e revocabili. I negoziati con il Padronato o con il Governo devono svolgersi davanti a tutti, come avvenne nel 1976 a Vitoria in Spagna o in Polonia nel 1980. Sono le Assemblee che devono assumersi il compito di cercare la solidarietà, organizzando delegazioni e manifestazioni.
I tempi della rassegnazione, della passività e del disorientamento devono finire. Il margine di manovra che il Capitale ha avuto per gli anni in cui è durata questa situazione comincia a diminuire. E’ l’ora della lotta. La voce della classe operaia deve farsi sentire ogni volta con più forza.
Corrente Comunista Internazionale , 27/12/05
Studenti, liceali, futuri disoccupati o futuri precari, operai al lavoro o senza lavoro
Stessa lotta contro il capitalismo!
Dall’inizio di febbraio, e malgrado la dispersione del periodo delle vacanze scolastiche, gli studenti, liceali della maggior parte delle grandi città del paese si sono mobilitati per esprimere la loro collera contro gli attacchi economici del governo e del padronato, contro il CPE (Contratto Prima Accesso al lavoro). E tutto ciò malgrado il black out dei media borghesi ed in particolare della televisione che, giorno dopo giorno, ha preferito focalizzare i suoi proiettori sulle sinistre “prodezze” della “gang dei barbari”. La collera degli studenti è legittima!
Le istituzioni dell’educazione nazionale (collegi, licei, università…) sono diventate fabbriche di disoccupati, serbatoi di mano d’opera a buon mercato. È proprio perché l’hanno compreso, che le assemblee di studenti, come a Caen, hanno mandato delle delegazioni presso i lavoratori delle imprese vicine e presso i giovani disoccupati delle città per chiamarli ad unirsi alla lotta. Il CPE è la precarietà organizzata. Ma la precarietà non colpisce unicamente i giovani. Tutte le generazioni di proletari sono toccate da disoccupazione, precarietà e miseria.
È anche per questo che, in certe università come quella di Parigi III Censier, gli stessi insegnanti ed il personale ATOS si sono messi in sciopero in solidarietà con gli studenti.
Il CPE è un’espressione del fallimento del capitalismo!
Di fronte alle sommosse che hanno arroventato le periferie nel mese di novembre, la borghesia, il suo governo, i suoi partiti politici, hanno riportato l’ordine imponendo il coprifuoco, espellendo fuori dalle frontiere nazionali i giovani immigrati che non rispettano la loro “terra di accoglienza”. Oggi, quelli che ci governano vogliono continuare a “far piazza pulita” dei figli della classe operaia con un cinismo senza limite: è in nome del “l’eguaglianza dell’opportunità” che ci promettono, col CPE, la precarietà e la miseria. Con il CPE, i giovani che avranno la “chance” di trovare un impiego alla fine dei loro studi saranno alla mercé dei padroni. Nessuna possibilità di trovare un alloggio, di fondare una famiglia, di nutrire i loro figli. Ciò vuole dire che ogni giorno dovranno andare al lavoro con la paura in corpo, con l’angoscia di ricevere la famosa “lettera raccomandata” con la sua sinistra sentenza: LICENZIATO! Ecco cosa è la schiavitù salariale! Ecco cosa è il capitalismo!
La sola “eguaglianza” contenuta nel CPE è l’uguaglianza della miseria: accatastamento nelle città ghetto, piccoli lavori precari, disoccupazione, RMI, sopravvivenza giorno per giorno. Ecco l’“avvenire radioso” che la classe dominante, la borghesia ed il suo Stato “democratico” promettono a colpo sicuro ai figli della classe operaia!
Questi figli i cui genitori si erano mobilitati nel 2003 contro la riforma del sistema pensionistico ed a cui il predecessore di Villepin, il Signore Raffarin, aveva avuto la sfrontatezza di dire: “Non è la strada che governa!”
Dopo la mazzata portata contro i “vecchi” e futuri pensionati, ora i colpi sono assestati contro i “giovani” e futuri disoccupati! Con il CPE il capitalismo mostra apertamente il suo vero volto: quello di un sistema decadente che non ha più nessun avvenire da offrire alle nuove generazioni. Un sistema corrotto da una crisi economica insolubile. Un sistema che, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha speso somme strabilianti nella produzione di armamenti sempre più sofisticati ed omicidi. Un sistema che, dalla guerra del Golfo nel 1991 non ha smesso di spargere sangue su tutto il pianeta. È lo stesso sistema in fallimento, è la stessa classe capitalista agli sgoccioli che getta milioni di esseri umani nella miseria, la disoccupazione, e che semina morte in Iraq, nel Medio Oriente, in Costa d’Avorio!
Giorno dopo giorno, il sistema capitalista che domina il mondo ci dimostra che deve essere rovesciato. Ed è proprio perché ciò si comincia a comprende che all’università di Parigi Tolbiac, in un’AG (assemblea generale), gli studenti si ritrovano dietro una mozione che afferma “bisogna farla finita con il capitalismo!” È anche per questo che a Parigi Censier, venerdì 3 marzo, gli studenti hanno invitato una compagnia di teatro a venire a cantare dei canti rivoluzionari. La bandiera rossa sventola e parecchie centinaia di studenti, insegnanti, personale ATOS cantano l’INTERNAZIONALE. Il “Manifesto comunista” di Karl Marx è distribuito. All’interno dell’università la parola Rivoluzione è pronunciata, ripetuta. Intorno allo spettacolo si discute della lotta di classe, si rievoca la rivoluzione russa del 1917 e le grandi figure del movimento operaio, come Rosa Luxemburg assassinata vilmente, col suo compagno Karl Liebknecht nel 1919 durante la rivoluzione tedesca, dagli assassini agli ordini del partito socialista che dirigeva il governo.
Per affrontare la “gang dei barbari” in giacca e cravatta che ci governa, le giovani generazioni devono ricordarsi dell’esperienza dei loro genitori. In particolare devono ricordarsi di quello che è accaduto nel Maggio 1968.
Lo sciopero massiccio del Maggio 68 ci mostra il cammino
Sullo slancio dei movimenti che avevano toccato precedentemente le università della maggior parte dei grandi paesi sviluppati, in particolare gli Stati Uniti e la Germania, gli studenti delle università francesi si mobilitarono massicciamente nel maggio 68. Ma questa mobilitazione prese tutta un’altra dimensione quando tutti i settori della classe operaia scesero in lotta: 9 milioni di lavoratori in sciopero! Allora gli studenti più coscienti e combattivi andarono al di là delle loro rivendicazioni specifiche per proclamare che la loro lotta era la stessa di quella della classe operaia. Invitarono gli operai a venire nelle università occupate per discutere della situazione e delle prospettive. Dovunque si discuteva della rivoluzione, della necessità di rovesciare il capitalismo.
Il Maggio 68 non è sfociato nella rivoluzione, non era ancora possibile perché il capitalismo era solamente all’inizio della sua crisi. Ma i borghesi hanno avuto la più grande fifa della loro vita. E se il governo è riuscito a riprendere il controllo della situazione, è perché i sindacati hanno fatto di tutto affinché gli operai tornassero al lavoro; è perché i partiti di sinistra, quelli che si presentano come i difensori dei lavoratori, hanno chiamato a partecipare alle elezioni organizzate dal regime di De Gaulle. Il Maggio 68 ha dimostrato che la rivoluzione non è un vecchio pezzo da museo polveroso, che non appartiene ad un passato ormai compiuto, ma rappresenta il solo futuro possibile per la società. Inoltre, questo grande movimento della classe operaia a cui hanno fatto seguito numerose lotte operaie in molti altri paesi, ha dimostrato alla classe dominante che non poteva reclutare gli sfruttati dietro le bandiere nazionali, che non aveva le mani libere per scatenare una terza guerra mondiale, come aveva fatto nel 1914 e nel 1939. Così, contrariamente a quella degli anni 1930, la crisi economica non è sfociata in un massacro generalizzato proprio grazie alle lotte della classe operaia.
Il movimento dei giovani contro il CPE mostra che i germi di una nuova società stanno emergendo dalle viscere della vecchia società capitalista agonizzante. L’avvenire è le mani di questa nuova generazione. I liceali e studenti universitari stanno prendendo coscienza che, in quanto futuri disoccupati e futuri precari, appartengono, nella loro grande maggioranza, alla classe operaia. Una classe sfruttata che il capitalismo tende ad escludere sempre più dalla produzione. Una classe che non avrà altra scelta che sviluppare le sue lotte per difendere le proprie condizioni di vita e l’avvenire dei suoi figli. Una classe che non avrà altra alternativa che rovesciare il capitalismo per porre fine allo sfruttamento, la miseria, la disoccupazione e la barbarie. Una classe che è l’unica a poter costruire un mondo nuovo, basato non sulla concorrenza, lo sfruttamento, la ricerca del profitto ma sulla soddisfazione di tutti i bisogni della specie umana.
Nel 1914, i figli della classe operaia la cui grande maggioranza era ancora adolescente, furono mandati nelle trincee per servire da carne a cannone. La iena capitalista, rotolandosi nel sangue degli sfruttati, falciò queste giovani generazioni che Rosa Luxemburg chiamava il “fior fiore del proletariato”.
Il “fior fiore del proletariato” del ventunesimo secolo avrà la responsabilità di distruggere questo sistema capitalista decadente che ha mutilato e massacrato i figli della classe operaia inviati al fronte nel 1914, e poi nel 1939, sviluppando la lotta affianco a tutta la classe operaia, di tutte le generazioni.
Recentemente in Brasile, all’università di Vitoria da Conquista, gli studenti hanno manifestato la volontà di discutere della storia del movimento operaio. Hanno compreso che è proprio immergendosi nell’esperienza delle generazioni del passato che le nuove generazioni potranno riprendere la fiaccola dello scontro condotto dai loro genitori, dai nonni e prima ancora. Questi studenti hanno voluto ascoltare quelli che potevano trasmettere loro questo passato, un passato di cui devono appropriarsi e grazie al quale le giovani generazioni potranno costruire l’avvenire. Hanno scoperto che la storia della lotta di classe, la storia vivente non si apprende solamente nei libri ma anche nell’azione. Hanno osato parlare, porre delle domande, esprimere dei disaccordi, confrontare gli argomenti. Nelle università della Francia, come in quelle del Brasile, bisogna aprire le aule e le AG a tutti quelli, operai, disoccupati, rivoluzionari che vogliono farla finita con il capitalismo.
Una sola prospettiva: unità e solidarietà di tutta la classe sfruttata!
Da parecchi mesi, in tutti i paesi, il mondo del lavoro è scosso da scioperi nel settore pubblico e privato: in Germania, in Spagna, negli Stati Uniti, in India, in America latina. Contro la disoccupazione ed i licenziamenti, ovunque gli scioperanti hanno portato avanti la necessità della solidarietà tra le generazioni, tra i disoccupati e gli “attivi”.
Studenti, la vostra collera contro il CPE può essere solamente un colpo di spada nell’acqua se restate isolati, chiusi nei muri dell’università o del liceo! Esclusi dai luoghi di produzione, non avete nessun mezzo per fare pressione sulla borghesia paralizzando l’economia capitalista.Lavoratori salariati, disoccupati o pensionati, bisogna mobilitarsi, sono i vostri figli ad essere attaccati adesso! Siete voi che avete prodotto e producete ancora tutte le ricchezze della società. Siete voi che siete il motore della lotta contro il capitalismo!
Giovani disoccupati delle periferie, non siete i soli ad essere “esclusi!” Oggi siete trattati da “teppaglia”. Non è la prima volta: nel 1968 i vostri genitori che si rivoltarono contro lo sfruttamento capitalista furono trattati da “facinorosi”. L’unica prospettiva, il solo avvenire non sono le violenze cieche, gli incendi di automobili. Il solo avvenire è la lotta solidale ed unita di tutta la classe operaia, di tutte le generazioni! È negli scioperi, nelle assemblee generali, nelle discussioni sui posti di lavoro e di studio, nelle manifestazioni di strada che bisogna esprimere Tutti Uniti la nostra collera contro la disoccupazione, l’impiego precario e la miseria!
Abbasso il CPE! Abbasso il capitalismo!
La classe operaia non ha più niente da perdere se non le proprie catene. Ha invece un mondo da guadagnare.
Corrente Comunista Internazionale (6 marzo 2006)
Un affare di gangster imperialistici
Il 30 settembre scorso, il quotidiano danese Jyllands-Posten ha pubblicato dodici caricature che rappresentano il profeta Maometto agghindato di bombe, micce di dinamiti ed altri arnesi terroristici. Questi disegni saranno ripresi nelle settimane successive da numerosi giornali, come France-Soir. Il seguito lo conosciamo. Manifestazioni, talvolta molto violente, esplodono attraverso l'insieme dei paesi cosiddetti musulmani. In Afghanistan, alcuni scontri portano alla morte e al ferimento grave di diverse persone. Come hanno potuto delle semplici caricature generare un tale scoppio di odio? Come e perché dei semplici disegni di un giornale danese si sono ritrovati al centro di una tempesta internazionale?
All’inizio d’ottobre 2005, questo affare aveva avuto delle ripercussioni solo in Danimarca. Fu allora che undici ambasciatori di paesi musulmani chiesero un colloquio con Fagh Rasmussen, primo ministro danese e vicino al giornale Jyllands-Posten. In seguito al rifiuto di quest’ultimo di incontrarli, una delegazione di rappresentanti di associazioni musulmane in Danimarca iniziò un giro in numerose capitali del mondo musulmano, ufficialmente per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo affare. Il risultato non si è fece attendere. Alcune manifestazioni cominciarono ad esplodere in Pakistan. A partire dal mese di gennaio, le manifestazioni andarono a coinvolgere l’insieme del “mondo musulmano” ed in particolare il Medio Oriente. Queste manifestazioni presero velocemente un’ampiezza ed una violenza anti-occidentale sorprendenti rispetto alle banalità apparenti rappresentate da alcune caricature giornalistiche di Maometto. Tuttavia, per comprendere, è necessario ricordarsi che, dalla Seconda Guerra mondiale, questa regione del mondo – ed in particolare il Medio Oriente - ha conosciuto un progressivo sprofondamento nella guerra e la barbarie. Dalla fine degli anni ‘80, le tensioni sono diventate sempre più esplosive ed incontrollabili. Così, la destabilizzazione irreversibile del mondo musulmano in Afghanistan, in Iraq, nel Libano, in Palestina, spesso sotto l’effetto diretto della fuga in avanti militare e guerriera delle grandi potenze imperialiste (tra cui figurano al primo posto gli USA), oggi si traduce inevitabilmente in una montata di radicalismo religioso il più arcaico tra le popolazioni completamente disorientate di queste regioni. Il vicolo cieco in cui si trovano questi paesi non può che spingere al potere al loro interno delle frazioni più retrograde della borghesia. Questo è il senso, per esempio, dell’arrivo al potere in Palestina di Hamas, movimento politico radicale, adepto a tutt'oggi del fanatismo anti-israeliano più caricaturale. È la stessa realtà del fondamentalismo più retrogrado che spiega la presenza al potere in Iran del partito ultraconservatore di Mahmoud Ahmadinejad. Le tensioni tra le varie potenze di questa regione e di ognuna di queste verso gli Stati Uniti si allargano ogni giorno di più. È evidente che in questa situazione di rigurgito dei vari fondamentalismi e del ciascuno per sé, la borghesia e le differenti cricche armate di questa parte del mondo non potevano che impadronirsi di questa opportunità, offerta dalla pubblicazione di queste famose caricature, per rafforzare sul posto le loro posizioni e difendere al meglio i loro interessi nella giungla imperialista generalizzata a livello mondiale. Dietro queste manifestazioni apparentemente spontanee si trova in realtà il braccio armato delle cricche borghesi, locali o statali. Dopo gli attacchi delle ambasciate danesi o francesi, la Libia decide di chiudere la sua ambasciata a Copenaghen. L’ambasciatore della Danimarca in Kuwait viene convocato. I governi siriano ed iracheno si dichiarano pubblicamente particolarmente indignati. Tutto ciò non ha più niente a che vedere con la pubblicazione di alcuni disegni nella stampa borghese occidentale e giordana. Queste caricature sono diventate in realtà armi da guerra nelle mani delle classi borghesi nel mondo musulmano, rispondendo così alla politica imperialista sempre più aggressiva portata avanti particolarmente da Stati Uniti, Francia, Germania ed Inghilterra. Come non fare, per esempio, il legame tra l’utilizzazione di queste vignette e la campagna di minacce portata avanti nei confronti dell’Iran a proposito del suo programma nucleare da parte della Francia o degli Stati Uniti? La manipolazione, a fini di politica imperialista, da parte delle differenti borghesie di popolazioni sempre più ridotte alla miseria, che subiscono in permanenza la guerra, diventa allora un cinico gioco da bambini. Queste manifestazioni violente di masse crescenti di disperati non sorgono dunque così “spontaneamente” o così “naturalmente”. Sono invece il prodotto delle politiche di guerra, di odio e di reclutamento ideologico nazionalista di tutte le borghesie ai quattro angoli del mondo.
Mentre gli Stati Uniti, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, si erano fatti i campioni della difesa dei valori dell’occidente, i crociati della lotta al fanatismo religioso musulmano e al male che questo è supposto incarnare, rispetto alle caricature di Maometto assistiamo invece ad una sorprendente comprensione da parte dell’amministrazione Bush di fronte alle reazioni in Iran ed altrove. Come mai? Sia chiaro che tutto questo non ha niente a che vedere con la difesa del diritto di ciascuno a scegliere liberamente la sua religione come cercano di far credere. La realtà è molto più cinica. Gli Stati Uniti sono fin troppo soddisfatti nel vedere alcuni paesi imperialisti concorrenti, come la Francia, impantanarsi a loro volta in una situazione di scontro politico con degli Stati del Medio Oriente e del mondo arabo. In questo mondo putrido, in guerra permanente, di tutti contro tutti, ogni Stato capitalista può solo rallegrarsi nel vedere dei concorrenti cadere in una trappola.
E la perfidia delle frazioni borghesi e la loro volontà di utilizzare tutti gli aspetti della vita del capitalismo in decomposizione sono ancora più palesi quando si considera la posizione di Hamas su questo argomento. Hamas, partito radicale religioso, adepto finora della lotta armata e del terrorismo, propone semplicemente i suoi buoni uffici come mediatore in questo affare! Il capo dell’ufficio politico del movimento palestinese Hamas, Khalel Mechaal ha dichiarato a tale proposito: “il movimento è disposto a giocare un ruolo per acquietare la situazione tra il mondo islamico ed i paesi occidentali purché questi paesi si impegnino a mettere fine agli attentati ai sentimenti dei musulmani”. (Le Monde del 9 febbraio 2006). Per farsi riconoscere un poco sul piano internazionale, Hamas è così pronto a ritirare momentaneamente i suoi artigli.
A riguardo di questa vera giungla, in cui ogni nazione o cricca borghese attizza l’odio, tutta la propaganda delle ‘grandi democrazie’ sulla libertà di stampa ed il rispetto delle religioni appare così per ciò che è: solo fumo e basta.
Libertà di stampa e rispetto delle religioni, due veleni al servizio della borghesia
The Independant, giornale inglese citato dal Courrier International, riassume molto bene la campagna ideologica borghese: “Non c’è alcun dubbio che i giornali dovrebbero avere il diritto di pubblicare dei disegni che certe persone stimano offensive”. Ecco qui messo in scena il sacrosanto diritto di libertà di espressione di cui oggi tutta una parte della borghesia ci riempie le orecchie. D’altra parte lo stesso giornale aggiunge subito che: “in una situazione così complessa, è facile rifugiarsi in banali dichiarazioni sul diritto di libertà di stampa. La cosa più difficile non è decidere tra il vero ed il falso, ma prendere una decisione che tenga conto dei diritti degli uni e degli altri. C’è il diritto alla libera espressione di ogni censura. Ma c’è anche il diritto per numerosi musulmani di vivere in una società pluralista e laica senza sentirsi oppressi, minacciati, scherniti. Elevare un diritto al disopra di altri è la maschera del fanatismo”. La trappola ideologica, sviluppata dalla democrazia borghese contro la classe operaia, è qui chiaramente esposta. Si dovrebbe scegliere tra ciò che sarebbe un diritto, la libertà di espressione, ed un dovere morale, il rispetto delle credenze altrui. Ad ogni modo, il proletariato è chiamato a dare prova di moderazione e di comprensione in questo affare per il più grande beneficio dei … suoi padroni borghesi! Ecco quello che pensava Lenin nelle tesi sulla democrazia al primo congresso dell’Internazionale Comunista: «“Libertà di stampa” è un’altra eminente parola d’ordine di “democrazia pura”. Ma i lavoratori sanno, e i socialisti di tutti i paesi l’hanno riconosciuto un milione di volte, che questa libertà è illusoria finché i migliori stabilimenti tipografici e le più grosse forniture di carta sono nelle mani dei capitalisti, e finché il capitale mantiene il proprio potere sulla stampa, un potere che in tutto il mondo si esprime tanto più chiaramente, duramente e cinicamente, quanto più sono sviluppati la democrazia e il regime repubblicano, come ad esempio in America». Da sottolineare che Lenin ed i comunisti della sua epoca non conoscevano i mezzi di martellamento ideologico di oggi come la radio e la televisione.
Per quanto riguarda l’altra scelta, quella del rispetto delle credenze altrui, basti citare una frase di Marx per sapere quello che pensano i comunisti: “La religione è l’oppio del popolo.” Qualunque sia il dio in questione, la fede religiosa come ogni forma di misticismo è un veleno ideologico che viene instillato nella testa degli operai. Essa costituisce anzi uno dei numerosi antidoti che usa la borghesia contro la presa di coscienza del proletariato.
La libertà di stampa dunque non è niente altro che la libertà della borghesia di conficcare la sua ideologia nella testa degli operai! Ed il rispetto delle religioni è il rispetto della classe dominante per tutto ciò che mistifica il proletariato!
È evidente che questa proliferazione di manifestazioni e di violenza a partire da alcune vignette pubblicate nella stampa borghese non può lasciare la classe operaia indifferente. È vitale che la classe operaia non si lasci impressionare da questa levata massiccia di agitazioni anti-occidentali nel mondo musulmano. Tutto ciò non fa che tradurre l’accelerazione del caos nella società capitalista e rendere più urgente lo sviluppo della lotta di classe. La risposta del proletariato non si trova nella falsa scelta proposta dalla borghesia. All’irrazionalità crescente del mondo capitalista, il proletariato deve opporre la razionalità della lotta di classe, dello sviluppo della sua coscienza e del comunismo.
Tino (20/02/2006)
Per rendere più credibile questa mistificazione l’offerta si fa sempre più ampia, non solo di partiti, ma anche di personaggi che hanno il compito di convincere al voto, e alla partecipazione democratica, anche gli indecisi, quelli delusi e finanche quelli che a votare magari non ci pensavano proprio, perché credono che sono le lotte possono portare dei risultati. E’ in particolare a questi ultimi che sono rivolte le candidature di personaggi come il “disobbediente” Caruso e il trotskysta Ferrando (1). Chi potrebbe negare che è democrazia quella che lascia candidare anche quelli che, sulla carta, sono contro il sistema e lo vorrebbero addirittura rovesciare?
Il punto è invece proprio che personaggi come Caruso e Ferrando non sono affatto antitetici al sistema, e alla difesa della mistificazione democratica non ci partecipano in maniera inconsapevole, involontari vittime di manipolatori. No, Caruso e Ferrando alla democrazia e ai vari feticci borghesi ci credono veramente e se ne sentono dei veri difensori. Non lo diciamo noi, ce lo dicono loro:
“Cercare di impedire un raduno fascista non è solo legittimo, ma anche moralmente e costituzionalmente doveroso” (Caruso, su Repubblica del 4/03/06, sottolineatura nostra). E che volete di più: di fronte al ”lassismo” del ministro dell’interno e delle forze dell’ordine, Caruso si fa l’ardente difensore della costituzione borghese, quella che legittima lo sfruttamento e tutti gli abusi che gli sfruttati di questo paese subiscono. Così quelli che pensavano che Caruso volesse andare in Parlamento a difendere i “movimenti” e le esigenze di cui sono portatori sono serviti: Caruso andrà in Parlamento a difendere la Costituzione borghese! Ma è proprio questo il ruolo più prezioso che Caruso può giocare per la borghesia: quello di riportare sul terreno elettorale, sul terreno della difesa della democrazia la nuova generazione di proletari, tutti quei giovani che, di fronte alla barbarie di questa società, di fronte alla mancanza di ogni prospettiva futura, iniziano a porsi delle domande di fondo su questo sistema e la possibilità di creare una società diversa.
Lo stesso ruolo di difensore della democrazia è assunto (anche se per ora come sostegno “esterno” vista la mancata candidatura) dall’altro presunto “impresentabile”, ex candidato del centrosinistra, il trotskysta Ferrando, almeno a giudicare dal rammarico con cui commenta la probabile cancellatura della sua candidatura: “Cinquanta per cento di farcela. L’Abruzzo non è la Liguria, ma certo la possibilità di vedere un risultato positivo erano alte. Aspetto ancora però: la proposta di cassare il mio nome dev’essere approvata.” (Repubblica del 15/02/06). L’aspirazione di Ferrando ad un seggio al Senato della Repubblica non era certo dettata da un tornaconto personale: “In Parlamento la mia busta paga sarebbe stata equivalente a quella di un metalmeccanico. Come i miei compagni argentini, che già siedono in Parlamento.” (ibidem) No, Ferrando in Parlamento ci voleva andare proprio per difendere la democrazia borghese, come dalla Resistenza in poi fanno tutti i suoi compagni trotskysti in giro per il mondo. Famose in questo senso sono le ripetute candidature alla Presidenza della Repubblica francese di Arlette Laguillière, candidatura di bandiera certo, ma che serve ad aprire la strada alla convergenza dei voti trotskysti sui candidati della sinistra al turno di ballottaggio.
Ferrando e la guerra: l’importante è da che parte si sta
Qualcuno ci potrebbe criticare per questa denuncia delle candidature di Caruso e Ferrando, quando soprattutto quest’ultimo è stato giubilato per aver denunciato l’esercito italiano in Iraq come forza occupante. Che Ferrando abbia pronunciato queste parole è vero, ma in quale contesto? “Sono contro la guerra, contro tutte le guerre. Ho aggiunto che il diritto internazionale prevede la resistenza nei confronti degli eserciti occupanti. Il nostro è un esercito occupante” (ibidem)
Che l’esercito italiano in Iraq sia un esercito occupante lo dice anche D’Alema (lo stesso che come Presidente del Consiglio inviò l’esercito italiano a bombardare la Serbia al momento della guerra in Kosovo), il che, quindi, non dimostra che si è contro la guerra. Ed infatti Ferrando aggiunge di giustificare, sulla base del “diritto internazionale”, la “resistenza irachena”, cioè quella frazione della borghesia irachena che si è schierata contro gli americani, e che li “combatte” mettendo autobombe nei mercati e per le strade, facendo strage di civili iracheni, donne e bambini compresi, organizzando posti di blocco dove vengono fermati i pulmini che trasportano operai che lavorano in fabbriche considerate dalla resistenza “collaborazioniste” e che vengono spesso per questo assassinati. Ecco l’opposizione di Ferrando ad “ogni guerra”: schierato mani e piedi con una delle frazioni belligeranti che, come tutte le frazioni borghesi del mondo, considera la popolazione, anche la propria, solo come carne da cannone da sacrificare per raggiungere i propri obiettivi.
E questo suo schieramento “senza se e senza ma” con uno dei belligeranti Ferrando lo giustifica con il “diritto internazionale”. Ma chi lo ha redatto questo diritto, se non l’insieme delle nazioni imperialiste, in primo luogo quelle occidentali che sono le stesse che, a partire dal crollo del blocco sovietico nel 1989, hanno guerreggiato su tutto il pianeta, e questo proprio basandosi sul cosiddetto “diritto internazionale”?
Del resto, se guardiamo alla storia che ha seguito la Prima Guerra Mondiale, l’ultima a cui, anche se con un po’ di fatica, viene riconosciuto perfino dalla borghesia un carattere imperialista, non vediamo forse che la borghesia ha sempre cercato, e trovato o inventato, una “nobile” motivazione per giustificare tutte le sue carneficine imperialiste? Così, la Seconda Guerra Mondiale è stata combattuta per la “difesa della democrazia” contro il nazifascismo; tutte le guerre combattute per interposti paesi dai due blocchi formatisi dopo la Seconda Guerra mondiale sono state giustificate da una parte come guerre di “indipendenza” contro l’imperialismo occidentale, dell’altra come guerre contro l’impero del male stalinista. E dopo il crollo del blocco dell’est tutte le guerre combattute, anche in Europa, non sono forse state giustificate con la necessità di “interventi umanitari”, difesa della democrazia, dal terrorismo barbaro, e così via?
Non è un caso che sia avvenuto così dopo la Prima Guerra Mondiale, perché questa terminò con la rivoluzione proletaria in Russia e il suo tentativo di estensione al resto dell’Europa, cioè con un avvenimento nuovo che rischiava di porre termine non solo alla guerra, ma a tutto il sistema capitalista. Scampato questo pericolo, la borghesia è stata ben attenta a proseguire la sua inevitabile strada verso la guerra dotandosi sempre di giustificazioni ideologiche che indebolissero la capacità dei proletari di prendere coscienza del fatto che la guerra è sempre più il modo naturale di essere del capitalismo decadente, e che se si vuole mettere fine alla guerra bisogna abbattere il capitalismo.
Difendere una frazione in lotta con il “diritto internazionale”, come fa Ferrando, significa partecipare a questa mistificazione ideologica, significa schierarsi a difesa del sistema capitalista, esattamente come lo si fa quando si partecipa alla mistificazione democratica insita nelle elezioni.
2/04/06 Helios
1. Ferrando è il leader di Progetto Comunista, una delle correnti di Rifondazione Comunista su cui abbiamo recentemente pubblicato una miniserie di articoli sul questo giornale (vedi n: 140, 141 e 142) dal titolo: Rifondazione Comunista va a congresso per affilare le armi contro i lavoratori.
Un anno di campagna elettorale è quanto di peggio si possa meritare una popolazione, già afflitta dal doppio flagello di un governo di destra inetto e tracotante - che ha portato la gestione dello stato e del parlamento ai limiti di un uso ad personam - ed un’opposizione di sinistra vacua e priva di iniziativa, apparentemente impotente. Ci sarebbe da chiedersi come fanno i cittadini italiani a dare ancora la fiducia a questa gente e a sprecare un week-end di primavera per rimanere in città e andare a votare. Ora, fermo restando che con i tempi che corrono non tutti possono permettersi di andare fuori città per il week-end, il problema è che la borghesia, con la sua propaganda, riesce a mantenere l’idea che con le elezioni i cittadini, tutti i cittadini, almeno una volta ogni tot anni, hanno il potere di decidere chi eleggere al parlamento e quindi chi deve governare. Da questo punto di vista le elezioni costituiscono una delle mistificazioni più forti che esistano nella fase attuale del capitalismo. Infatti, entrato nella sua fase di decadenza, oggi il capitalismo non ha più davanti a sé alcuna possibilità di sviluppo ulteriore e non è più possibile per il proletariato appoggiare, come era ancora il caso alla fine dell’800, la frazione più avanzata della borghesia la cui affermazione avrebbe permesso un più rapido sviluppo del capitalismo e una più celere maturazione delle condizioni obiettive del comunismo. Oggi l’economia - non solo nazionale ma mondiale - è in completo fallimento e il programma, di destra o di sinistra, di qualunque governo, consiste nell’attutire il più possibile, ritardandolo, il tonfo del tracollo economico. E’ appunto per gestire questo fallimento che un governo ha bisogno di coinvolgere la popolazione e soprattutto la classe dei lavoratori, di renderli corresponsabili della scelta effettuata in modo da creare delle aspettative. Non è un caso che a livello internazionale si stia provando tutta una serie di carte nuove che stanno riscaldando l’animo di tanti giovani, come il governo Lula in Brasile, quello di Chavez in Venezuela (1) o ancora quello dell’indio Evo Morales in Bolivia, che arriva dopo anni di dittatura e di cui fa parte come ministro della giustizia una donna addetta alle pulizie che aveva cominciato a lavorare all’età di 13 anni. Come si può non rimanere colpiti e riprendere fiducia nelle elezioni?! Ma, come stanno cominciando a dimostrare proprio le esperienze di Lula e Chavez, il problema, purtroppo, non è di chi sta a capo del governo ma di quello che bisogna governare: l’economia capitalista. E, al di là della buona o della cattiva volontà dei governanti, la realtà dimostra che non si possono fare delle scelte a favore dei lavoratori rimanendo nella logica del profitto capitalista. Facciamo degli esempi. In occasione della sua recente visita a Napoli, un punto su cui il leader del centro-sinistra Prodi ha insistito è il ruolo strategico dei porti del sud Italia che possono essere - ha detto - una valida alternativa ai porti dei paesi del nord nei confronti dei carghi che fanno servizio verso i paesi orientali e le americhe. Perfetto. In altri termini se noi riusciamo a togliere lavoro ai lavoratori della Germania, della Francia, dell’Olanda, del Belgio, forse riusciremo a darne un po’ ai nostri lavoratori, ma soprattutto, quello che neanche Prodi e i suoi alleati di estrema sinistra dicono, faremo fare tanti tanti soldini alle nostre ditte di trasporto, ai nostri commercianti, al nostro capitalismo. D’altra parte qual è il significato di questo discorso dell’ultima ora sui conti trimestrali, sulla crescita zero rispetto agli altri paesi? Che stiamo andando peggio di Francia e Germania, che in Europa ci stanno superando tutti e che dobbiamo essere più competitivi. Ma, cari signori della sinistra (borghese s’intende!), come è possibile diventare competitivi se non offrendo merci che costino al produttore di meno? E quale strada esiste per abbassare il costo delle merci se non aumentando lo sfruttamento dei lavoratori e riducendo il loro salario? Questo non è il programma della destra, né quello della sinistra, queste sono le condizioni irrinunciabili per qualunque governo voglia governare, in qualunque paese del mondo, in una fase di crisi storica e irreversibile del capitalismo come quella che viviamo oggi. Per cui che c’è di meglio di occultare tutto ciò facendo credere che cambiando governo cambino realmente anche le condizioni di esistenza dei lavoratori?
Ma è proprio vero che destra e sinistra propongono esattamente la stessa cosa? Certamente no! Se entrambi gli schieramenti hanno lo stesso obiettivo di curare gli interessi della Azienda Italia, e quindi di attaccare a fondo le condizioni di vita della classe operaia, come magistralmente ha sempre fatto la sinistra ancor meglio che la destra (2), se entrambi gli schieramenti hanno sempre difeso gli interessi imperialisti dell’Italia nel mondo (3), una differenza tra gli attuali schieramenti ci sta, e si pone a vari livelli. Anzitutto la diversa credibilità dei due schieramenti politici: un governo che è costretto a ritirare uno dopo l’altro i suoi ministri per la loro goffaggine, la loro impresentabilità (vedi in particolare negli ultimi due mesi prima il caso Calderoni con le magliette anti-Maometto, poi Storace con le spie messe in gioco contro gli stessi alleati di destra, ecc.), ed ancora l’intollerabilità di un presidente del consiglio che agisce dicendo tutto quello che gli passa in testa in quel momento e pretende che la gente gli stia a credere, non sono certo una buona credenziale. L’altra questione è l’opzione imperialista. Infatti mentre la coalizione di centro-sinistra si è imposta, anche attraverso Tangentopoli (4), per portare avanti una politica di maggiore autonomia sul piano imperialista, esprimendo comunque una preferenza per l’area imperialista europea, lo schieramento di Berlusconi è quello che visibilmente si colloca come uno zerbino ai piedi degli USA. Questa non è una differenza di secondo ordine ma di quelle che possono fare il risultato. Infatti nella sua globalità il governo Berlusconi appare, nonostante tutti i demeriti della sinistra, come quello peggiore da tutti i punti di vista tranne il fatto che è l’unico che è disposto ancora a sostenere gli USA. E gli USA gli sono stati e gli sono ancora molto grati per questo. Non è un caso che, in questi ultimi giorni, il governo americano si sia fatto promotore di una campagna di destabilizzazione verso l’Italia, lanciando ai propri cittadini presenti in Italia un appello sul pericolo di attentati in occasione della fase elettorale. Questo appello è di un cinismo incredibile: infatti chi è esperto di terrorismo nel senso che lo pratica o ne è connivente sono proprio gli USA (5): l’Italia in particolare è stato un laboratorio di pratiche terroriste non solo e non tanto da parte delle bande di disperati stalinisti delle BR, quanto soprattutto dei servizi segreti americani che hanno appoggiato per oltre quarant’anni fascisti e avventurieri pronti ad ogni colpo di mano per fermare l’avanzata dei “rossi” nel nostro paese (6). A partire dall’episodio di Portella delle Ginestre del 1947 fino alle ultime bombe di matrice americana fatte scoppiare tra il 92 e il 93 (7) è tutta una lunga serie di interferenze nella politica italiana fatta di bombe e di cadaveri. Per cui il recente appello degli americani ha tutto il sapore di una minaccia di nuove bombe laddove gli italiani non dovessero seguire le giuste raccomandazioni.
In conclusione, governo di destra o governo di sinistra, per i lavoratori la prospettiva non cambia. Lo Stato italiano, come ogni Stato capitalista, può solo continuare a spolpare le carni di un proletariato ormai sfinito da tasse, rincari, indigenza, precarietà, disoccupazione, … In una parola, la campagna elettorale prima, le elezioni dopo, sono proprie tutte contro la classe operaia. Ma una alternativa c’è. Certo, ed è la lotta di classe, quella che in vari paesi del mondo sta ritornando sulla scena sociale. Agli scioperi dell’aeroporto di Heatrow a Londra, a quelli in Argentina o alla SEAT in Spagna di qualche mese fa (8), nuovi momenti di lotta si susseguono in Gran Bretagna, India, Svizzera e Francia, come viene mostrato dagli articoli presenti all’interno di questo giornale.
2 aprile 2006 Ezechiele
1. Vedi l’articolo su Chavez in questo stesso numero.
2. Come fece appunto il socialista Craxi eliminando i quattro punti di contingenza nel 1984, come ha fatto il governo di centrosinistra Amato nel 1992 che ha rastrellato 90.000 miliardi delle vecchie lire, come ha fatto il successivo governo Dini che portò a termine la prima famigerata riforma delle pensioni che non era riuscita a Berlusconi.
3. Chi critica oggi Berlusconi per la partecipazione alla guerra in Iraq dovrebbe ugualmente ricordare la guerra condotta dal “comunista” D’Alema contro la popolazione serba.
4. Campagna giudiziaria orientata a combattere il connubio politica-economia che passava attraverso le tangenti, ma di fatto una politica finalizzata a svuotare ed estromettere dal potere i partiti filoamericani, DC e PSI.
5. Vedi nostri articoli su le Twin Towers, su Rivoluzione Internazionale n122 e 123 (vedi anche sul nostro sito www.it.internationalism.org [25]).
6. Su questo la bibliografia è stracolma: oltre alla famosissima Strage di Stato, si suggerisce anche qualche chicca degli ultimi tempi come il libro di Edgardo Sogno: Testamento di un anticomunista, Mondatori.
7. Erano gli anni in cui la borghesia italiana cercava di liberarsi della tutela americana e quella americana reagiva a colpi di bombe tramite la fedele mafia: vedi gli assassini dei giudici Falcone e Borsellino del 1992 e gli attentati di Roma e Firenze del maggio 1993 che fanno 5 vittime e 23 feriti.
8. Sugli scioperi a Londra vedi Rivoluzione Internazionale n.142 e per quelli alla Seat ed in Argentina Rivoluzione Internazionale n.144.
Ciò che ha prodotto la forza di questo movimento, è prima di tutto il rafforzamento della SOLIDARIETÀ attiva nella lotta. E' serrando le fila, costruendo una rete molto stretta, comprendendo che l'unione fa la forza, che gli studenti universitari ed i liceali, hanno potuto mettere in pratica la vecchia parola d'ordine del movimento operaio: "Tutti per uno, uno per tutti"! E' così che hanno potuto trascinare dietro di sè i lavoratori delle università (professori e personale amministrativo) che, anche loro, hanno tenuto Assemblee Generali. In seguito, gli studenti delle facoltà d' Île de France hanno aperto le loro AG ai propri genitori-lavoratori, ad altri lavoratori e anche a pensionati (particolarmente a Parigi 3 – Censier). Li hanno invitati a prendere la parola e a dar loro delle "idee". La "scatola delle idee", l"urna" del movimento è circolata velocemente dovunque, nella strada, nelle AG, nei supermercati, su tutti i posti di lavoro, su tutti i siti Internet, ecc.
All'indomani della manifestazione del 7 marzo, in tutte le facoltà, a Parigi come in provincia, si sviluppano delle AG massicce di studenti: l' "uomo di ferro" Villepin, mantiene la sua politica di fermezza: il CPE sarà votato all'assemblea Nazionale perché è fuori questione che sia "la strada a governare" (come diceva nel 2003, l'ex-primo ministro Raffarin che fece passare la sua riforma del sistema delle pensioni per gettare nella miseria i vecchi lavoratori salariati dopo averli sfruttati per 40 anni). Gli studenti non cederanno a questo braccio di ferro. Le aule dove si tengono le AG sono strapiene. Le manifestazioni spontanee si moltiplicano, in particolare nella capitale. Sono gli stessi studenti ad eliminare il blackout dei media obbligandoli a "sbloccare" la legge del silenzio e della menzogna.
Quelli dall' 8 al 18 marzo sono "dieci giorni che vanno a scuotere il mondo" della borghesia francese. Gli studenti si organizzano sempre più per allargare la risposta in una sola direzione: SOLIDARIETÀ ed UNITÀ di tutta la classe operaia.
Nella capitale, questa dinamica è partita dal sagrato della facoltà di Censier che sarà all'avanguardia del movimento verso l'estensione e la centralizzazione della risposta.
Nelle AG, i lavoratori che "passavano di là" sono accolti in genere a braccia aperte. Sono invitati a partecipare ai dibattiti, a portare la loro esperienza. Tutti i lavoratori che hanno assistito alle AG, a Parigi come in parecchie città di provincia (in particolare a Tolosa), sono stati sbalorditi dalla capacità di questa giovane generazione a mettere la sua immaginazione creatrice al servizio della lotta di classe. Alla facoltà di Censier, in particolare, la ricchezza dei dibattiti, il senso delle responsabilità degli studenti eletti nel comitato di sciopero, la loro capacità ad organizzare il movimento, a tenere la tribuna, a distribuire la parola a tutti quelli che vogliono esprimere il loro punto di vista, a convincere ed a smascherare i sabotatori attraverso il confronto degli argomenti dati nella discussione, tutta questa dinamica ha verificato tutta la vitalità e la forza delle giovani generazioni della classe operaia.
Gli studenti hanno difeso continuamente il carattere sovrano delle AG, con i loro delegati eletti e revocabili (sulla base di un mandato e rimessa dello stesso) attraverso il voto a mano alzata. Tutti i giorni, sono squadre diverse che organizzano il dibattito alla tribuna. In queste squadre, sono rappresentati studenti iscritti e non ad un sindacato.
Per potere ripartire i compiti, centralizzare, coordinare e mantenere la padronanza dal movimento, il comitato di sciopero di Parigi 3 - Censier aveva deciso di eleggere differenti commissioni: stampa, animazione e riflessione, accoglienza ed informazione, ecc.
È grazie a questa vera "democrazia" delle AG ed alla centralizzazione della lotta che gli studenti hanno potuto decidere quali azioni condurre, con principale preoccupazione l'estensione del movimento alle fabbriche.
La dinamica verso l'estensione del movimento a tutta la classe operaia
Gli studenti hanno compreso perfettamente che la riuscita della loro lotta è tra le mani dei lavoratori salariati (come è stato affermato da uno studente in una riunione l'8 marzo "se restiamo isolati, ci facciamo mangiare vivi"). Più il governo Villepin si rifiuta di cedere e più gli studenti sono determinati. Più Sarkozy si riscalda e più rafforza la collera dei salariati e fa "brontolare" i suoi "elettori".
I lavoratori salariati più esperti nella lotta di classe, ed i settori meno stupidi della classe politica borghese, sanno che questo braccio di ferro contiene la minaccia dello sciopero di massa (e non dello "sciopero generale" sostenuto da certi sindacati e dagli anarchici) se i mascalzoni che governano si chiudono nella loro "logica" irrazionale.
E' attraverso questa dinamica verso l'estensione del movimento, verso lo sciopero di massa, che ha caratterizzato fin dall'inizio la mobilitazione degli studenti, che questi ultimi hanno potuto mandare dovunque, ai quattro angoli del paese, delegazioni massicce verso i lavoratori delle imprese vicine ai loro luoghi di studi. Queste sono cozzate contro il "blocco" sindacale: i lavoratori sono rimasti chiusi nei loro luoghi di lavoro senza possibilità di discutere con le delegazioni degli studenti. I "piccoli sioux" delle facoltà di Parigi si sono dovuti immaginare un altro modo per aggirare lo sbarramento sindacale.
Per mobilitare i lavoratori, gli studenti hanno dato prova di una ricca immaginazione. Così a Censier hanno costruito un'urna di cartone chiamata "scatola delle idee". In alcune università (come quella di Jussieu a Parigi) hanno avuto anche l'idea di parlare tranquillamente nella strada, di rivolgersi ai passanti per spiegar loro senza aggressività le ragioni della loro collera. Hanno chiesto a tutti i "curiosi" se avevano delle idee da proporre loro perché "tutte le idee sono buone da prendere". È principalmente grazie al rispetto dei lavoratori che passavano di là o che erano venuti a portar loro solidarietà, che gli studenti hanno potuto raccogliere nella loro "urna" delle idee che hanno messo in pratica. Basandosi sulla loro esperienza, hanno visto quali erano le "buone idee" (quelle che vanno nel senso del rafforzamento del movimento) e quali le "cattive idee" (quelle che vanno nel senso di indebolirlo, di sabotarlo per consegnare gli studenti alla repressione, come è accaduto con "l'occupazione della Sorbona").
Gli studenti di molte facoltà, le più avanzate, hanno aperto le aule in cui si tengono le loro AG ai lavoratori salariati ed agli stessi pensionati. Hanno chiesto a questi di trasmettere la loro esperienza del mondo del lavoro. Avevano sete di apprendere dalle vecchie generazioni. Ed i "vecchi" avevano sete di apprendere dai "giovani". Mentre i "giovani" guadagnavano in maturità, i "vecchi" stavano ringiovanendo! È questa osmosi tra tutte le generazioni della classe operaia che ha dato un impulso nuovo al movimento. La più grande forza della lotta, la più bella vittoria del movimento, è proprio la lotta stessa!
E questa vittoria non è stata guadagnata in Parlamento ma nelle aule universitarie. Purtroppo (per loro) le spie al servizio del governo che erano presenti nelle AG non hanno capito niente. Non sono state capaci di dare delle "idee" al signore Villepin. Il trio infernale Villepin/Sarkozy/Chirac si è ritrovato a corto di "idee". E' stato dunque costretto a mostrare il vero volto della "Democrazia" borghese: quello della repressione.
La violenza dello Stato poliziesco rivela il "no futuro" della borghesia
Il movimento degli studenti va al di là di una semplice protesta contro il CPE. Come diceva un professore dell'università di Parigi-Tolbiac, alla manifestazione del 7 marzo: "il CPE non è solamente un attacco economico reale e puntuale. È anche un simbolo”. Effettivamente, è il "simbolo" del fallimento dell'economia capitalista.
È anche una risposta implicita agli "abusi" polizieschi (quella che, nell'autunno 2005, provocò la morte "accidentale" di due giovani innocenti denunciati come "svaligiatori" da un "cittadino" ed inseguiti dagli sbirri). Mettendo al Ministero dell'Interno un piromane, Sarkozy, la borghesia francese non è stata capace di trarre le lezioni dalla sua storia: ha dimenticato che gli "abusi" polizieschi (come quelli che provocarono la morte di Malik Oussékin nel 1986) possono essere un fattore di radicalizzazione delle lotte operaie. Oggi, la repressione degli studenti della Sorbona che volevano solamente poter tenere delle AG (e non distruggere i libri come pretende mentendo il signor de Robien) non ha fatto che rafforzare la determinazione degli studenti. Tutta la borghesia ed i suoi media non hanno cessato, ora dopo ora, di fare della pubblicità menzognera per fare passare gli studenti per "teppisti" ("gentaglia" secondo il termine adoperato dal signor Sarkozy al riguardo dei giovani delle periferie).
Ma l'inganno era troppo evidente. La classe operaia non ha abboccato all'amo dei burattini dell'informazione. E' proprio questa violenza dei teppisti della borghesia che ha rivelato con estrema chiarezza la violenza del sistema capitalista e del suo Stato "democratico". Un sistema che getta sul lastrico milioni di operai, che riduce alla miseria i pensionati dopo 40 anni di sfruttamento, un sistema che fa regnare il "diritto" e "l'ordine" con il manganello.
E per mantenere il loro potere, questi signori hanno potuto beneficiare della "solidarietà" dei media e soprattutto del loro strumento di intossicazione ideologica, il "giornale televisivo". Ciò che le immagini ignobili dei media mettono in evidenza è il fascino esibizionista della violenza cieca, la manipolazione delle folle, il deterioramento della coscienza. Ma più la televisione ne aggiunge per intimidire la classe operaia e paralizzarla, più le sue videocamere nauseano la classe operaia (ed anche lo stesso elettorato della destra).
Ed è giustamente per questo che le nuove generazioni della classe operaia, ed i suoi battaglioni più coscienti, detengono tra le loro mani le chiavi dell'avvenire, evitando di cedere alla provocazione dello stato poliziesco (ed alle sue forze di inquadramento sindacale). Hanno evitato di utilizzare la violenza cieca e disperata della borghesia, dei giovani ribelli delle periferie, di certi "anarchici" ed altri "estremisti" eccitati.
I giovani della classe operaia che si trovano all'avanguardia del movimento degli studenti sono i soli che possano aprire una prospettiva a tutta la società. Questa prospettiva, la classe operaia non può svilupparla che grazie ad una visione storica, grazie alla fiducia nella sua propria forza, grazie alla pazienza ed anche all'umorismo (come diceva Lenin). E' proprio perché quella borghese è una classe senza avvenire storico, che la cricca di Villepin si è spaventata tanto da utilizzare la violenza cieca del "no futuro" dei giovani estremisti delle periferie.
La determinazione del signor Villepin a non cedere alla richiesta degli studenti, il ritiro del CPE, rivela ancora una cosa: la borghesia mondiale non lascerà il suo potere sotto la pressione delle "urne". Per rovesciare il capitalismo e costruire la vera comunità umana mondiale, la classe operaia sarà obbligata, in futuro, a difendersi anche con la violenza contro la violenza dello Stato capitalista e di tutte le forze del suo apparato repressivo. Ma la violenza di classe del proletariato non ha rigorosamente niente a che vedere con i metodi del terrorismo o delle sommosse delle periferie (come vuole fare credere la propaganda borghese per giustificare le persecuzioni della polizia, la repressione dei lavoratori, degli studenti e sicuramente dei veri militanti comunisti).
La controffensiva della borghesia per sabotare e destabilizzare il movimento
Per tentare di fare passare tutti i suoi attacchi economici e polizieschi, la borghesia aveva minato il terreno della risposta anti-CPE. Ha prima puntato sul calendario delle vacanze scolastiche per disperdere la collera degli studenti universitari e liceali. Ma gli studenti non sono degli ingenui, anche se alcuni di loro vanno ancora in chiesa. Hanno mantenuto la mobilitazione e l'hanno rafforzata dopo le vacanze. Evidentemente, i sindacati erano presenti fin dall'inizio del movimento e hanno messo tutte le loro forze nella battaglia per inglobarlo.
Ma non hanno previsto che sarebbero stati isolati massicciamente nella maggior parte delle città universitarie.
Per esempio, a Parigi, più di un migliaio di studenti si sono ritrovati sul sagrato della facoltà di Parigi 3-Censier per andare tutti insieme alla manifestazione. Gli studenti si accorgono che i sindacati, CGT in testa, hanno spiegato le loro bandiere per mettersi alla testa del corteo e chiudere nel loro contesto la manifestazione. Immediatamente, gli studenti fanno mezzo giro, utilizzano i differenti mezzi di trasporti e la vitalità delle loro gambe per aggirare i sindacati. Prendono la testa della manifestazione ed innalzano le loro bandiere unitarie. Lanciano una moltitudine di slogan unificatori: "Studenti, liceali, disoccupati, lavoratori precari, del pubblico e del privato, stessa lotta contro la disoccupazione e la precarietà!"
La CGT è ridicolizzata. Si ritrova alla coda degli studenti con una moltitudine di bandiere: "CGT della metallurgia", "CGT del RATP", "CGT dell'ospedale della Pietà Salpêtrière", "CGT della città di Pantin", "CGT della Senna Saint-Denis" ecc. Dietro ciascuna delle enormi bandiere rosse della CGT, un pugno di militanti completamente disorientati. Per riprendersi le loro truppe, i quadri del partito stalinista "rinnovato" di Maurice Thorez (lo stesso che, all'indomani della seconda guerra mondiale, chiese ai minatori e agli operai di Renault in sciopero di riprendere il lavoro, di "rabboccarsi le maniche" perché "lo sciopero era l'arma dei trust") lanciano allora parole d'ordine "radicali". Provano a coprire la voce degli studenti con i loro altoparlanti. I quadri della CGT e del partito "comunista" Francese scuotono le loro truppe facendo loro cantare "L'internazionale". Il vecchio dinosauro stalinista si ridicolizza ancora più. Molti manifestanti e passanti sui marciapiedi sono piegati dal ridere. Si sentono commenti dello stile: "sono i burattini dell'Informazione"!.
I sindacati si sono smascherati da soli attraverso i loro intrallazzi. È questo che il signor de Robien non sempre ha compreso quando si è così "indignato" degli atti di vandalismo degli "studenti" alla Sorbona, esibendo alcuni libri lacerati dagli specialisti borghesi della manipolazione: "è una piccola minoranza che dirige la rivolta degli studenti". de Robien ha messo alla rovescia i suoi occhiali di presbite: infatti è una "piccola minoranza" che dirige tutta la società umana, non il movimento degli studenti. Una minoranza che non produce nient'altro che sfruttamento e repressione della grande maggioranza della classe dei produttori.
I sindacati, CGT e FO in testa, non hanno incassato il brutto colpo del 7 marzo. È perciò che certi giornalisti tra i più intelligenti hanno potuto dire alla televisione: "i sindacati sono stati umiliati". Sono stati "umiliati " ugualmente dalle manifestazioni spontanee degli studenti nelle vie della capitale il 14 marzo. Incapaci di frenare la loro collera contro gli "umiliatori", contro i lavoratori che hanno manifestato la loro solidarietà attiva agli studenti unendosi alla manifestazione del 16 marzo, i sindacati hanno finito per mostrare pubblicamente, davanti alle videocamere, la loro complicità con le truppe di Sarkozy.
A Parigi, il "servizio d'ordine" della CGT (legato al partito stalinista) e di FO (fondato grazie all'appoggio della CIA dopo la seconda guerra mondiale) era alla testa della manifestazione, mano nella mano, di fronte ai CRS (celerini). Il cordone sindacale si è aperto come per incanto alla fine della manifestazione per permettere ai piccoli "kamikaze" di introdursi nella manifestazione e di precipitasi verso la Sorbona per cominciare il loro gioco del gatto col topo coi CRS. Tutti quelli che erano in prima fila e hanno assistito a queste nuove scene di violenza hanno raccontato che è grazie al "servizio d'ordine" dei sindacati CGT/FO che Villepin/Sarkozy hanno picchiato ancora e riempito i loro cellulari.
Ma soprattutto, le immagini insistenti degli scontri violenti che hanno seguito la manifestazione a Parigi hanno per obiettivo di fare paura prima della grande manifestazione del 18 marzo. Molti lavoratori e giovani che contavano di partecipare rischiano di rinunciare per paura di queste violenze.
I presentatori del giornale televisivo annunciano la buona notizia ai telespettatori: si va verso il "deterioramento del movimento" (dalle "notizie" della sera del 16 marzo).
Quelli che vogliono "affievolire il movimento", sono i complici di Sarkozy, le forze di inquadramento sindacale. E questo la classe operaia comincia a comprenderlo. Dietro i loro discorsi "radicali" ed ipocriti, ciò che vogliono i sindacati è salvare il governo. Per il momento, questo non si è verificato!
Il partito stalinista e la sua CGT adesso occupano il loro posto nel grande Pantheon del Jurassic Park, accanto ai brontosauri dell'UMP. Se i sindacati non hanno potuto sostenere finora il loro ruolo di pompieri sociali, è perché i piromani Sarkozy/Villepin hanno dato fuoco alle loro bandiere il 16 marzo. E, se i lavoratori sono venuti a sostenere gli studenti in lotta, è perché hanno visto che i sindacati avevano sostenuto, nelle aziende, il blackout dei media sulle AG di massa degli studenti.
Dalla manifestazione del 7 marzo, i sindacati sono stati a guardare, fatto ogni tipo di contorsioni per paralizzare i lavoratori salariati. Hanno effettuato ogni tipo di manovra per dividere, mandare a pezzi la collera della classe operaia. Hanno tentato di sabotare il movimento degli studenti. Hanno radicalizzato i loro discorsi con un treno di ritardo esigendo "il ritiro del CPE prima di ogni apertura dei negoziati” (mentre normalmente non smettono di "negoziare" sulle spalle della classe operaia). Hanno brandito anche la minaccia dello "sciopero generale" per fare "piegare" il governo. In breve, hanno svelato apertamente che non volevano che i lavoratori si mobilitassero in solidarietà degli studenti. Con le spalle al muro, hanno finito per tirare fuori dalla loro manica l "asso di picche": utilizzando alcuni ragazzini eccitati per scatenare ancora e sempre la violenza.
L'unica via d'uscita a questa crisi politica della borghesia francese, è un restauro della vecchia facciata dello Stato repubblicano. E questo regalo, è la sinistra parlamentare che lo ha voluto offrire su un vassoio d'argento al signor Villepin: PS/PC/Verdi tutti uniti hanno investito il Consiglio Costituzionale per depositare il loro "ricorso" contro il CPE. Forse, alla fine, è proprio questo colpo di mano del PS che permetterà al governo di uscire dal vicolo cieco ritirando il CPE su richiesta dei "12 saggi": potrà fare ancora sua la formula di Raffarin, "non è la strada che governa", ma, aggiungendo, "i 12 pensionati del Consiglio costituzionale!"
La più grande vittoria è la lotta stessa
Volendo "ripulire" dagli studenti la Sorbona (e dai loro compagni venuti a portar loro del cibo) il Signore Sarkozy ha scoperchiato un vaso di Pandora. E da questo vaso dalle "idee nere", il governo Villepin/Sarkozy ha tirato fuori i "falsi amici" della classe operaia, i sindacati.
Il proletariato mondiale può dunque ringraziare la borghesia francese. Agitando il suo spaventapasseri Le Pen alle ultime presidenziali, la classe dominante tricolore è riuscita a rimettere al governo la destra più stupida del mondo. Una destra che ha applicato una politica da "repubblica delle banane!"
Comunque andrà a finire per il movimento, questa lotta di tutta la classe operaia è già in sé una vittoria.
Grazie alle nuove generazioni, la classe operaia è riuscita a rompere il "blocco" della solidarietà effettuato dai sindacati. Tutti i settori della classe operaia, ed in particolare le sue nuove generazioni, hanno vissuto una ricca esperienza che lascia delle tracce profonde nella loro coscienza.
Questa esperienza appartiene al proletariato mondiale. Malgrado il blackout dei media "ufficiali", i media "paralleli", le videocamere "selvagge" ed altre radio "libere", ed anche la stampa dei rivoluzionari, permettono ai proletari del mondo intero di appropriarsi di questa esperienza. Perché questa lotta è solamente un episodio della lotta della classe operaia mondiale. Si iscrive al seguito a tutta una serie di lotte operaie dal 2003 che confermavano che la classe operaia della maggior parte dei paesi industriali stava uscendo dal riflusso provocato da tutte le campagne scatenate dalla borghesia all'indomani del crollo del blocco dell'Est, nel 1989, e dei regimi presentati come "socialisti" o "operai". Una delle caratteristiche essenziale di queste lotte è il riemergere della solidarietà tra lavoratori (vedi l’articolo in questo stesso numero).
Il movimento degli studenti in Francia appartiene dunque ad una lotta che si sviluppa a scala storica e il cui esito finale permetterà di tirare fuori la specie umana dal vicolo cieco della barbarie capitalista. Le giovani generazioni che hanno impegnato la lotta su un campo di classe aprono oggi le porte dell'avvenire. Possiamo dar loro fiducia: in tutti i paesi, continuano a preparare un mondo nuovo sbarazzato dalla concorrenza, dal profitto, dallo sfruttamento, dalla miseria, e dal caos sanguinoso.
Evidentemente, la strada che conduce al capovolgimento dal capitalismo è ancora lunga e cosparsa di insidie, di trappole di ogni tipo, ma ha cominciato a liberarsi.
Corrente Communista Internazionale (17 marzo 2006)
Andiamo a vedere come questa "invenzione" non è affatto tale, che significa solamente un adattamento del capitalismo di Stato alle condizioni di crisi più acuta e soprattutto a dei livelli importanti di decomposizione dell'ordine capitalista. Questa situazione esige un riadattamento tanto delle politiche economiche che dell'insieme dell'arsenale ideologico che ogni borghesia nazionale deve sviluppare per ingannare e sottomettere il proletariato. Tutte le borghesie nazionali, e più ancora quelle dei paesi della periferia, non hanno altra prospettiva che quella di ridistribuire la miseria. Il "neo-socialismo", proposto da Chavez ed applaudito da tutti gli alter-mondialisti, lo dimostra perché è impossibile sradicare la miseria senza rivoluzione comunista.
Il "progetto" chavista: un progetto chiaramente borghese
Il progetto "chavista" trova le sue origini nel movimento civico-militare-bolivariano sviluppato dagli ideologi della guerriglia degli anni 60 che aveva rotto col Partito comunista del Venezuela, progetto che fu ripreso negli anni 80 dal movimento MBR-200 (1); questo progetto mira allo sviluppo di una vera "borghesia nazionalista", diametralmente opposta alla borghesia "oligarchica" emersa dopo la sconfitta della dittatura del generale Marcos Perez Jimenez nel 1958. Questo movimento si ispira al modello capitalista di Stato di tipo stalinista (detto "marxista-leninista" dalla sinistra) condito da un supposto tropicalismo alla moda bolivaregna.
L'irresistibile ascesa di Chavez è fondamentalmente il frutto del livello elevato di decomposizione che colpisce la borghesia venezuelana ed è solo espressione della decomposizione del sistema capitalista nel suo insieme. I settori della borghesia che avevano governato negli ultimi decenni dell'ultimo secolo erano incollati al potere, protetti da un ambiente di impunità e di corruzione. Avevano perso la capacità di mistificare con le illusioni i settori più poveri della società: per potere affrontare la crisi economica, hanno ridotto progressivamente i piani sociali per i più poveri (grazie ai quali avevano potuto mantenere la "pace sociale"), provocando l'esplosione della povertà mentre hanno applicato draconiane misure di austerità contro la classe operaia, ed hanno causato anche un'impennata della disoccupazione e la caduta del potere d'acquisto delle masse lavoratrici.
L'incapacità di questi settori della borghesia al potere a gestire una situazione esplosiva fu messa in evidenza dalle sommosse della fame nel 1989, quando migliaia di magazzini commerciali furono saccheggiati, principalmente a Caracas, riuscendo solo ad infliggere una repressione terribile (le cifre, anche se non ufficiali, parlano di più di diecimila morti). Malgrado questo grido di allerta e di disperazione lanciata dai settori impoveriti, la borghesia nazionale fu incapace di realizzare il minimo di riforme necessarie nelle sue strutture di potere per contenere il malcontento sociale.
Questo contesto ha preparato il campo affinché si potesse concretizzare il primo passo del progetto chavista, il tentativo di colpo di stato del 1992 che, malgrado il suo insuccesso, ha permesso di portare un perfetto sconosciuto, Chavez, in primo piano. Quest'ultimo si lanciò nell'arena elettorale fin dalla sua liberazione nel 1994, facendo allora una critica devastante delle frazioni della borghesia al potere. Forte di un potente carisma personale, adattò poco a poco il progetto di "rivoluzione bolivariana" degli anni 60 al nuovo periodo storico caratterizzato dalla scomparsa dei due grandi blocchi imperialisti, attirando nelle sue fila milioni di poveri, illusi che il suo accesso al potere li avrebbe strappati alla loro miseria.
Dopo il suo schiacciante trionfo alle elezioni del 1998, comincia un processo che domina la scena politica fino ai nostri giorni, caratterizzato dallo scontro di due frazioni del capitale nazionale: da un lato, la "vecchia" borghesia rappresentata dai partiti tradizionali (principalmente AD, COPEI, qualche settore del MAS, etc.), dall'altro la "nuova borghesia" (i partiti ed i gruppi di sinistra, estremisti militari, ecc.) che era stato escluso del potere durante la seconda metà dell'ultimo secolo. In effetti, quando chavisti e soci dicono che il governo bolivaregno è quello degli "esclusi", non fanno riferimento all'immensa massa crescente dei poveri che vivono in questo paese, ma a quei settori della borghesia e della piccolo-borghesia che detengono oggi il potere e che si dividono il bottino costituito dalle ricette dello Stato, attaccando oggi con tutta la forza del loro rancore le altre frazioni della borghesia nazionale. Come i loro predecessori "adecos" e "copeyanos" (2), essi non hanno altre opzioni che quella di accentuare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori ed attaccare questa massa di poveri che pretendono di difendere, generalizzando la miseria, ripartendo più "socialmente" delle briciole tra i settori più impoveriti attraverso la sedicente "Missions" (3) per tentare di mantenere la "pace sociale", utilizzando certamente tutto uno sproloquio "rivoluzionario" basato sulla demagogia ed il populismo.
Il chavismo : un movimento decomposto dalla nascita
Sarebbe falso vedere il chavismo come un prodotto "made in Venezuela", frutto delle caratteristiche puramente nazionali. Il "fenomeno" chavista è il prodotto delle contraddizioni proprie del sistema capitalista, della crisi che scuote il capitalismo a livello mondiale dalla fine degli anni 60 e che esige da ogni borghesia nazionale l'attacco permanente delle condizioni di vita delle masse lavoratrici e della popolazione nel suo insieme. Ma è anche il risultato del periodo di decomposizione in cui sprofonda il capitalismo da due decenni, decomposizione la cui espressione maggiore è stata la scomparsa del sistema dei blocchi imperialisti dopo l'implosione dell'ex blocco "socialista" nel 1989.
Nel caso particolare del Venezuela, l'apparizione del chavismo esprime in modo caricaturale la decomposizione della borghesia nazionale che raggiunge tali proporzioni che i suoi conflitti di interesse hanno creato le condizioni affinché il governo cadesse tra le mani di settori della piccola borghesia estremista che hanno chiaramente l'intenzione di mantenerselo ad ogni prezzo. La frazione "chavista" della borghesia tenta di differenziarsi "radicalmente" dall'ideologia democratica della "vecchia oligarchia" adattando la virulenza della sinistra del capitale venezuelano e dell’estremismo ai nuovi tempi della "fine della storia" (4).
La "democrazia partecipativa e protagonista" ha permesso al chavismo di mobilitare la popolazione per adattare giuridicamente il modello democratico borghese e controllare le istituzioni dello Stato attraverso l'adozione di una nuova costituzione. L'aspetto "innovativo" di questo modello borghese si trova nel fatto che rafforza la "nuova borghesia" chavista su due piani:
- sul piano economico, il sedicente "sviluppo endogeno" basato sul cooperativismo, la cogestione e l'autogestione, permette di sviluppare politiche di capitalismo di Stato con l'attribuzione delle risorse dello Stato alla nuova borghesia chavista ed ai settori del capitale privato che sostengono il progetto;
- sul piano economico e sociale, l'attribuzione delle risorse dello Stato attraverso organizzazioni come i Circoli bolivariani, le Missioni, le milizie, ecc., permette al chavismo un controllo politico e sociale del settore più miserabile rappresentato dalla maggioranza della popolazione (in questo il chavismo non si distingue in niente dai regimi stalinisti o fascisti). E questa attribuzione delle risorse permette soprattutto al chavismo di distribuire delle briciole che legittimano tutti i discorsi ideologici sulla "redistribuzione delle ricchezze" e "l'egualitarismo" della sinistra; è questo che, aprirà la via al "socialismo del XXI secolo", secondo il chavismo e l'insieme della sinistra.
Ma questo "socialismo", prima di "ridistribuire le ricchezze" (vecchia solfa borghese per giustificare la sua dittatura di classe) propone in effetti la ridistribuzione della miseria, "l'éguaglianza" della società dal basso, attraverso la precarietà. Il lavoro delle Missioni permette in effetti di liberalizzare le condizioni di lavoro, il che "flessibilizza" (cioè precarizza) la forza lavoro attraverso le cooperative dove i lavoratori percepiscono già stipendi inferiori al miserabile salario minimo senza beneficiare della più piccola protezione sociale. Peraltro, tutti i rami di servizio o di produzione di cui si occupano queste Missioni violando ogni forma di convenzioni collettive, sono il teatro di attacchi alle condizioni di lavoro dei lavoratori, regolari vittime del ricatto di licenziamento se non accettano le condizioni imposte dallo Stato.
Infine, nella misura in cui le Missioni hanno essenzialmente come funzione politica il controllo sociale, ed essendo richiesto l'attivismo "rivoluzionario" per potere racimolare le briciole distribuite dallo Stato, si sta determinando la caduta libera della qualità dei servizi pubblici. Nella misura in cui s'ingrandisce la copertura sociale delle Missioni, la precarietà si estende anche all'insieme della classe operaia ed all'insieme della società. Peraltro il cooperativismo, la cogestione e l'autogestione, forme di organizzazione della produzione alla quale la sinistra e gli estremisti attribuiscono una magica natura "anticapitalista", non eliminano in niente lo sfruttamento dei lavoratori da parte del capitale, che sia privato o statale: i rapporti di produzione di beni o di servizi propri a tutte le forme di organizzazione della produzione capitalista sono mantenuti, ed i beni e servizi prodotti dai lavoratori dovranno prima o poi essere sottomessi alle leggi del mercato. In altri termini, è quest'ultimo che deciderà i prezzi e dunque lo stipendio dei lavoratori.
Qui come altrove, la borghesia non ha altra scelta che giocare con la miseria, e il chavismo si è rivelato essere un maestro in materia. Tenta di imporre le sue ideologie all'insieme della società attraverso il sangue ed il fuoco, creando un ambiente di terrore, di persecuzione, di ricatto e di attacco permanente alle condizioni di vita dei lavoratori attraverso la disoccupazione, gli stipendi di miseria, gli oneri sociali, sviluppando un impoverimento che si traduce, nei fatti, in un aumento significativo della povertà e della malnutrizione (5), della criminalità e della prostituzione infantile e giovanile, mentre i nuovi ricchi chavisti si ripartiscono il bottino delle risorse dello Stato assegnandosi trattamenti e stipendi decine di volte superiori a quelli di un lavoratore, promovendo e permettendo inoltre dei livelli di corruzione tale che i regimi precedenti passano per esempi di bontà. E tutto questo in nome della sedicente "superiorità morale" della sinistra del capitale che non è niente altro che la morale ipocrita borghese elevata al suo parossismo.
In questo senso, non solo il chavismo è un puro prodotto della decomposizione della borghesia venezuelana, ma è inoltre un fattore acceleratore di questo deterioramento della classe borghese e della società venezuelana nel suo insieme. Ed è precisamente questa putrefazione che gli estremisti e la sinistra battezzano nel mondo intero "rivoluzione"! Quale impudenza!
La sola rivoluzione possibile è la rivoluzione proletaria
Il loro radicalismo piccolo-borghese spinge i settori estremisti che compongono il chavismo a battezzare "rivoluzione" un fenomeno che, come abbiamo visto, non è niente altro che una variante del capitalismo di Stato: una "nuova" forma giuridica di amministrazione dello Stato borghese per perseguire lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale nazionale. Che Chavez ed i suoi discepoli ed adulatori lo chiamino "socialismo" non è in sé un fenomeno nuovo: la sinistra e gli estremisti di ogni pelo non hanno mai smesso, durante tutto il XX secolo, di qualificare "socialista" il minimo governo in cui lo Stato assume il controllo della vita economica, politica e sociale (come fu il caso per tutti quei paesi in orbita russa che formavano il famoso "blocco socialista" e di cui sopravvivono solo la Cina, la Corea del Nord e Cuba) in cui è eliminato, o tende ad esserlo, il capitale privato e dove i mezzi di produzione passano sotto controllo dello Stato e della burocrazia. Oggi, la sinistra del capitale, in quanto forza protettrice degli interessi del capitale nazionale, innalza di nuovo la bandiera di questo "socialismo", e cioè del capitalismo di Stato, ma sotto i nuovi colori di movimenti anti-globalizzazione ed alter-mondialisti, per tentare di dare un fondo ideologico alla sua parola d'ordine: "Un altro mondo è possibile".
Questo "neo-socialismo" riprende così i temi populisti ai quali ricorre la borghesia nei suoi momenti di crisi economica e politica. La borghesia ricorre sempre in questi casi alla manipolazione dei settori più poveri della popolazione e della piccola borghesia depauperata, per tentare di controllare il malessere sociale generato dall'incremento della povertà e di utilizzarli per mantenere il suo dominio di classe.
L'accrescimento degli indici di miseria non può più essere nascosto ed è ineluttabile: malgrado le sfrontate manipolazioni delle cifre da parte degli organismi dello Stato, l'istituto nazionale delle statistiche (INE) indica che l'indice di povertà è aumentato del dieci per cento durante i sei anni di governo chavista (6).
Tuttavia, tale aumento della miseria non è dovuto alla cattiva gestione di Chavez, come i settori della borghesia all'opposizione tentano di fare credere: è impossibile sradicare la miseria nel capitalismo, perché questo modo di produzione richiede non solo un attacco permanente sui salari e le condizioni di vita dei lavoratori ma anche che, con la sua entrata in decadenza, crea una massa sempre più grande di proletari che sono buttati per strada senza che esista per essi la minima possibilità di essere integrati nell'apparato produttivo. La borghesia di fronte alla crisi non ha altra scelta che rendere sempre più precarie le condizioni di vita del proletariato per potere restare competitiva sul mercato mondiale e, certamente, poter mantenere i privilegi di cui gode in quanto classe dominante.
Ma la borghesia chavista deve fare i conti con un fattore che contrasta i suoi piani: l'approfondimento della crisi del capitalismo e della decomposizione dell'insieme della borghesia. Malgrado i proventi importanti tratti dall'aumento storico del prezzo del barile di petrolio su cui conta la borghesia venezuelana, questi non sono tuttavia eterni e sono peraltro insufficienti per rispondere al costo della "rivoluzione". L'approfondimento della crisi non tarderà a fare cambiare discorso all'apparato populista ed alle Missioni adottate dallo chavismo. Allora le masse si manifesteranno di nuovo. Ma queste manifestazioni saranno condannate a finire nei vicoli ciechi della rivolta sterile e dell'impotenza se la classe operaia non ha la capacità di dare una prospettiva alle masse più povere verso la distruzione ed il superamento del capitalismo. È dunque di grande importanza che i lavoratori reagiscano con la lotta contro gli attacchi alle loro condizioni di vita affrontando tutta questa ideologia bolivariana egualitaria.
P., 01-04-05
1. Movimento bolivariano rivoluzionario-200, formato in maggioranza dai militari che parteciparono con Chavez all'insurrezione nel 1992.
2. Sostenitori dei "vecchi" partiti dalla borghesia, Ad e COPEI.
3. Organizzazioni create e finanziate dallo Stato che lavorano nei servizi pubblici come quello della salute, dell'educazione, della distribuzione del cibo, ecc. Queste Missioni permettono così di sviluppare il lavoro precario attraverso il cooperativismo. La rete tessuta dalle Missioni permette anche ai partiti che sostengono il governo di esercitare un reale controllo sociale, poiché è stato preteso un impegno in favore della "rivoluzione bolivariana" per potere ricevere aiuti dallo Stato.
4. Uno dei consiglieri di Chavez negli anni 90 era l'argentino Norberto Ceresole, che aveva immaginato un modello battezzato "post-democrazia" che combinava un insieme di ideologie che vanno dal fascismo al bolivarismo passando per lo stalinismo. Vediamo in questo le origini, tipiche della decomposizione, del cocktail ideologico di Chavez.
5. Uno studio recente dell'istituto venezuelano di ricerche scientifiche sostiene che un terzo dei bambini tra i 2 ed i 15 anni sondati negli Stati del centro del paese soffrono di anemia. Questo livello terribile va fino al 71% dei bambini di meno di 2 anni in uno di questi Stati. È bene ricordarsi che, negli anni 80, la percentuale era vicina a quello dei paesi evoluti.
6. L'istituto nazionale di statistiche segnalava che la povertà era passata dal 42,8 % nel 1999 al 53 % nel 2004. Un recente studio dell'impresa Datos segnala tuttavia che la povertà tocca l' 81 % della popolazione, e cioè circa 21 milioni di persone (El Nacional, 31 marzo 2005).
Nuovi esempi di solidarietà operaia in Europa …
La lotta più significativa in Gran Bretagna si è sviluppata nell’Irlanda del Nord dove, dopo decenni di guerra civile tra cattolici e protestanti, 800 impiegati delle poste si sono spontaneamente messi in sciopero a febbraio per due settimane e mezzo a Belfast contro le multe e le pressioni della direzione per imporre loro un forte aumento dei ritmi di lavoro. All’origine della lotta c’è stata la mobilitazione di questi lavoratori per impedire l’esecuzione delle misure disciplinari prese nei confronti di alcuni loro compagni di lavoro in due diversi uffici postali, uno “protestante”, l’altro “cattolico”. Il sindacato delle comunicazioni ha allora mostrato il suo vero volto e si è opposto allo sciopero. A Belfast, uno dei loro portavoce ha dichiarato: “Noi rifiutiamo lo sciopero e chiediamo ai lavoratori di tornare al lavoro perché esso è illegale”. Ma gli operai hanno proseguito la loro lotta fregandosene del carattere legale o non della loro lotta, dimostrando così di non aver affatto bisogno dei sindacati per organizzarsi.
In occasione di una manifestazione comune i lavoratori hanno superato la “frontiera” che separa i quartieri cattolici e protestanti e hanno sfilato assieme nelle strade della città, salendo prima per una grande arteria del quartiere protestante, per poi ridiscendere per un’altra del quartiere cattolico. In questi ultimi anni altre lotte, particolarmente nel settore della Sanità, avevano già mostrato una reale solidarietà tra operai di confessioni differenti. Ma è stata la prima volta che una tale solidarietà si è espressa apertamente tra operai “cattolici” e “protestanti” nel cuore di una provincia devastata e lacerata da decenni da una guerra civile sanguinosa.
In seguito i sindacati, aiutati dalle formazioni di estrema sinistra del capitale, hanno cambiato atteggiamento e hanno preteso di portare a loro volta la loro “solidarietà”, organizzando dei picchetti di sciopero in ogni ufficio postale. Ma questo in realtà ha permesso loro di rinchiudere i lavoratori nei rispettivi uffici postali, quindi di isolarli gli uni rispetto agli altri, in una parola di sabotare la lotta.
Nonostante questo sabotaggio, l’unità aperta degli operai cattolici e protestanti nelle strade di Belfast durante lo sciopero ha fatto rivivere la memoria delle grandi manifestazioni del 1932, quando i proletari dei due diversi campi si unirono per lottare contro la riduzione delle indennità di disoccupazione. Ma questo episodio avveniva in un periodo di sconfitta della classe operaia. Oggi esiste un maggior potenziale per rigettare, in futuro, le politiche di divisione che usa la classe dominante per meglio dominare la situazione e che hanno contribuito così fortemente a preservare l’ordine capitalista. Il grande apporto dell’ultimo sciopero è stata l’esperienza di un’unità di classe realizzata al di fuori del controllo dei sindacati. Questo apporto non vale solo per gli impiegati delle poste implicati in questa lotta ma per ogni lavoratore incoraggiato da questa espressione dell’unità di classe.
A Cottam, vicino Lincoln nella parte orientale del centro dell’Inghilterra, a fine febbraio una cinquantina di operai delle centrali elettriche si sono messi in sciopero per sostenere dei lavoratori immigrati di origine ungherese pagati in media la metà rispetto ai loro compagni inglesi. Questi lavoratori immigrati avevano anche un contratto di lavoro fortemente precario, essendo sotto la minaccia di licenziamento dall’oggi al domani o di essere trasferiti in ogni momento in un qualunque altro cantiere d’Europa. Ancora una volta i sindacati si sono opposti allo sciopero vista la sua “illegalità” poiché, sia per gli operai ungheresi che per quelli inglesi, non era stato deciso sulla base di un voto “démocratico”. Anche stampa e televisione hanno denigrato questo sciopero, un giornaletto locale è arrivato a riportare le proposte di un intellettuale il quale ha dichiarato che chiamare gli operai inglesi e ungheresi a mettersi assieme nei picchetti di sciopero dava un’immagine “sconveniente” e costituiva uno “snaturamento del senso dell’onore della classe operaia britannica”. Al contrario, per la classe operaia riconoscere che tutti gli operai difendono gli stessi interessi, quale che sia la nazionalità o le specificità salariali e di condizioni di lavoro, è un passo importante per entrare in lotta come una classe unita.
In Svizzera, a Reconvilier, 300 metallurgici della Swissmetal sono scesi in sciopero spontaneamente dalla fine di gennaio alla fine di febbraio in solidarietà con 27 loro compagni licenziati dopo un primo sciopero nel novembre 2004. Questa lotta si è sviluppata al di fuori dei sindacati, ma alla fine questi hanno organizzato la negoziazione con il padronato imponendo questo ricatto: o accettare i licenziamenti o non essere pagati per le giornate di sciopero, “sacrificare” o i posti di lavoro o i salari. Seguire la logica economica del sistema capitalista significava, secondo la formulazione utilizzata da un operaio di Reconvilier, “scegliere tra la peste ed il colera”. Accettare la logica del capitalismo non può che portare gli operai ad accettare sempre più nuovi “sacrifici”. D'altronde è già programmata un’altra ondata di licenziamenti per 120 operai. Ma questo sciopero è riuscito a porre chiaramente la questione della capacità degli scioperanti ad opporsi a questo ricatto ed a questa logica del capitale. Un altro operaio ha tratto questa lezione dalla sconfitta dello sciopero: “E’ stato un errore lasciare il controllo delle negoziazioni in altre mani”.
… ed in India
In India, meno di un anno fa, nel luglio 2005, si è sviluppata la lotta di migliaia di operai della Honda a Gurgaon, nella periferia di Delhi che, dopo essere stati raggiunti nella lotta da una massa di operai venuti da fabbriche vicine di un’altra città industriale ed aver ricevuto l’aiuto della popolazione, si erano imbattuti in una repressione poliziesca estremamente brutale e in un’ondata di arresti tra gli scioperanti.
Il 1° febbraio scorso 23.000 operai si sono messi in sciopero in un movimento che ha toccato 123 aeroporti del paese contro le minacce di licenziamenti. Questo sciopero è stata una risposta al pesante attacco della direzione che progettava di eliminare progressivamente il 40% degli effettivi, in particolare i lavoratori più anziani che rischiavano di non trovare più lavoro. A Delhi ed a Bombay, ed in gran parte anche a Calcutta, il traffico aereo è stato paralizzato per giorni. Lo sciopero è stato dichiarato illegale dalle autorità. Queste hanno mandato la polizia e le forze paramilitari in varie città, in particolare a Bombay, a manganellare gli operai e fargli riprendere il lavoro, in applicazione di una legge che permette la repressione per “atti illegali contro la sicurezza dell’aviazione civile”. Contemporaneamente, da buoni partner della coalizione governativa, sindacati e forze della sinistra radicale borghese negoziavano con il governo già dal 3 febbraio. Insieme hanno poi chiamato gli operai ad incontrare il Primo ministro e li hanno spinti a riprendere il lavoro in cambio di una vana promessa di questo di riesaminare il dossier del piano di licenziamenti negli aeroporti. L’altra tattica è stata quella di tendere alla divisione tra i lavoratori con un’efficace gioco dei ruoli tra chi si faceva sostenitore della resa e chi della continuazione dello sciopero.
La combattività operaia si è espressa anche nelle fabbriche Toyota vicino Bangalore dove gli operai hanno scioperato per 15 giorni a partire dal 4 febbraio contro l’aumento dei ritmi di lavoro, causa di un moltiplicarsi degli incidenti sul lavoro alle catene di montaggio da una parte, e dall’altra di una pioggia di multe. Queste penalità per “rendimento insufficiente” vengono sistematicamente prelevato dai salari. Anche qui, i lavoratori si sono spontaneamente scontrati all’opposizione dei sindacati che hanno dichiarato illegale lo sciopero. La repressione è stata feroce: 1.500 scioperanti su 2.300 sono stati arrestati per “turbativa della pace sociale”. Questo sciopero ha avuto il sostegno attivo di altri operai di Bangalore, il che ha costretto i sindacati e le organizzazioni della sinistra borghese a metter su un “comitato di coordinamento” nelle altre fabbriche della città a sostegno dello sciopero e contro la repressione degli operai della Toyota, per contenere e sabotare questo slancio spontaneo di solidarietà operaia. A metà febbraio altri operai, di altre imprese di Bombay sono venuti a manifestare il loro sostegno a 910 operai della Hindusthan Lever in lotta contro la soppressione di posti di lavoro.
Una maturazione internazionale delle lotte portatrici d’avvenire
Queste lotte confermano pienamente una svolta ed una maturazione, una politicizzazione nella lotta di classe che si è delineata con le lotte del 2003 contro la “riforma” delle pensioni, in particolare in Francia ed in Austria. La classe operaia aveva già manifestato chiaramente delle reazioni di solidarietà operaia che noi abbiamo regolarmente ripercosso nella nostra stampa, in opposizione al completo black-out dei media su queste lotte. Queste reazioni si sono espresse in particolare nello sciopero alla Mercedes-Daimler-Chrysler nel luglio 2004 dove gli operai di Brema scioperarono e manifestarono a fianco dei loro compagni di Sindelfingen-Stuttgart vittime del ricatto del licenziamento in cambio della rinuncia dei loro “privilegi”, quando la direzione dell’impresa si proponeva di trasferire 6.000 posti di lavoro dalla regione di Stoccarda verso il polo di Brema.
Stessa cosa con gli addetti ai bagagli e gli impiegati della British Airways all’aeroporto di Heatrhow che, nell’agosto 2005, nei giorni che hanno seguito gli attentati di Londra ed in piena campagna anti-terrorista della borghesia, si sono messi spontaneamente in sciopero per sostenere i 670 operai pakistani dell’impresa di ristorazione Gate-Gourmet minacciati di licenziamento.
Altri esempi: lo sciopero di 18.000 operai della Boeing per tre settimane nel settembre 2005 dove i lavoratori, rifiutando la nuova convenzione proposta dalla direzione per abbassare l’ammontare delle pensioni e dei rimborsi sanitari, si opponevano alla discriminazione delle misure tra i giovani ed i vecchi operai e tra le diverse fabbriche. Più esplicitamente ancora, al momento dello sciopero nella metropolitana ed i trasporti pubblici a New York nel dicembre scorso, alla vigilia di Natale, e quando l’attacco sulle pensioni toccava esplicitamente solo i futuri assunti, gli operai hanno dimostrato la loro capacità di rifiutare una tale misura di divisione. Lo sciopero ha avuto un ampio seguito, malgrado la pressione dei media, perché la maggior parte dei proletari avevano la piena coscienza di battersi per l’avvenire dei loro figli , per le generazioni a venire (il che smentisce clamorosamente la propaganda su di un proletariato americano integrato o inesistente e quando tradizionalmente i proletari negli Stati Uniti non vengono considerai come l’avanguardia del movimento operaio). Nello scorso dicembre alle fabbriche SEAT della regione di Barcellona gli operai si sono opposti ai sindacati che avevano firmato sulle loro spalle degli accordi vergognosi permettendo il licenziamento di 600 lavoratori.
In Argentina durante l’estate scorsa, la più grande ondata di scioperi da 15 anni a questa parte ha toccato principalmente gli ospedali ed i servizi della sanità, il settore alimentare, gli impiegati della metropolitana di Buenos Aires, i lavoratori dell’amministrazione comunale di varie province, i maestri delle scuole elementari. A varie riprese gli operi di settori diversi si sono uniti alle manifestazioni a sostegno degli scioperanti. In particolare i lavoratori del settore petrolifero, gli impiegati del settore giudiziario, gli insegnanti, i disoccupati hanno raggiunto nella lotta i loro compagni impiegati nell’amministrazione comunale di Caleta Olivia. A Neuquen i lavoratori del settore della sanità si sono uniti alla manifestazione dei maestri in sciopero. In un ospedale per bambini i lavoratori in lotta hanno preteso lo stesso aumento salariale per tutte le categorie professionali. Gli operai sono stati confrontati ad una repressione feroce e a delle vere e proprie campagne di denigrazione da parte dei media.
Non si tratta ancora di lotte di massa, ma sicuramente di manifestazioni significative di un cambiamento nello stato d’animo della classe operaia. Lo sviluppo di un sentimento di solidarietà di fronte ad attacchi molto pesanti e frontali, conseguenza dell’accelerazione della crisi economica e dell’empasse del capitalismo, tende ad affermarsi nella lotta al di là delle barriere che impongono dappertutto le differenti borghesie nazionali: la corporazione, la fabbrica, l’impresa, il settore, la nazionalità. Allo stesso tempo, la classe operaia è spinta a prendere in carico in prima persona le proprie lotte e ad affermarsi come tale, a prendere poco a poco fiducia nelle sue proprie forze. E’ anche portata a confrontarsi alle manovre della borghesia ed al sabotaggio dei sindacati per isolare ed intrappolare gli operai. In questo lungo e difficile processo di maturazione, la presenza di giovani generazioni di operai combattivi che non hanno subito l’impatto ideologico del riflusso della lotta di classe del “dopo 1989”, costituisce un importante fermento dinamico. Per questo le lotte attuali, nonostante tutti i loro limiti e le loro debolezze, costituiscono un incoraggiamento e sono portatrici di un avvenire per lo sviluppo della lotta di classe.
Wim, 24 mars 2006
La lotta dei metallurgici è stata di massa e si è organizzata in assemblee generali pubbliche tenute nella strada, assemblee che i lavoratori avevano deciso di aprire a tutti quelli che volevano dare la loro opinione, sostenere lo sciopero, porre delle questioni o formulare delle rivendicazioni. Sono state organizzate delle manifestazioni di massa nel centro della città. Più di diecimila lavoratori si sono riuniti quotidianamente per organizzare la lotta, decidere sulle azioni da intraprendere, decidere verso quali fabbriche bisognava dirigersi per cercare la solidarietà degli altri operai, ascoltare le rare informazioni diffuse sullo sciopero, dar vita a delle discussioni con la popolazione nelle strade, ecc. E’ estremamente significativo che gli operai di Vigo abbiamo utilizzato gli stessi strumenti di lotta degli studenti in Francia durante gli ultimi avvenimenti. Le assemblee erano aperte agli altri lavoratori, occupati, disoccupati o pensionati. Le assemblee, in Francia come qui, sono state il polmone del movimento. E’ anche significativo che oggi, nel 2006, gli operai di Vigo riprendono gli strumenti di cui si erano dotati durante il grande sciopero del 1972: tenuta quotidiana di grandi assemblee generali che riuniscono gli operaia dell’intera città. La classe operaia è una classe internazionale e storica, queste sono le due caratteristiche da cui trae la sua forza.
La forza della solidarietà
Sin dall’inizio del movimento, gli operai in lotta hanno cercato la solidarietà degli altri lavoratori, in particolare di quelli delle grandi imprese della metallurgia che beneficiano di convenzioni particolari e che, per questo, non sarebbero “toccati”. Hanno inviato delle delegazioni di massa ai cantieri navali, alla Citroën e alle altre fabbriche più importanti. I cantieri navali si sono unanimemente messi in sciopero di solidarietà dal 4 maggio. Dal punto di vista egoista e freddo dell’ideologia della classe dominante, secondo cui ognuno deve interessarsi solo alle sue cose, questa azione non può che apparire come una “follia” ma, per la classe operaia, questa azione è la migliore risposta sia di fronte alla situazione immediata che per preparare il futuro. Nell’immediato, perché qualunque settore della classe operaia non può acquistare forza se non appoggiandosi sulla lotta di altri settori. Per preparare il futuro, perché la società che il proletariato aspira a instaurare e che permetterà all’umanità di uscire dall’impasse del capitalismo, trova i suoi fondamenti nella solidarietà, nella comunità umana mondiale. Il 5 maggio, circa 15.000 operai della metallurgia hanno circondato la più grande fabbrica della città, la Citroën che raggruppa 4500 operai, invitandoli a tenere un’assemblea fuori ai cancelli dello stabilimento ed a partecipare alla discussione per tentare di convincerli a unirsi nello sciopero. Ma questi erano divisi, alcuni erano pronti a entrare in sciopero mentre altri volevano lavorare. Mentre la discussione si sviluppava, dei gruppi di sindacalisti hanno cominciato a buttare delle uova ed altri alimenti sugli operai della Citroën, facendo pendere la bilancia a favore della non partecipazione allo sciopero. Alla fine questi hanno ripreso il lavoro tutti assieme. Ma il seme gettato quel giorno dalla delegazione di massa dei lavoratori ha cominciato a portare i suoi frutti: il martedì 9 cominciano dei piccoli scioperi sia alla Citroën che in altre grandi imprese. La solidarietà e l’estensione della lotta sono stati i punti forti anche del movimento degli studenti in Francia. Di fatto, il governo francese ha ritirato il CPE quando un sentimento spontaneo di solidarietà con gli studenti ha cominciato a svilupparsi nelle grandi imprese, in particolare alla Snecma e alla Citroën,. La solidarietà e l’estensione della lotta caratterizzarono fortemente lo sciopero generale di Vigo nel 1972, sciopero che fece ritirare il pugno di ferro della dittatura franchista. In questo si può vedere la forza internazionale e storica della classe operaia.
La repressione, arma della borghesia
L’8 maggio circa 10.000 operai che, dopo un’assemblea generale pubblica, si dirigevano alla stazione ferroviaria con l’intenzione di informare i viaggiatori sui motivi della lotta, sono stati attaccati da tutte le parti dalla polizia con una violenza inaudita. Le cariche della polizia sono state estremamente violente, gli operai dispersi in piccoli gruppi sono stati inseguiti senza tregua dalle forze dell’ordine. Vi sono stati numerosi feriti e tredici arresti. A partire da questo momento il black-out di televisione e giornali spagnoli è stato interrotto per riportare unicamente la violenza degli scontri tra gli operai e la polizia. Questa repressione la dice lunga sulla “democrazia” e i suoi bei discorsi sulla “negoziazione”, la “libertà di manifestare” e la “rappresentanza di tutti i cittadini”. Quando gli operai lottano sul loro terreno di classe, il capitale non esita un secondo a scatenare la repressione. Ed è là che si può vedere la vera natura di questo cinico campione del “dialogo” che è Zapatero, socialista e capo del governo. C’è di che temere: il suo ultimo predecessore socialista, Gonzalez, è stato già il responsabile della morte di un operaio in occasione della lotta dei cantieri navali di Gijon (1984) e di un altro a Reinosa in occasione delle lotte del 1987. Entrambi sono nella tradizione di un altro illustre borghese, il grande repubblicano di sinistra Azaña, che nel 1933 diede l’ordine di “tirare al ventre” in occasione del massacro dei lavoratori giornalieri a Casas Viejas. La violenta spedizione punitiva della stazione ferroviaria ha tuttavia un obiettivo politico: rinchiudere gli operai in lotte stancanti contro le forze di repressione, spingerli ad abbandonare le azioni di massa (manifestazioni e assemblee generali) a profitto della dispersione negli scontri contro la polizia. Lo scopo è chiaramente di piegarli in battaglie perdute in partenza che faranno perdere loro il capitale di simpatia accumulato da parte di altri lavoratori. Il governo francese ha tentato la stessa manovra contro il movimento degli studenti: "La profondità del movimento degli studenti si esprime anche nella sua capacità a non cadere nella trappola della violenza che la borghesia gli ha teso a più riprese, finanche utilizzando e manipolando i ‘casseur’: vedi l’occupazione da parte della polizia della Sorbona, trappola alla fine della manifestazione del 16 marzo, le cariche della polizia alla fine di quella del 18 marzo, le violenze dei "casseur" contro gli stessi manifestanti del 23 marzo. Anche se una piccola minoranza di studenti, in particolare quelli influenzati da ideologie anarchicheggianti, si sono lasciati tentare dagli scontri con le forze di polizia, la grande maggioranza di essi ha avuto a cuore di non lasciare distruggere il movimento in scontri a ripetizione con le forze di repressione”. (“Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”, pubblicate su www.it.internationalism.org [29]). Gli operai si sono dunque mobilitati in massa per esigere la liberazione degli operai arrestati, con una manifestazione che ha raccolto circa 10.000 di loro il 9 maggio e che ha vinto. E’ significativo il fatto che i mass-media (i giornali El País, El Mundo, la televisione…) che fino a quel momento avevano mantenuto un silenzio totale sul movimento delle assemblee, le manifestazioni di massa e la solidarietà, abbiano all’improvviso ingigantito gli scontri dell’8 maggio. Il messaggio che vogliono far passare è chiaro: “Se ti vuoi fare notare e vuoi che ti si presti attenzione, organizza delle azioni violente!” Infatti la borghesia è la prima beneficiaria dello sfinimento degli operai in degli scontri sterili.
Gli indugi e le manovre dei sindacati
Da molto tempo i sindacati hanno cessato di essere l’arma dei lavoratori per diventare lo scudo del capitale, come è stato dimostrato dalla loro partecipazione a tutti i negoziati per le riforme del lavoro nel 1988, 1992, 94, 97 e 2006, che hanno fatto di tutto per sviluppare la precarietà e i “contratti-pattumiera”. I tre sindacati (Commissioni operaie, UGT e CIG (2) ) hanno partecipato allo sciopero per sabotarlo dall’interno e riprenderne il controllo. Ciò è dimostrato dal fatto che si sono opposti, senza successo, all’invio di delegazioni di massa nelle altre aziende, “offrendo” in cambio la proclamazione di uno sciopero generale della metallurgia per l’11 di maggio. Gli operai non hanno atteso e hanno rifiutato di aspettare il giorno “x” del sindacato. Hanno invece messo in pratica il metodo autenticamente proletario: l’invio di delegazioni di massa, il contatto diretto con gli altri operai, l’azione collettiva e di massa. Ma il 10 maggio, dopo 20 ore di negoziazioni, i sindacati hanno firmato un accordo che, pur se ben camuffato, contiene un colpo basso in quanto elimina le rivendicazioni essenziali degli operai in cambio di qualche minutaglia e, naturalmente, si sono affrettati ad annullare l’appello allo sciopero generale del settore per l’indomani. Una gran parte dei lavoratori ha immediatamente manifestato la sua indignazione e il voto rispetto alla firma di questo accordo è stato spostato all’11 maggio. Bisogna tirare una lezione da questa manovra antisciopero. Non si possono lasciare le negoziazioni nelle mani dei sindacati, esse devono essere totalmente gestite dalle assemblee generali. Queste devono nominare una commissione di negoziazione che renda conto quotidianamente dell’avanzare delle discussioni. È ciò che si faceva negli anni ’70 e che noi dobbiamo riprendere se vogliamo evitare d’essere abbindolati da questi venduti.
Le prospettive per la lotta
CCI, 10 maggio 2006
(presa di posizione sul web della nostra sezione in Spagna)
1. La CNT, il più “radicale” dei sindacati, ha mantenuto un silenzio incredibile su questa lotta fino all’8 maggio.
2. CIG: Confederazione Intersindacale di Galizia. Sindacato nazionalista radicale che ha giocato un ruolo molto “combattivo” in contrapposizione alla "moderazione" mostrata dagli altri due.
La pretesa “Frazione Interna della CCI” (FICCI) è un piccolissimo gruppuscolo composti di ex-membri della CCI esclusi al nostro 15° Congresso internazionale per delazione. Questa non è la sola infamia di cui questi elementi si sono resi responsabili poiché, rinnegando i principi fondamentali del comportamento comunista, si sono egualmente distinti per i loro comportamenti tipici da canaglia, quali la calunnia, il ricatto e il furto. Per questi altri comportamenti, benché molto gravi, la CCI non aveva deciso la loro esclusione, ma una semplice sospensione. Cioè era ancora possibile per questi elementi ritornare nell’organizzazione evidentemente alla condizione che restituissero il materiale e il denaro che le avevano rubato e che si impegnassero a rinunciare a comportamenti che non hanno posto in una organizzazione comunista. Se la CCI ha deciso alla fine di escluderli è perché questi hanno pubblicato sul loro sito Internet (cioè sotto gli occhi di tutta la polizia del mondo) delle informazioni interne che facilitano il lavoro della polizia:
· la data in cui si doveva tenere la conferenza (interna) della nostra sezione in Messico;
· le vere iniziali di uno dei nostri compagni da loro presentato come “il capo della CCI”, con la precisazione che lui era l’autore di questo o quel testo, tenuto conto del “suo stile” (il che è una indicazione interessante per i servizi di polizia) (1).
Bisogna precisare che prima di procedere alla loro esclusione, la CCI aveva indirizzato una lettera individuale ad ognuno dei membri della FICCI in cui gli si chiedeva se lui solidarizzava individualmente con queste delazioni. Lettera alla quale la FICCI ha alla fine risposto rivendicando collettivamente questi comportamenti infami. Bisogna precisare anche che era stata data ad ognuno di questi elementi la possibilità di presentare la propria difesa davanti al Congresso della CCI o ancora davanti ad una commissione di 5 membri della nostra organizzazione di cui 3 potevano essere designati dagli stessi membri della FICCI. Questi coraggiosi individui, coscienti che i loro comportamenti erano indifendibili, hanno rigettato queste ultime proposte della CCI. La FICCI si presenta come “il vero continuatore della CCI” la quale avrebbe conosciuto una degenerazione “opportunista” e “stalinista”. Dichiara di proseguire il lavoro, abbandonato dalla CCI, di difesa nella classe operaia delle “vere posizioni di questa organizzazione”. In fatto di difesa delle posizioni comuniste nella classe operaia, la sua attività consiste essenzialmente nella pubblicazione sul suo sito Internet di un “Bullettin Comuniste” (Bollettino Comunista), che viene inviato agli abbonati della nostra pubblicazione in Francia di cui i membri della FICCI hanno rubato il dossier degli indirizzi ben prima di abbandonare la nostra organizzazione. In più, ogni dispensa di questo “Bulletin” è consacrata in buona parte a calunnie, vedi pettegolezzi da portinaia, contro la nostra organizzazione. Ogni tanto le capita di diffondere un volantino rispetto a degli avvenimenti importanti come i moti nelle periferie dell’autunno 2005 o le recenti mobilitazioni degli studenti sul CPE. In realtà anche questo tipo di intervento è considerato secondario dalla FICCI rispetto alla sua principale preoccupazione: spargere il massimo di calunnie contro la CCI sulla base del principio “Calunnia e calunnia qualcosa sempre resterà!”.
La miglior prova di questo ci è stata data dal comunicato che essa ha pubblicato l’11 marzo sul suo sito Internet, intitolato: “Comunicato della ‘Frazione Interna della CCI’ a tutti i gruppi e militanti che si rivendicano alla Sinistra comunista: questa volta ci siamo! Hanno aggredito fisicamente e picchiato dei nostri militanti!”. In materia di intervento nella lotta contro il CPE, abbiamo dovuto aspettare il 18 marzo perché la FICCI si degnasse di fare qualche cosa sotto forma di un volantino che ha diffuso alla manifestazione quel giorno. Prima di allora, neanche una minima presa di posizione, neanche sul suo sito Internet. Visibilmente su questo argomento la FICCI è stata male ispirata poiché il documento che alla fine ha pubblicato era una sorta di “montaggio” dei due volantini che noi avevamo già diffuso e messo sul nostro sito Internet. A quella data avevamo anche già tenuto una riunione pubblica a Parigi sul tema: “Mobilitazione degli studenti contro il CPE: studenti, liceali, futuri disoccupati e futuri precari, operai occupati e senza lavoro, una stessa lotta contro il capitalismo!”. Ed è giustamente in seguito a questa riunione pubblica ed a suo proposito che la FICCI si è svegliata per gratificarci della sua prosa. Cosa possiamo leggere in questo “Comunicato”?
“Perché la nostra prima responsabilità di Frazione è di combattere, con tutti i mezzi, la deriva opportunista nella quale si trova la nostra organizzazione, noi abbiamo inviato, questo sabato 11 marzo, 2 dei nostri militanti alla sua ultima riunione ‘pubblica’. (…) La compagna ed il compagno che avevano come compito di distribuire un volantino all’entrata della ‘riunione’, sono stati ricevuti da una dozzina di energumeni, che formavano una vera milizia alla stalinista. I nostri compagni sono stati agguantati violentemente, colpiti a più riprese e ricondotti manu militari fino al metrò, 150 metri più in là. Precisiamo bene che queste aggressioni hanno avuto luogo, ancora una volta, nella strada e che, da parte nostra, non abbiamo mai cercato di rispondere fisicamente alla provocazione che ci era imposta, tranne che per limitarne la brutalità. Nonostante ciò, gli energumeni (che pretendono ancora di essere dei militanti comunisti), completamente eccitati, hanno continuato a picchiare i nostri compagni (ricordiamo che uno dei due è una donna) sotto gli occhi attoniti dei passanti, numerosi a quell’ora in via Choisy a Parigi.
Questa dichiarazione non ha nulla a che vedere con la realtà. Effettivamente, e spiegheremo dopo perché, una equipe della CCI (che era ben lungi dal raggiungere la dozzina ed il cui fisico non ha niente a che vedere con la descrizione atletica che ne da la FICCI) ha ricondotto fino al metrò i due individui della FICCI che si erano presentati davanti l’entrata della nostra riunione pubblica. Ma in nessun momento i nostri compagni hanno “colpito a più riprese” e ancor meno “continuato a picchiare” questi individui. In questo senso possiamo rassicurare la persona che si firma "Bm" e che ha mandato un messaggio alla FICCI dichiarando "La prima cosa è sapere se non siete feriti e se avete bisogno di un qualsiasi aiuto” (“Bulletin Comuniste” n°35). Se gli elementi della FICCI hanno esibito delle tumefazioni o dei lividi, questi non sono stati fatti dai militanti della CCI. In realtà, la “ricacciata al metrò” dei membri della FICCI praticata da noi l’11 marzo fa seguito alla politica che noi conduciamo dall’estate 2003 e spiegata esplicitamente nel nostro articolo “Le riunioni pubbliche della CCI interdette ai delatori” (Revolution Internazionale n°338).
In questo articolo scrivevamo:
“La CCI ha preso la decisione di interdire la presenza alle sue riunioni pubbliche ed alle sue permanenze ai membri della pretesa “Frazione Interna” della CCI (FICCI). Questa decisione fa seguito all’esclusione di questi membri della FICCI operata al 15° Congresso, nella primavera del 2003, e deriva dai motivi di questa esclusione: l’adozione da parte di questi elementi di una politica di delazione contro la nostra organizzazione. (…) Perché le cose siano ben chiare: non è in sé, perché questi elementi sono stati esclusi dalla CCI, che essi non possono partecipare alle sue riunioni pubbliche . Se la CCI fosse stata portata ad escludere uno dei suoi membri a causa, per esempio, di un modo di vita incompatibile con l’appartenenza ad una organizzazione comunista (come la tossicodipendenza), ciò non gli impedirebbe in seguito di venire alle sue riunioni pubbliche. È perché questi elementi hanno deciso di comportarsi come degli spioni che noi non possiamo tollerare la loro presenza a queste. Questa decisione si applica ad ogni individuo che si consacra a rendere pubbliche delle informazioni che possono facilitare il lavoro delle forze di repressione dello stato borghese (…). A vedere i suoi bollettini, i pettegolezzi e le delazioni sulla CCI e sui suoi militanti sono le principali attività della ‘Frazione’:
· nel n°18 troviamo un rapporto dettagliato su un riunione pubblica del PCI-Le Proletarie, sono riportati in dettaglio tutti i fatti ed i movimenti di ‘Peter alias C.G.’;
· nel n°19 si ritorna alla carica su Peter ‘che diffonde solo’ in questa o quella manifestazione e si solleva una questione ‘altamente politica’: “Infine, e voi comprenderete che poniamo anche questa questione: dov’è Louise? Assente dalle manifestazioni, assente dalle riunioni pubbliche, è di nuovo malata?”
Nei fatti, la principale preoccupazione dei membri della FICCI quando partecipano alle manifestazioni e alle riunioni pubbliche della CCI è sapere CHI è assente, CHI è presente, CHI fa questo e CHI dice quello, al fine di poter in seguito riportare pubblicamente tutti i fatti ed i movimenti dei suoi militanti. Questo è un lavoro degno degli agenti dei Servizi di Informazione! (2). Non possiamo impedire ai membri della FICCI di attraversare in lungo ed in largo le manifestazioni di piazza per sorvegliarci. Per contro possiamo impedirgli di fare il loro sporco lavoro da sbirro nelle nostre riunioni pubbliche. In queste non hanno più la possibilità di esprimersi dopo che abbiamo preteso come condizione alla loro presa di parola di restituire prima il denaro rubato alla CCI. La sola ragione che motiva la loro presenza è la sorveglianza di tipo poliziesco e l’adescamento di elementi interessati alle nostre posizioni.”
Nonostante l’interdizione ai membri della FICCI alla sala delle nostre riunioni pubbliche, abbiamo permesso per più di due anni che questi individui fossero presenti davanti il portone di entrata del luogo dove si tengono, il che gli ha permesso di tentare di dissuadere i nostri contatti e simpatizzanti dal parteciparvi denigrando sistematicamente la nostra organizzazione nei volantini zeppi di calunnie e dicendo loro “diffidate, sono degli stalinisti”. Allo stesso tempo abbiamo sopportato i sarcasmi, gli insulti e le provocazioni che non mancavano di indirizzare ai nostri compagni che facevano parte del “picchetto anti-spione”.
Là dove abbiamo incominciato a reagire con più fermezza è stato quando uno dei membri della FICCI, quello che si fa chiamare “Pédoncule”, ha minacciato di morte un nostro compagno promettendogli di “tagliargli la gola” (3). Abbiamo allora deciso di vietare a questo elemento di avvicinarsi al luogo delle nostre riunioni pubbliche, spiegando che l’interdizione non riguardava gli altri membri della FICCI. Episodio che la FICCI ha riportato a modo suo nel Bollettino n°33 (Applicazione dello stato d’allerta contro la nostra frazione, La CCI ci vieta la strada e vuole importi il coprifuoco!”) facendo credere che a TUTTI i membri della FICCI fosse interdetto stazionare davanti al luogo delle riunioni, cosa che all’epoca era assolutamente falso, e la FICCI lo sapeva bene.
Se alla fine abbiamo deciso di mettere effettivamente in pratica una tale attitudine è per le seguenti ragioni:
· in seguito alla pubblicazione del nostro articolo sui comportamenti del signor Pédoncule, non c’è stata la benché minima critica nei bollettini della FICCI delle minacce di morte fatte da questo; al contrario, un testo pubblicato in risposta al nostro articolo solidarizza pienamente con questo individuo;
· è in maniera totalmente falsa che la FICCI ha riportato l’interdizione fatta a Pédoncule di avvicinarsi alle nostre riunioni pubbliche;
· ma soprattutto, in seguito al nostro intervento nel movimento degli studenti contro il CPE, ci aspettiamo la venuta di nuovi elementi alla nostra riunione pubblica dell'11 marzo dedicata proprio a questa mobilitazione (ciò che effettivamente è avvenuto a Parigi ed in altre città), e non vogliamo che la FICCI abbia l’occasione di continuare, davanti e rispetto a questi nuovi elementi, la politica che essa ha condotto per anni: calunnie, provocazioni e soprattutto comportamenti polizieschi.
In effetti, i simpatizzanti che già venivano alle nostre riunioni pubbliche erano conosciuti da tempo dai membri della FICCI. In questo senso, il lavoro parassitario e da sbirri, in cui quest’ultima si è specializzata, non poteva applicarsi a loro. Invece, non possiamo tollerare che nuovi elementi che si interessano alla politica comunista siano immediatamente “schedati” dalla FICCI. Nella misura in cui l'arrivo di questi nuovi elementi si conferma e tenderà probabilmente ad aumentare nel futuro, la CCI ha dunque deciso di interdire d’ora in poi ai membri della FICCI, non solo l'accesso nostre riunioni pubbliche, ma anche di gironzolarvi nei pressi. Questa decisione, come l’abbiamo già detto nella nostra stampa a proposito di altre misure che siamo stati portati a prendere contro la FICCI o i suoi membri, non ha niente a che vedere con un “rifiuto del dibattito politico”, come ci accusa la FICCI. Così come non è affatto in contraddizione, come lei pretende, con il principio che abbiamo sempre difeso di rigettare la violenza all’interno della classe operaia. Nel 1981, con l’accordo e la partecipazione di alcuni membri attuali della FICCI, abbiamo recupera manu militari il materiale che l’individuo Chénier ed elementi della sua “tendenza” avevano rubato alla nostra organizzazione, nella misura in cui il loro atteggiamento da ladri li aveva mesi al di fuori del campo proletario. Per molti versi i comportamenti dei membri della FICCI hanno superato in infamia quelli degli “amici di Chénier”. È la stessa politica che noi adottiamo. Quanto alle testimonianze di “solidarietà” ricevute dalla FICCI e pubblicate nel suo Bollettino n°35 nella rubrica “La sana risposta del campo proletario”, esse manifestano (se non sono dei falsi) sia l’ignoranza, sia la volontà di non voler riconoscere la realtà dei comportamenti da canaglia e da delatore della FICCI, sia l’odio che la politica comunista della CCI necessariamente provoca in degli elementi della piccola-borghesia o del sottoproletariato. In ogni caso, tra queste testimonianze di “solidarietà” verso la FICCI, ce n’è una che noi abbiamo ricevuto e che la FICCI si è ben guardata dal pubblicare: prendendone conoscenza sul nostro sito, ognuno potrà capire perché.
CCI, 18/05/06
1. Vedi in particolare a questo proposito i nostri articoli “15° Congresso della CCI: rafforzare l’organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo” in Rivoluzione Internazionale n°131 e “I metodi polizieschi della FICCI in Rivoluzione Internazionale n°130
2. Organismo della polizia di Stato con l’incarico di ricercare informazioni di ordine politico e sociale su scala nazionale.
3. Vedi il nostro articolo “Difesa dell’organizzazione: minacce di morte contro i militanti della CCI” in Rivoluzione Internazionale n°140 [31]
In Francia, lo sciopero massivo dei giovani studenti e dei lavoratori – della nuova generazione della classe operaia – ha forzato il governo a ritirare la nuova legge sull’“impiego”, il CPE. L’organizzazione della lotta attraverso le assemblee generali, la capacità degli studenti di discutere collettivamente e di evitare molte delle trappole messe dalla classe dominante, la loro comprensione della necessità per il movimento di allargarsi ai salariati, tutti questi sono segni del fatto che stiamo entrando in un nuovo periodo di scontro tra le classi.
Ciò viene mostrato non solo dal movimento in Francia, ma anche dal fatto che questo è stato solo uno di una lunga serie di movimenti della classe operaia contro i crescenti assalti del capitalismo ai suoi livelli di vita. In Gran Bretagna, lo sciopero convocato dai sindacati locali il 28 marzo è stato seguito da oltre un milione e mezzo di lavoratori, preoccupati a resistere ai nuovi attacchi alle loro pensioni. In Germania, decine di migliaia di impiegati statali e di operai di fabbrica sono stati coinvolti in scioperi contro tagli salariali e aumenti dell’orario lavorativo. In Spagna gli operai della SEAT sono scesi spontaneamente in sciopero contro il saccheggio concordato tra padroni e sindacati. Sempre in Spagna, a Vigo, all’inizio di maggio 23.000 lavoratori del settore metallurgico, in gran parte giovani operai, sono scesi in lotta contro la nuova riforma del lavoro che prevede l’abbassamento dell’indennità di licenziamento e l’estensione dei contratti precari. Negli USA, anche i lavoratori della rete di trasporti di New York e quelli della Boeing sono scesi in sciopero in difesa delle loro pensioni. Nell’estate del 2005 l’Argentina è stata scossa dalla più grande ondata di scioperi degli ultimi 15 anni. In India, Messico, Sud Africa, Dubai, Cina e Vietnam, la classe operaia sta mostrando con le sue azioni che, contrariamente a tutta la propaganda dei nostri sfruttatori, non è per niente scomparsa dalla scena sociale. Al contrario, essa rimane la classe che mantiene gli ingranaggi della produzione capitalista in funzione e che crea l’immensa mole di ricchezza sociale. Questi movimenti stanno diventando sempre più estesi, più simultanei e più determinati.
Un tema centrale in pressoché tutti questi movimenti è stato quel vecchio principio proletario della solidarietà. L’abbiamo visto in Francia non solo nell’esemplare maniera in cui studenti di università diverse si sono sostenuti gli uni con gli altri, ma anche nella mobilitazione attiva di un numero crescente di salariati nel movimento, e nell’unità tra diverse generazioni. Lo abbiamo visto in Spagna alla SEAT quando i lavoratori sono scesi in sciopero in difesa dei compagni licenziati ed a Vigo con la partecipazione di proletari di altri settori alle assemblee generali tenute per le strade dagli operai in sciopero. Lo abbiamo visto a Belfast quando i lavoratori delle poste, in sciopero nonostante l’avviso contrario del loro sindacato, hanno apertamente cancellato la divisione settaria marciando assieme attraverso sia le zone cattoliche che quelle protestanti della città. Lo abbiamo visto a New York dove i lavoratori della Transit hanno spiegato che loro non stavano lottando per sé stessi ma per la futura generazione di lavoratori. In India, i lavoratori in sciopero alla Honda di Delhi sono stati raggiunti da masse di lavoratori di altre fabbriche, soprattutto dopo gli scontri con le forse di repressione.
Il principio della solidarietà – e la crescente volontà di difenderla nell’azione – è un elemento centrale della vera natura della classe operaia. Questa infatti è una classe che può difendere i suoi interessi solo se agisce in maniera collettiva, estendendo le sue lotte il più possibile, superando tutte le divisioni imposte dalla società capitalista: divisioni in nazioni, razze, religioni, professioni e sindacati. La ricerca della solidarietà contiene perciò i germi dei movimenti sociali di massa che hanno la capacità di paralizzare l’attività del sistema capitalista. Abbiamo avuto un certo sentore di ciò in Francia questa primavera. Stiamo ancora all’inizio, ma l’attuale risorgere delle lotte operaie sta preparando la strada per gli scioperi di massa del futuro.
E al di là dello sciopero di massa c’è la prospettiva non solo di fermare il capitalismo, ma anche di riorganizzare da cima a fondo la produzione, di creare una società in cui la solidarietà sociale sia la norma, non un principio di opposizione all’ordine esistente, fondato sulla spietata competizione tra esseri umani.
Questa prospettiva è contenuta nelle attuali lotte della classe operaia. Non si tratta semplicemente di una speranza per un futuro migliore, ma di una necessità imposta dalla bancarotta del sistema sociale capitalista. I recenti movimenti di classe sono stati provocati da continui e sempre più forti attacchi contro le condizioni di vita dei lavoratori – sui salari, sugli orari, sulle pensioni, sulla sicurezza sul lavoro. Ma questi attacchi non sono qualcosa di cui la classe dominante e il suo Stato possono fare a meno portando avanti una politica alternativa. Essi sono infatti obbligati a peggiorare le condizioni di vita della classe operaia perché non hanno scelta, perché non possono sfuggire alla pressione della crisi economica del capitalismo e all’implacabile guerra per la sopravvivenza sul mercato mondiale. Ciò vale per qualunque partito politico sia al potere, per qualunque gruppo di burocrati gestisca lo Stato.
La borghesia non ha d’altra parte alcuna alternative di fronte al crollo dell’economia che la spinge verso il militarismo e la guerra. La generalizzazione della guerra a tutto il pianeta – che si manifesta attualmente particolarmente attraverso la “guerra al terrorismo” e la minaccia di aprire un nuovo fronte militare contro l’Iran – esprime l’inesorabile deriva del capitalismo verso la distruzione dell’umanità.
La classe degli sfruttatori e la classe dei salariati non hanno nulla in comune. Loro non hanno altra scelta che cercare di sfruttarci sempre di più. Noi non abbiamo altra scelta che resistere. Ed è resistendo che scopriremo la fiducia e la forza di avanzare la prospettiva dell’abolizione dello sfruttamento una volta per tutte.
WR
“Finalmente abbiamo cacciato Berlusconi!”, hanno gridato in tanti una volta accertatisi che il risultato delle elezioni politiche dell’aprile scorso si fosse definitivamente consolidato, esprimendo un risicato vantaggio per il centro-sinistra. Effettivamente quello di Berlusconi è stato uno dei peggiori governi della Repubblica italiana. Perseguendo una politica fortemente partigiana a favore di alcune famiglie di imprenditori, questo governo ha finito per scontentare la stessa borghesia – vedi lo scontro pre-elettorale del presidente del Consiglio al convegno di Vicenza con la Confindustria - lasciando peraltro una pesantissima eredità sul piano finanziario. Ma allora come ha fatto per andare al potere? Una spiegazione si trova sicuramente nell’appoggio che la borghesia americana ha concesso incondizionatamente a qualunque governo italiano si mostrasse obbediente e in riga, come ha saputo fare Berlusconi per tutto il suo mandato. E sappiamo bene quanto l’America abbia contato e conti sulla docile obbedienza italiana come punto di appoggio, tanto per fare un esempio, per le sue operazioni imperialistiche nel vicino e medio oriente (1). In questo senso il capo del governo si è fatto il punto di riferimento dell’insieme di forze che a vario titolo concorrono a mantenere un controllo degli interessi americani in Italia, tra cui la stessa mafia. Non è un caso infatti che proprio all’indomani del risultato elettorale sia stato arrestato il boss dei boss, Provenzano, latitante da oltre 40 anni e pescato a pochi passi da casa sua. L’altro elemento è la necessità - per la classe dei padroni - di cambiare ogni tanto le compagini politiche da mettere al governo, per far vedere che “cambiare si può”, che “la democrazia la vince sempre!” In particolare un governo di sinistra non può stare per troppo tempo al potere perché, nell’impossibilità di realizzare un benché minimo miglioramento reale delle condizioni materiali dei lavoratori in un periodo di crisi permanente del capitalismo, le forze di sinistra finirebbero per perdere ogni credibilità come forze schierate “a fianco dei lavoratori”.
Come dicevamo prima, questo governo ha fatto veramente del suo peggio scontentando tutti e rendendo indifferibile un cambio della guardia. Ma qui viene fuori un ulteriore elemento che comincia a pesare sulla politica italiana e internazionale e che si traduce nella difficoltà della borghesia a controllare il suo gioco elettorale. In una situazione in cui la crisi economica del capitalismo non trova nessuno sbocco a qualunque livello, si crea una empasse che si fa sentire nella vita stessa della borghesia che diventa sempre più disunita, con la conseguente difficoltà ad avere una presa sulla società. Ciò si è tradotto ad esempio nella creazione e nel comportamento del tutto anacronistico di un partito come la Lega Nord e ugualmente nell’intemperanza di un capo di governo del tutto anomalo come Berlusconi, senza che i poteri forti del paese potessero veramente farci qualcosa. Questa difficoltà della borghesia si è prodotta più recentemente nella sua incapacità ad orientare il voto delle politiche del 2006 in maniera netta verso una maggioranza di centro-sinistra, subendo anche qui la viscosità del berlusconismo e la sua voglia di rimanere aggrappato al potere. Ciò si è tradotto in un tragico risultato di quasi parità tra centro-destra e centro-sinistra, che ha consentito, solo grazie al premio di maggioranza alla camera e il “responsabile” voto dei senatori a vita, di formare un governo con un minimo di margini di manovra. Ma questa situazione, come tutti gli osservatori di politica nazionale e internazionale hanno fatto subito notare, taglia le gambe al governo Prodi e lo rende molto più debole nei confronti di centomila ricatti da parte della disunita e variegata compagine partitica di centro sinistra di cui ogni singola componente risulta ugualmente indispensabile alla maggioranza. Basti vedere già la pletorica composizione del governo, più gonfio di ministri e sottosegretari del necessario, come alcuni ministri hanno incautamente confessato, e le beccate che si sono cominciati a dare tra neoministri e ancora tra questi e i rispettivi sottosegretari. Imporre la propria leader-ship ad un governo simile non sarà per niente facile, tanto più che Prodi non ha dietro di sé la forza di un partito ma solo un carisma personale che, per quanto sia importante, non è abbastanza di questi tempi.
Se la borghesia ha trovato difficoltà a orientare nel verso giusto il risultato elettorale, non ne ha avuto invece nel rinnovare la mistificazione elettorale, ovvero l’illusione che la partecipazione al voto possa veramente cambiare qualcosa. Un anno di fatto di campagna elettorale in Italia e un continuo duello tra Berlusconi e la sinistra a chi disegnava più diabolicamente l’avversario sono valsi alla fine a invertire la tendenza che da anni portava ad una riduzione dei votanti, passando dal 75,1% del 2001 all’81,4 di quelle di aprile scorso. Inoltre le stesse schede bianche e nulle si sono ridotte da tre milioni a un solo milione. Insomma molta gente che in passato aveva espresso un voto di protesta o semplicemente era andato a votare solo per annullare, si è passato la fatidica mano sulla coscienza e, turandosi il naso, ha deciso di schierarsi.
Ma siamo proprio sicuri di non essere caduti dalla padella nella brace? Per capirlo, vediamo cosa si accinge a fare questo nuovo governo e cosa ci attende. Abbiamo parlato prima della pesante eredità lasciata dal governo Berlusconi, che si è mostrata anche più pesante del previsto. Secondo l’Istat il deficit ha raggiunto il 4,4% sul PIL ed è stato azzerato l’avanzo primario. (La Repubblica del 6 aprile 2006). La crescita del Prodotto Interno Lordo è esigua (1,3%). Giornali come il Financial Times affermano che l’Italia rischia di uscire dall’area dell’euro a causa di “circostanze economiche” che sono, sempre per il Ft, il fatto che l’Italia, a differenza di Francia e Germania, non soffre soltanto di scarsa crescita e alta disoccupazione, ma pure di un costo del lavoro del 20% superiore a quello tedesco e una competitività ai più bassi livelli del continente” (La Repubblica del 18 aprile 2006). Rodrigo Rato, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, dichiara ancora (La Repubblica del 21 aprile 2006) che “non possiamo nascondere che le prospettive a medio termine dell’Italia sono problematiche; se non si agisce subito peggioreranno”. Su questa ultima affermazione sono praticamente d’accordo tutti: bisogna agire e in fretta, altrimenti … Appunto. Ma che significa agire in questo caso? Che il governo Prodi deve ricorrere ad una manovra finanziaria straordinaria - si parla di 30 miliardi di euro – che non è certo roba da poco. Se poi qualcuno si lamenterà, potrà sempre essere zittito con l’accusa di fare il gioco di Berlusconi e di non capire che è quest’ultimo che ha creato questo bel casino. D’altra parte i numeri non lasciano alcun margine di ambiguità: negli ultimi anni l’impoverimento della popolazione italiana (ma non solo italiana) è un fatto che, più che dalle statistiche ufficiali, la gente ha avvertito a fior di pelle. Il che significa che certamente i lavoratori non hanno goduto né di aumenti salariali significativi né di incrementi di aiuti sociali e assistenziali, tutt’altro. Eppure a fronte di ciò le statistiche dicono che il costo dei lavoratori è aumentato significativamente e che la competitività è scesa nei confronti della comunità europea. E’ ovvio che questo significa, per la borghesia, che bisogna agire e in fretta! Ma come pensate che agirà il nuovo governo di centro-sinistra: dandoci più soldi, più serenità, più assistenza?
C’è poi la questione della scelta imperialista. Con il governo Prodi termina la tresca con il governo americano e l’Italia torna a una politica più orientata al filoeuropeismo. Ma, al contrario della politica fin troppo servile di Berlusconi, quella di Prodi non sarà una politica di stretta osservanza filo-tedesca o decisamente anti-americana perché all’Italia, potenza di minore calibro rispetto a paesi come Francia, Gran Bretagna e Germania, è tradizionalmente più congeniale una politica con cui cercare di trarre qualche profitto da un ruolo di mediazione. Così lo schieramento imperialista dell’Italia per i prossimi anni sarà, rispetto al governo Berlusconi, meno accentuato e appariscente, ma non per questo meno imperialista e guerrafondaio. Basti solo tenere presente che al ministero degli esteri del nuovo esecutivo si trova un D’Alema che ha fatto, come capo di uno scorso governo, direttamente la guerra alla Serbia mandando i propri soldati a bombardare la povera gente di Belgrado. Tutto ciò si riflette nel fatto che il famoso ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, nonostante le promesse della vigilia, si profila molto meno veloce di quanto non sia accaduto per la Spagna di Zapatero. Inoltre è probabile che la missione, da militare, si trasformi in un programma civile di ricostruzione – come d’altra parte l’Italia è abituata a fare, vedi la stessa presenza in Afghanistan – portando ad una riduzione drastica della presenza militare in Iraq, ma conservando sul posto una delegazione per difendervi gli interessi imperialisti nazionali.
Se tutto questo è vero, il governo Prodi riuscirà a portare avanti il suo programma solo grazie ad una grande mistificazione facendo credere, sul piano economico, che occorre tirarsi su le maniche per risanare la situazione disastrosa lasciata da Berlusconi e che su altri piani, come quello imperialista, non si tratta più di fare le guerre ma di andare sul posto a portare direttamente la solidarietà alla gente. Da questo punto di vista il grande battage orchestrato dai mass-media sul fatto che la comunità europea pretende subito un raddrizzamento nei conti pubblici italiani sembra in verità – benché naturalmente corrisponda ad una situazione obiettivamente disastrosa – più un favore fatto al nuovo governo Prodi per aiutarlo a promuovere la manovra finanziaria bis senza problemi sul piano sociale che una reale preoccupazione da parte della stessa UE. Tutto questo ha un solo grande difetto: nella misura in cui la borghesia ha dovuto impegnare anche Rifondazione Comunista – classico partito di opposizione – all’interno della maggioranza e del governo, significa che nel momento in cui il governo comincerà ad attaccare, non ci sarà uno straccio di forza di sinistra che possa fingere di fare l’opposizione parlamentare e cercare di convogliare lo scontento dei lavoratori su dei falsi obiettivi. Questa è una debolezza molto importante che potrà mettere in difficoltà la borghesia, cosa di cui questa sembra essere cosciente, tanto che ha anche cercato di porvi rimedio. Infatti, se vediamo come sono stati assegnati i ministeri ai vari partiti ci rendiamo conto che Rifondazione è stata alquanto penalizzata per aver avuto, con il suo 5,8 e 7,4% tra Camera e Senato, un solo ministero - e di quelli di scarso peso - come tutti i partiti minori che superano di poco, quando lo raggiungono, il 2%. Al tempo stesso può sembrare sovrastimato il peso di RC per l’occupazione di una delle cariche istituzionali più ambite dello Stato, quella di presidente della Camera. In realtà ciò risponde ad una logica precisa, quella di non impegnare RC in ministeri chiamati a prendere misure antipopolari, lasciandole tuttavia la responsabilità della presidenza di uno dei rami del parlamento che permetterà di poter dire che Bertinotti avrà saputo dare ai lavoratori tutte le occasioni di uso democratico delle istituzioni. Se poi si dovesse arrivare a una situazione di malcontento popolare estremo, Rifondazione potrebbe sempre ritirare dal governo quell’unico ministro (tanto che ci sia o no fa pochissima differenza) in modo da mantenere un appoggio esterno, critico beninteso.
I mesi che verranno saranno perciò particolarmente importanti dal punto di vista dello scontro sociale, con la borghesia impegnata a cercare nuove strategie di mistificazione contro la classe operaia, e quest’ultima sempre meno disponibile a farsi abbindolare. L’esperienza di lotte e di solidarietà che sta vivendo in questo momento il proletariato a livello internazionale costituirà l’humus appropriato in cui questo scontro di classe potrà arrivare ad un’appropriata maturazione.
Ezechiele, 31 maggio 2006
1. A parte la partecipazione italiana alla “seconda fase” della guerra in Iraq, basti ricordare la libertà data all’esercito americano di arrestare senza alcuna autorizzazione della magistratura, anzi, diciamo più propriamente, di rapire dal suolo italiano cittadini di altri paesi sospettati di terrorismo e ancora di usare gli aeroporti italiani come scalo per i famosi aerei-prigione
Il triplice attentato del 24 aprile a Dahab, stazione balneare egiziana molto frequentata dai turisti, che ha fatto circa 30 morti e 150 feriti, è venuto a ricordare alle popolazioni del mondo che non c’è niente al riparo dal furore terrorista e guerriera che infuria sul pianeta. E non saranno le “condanne unanimi” e le dichiarazioni ipocrite degli uomini di Stato, per i quali questo attentato “solleva sentimenti di orrore ed indignazione” o che rigettano questo atto di “violenza odiosa”, che cambieranno qualche cosa. Al contrario, questo attacco rivolto contro degli innocenti che erano venuti a passare qualche giorno di vacanza ha costituito per essi una nuova occasione, dietro le loro lacrime da coccodrillo, di riaffermare la loro “lotta contro il terrorismo”, cioè la prospettiva della continuazione di nuovi massacri, a scala ancora più ampia.
Eppure già oggi si può misurare l’efficacia di questa pretesa “lotta senza scampo” contro il “flagello terrorista”, per la “pace e la stabilità”, condotta dalle grandi potenze, Stati Uniti in testa, guardando la barbarie che è letteralmente esplosa in numerose regioni del mondo. Mai i focolai di tensioni guerriere, di scontri militari, di attentati a ripetizione, in cui le potenze grandi e meno grandi hanno una responsabilità diretta, sono stati così presenti, dall’Africa all’Asia, passando per il Medio Oriente, minacciando ogni giorno di più di guadagnare in ampiezza.
In Afganistan, la cui invasione da parte della truppe della coalizione americana era stata “legittimata” dalla lotta contro il terrorismo incarnato da Bin Laden, dopo gli attentati dell’11 settembre alle Twin Towers, c’è il marasma più totale. Il governo di Kabul è oggetto di attacchi incessanti e la capitale è regolarmente sotto il tiro di missili lanciati dalle differenti cricche pastun e afgane in lotta per il potere. Nel Sud e nell’Est del paese i talebani hanno riconquistato terreno a colpi di attentati e di blitz militari. Per questo gli Stati Uniti sono stati costretti ad improvvisare, nell’ultimo mese, una nuova operazione di polizia militare, denominata “Leone di montagna”, forte di 2.500 uomini sostenuti da un contingente di aviazione particolarmente impressionante. E’ stabilito che gli obiettivi di questa operazione sono quelli di fare distruzioni massicce equivalenti a quelle del 2001 e 2002. Tuttavia i mezzi di informazione vorrebbero mascherarne l'importanza sulla scia del Dipartimento di Stato americano che sottolinea il carattere soprattutto “psicologico” di questa nuova offensiva perché si tratterebbe innanzitutto di “impressionare i neo-talebani e fermare l’impressione che essi stiano avendo il sopravvento”, “sia agli occhi della popolazione afgana che si vuole “rassicurare”, che dell’opinione pubblica internazionale″ (Le Monde, del 13 aprile). Questo è quello che si chiama dissuasione psicologica di massa.
In Medio Oriente si annuncia lo sviluppo di una barbarie ancora più grave. Non solo gli Stati Uniti sono stati incapaci di imporre un accordo tra Israele e l’Autorità palestinese, ma la loro impotenza a moderare la politica aggressiva e provocatrice di Sharon ha portato alla crisi politica sia nei territori occupati che nella stessa Israele. Infatti le differenti frazioni politiche israeliane si scontrano senza tregua. Ma è soprattutto dal lato palestinese che il fallimento è più evidente con l'arrivo in forza di Hamas, frazione palestinese particolarmente retrograda e radicalmente anti-israeliana, ed in più contrapposta a Fatah. Così è a colpi di armi da fuoco che i due campi palestinesi regolano i loro conti nella striscia di Gaza, vero formicaio di 1.600.000 abitanti (la più grande concentrazione umana al mondo), di cui il 60% di rifugiati, progressivamente ridotti alla miseria dall’arresto dell’Aiuto internazionale e chiusi in gabbia dagli sbarramenti e dai controlli dell’esercito israeliano che impedisce alla popolazione di andare a lavorare in Israele.
La costruzione da parte dello Stato israeliano del “muro della segregazione” in Cisgiordania non può che attizzare nuove tensioni e spingere a una radicalizzazione verso il terrorismo una popolazione palestinese messa sotto pressione, disprezzata e sempre più irreggimentata dietro i gruppi islamici. Quando il muro sarà finito, 38 villaggi in cui vivono 49.400 palestinesi saranno isolati e 230.000 residenti palestinesi in Israele si ritroveranno dal lato israeliano della linea di separazione. Complessivamente questa costruzione significherà un ingabbiamento della popolazione in una serie di ghetti isolati gli uni dagli altri.
Ingaggiato dal giugno del 2003, il braccio di ferro tra l’Iran e le grandi potenze a proposito della costruzione di centrali nucleari da parte di Teheran si era particolarmente indurito la scorsa estate per raggiungere oggi un punto culminante. In effetti, con l’ultimatum lanciato da Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite che intima all’Iran la cessazione, prima del 28 aprile, di ogni attività di arricchimento dell’uranio e il rifiuto di questo paese di adeguarvisi, le tensioni diplomatiche si sono brutalmente esacerbate. In un contesto internazionale in cui la follia guerriera del mondo capitalista non smette di diffondersi in una regione del mondo in cui le uccisioni quotidiane impazzano, la prova di forza aperta tra lo Stato iraniano e le Nazioni Unite è piena di pericoli. Essa contiene il rischio di una nuova estensione e aggravamento della barbarie.
E’ evidente che l’Iran sta facendo il possibile per dotarsi dell’arma nucleare, e questo fin dal 2000. I discorsi dei dirigenti iraniani sull’uso esclusivamente “pacifico”e “civile” del nucleare in costruzione sono delle menzogne pure e semplici. In passato testa di ponte del blocco americano, poi relegato a rango di potenza di stampo arretrato negli anni che hanno seguito il regno di Komeini, dissanguato di vite umane e sul piano economico dalla guerra contro l’Iraq a metà degli anni ’80, questo paese ha progressivamente ripreso la veste della bestia negli anni ’90. Beneficiando dell’aiuto militare russo e dell’indebolimento dell’Iraq (il suo rivale storico per il controllo del Golfo Persico) seguito alla prima guerra del Golfo e agli attacchi ripetuti degli Stati Uniti contro Bagdad, fino all’offensiva americana definitivamente distruttrice del 2003, l’Iran vuole oggi chiaramente affermarsi come la potenza regionale con cui bisogna ora fare i conti. Le sue risorse non sono trascurabili. Ciò spiega le dichiarazioni sempre più provocatrici e sprezzanti, da parte dei governanti iraniani, contro le Nazioni Unite, e soprattutto degli Stati Uniti. Lo Stato iraniano, con il ritorno al potere della frazione più reazionaria e più islamista, si presenta come uno Stato forte e stabile, laddove intorno a lui, in Iraq come in Afganistan, è il caos che regna sovrano. Questa situazione gli permette di operare una offensiva ideologica filo-araba per accreditarsi come la punta di lancia di una identità pan-islamica “indipendente” (al contrario dell’Arabia Saudita presentata come asservita agli Stati Uniti) attraverso il suo discorso anti-israeliano e la sua opposizione aperta all’America.
L’incapacità di Washington a far regnare la pax americana in Iraq e in Afganistan non può che alimentare questa propaganda antiamericana e dare credito alle dichiarazioni iraniane che parlano di inefficacia delle minacce della Casa Bianca.
La stessa situazione in Iraq non ha potuto che rafforzare le velleità militari dell’Iran. A parte lo scacco evidente di Bush, la presenza nella popolazione e nel seno stesso del governo iracheno di una forte predominanza della confessione sciita, come nell’Iran, ha contributo a stimolare gli appetiti imperialisti iraniani eccitati dalla prospettiva di una maggiore influenza, sia in questo paese che in tutto il Golfo Persico.
Ma sono anche i dissensi patenti tra i diversi paesi partecipanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che favoriscono le velleità dello Stato iraniano. Infatti, benché la maggioranza di questi paesi si dichiari “contraria” alla prospettiva di un Iran dotato dell’arma nucleare, le divisioni aperte tra loro costituiscono una leva supplementare che permette a Teheran di poter alzare il tono di fronte alla prima potenza mondiale. Se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna reagiscono agitando la minaccia di un intervento, si vede al contrario la Francia dichiararsi contro ogni intervento militare in Iran. Dal canto loro Cina e Russia, come la Germania (che sta realizzando attualmente un riservato avvicinamento alla Russia), sono decisamente contro ogni misura di ritorsione che fosse imposta all’Iran, ancor più se di natura militare. Bisogna ricordare che questi due paesi, Mosca in testa, hanno fornito materiale all’Iran per poter sviluppare il suo arsenale nucleare.
Di fronte a questa situazione, l’amministrazione Bush è in una situazione difficile. La provocazione iraniana la costringe a reagire. Tuttavia, quale che sia l’opzione militare che gli Stati Uniti siano pronti ad utilizzare, in primo luogo quella di incursioni aeree mirate (su obiettivi mal identificati e spesso situati al centro di grandi città), un intervento che non creerebbe problemi sul piano interno, questa nuova fase di guerra in Medio Oriente è in ogni caso potenzialmente capace di rinvigorire il sentimento antiguerra che si sviluppa in seno alla popolazione americana sempre più contraria alla guerra in Iraq.
Ma dovrebbe far fronte anche ad una radicalizzazione dei paesi arabi e di tutti i gruppi islamici, senza contare la possibile ondata di attentati che l’Iran ha chiaramente minacciato a più riprese.
Quale che sia l’esito della “crisi iraniana”, non si può tuttavia dubitare del fatto che essa sboccherà in un aggravamento delle tensioni guerriere tra i paesi del Medio Oriente e gli Stati Uniti, ma anche tra la prima potenza mondiale ed i suoi rivali dei paesi sviluppati, che non aspettano altro che un nuovo passo falso per “segnare dei punti” contro di essa indicandola come fautrice di guerra. Per quanto riguarda la sorte delle popolazioni che saranno, come tante altre prima di loro, decimate dalla guerra, questa è l’ultima delle preoccupazioni per tutti questi briganti imperialisti, piccoli o grandi che siano.
Mulan, 25 aprile
Nei primi due articoli, apparsi sui numeri 142 e 143 del nostro giornale, abbiamo visto come, al di là di un richiamo formale a Lenin sulla questione del partito, l’impostazione teorica e la pratica politica di Cervetto e di Lotta Comunista (LC) corrispondono ad una concezione ed a un metodo propri della visione borghese. In questo articolo vedremo come questa visione borghese non derivi da una carente comprensione degli insegnamenti di Lenin, ma da un vero e proprio stravolgimento di questi ed in particolare del Che fare?, fino ad arrivare a posizioni, ma soprattutto ad una pratica politica che non sono mai state né di Lenin, né delle varie espressioni di quella Sinistra Comunista che LC pretende di incarnare.
Cervetto ha preteso di fondare tutta la sua dottrina sul Partito sull’idea espressa da Lenin nel Che fare? secondo la quale “la coscienza socialista contemporanea non può sorgere che sulla base di profonde cognizioni scientifiche…il detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi…. La coscienza socialista è quindi un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente… il compito della socialdemocrazia è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione.” (citazioni di K. Kautsky riprese da Lenin nel Che fare? Editori Riuniti, pag 72). Abbiamo più volte espresso la nostra critica ad una tale concezione della coscienza portata dall’esterno, pur facendo nostra la giusta critica che Lenin sviluppa in questo testo contro gli economisti dell’epoca per i quali l’avanguardia rivoluzionaria della classe costituiva nei fatti un semplice supporto alla lotta rivendicativa dei proletari (1). Non sviluppiamo qui questo aspetto perché non è il rifarsi a questa posizione errata espressa da Lenin che determina la natura controrivoluzionaria di LC. La corrente bordighista - alla quale appartengono gruppi come Programma Comunista, Le Proletaire, Il Partito di Firenze, ecc. - basa la sua concezione del partito su questa stessa visione, ma la nostra critica alla concezione del partito rivoluzionario di Bordiga e della corrente bordighista, per quanto profonda e determinata, non ha mai messo in discussione l’appartenenza di questi al campo rivoluzionario. La questione è che Cervetto, nel suo testo di base Lotte di classe e partito rivoluzionario, stravolge completamente questa idea espressa da Lenin in polemica contro gli economisti e da lui stesso ridimensionata nei fatti dopo il 1905: “Dallo sciopero e dalle dimostrazioni alle barricate isolate, dalle barricate isolate alla costruzione in massa delle barricate e alla lotta di strada contro le truppe. Senza l’intervento delle organizzazioni, la lotta proletaria di massa era passata dallo sciopero all’insurrezione…. Il movimento sorto dallo sciopero generale politico, si era elevato ad un grado superiore…. Il proletariato aveva avvertito prima dei suoi capi il mutamento delle condizioni oggettive della lotta, la quale esigeva il passaggio dallo sciopero all’insurrezione. Come sempre, la pratica aveva preceduto la teoria” (2). Chi parla è lo stesso Lenin del Che fare? E’ un marxista che, basandosi sull’esperienza della propria classe, sa riconoscere e comprendere che i Soviet sorti durante la rivoluzione del 1905 in Russia non corrispondono ad uno qualsiasi dei modi in cui i proletari si possono organizzare per portare avanti le proprie rivendicazioni, ma la forma di organizzazione che corrisponde “ad un grado superiore” di maturazione politica avvenuta nella classe, alla consapevolezza che solo unendo le proprie forze e decidendo in prima persona come lottare, con quali obiettivi e con quali strumenti, i proletari avrebbero potuto porre fine alle condizioni insopportabili che vivevano.
La visione della classe operaia che emerge dall’insieme del testo di Cervetto è, al contrario, quella di una classe “geneticamente” incapace di andare al di là della lotta strettamente rivendicativa, di difesa della propria condizione di salariato a meno che non ci sia il partito a dirigerla. Anche quando Lenin dice “Gli elementi migliori della classe operaia marciavano in testa trascinandosi dietro a sé gli esitanti, risvegliando i dormienti, incoraggiando i deboli” parlando del legame tra scioperi economici e scioperi politici sulla base della dell’esperienza del 1905, Cervetto lascia intendere che questo legame “fu il risultato della lotta dell’avanguardia proletaria (identificata altrove col il Partito, ndr) che trascinò la classe e le stesse masse sfruttate in una lotta generale” (Lotte di classe e partito rivoluzionario, pag 62).
Ma questo non è il solo stravolgimento. In particolare nel capitolo “La superiorità naturale del proletariato”, il proletariato viene nei fatti presentato come una massa di manovra che il Partito deve prima strappare dalla presa della borghesia e poi, una volta “compattata” deve utilizzare per approfittare degli scontri tra frazioni borghesi (piccola e grande borghesia) dagli interessi divergenti per disgregare il fronte borghese e fare la rivoluzione: “Solo quando avrà indebolito le forze borghesi dell’apporto delle forze operaie che esse utilizzano, il Partito rivoluzionario, potrà contare sulla superiorità naturale (che come si spiega prima è data dalla superiorità numerica e dalla sua “compattezza”, cioè dalla concentrazione dei proletari nelle grandi fabbriche, ndr) di fronte alle forze borghesi che sguarnite dai contingenti proletari, inevitabilmente si scontrano ed aprono la strada a quella crisi di disgregazione in cui il proletariato rimane l’unica forza compatta” (idem, pag. 60).
La visione che ne viene fuori è né più né meno quella di uno stratega militare che studia come meglio piazzare il suo esercito (la sua amorfa carne da cannone) per sfruttare al meglio le falle nella difesa del nemico e sconfiggerlo. Questa visione non ha nulla a che vedere con la comprensione che hanno sempre avuto e difeso le avanguardie rivoluzionarie della natura rivoluzionaria della classe operaia e della dinamica della presa di coscienza che porta alla rivoluzione.
In realtà la presunta ortodossia leninista, sbandierata da LC in ogni numero ed in ogni articolo del suo giornale, sin dalla sua origine non è servita ad altro che a legittimare come rivoluzionaria una pratica politica che non ha nulla da invidiare a quella di un qualsiasi gruppo della sinistra del capitale. Ogni elaborazione teorica va verificata alla prova dei fatti. E, come abbiamo visto nei negli articoli precedenti, la storia dei fondatori di LC e di LC stessa è tutta un susseguirsi di grandi affermazioni teoriche messe sotto i piedi dall’azione concreta.
Ritorniamo brevemente su una questione centrale, il lavoro nei sindacati, per vedere come la politica di questo gruppo abbia alla base la visione della classe operaia come massa di manovra da parte del Partito.
Anche sui sindacati, Cervetto prima e LC fino ad oggi, pretendono di rifarsi alla posizione di Lenin e del partito bolscevico, secondo cui le avanguardie rivoluzionarie dovrebbero lavorare all’interno delle organizzazioni sindacali perché queste avrebbero da giocare ancora un ruolo positivo per lo sviluppo della lotta di classe, anche se il 1905 aveva trovato nei Soviet la forma della dittatura del proletariato. Come è noto la questione sindacale suscitò un grande dibattito già al I Congresso della III Internazionale nel 1919 tra i bolscevichi e le altre organizzazioni rivoluzionarie, in particolare quella tedesca, svizzera, inglese. I primi, provenienti da un paese dove vigeva l’arretrato regime dell’assolutismo zarista e dove i sindacati erano sorti relativamente da poco (nei fatti nel 1905 quando l’effervescenza rivoluzionaria li strascina nel movimento spesso sotto la direzione dei Soviet), sostenevano questa tesi. Gli altri, provenendo invece da paesi più maturi da un punto di vista dello sviluppo capitalistico e con una più vecchia esperienza di sindacalismo, denunciavano già all’epoca il sindacato come un organismo non più utilizzabile per lo sviluppo del movimento di classe (3). Le diversificazioni sulla questione sindacale sono continuate ad esistere all’interno della Sinistra comunista dove la posizione del Partito bolscevico sui sindacati è stata ripresa da altre formazioni politiche, in particolare della corrente bordighisti. Ma la posizione e la conseguente pratica di LC non hanno nulla a che vedere con tutto questo. A parte il fatto che Cervetto, nella sua presunta elaborazione scientifica, anche su questa questione non si cura proprio di prendere in esame, anche solo per criticarle, le posizioni espresse dalle altre forze rivoluzionarie dell’epoca e successive, né di valutare storicamente queste posizioni, qual è la pratica politica che scaturisce da questa presunta fedeltà a Lenin? Nelle sue Tesi del ’57, al punto Questione sindacale leggiamo “Fermo restando che il principio che la nostra azione deve tendere a fare una ‘attività rivoluzionaria nei sindacati’ e non del sindacalismo, la Sinistra Comunista (cioè LC secondo l’autore, ndr) deve organizzare una propria corrente sindacale nella CGIL, promuovendo tutte le iniziative e tutti gli strumenti atti a favorire questa organizzazione (censimento e convegno sindacale, nomina di responsabili del lavoro sindacale, bollettino sindacale, ecc). Data la natura dell’unica corrente sindacale a carattere rivoluzionario esistente nella CGIL, i Comitati di difesa sindacale, la Sinistra Comunista dovrà condurre trattative con i compagni anarchici che la compongono, al fine di costruire, con una eventuale alleanza, una corrente sindacale unica di minoranza rivoluzionaria in seno alla CGIL”. Così, mentre il lavoro nei sindacati nella Russia agli inizi del 1900 per Lenin significava favorire il raggruppamento dei proletari, la loro unità nella lotta comune, favorire la presa di coscienza della propria forza come classe, per LC non è altro che una politica di entrismo per crearsi un seguito, in modo da acquisire posizioni di forza all’interno della struttura sindacale, alleandosi con non importa chi pur di attestarsi come forza dirigente. Non è un caso se la scelta del campo di azione ricada sulla CGIL perché questa, essendo di “sinistra”, ha degli iscritti già schierati politicamente e quindi più facilmente reclutabili per chi si presenta come rivoluzionario. Coerentemente con questa visione il ruolo assunto da LC è stato sempre di sostegno ai sindacati ed alla loro specifica funzione all’interno dello schieramento capitalista contro la classe operaia: che è quella di contenere la reazione operaia al proprio sfruttamento nell’ambito della “contrattazione democratica” consentita dalle regole del sistema, ostacolando qualsiasi tentativo della classe di - volendo usare i termini cari a Cervetto - passare dalla “lotta economica” alla “lotta politica”, dalla lotta difensiva delle proprie condizioni di vita nella società capitalista, alla lotta offensiva per distruggere questo sistema di sfruttamento.
Così quando, nelle lotte dell’autunno caldo in Italia nel ’69, i proletari iniziarono ad individuare nei sindacati un loro nemico e questi, a loro volta, comprendendo che le commissioni interne non bastavano più a controllare la classe operaia, cominciarono a puntare su strumenti più efficaci quali i “consigli di fabbrica”, LC, oltre a farneticare paragonando questi ultimi a dei soviet, si fece in quattro per dare una patente di classe a tutta una serie di organi dirigenti del sindacato che avevano avuto il merito di difendere l’istituzione dei consigli di fabbrica. “Nei sindacati stessi si sono formati uomini su posizioni “sindacaliste”, su posizioni “trade-unioniste”, … che cercano di realizzare il grande sindacato su posizioni legate alle grandi fabbriche. … Queste posizioni … le ritroviamo espresse nei documenti elaborati in convegni e riunioni di direttivi, ecc….” (dal testo di LC “Consigli di fabbrica, commissioni interne: analisi di uno scontro politico”). I documenti a cui faceva riferimento LC erano del Comitato centrale della FIOM, della segreteria nazionale Fiom, dei direttivi provinciali FIM, FIOM, UILM di Genova e così via.
Quando i lavoratori della scuola nell’87 si organizzarono al di fuori dei sindacati per portare avanti la lotta sulla base di assemblee generali sovrane, dove erano i lavoratori a decidere come lottare, LC, dopo aver tentato di riportare all’ovile i lavoratori difendendo l’idea che non si dovesse abbandonare la CGIL, vedendo che non riusciva a ottenere seguito, disprezzò questa lotta definendola “sudista” (perché maggiormente sviluppata nel sud Italia) mentre incitava la CGIL a darsi da fare, ad indire un congresso straordinario, per cercare di recuperare credito in questo movimento.
Nel 2002 di fronte a tutta la campagna mistificatoria portata avanti in particolare dalla CGIL, con il referendum sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che mirava a trascinare in particolare i giovani sul terreno della “consultazione democratica” come forma di “lotta” contro la precarizzazione e la flessibilità (già ampiamente introdotte in Italia grazie proprio ai sindacati), qual è la denuncia che ne fa LC? Nessuna, se non la solita critica ai “vertici opportunisti”, ai Pezzotta ed ai Cofferati di turno. Quali indicazioni dà LC ai proletari? “…solo una visione controcorrente fondata su una chiara strategia marxista può fornire un senso duraturo alla difesa sindacale, una intelligenza all’orgoglio di classe, un futuro alla lotta comunista contro l’opportunismo” (LC, marzo 2002, pag 16). Cosa significava? Boh! Forse riusciamo a capirlo dal bilancio che ne fa LC dopo 4 anni quando, paragonando il movimento dei giovani proletari francesi della primavera scorsa contro la precarizzazione (4) alla sfilata organizzata dai sindacati nel 2001 a Roma sull’articolo 18, dice: “Noi scrivevamo che la CGIL di Sergio Cofferati, con l’appoggio dei partiti di opposizione, rifiutava misure di flessibilità tese a portare il sindacato alla resa senza condizioni. Il duro scontro costrinse il governo a ritirare la misura e gettò il gruppo dirigente della Confindustria in crisi”. Ma purtroppo “l’illusorio obiettivo referendario” di estendere l’articolo 18 anche a imprese con meno di 15 addetti, “ciò che mai si era tentato per via sindacale, ciò che dava da sempre la misura della debolezza del sindacato confederale”, portò a “l’inevitabile disastro” che “mise fine alla stagione dell’articolo 18: le misure sulla flessibilità vennero realizzate …” (LC marzo 2006, pag 16). In altre parole, pieno appoggio alla politica sindacale sia sul piano economico che sul piano di azione di sabotaggio rispetto alla classe, solo che il tutto è stato gestito male. Da qui la necessità di farsi eleggere come delegati, di assumere delle posizioni dirigenti, insomma di acquistare posizioni di forza all’interno della struttura sindacale. I proletari restano imprigionati al carro della borghesia? Gli si impedisce di comprendere quali sono le armi che la borghesia utilizza contro di loro, di prendere coscienza della propria natura di classe rivoluzionaria e della propria forza, di capire chi combattere e come? Qual è il problema, tanto ci penserà il Partito-scienza al momento opportuno, per ora l’importante è che questo Partito-scienza si faccia spazio nelle posizioni strategiche.
Questa è la “coscienza” che Lotta Comunista vuole portare dall’esterno alla classe operaia.
Questa “coscienza”, questo metodo sono quelli contro cui si sono sempre battuti i marxisti, Lenin in testa, denunciandoli come appartenenti alla classe dominante.
Per concludere questa breve serie di articoli vogliamo riportare l’attenzione su una questione: LC è quasi da tutti considerata come un gruppo rivoluzionario ed essa stessa si vanta di essere un gruppo della sinistra comunista. Se questo è possibile è perché LC si nasconde dietro gli errori dei gruppi storici della Sinistra comunista: condivide con il BIPR l’idea della costruzione del partito a livello nazionale prima di passare al partito internazionale; condivide con i bordighisti l’idea della coscienza esterna alla classe o la necessità di lavorare nei sindacati. D’altra parte non dimentichiamo che lo stesso Cervetto ha frequentato per un certo periodo Battaglia Comunista ed è stato finanche redattore di alcuni articoli di Prometeo. E’ perciò che noi abbiamo insistito e insistiamo sull’affermazione secondo cui per LC non si tratta di un semplice accumulo di errori, di posizioni sbagliate. Quello che fondamentalmente caratterizza LC è una politica di potenza che cerca di acquisire posizioni di forza all’interno del sindacato facendo uso della classe operaia come massa di manovra. I rapporti di forza instaurati nei confronti degli stessi propri militanti non più disposti a seguire le “direttive del centro” e l’indisponibilità più assoluta a mettere in discussione questa pratica politica di occupazione delle posizioni di forza, fanno di LC un pericoloso gruppo controrivoluzionario che non ha nessuno spazio nell’ambito dei gruppi proletari.
2 giugno 2006 Eva
1. Sulla questione della coscienza vedi il nostro opuscolo “Concience de classe et role des revolutionaires” in francese, e in italiano gli articoli “Coscienza di classe e ruolo dei rivoluzionari”, su Rivista Internazionale n. 3, e “Sul ruolo dei rivoluzionari nelle lotte proletarie: una risposta al marxismo pietrificato di Programma Comunista” in Rivoluzione Internazionale n.12, aprile 1978)
2. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti (sottolineatura nostra). Sulla valutazione della rivoluzione del 1905 fatta dalle forze rivoluzionarie dell’epoca vedi il nostro articolo “Rivoluzione del 1905 in Russia: il proletariato afferma la sua natura rivoluzionaria” sui numeri 140 e 141 di Rivoluzione Internazionale
3. Vedi l’articolo “Le prese di posizione politiche della III Internazionale” (della serie “La teoria della decadenza al cuore del materialismo storico”) nella Revue Internazionale n°123, 4° trimestre 2005. Sull’analisi della questione sindacale della CCI vedi l’opuscolo “I sindacati contro la classe operaia”.
4. Sul significato e l’importanza del movimento in Francia vedi gli articoli su questo numero e su quello precedente del giornale e le Tesi sul movimento degli studenti in Francia sul nostro sito it.internationalism.org [39].
Il movimento degli studenti in Francia contro il CPE è riuscito a fare arretrare la borghesia che ha ritirato il suo CPE il 10 aprile. Ma se il governo è stato obbligato ad arretrare, è anche e soprattutto perché i lavoratori si sono mobilitati in solidarietà con i giovani della classe operaia, come si è visto nelle manifestazioni del 18 marzo, 28 marzo e 4 aprile.
Di fronte alla perdita di credito dei sindacati, si è visto infine pubblicamente l'entrata in scena delle comparse dello spettacolo di questa commedia francese: dopo le grandi centrali sindacali, gli "amici" e le "amiche" della trotskista Arlette Laguiller sono entrati in ballo alla manifestazione dell' 11 aprile per giocare, a loro volta, alle mosche cocchiere (mentre il 18 marzo, i militanti di Lutte Ouvrière gonfiavano dei palloni sui marciapiedi ed incollavano con frenesia degli autoadesivi "LO" su chiunque si avvicinasse a loro). Nel momento in cui il governo ed i suoi "partner sociali" avevano deciso di aprire i negoziati per un'uscita dalla crisi con "onorabilità" ed il 10 aprile ritiravano il CPE, si è potuta vedere LO agitarsi nella manifestazione-affossatrice dell’ 11 aprile a Parigi. In questo giorno, un elevato numero di liceali e di studenti irriducibili era stato chiamato a scendere in strada per "radicalizzare" il movimento dietro le bandiere rosse di LO (affianco agli stracci blu e bianchi di Sud o neri e rossi della CNT). Tutte le cricche gauchiste o anarcoidi si sono ritrovate a marciare in una toccante unanimità dietro la parola d’ordine: "ritiro del CPE, del CNE e della legge sulle pari opportunità!" o ancora "Villepin dimissioni"!. I lavoratori più esperti conoscono troppo bene lo scopo di un tale baccano. Ingannare gli studenti alla ricerca di prospettiva politica facendo valere un radicalismo di facciata dietro cui si nasconde fondamentalmente il carattere capitalista della loro politica. Ed è anche così, con la carta del "sindacalismo di base" o "radicale" che adesso questi falsi rivoluzionari (veri sabotatori patentati) cercano di portare avanti per tentare di completare la "strategia di deterioramento" del movimento. I gauchisti e gli anarchici più eccitati hanno provato a Rennes, Nantes, Aix o ancora a Tolosa a spingere a gruppi gli studenti irriducibili a scontri fisici con i loro compagni che cominciavano a votare in favore allo sblocco delle facoltà. La messa in avanti del sindacalismo "di base", "radicale" è solamente una buona manovra di certe frazioni dello Stato che mirano a riportare gli studenti ed i lavoratori più combattivi dietro l'ideologia riformistica.
Tutto il campo della riflessione è oggi molto sorvegliato dai sabotatori professionisti di LO, di Sud (nato da una scissione della CFDT nel settore delle Poste nel 1988) e soprattutto dalla LCR (che ha sempre considerato le università come la sua "riserva di caccia" e che ha sempre garantito i sindacati chiamando gli studenti a "fare pressione" sulle loro direzioni affinché chiamassero a loro volta i lavoratori ad entrare in lotta). Tutte le frazioni "radicali" dell'apparato d’inquadramento della classe operaia sono state continuamente appiccicate agli studenti per snaturare o ricuperare il movimento ripiegandolo verso il campo elettorale (tutto questo bel mondo presenta dei candidati alle elezioni) e cioè verso la difesa della "legalità" della "democrazia" borghese. Peraltro, proprio perché il CPE era un simbolo del fallimento storico del modo di produzione capitalista tutta la sinistra "radicale" (rosa caramella, rossa e verde) si nasconde dietro la vetrina del grande camaleonte ATTAC per farci credere che adesso si può costruire il "migliore dei mondi" all’interno dello stesso sistema basato sulle leggi aberranti del capitalismo, quelle dello sfruttamento e della ricerca del profitto.
Appena i lavoratori hanno cominciato a manifestare la loro solidarietà con gli studenti, abbiamo potuto vedere i sindacati, i partiti di sinistra ed i gauchisti di ogni pelo occupare tutto il campo per tentare di riportare gli studenti nel grembo dell'ideologia interclassista della piccola borghesia benpensante. Il grande supermercato riformistico è stato aperto nei forum di discussione: ciascuno è stato invitato a consumare la cianfrusaglia adulterata di José Bové, di Chavez (colonnello, presidente del Venezuela ed idolo di LCR) o di Bernard Kouchner ed altri "medici senza frontiere" (che regolarmente vengono a colpevolizzare e ricattare i proletari facendo loro credere che il denaro dei loro doni "umanitari" potrebbe risolvere le carestie o le epidemie in Africa!). In quanto ai lavoratori salariati che si sono mobilitati contro il CPE, ora essi sono chiamati a dare fiducia ai sindacati che sono i soli a detenere il monopolio dello sciopero (e soprattutto del negoziato segreto col governo, il padronato ed il ministero dell'interno).
Nelle AG che si sono tenuti al rientro dalle vacanze gli studenti hanno dato prova di una grande maturità votando a grande maggioranza la fine del blocco e la ripresa dei corsi, manifestando però la loro volontà di restare uniti per proseguire la riflessione sul formidabile movimento di solidarietà che hanno appena vissuto. È vero che molti di quelli che vogliono mantenere il blocco delle università provano un sentimento di frustrazione perché il governo ha fatto solo un piccolo passo indietro riformulando un articolo della sua legge sulle "pari opportunità". Ma il principale guadagno della lotta si trova sul piano politico perché gli studenti sono riusciti a trascinare i lavoratori in un vasto movimento di solidarietà tra tutte le generazioni.
Numerosi studenti favorevoli al prosieguo del blocco hanno nostalgia di questa mobilitazione dove "si era tutti insieme, uniti e solidali nell'azione". Ma l'unità e la solidarietà nella lotta si possono costruire anche nella riflessione collettiva perché in tutte le università e le imprese si sono tessuti dei legami tra studenti e lavoratori. Gli studenti ed i lavoratori più coscienti sanno molto bene che domani "se si resta soli, si va a farsi mangiare vivi", qualunque sia il colore del futuro governo (non è il ministro socialista Allègre che aveva sostenuto la necessità di "sgrassare il mammut" dell'Educazione Nazionale?).
È per ciò che gli studenti, come tutta la classe operaia, devono comprendere la necessità di trarre un bilancio chiaro dalla lotta che hanno appena condotto contro il CPE intorno ai seguenti problemi: che cosa ha fatto la forza di questo movimento? Quali sono state le trappole in cui non bisognava cadere? Perché i sindacati hanno tanto esitato e come hanno recuperato il movimento? Quale è stato il ruolo giocato dal "coordinamento"?
Per potere condurre questa riflessione e preparare le lotte future, gli studenti ed i lavoratori devono raggrupparsi per continuare a riflettere collettivamente, rifiutando di lasciarsi recuperare da quelli che vogliono andare ad appropriarsi della preda ed installarsi a Matignon o all’Éliseo nel 2007 (o semplicemente "piazzarsi" nelle elezioni del 2007). Non devono dimenticare che quelli che si presentano oggi come i loro migliori difensori prima hanno tentato di sabotare la solidarietà della classe operaia "negoziando" alle loro spalle la famosa "strategia di deterioramento" attraverso la violenza (non è stata l'intersindacale che aveva condotto a più riprese i manifestanti verso la Sorbona permettendo così alle bande di "casseurs" manipolati di attaccare gli studenti?).
Il movimento contro il CPE ha rivelato il bisogno di politicizzazione delle giovani generazioni della classe operaia di fronte al cinismo della borghesia e della sua legge sulle "pari opportunità". Non vi è alcun bisogno di studiare Il Capitale di Karl Marx per comprendere che la "uguaglianza o pari opportunità" nel capitalismo è semplicemente uno specchio per le allodole. Bisogna essere completamente idioti per credere un solo istante che i giovani di operai disoccupati che vivono nelle città ghetto possono fare degli studi superiori nelle Scuole specializzate. In quanto alla "uguaglianza delle probabilità", l'insieme della classe operaia sa per certo che esiste solamente alla tombola o al tris. È per tale motivo che questa legge scellerata è un grosso "errore" della classe dominante: non poteva essere percepita dalla gioventù studentesca che come una pura provocazione del governo.
La dinamica di politicizzazione delle nuove generazioni di proletari non potrà svilupparsi pienamente senza una visione più globale, storica ed internazionale degli attacchi della borghesia. E per farla finita con il capitalismo e costruire un'altra società, le nuove generazioni della classe operaia dovranno confrontarsi necessariamente con tutte le trappole che i cani da guardia del capitale, nelle università come nelle imprese, continuano a tendere per sabotare la loro presa di coscienza del fallimento del capitalismo.
L'ora è venuta affinché la "scatola ad azione-bidone" dei sindacati, degli anarchici e dei gauchisti si richiuda per aprire di nuovo la "scatole delle idee" affinché tutta la classe operaia possa riflettere dovunque e discutere collettivamente dell'avvenire che il capitalismo promette alle nuove generazioni. Solo questa riflessione può permettere ancora alle nuove generazioni di riprendere, domani, la strada della lotta più forte e più unita di fronte agli attacchi incessanti della borghesia.
Corrente Comunista Internazionale, 23 aprile 2006
La nostra compagna Clara è deceduta all'ospedale Tenon, a Parigi, sabato 15 aprile 2006 all'età di 88 anni.
Clara era nata l’8 ottobre 1917 a Parigi. Sua madre, Rebecca era di origine russa. Era venuta in Francia perché, nella sua città di origine, Simféropol, in Crimea, non poteva, in quanto ebraica, intraprendere studi di medicina, come era suo desiderio. Finalmente, a Parigi, ha potuto diventare infermiera. Prima ancora di venire in Francia, era una militante del movimento operaio poiché aveva partecipato alla fondazione della sezione del partito socialdemocratico di Simféropol. Il padre di Clara, Paul Geoffroy, era un operaio qualificato, specializzato nella confezione di portagioie. Prima della prima guerra mondiale, era membro del CGT nell'area anarco-sindacalista, poi si è avvicinato al Partito Comunista dopo la rivoluzione russa del 1917. Così, fin dall’infanzia, Clara è stata educata nella tradizione del movimento operaio. Ha aderito alla gioventù comunista (JC) quando aveva una quindicina di anni. Nel 1934, Clara è andata con suo padre a Mosca a fare visita alla sorella di sua madre, essendo quest’ultima deceduta quando Clara aveva solamente 12 anni. In Russia, tra l’altro rendendosi conto del fatto che i nuovi alloggi erano destinati ad una minoranza di privilegiati e non agli operai, ha cominciato a farsi delle domande sulla" patria del socialismo" e, al suo ritorno, ha rotto coi JC. A quel tempo, già aveva intavolato numerose discussioni col nostro compagno Marc Chirik, che aveva conosciuto quando aveva 9 anni perché la madre di Clara era amica della sorella della prima compagna di Marc, malgrado l'opposizione di suo padre che, restato fedele al PC, non gradiva che frequentasse i trotskisti.
Nel 1938, diventata maggiorenne, Clara con il consenso di suo padre divenne ufficialmente la compagna di Marc. In quell’epoca, Marc era membro della Frazione italiana (FI) e sebbene Clara non ne fosse membro, era simpatizzante di questo gruppo. Durante la guerra, Marc fu mobilitato nell’esercito francese(sebbene non fosse francese e che per molti anni la sua sola carta di identità fosse un’ordinanza di espulsione la cui scadenza veniva prolungata ogni due settimane).Si trovava ad Angoulême quando crollò l'esercito francese. Con un compagno della Frazione italiana in Belgio (che si nascondeva all'avanzata delle truppe tedesche perché era ebreo), Clara parti da Parigi in bicicletta per raggiungere Marc ad Angoulême. Quando arrivò, trovò che Marc (con altri soldati), era stato fatto prigioniero dall’ l'esercito tedesco che, fortunatamente, non aveva ancora constatato che era ebreo. Clara riuscì, portandogli dei vestiti civili, a fare evadere Marc, ed un altro compagno ebreo, della caserma nella quale era prigioniero. Marc e Clara passarono in zona libera e raggiunsero Marsiglia in bicicletta nel settembre 1940. È a Marsiglia che Marc ha contribuito alla riorganizzazione della Frazione italiana che si era sciolta all'inizio della guerra.
Senza esserne formalmente membro, Clara ha partecipato al lavoro ed alle discussioni che hanno permesso lo sviluppo del lavoro della Frazione italiana ricostituita: malgrado i pericoli dovuti all'occupazione dell'esercito tedesco, ha trasportato, da una città all'altra, documenti politici destinati ad altri compagni della Frazione italiana. Durante questo periodo, Clara ha partecipato anche alle attività dell’OSE (Organizzazione di Soccorso dei Bambini) che si faceva carico e nascondeva bambini ebrei per proteggerli dalla Gestapo.
È al momento della "liberazione" che Marc e Clara hanno sfiorato più da vicino la morte quando i “resistenti" stalinisti del PCF li hanno fermati a Marseille: li hanno accusati di essere dei traditori, complici dei "boches", perché avevano trovato a casa loro, durante una perquisizione, dei quaderni scritti in tedesco. In effetti, questi quaderni provenivano dai corsi di tedesco che Marc e Clara avevano ricevuto da Volin (un anarchico russo che aveva partecipato alla rivoluzione del 1917). Volin, malgrado la miseria nera nella quale si trovava, non voleva ricevere aiuto materiale. Marc e Clara gli avevano dunque chiesto di dar loro dei corsi di tedesco e, per questo, egli accettava di condividere il loro pasto. All'epoca di questa perquisizione, gli stalinisti avevano anche trovato dei volantini internazionalisti redatti in francese ed in tedesco ed inviati ai soldati dei due fronti.
Fu grazie ad un ufficiale gollista che era il responsabile della prigione (la cui donna conosceva Clara per aver lavorato con lei nell’ OSE), che Marc e Clara poterono sfuggire per un pelo agli assassini del PCF. Questo ufficiale aveva impedito agli stalinisti di assassinare Marc e Clara (i resistenti del PCF avevano difatti detto a Marc: "Stalin non ti ha avuto ma, noi, avremo la tua pelle"). Sorpreso che degli ebrei fossero dei "collaborazionisti", cercò di dare una spiegazione politica alla propaganda che Marc e Clara facevano in favore della fraternizzazione dei soldati francesi e tedeschi. Questo ufficiale si rese conto che la loro strategia non aveva niente a che vedere con un banale "tradimento" in favore del regime nazista. È per questo motivo che li fece evadere della prigione, con discrezione, nella sua automobile personale consigliando loro di lasciare al più presto Marsiglia prima che gli stalinisti potessero ritrovarli. Marc e Clara andarono a Parigi dove raggiunsero altri compagni (e simpatizzanti) della Frazione italiana e della Frazione francese della Sinistra comunista. Clara ha continuato fino al 1952 a sostenere il lavoro della Sinistra comunista Francese (GCF - il nuovo nome che si era dato la Frazione Francese della Sinistra Comunista - FFGC). Nel 1952, la GCF, di fronte alla minaccia di una nuova guerra mondiale, decise che alcuni dei suoi membri avrebbero dovuto lasciare l'Europa per preservare l'organizzazione nel caso in cui questo continente fosse di nuovo entrato in guerra. Marc partì per il Venezuela nel giugno 1952. Clara lo raggiunse nel gennaio 1953 quando era riuscito finalmente a trovare un lavoro stabile in questo paese.
In Venezuela, Clara riprese il suo mestiere di maestra. Nel 1955, con un collega, fondò a Caracas una scuola francese, il Collegio Jean-Jacques Rousseau che, aveva in principio solamente 12 alunni, principalmente ragazze che non avrebbero potuto frequentare allora la sola scuola francese presente perchè non era diretta da frati. Il Collegio di cui Clara era la direttrice(e Marc l'amministratore, il giardiniere e l'autista del trasporto scolastico) finì per contare più di un centinaio di alunni. Alcuni di loro, colpiti sia per l'efficienza che per le grandi qualità pedagogiche ed umane di Clara, sono rimasti in contatto con lei fino alla sua morte. Nel 2004 è venuto a farle visita finanche uno dei suoi vecchi alunni stabilitosi negli Stati Uniti.
Dopo la partenza di Marc e di altri compagni, il GCF si disperse. Fu solamente a partire da 1964 che Marc poté costituire un piccolo nucleo di elementi molto giovani che cominciò a pubblicare la rivista "Internacionalismo" in Venezuela. Durante questo periodo, Clara non fu impegnata direttamente nelle attività politiche di Internacionalismo ma il suo istituto scolastico forniva i mezzi materiali ed era il luogo di riunione per le attività del gruppo.
Nel maggio 1968, Marc tornò in Francia per partecipare ai movimenti sociali e ristabilire i contatti coi suoi vecchi compagni della Sinistra comunista. Fu durante il suo soggiorno in Francia che la polizia del Venezuela andò a perquisire il Collegio Jean-Jacques Rousseau scoprendo il materiale politico che vi si trovava. Il Collegio fu chiuso ed anche demolito. Clara lasciò precipitosamente il Venezuela per raggiungere Marc.
È a partire da questo periodo che Marc e Clara si sono trasferiti di nuovo a Parigi. Dal 1968, Marc partecipò al lavoro del gruppo"Révolution Internationale" (RI) che si era costituito a Tolosa. Dal 1971, Clara si è integrata attivamente nelle attività di RI che andava a diventare la sezione della CCI in Francia. Da allora, è rimasta una militante fedele della nostra organizzazione, svolgendo la sua parte nell'insieme delle attività della CCI. Dopo la morte di Marc, nel dicembre 1990, ha continuato la sua attività militante in seno all'organizzazione alla quale lei è stata sempre molto legata. Anche se è stata personalmente molto addolorata dall’allontanamento di certi vecchi compagni che erano stati tra i fondatori di RI e di Internacionalismo, queste diserzioni non hanno, mai, rimesso in discussione il suo impegno in seno alla CCI.
Fino all'ultimo momento, malgrado i suoi problemi di salute e la sua età, ha voluto continuare sempre ad essere presente in prima persona nella vita della CCI. In particolare, è con la più grande assiduità che versava le sue quote ogni mese così come teneva a seguire le discussioni, anche quando non poteva più assistere alle riunioni. Nonostante avesse seri problemi di vista, Clara continuava a leggere per quanto possibile la stampa ed i documenti interni della CCI (l'organizzazione faceva per lei proprio per questo motivo delle stampe a grossi caratteri). Parimenti, ogni volta che un compagno le rendeva visita, gli chiedeva di comunicarle lo stato delle discussioni e dell’ attività dell'organizzazione. Clara era una compagna il cui senso della fraternità e della solidarietà ha segnato molto l'insieme dei militanti del CCI, che accoglieva sempre in modo estremamente caloroso. Parimenti, ha mantenuto rapporti fraterni con i vecchi compagni della Sinistra comunista, portando loro la sua solidarietà particolarmente in caso di malattia (come fu il caso per Serge Bricianer, vecchio membro della GCF, o Jean Malaquais, simpatizzante di questa, che era andata a visitare a Ginevra poco prima della sua morte nel 1998). Dopo la morte di Marc, ha continuato a trasmettere alle nuove generazioni di militanti, questa tradizione di fraternità e di solidarietà che caratterizzava il movimento operaio del passato. È con gioia che ha potuto vedere questa solidarietà della classe portatrice del comunismo ricomparire in modo magistrale nel recente movimento degli studenti in Francia. Un movimento che Clara ha tenuto a salutare con entusiasmo prima di lasciarci.
Malgrado il suo indebolimento fisico e le notevoli difficoltà di salute che ha affrontato con un coraggio notevole, Clara ci ha lasciato nel momento in cui una nuova generazione apre le porte dell'avvenire. Clara ci dà l'esempio di una donna che, per tutta la vita, ha combattuto al fianco ed in seno alla classe operaia dando prova perciò di un coraggio fuori dal comune (in particolare rischiando la sua vita durante gli anni della controrivoluzione).Una donna che è rimasta fino alla fine fedele alle sue idee ed ai suoi impegni rivoluzionari. Quando l'insieme della CCI ha appreso la notizia della sua scomparsa, le sezioni, ed i compagni individualmente, hanno mandato all'organo centrale del CCI un gran numero di testimonianze che salutano il calore umano, la devozione alla causa del proletariato ed il grande coraggio di cui Clara ha dato prova durante tutta la sua vita. Clara è stata inumata sabato 22 aprile al cimitero parigino di Ivry (nello stesso luogo in cui era stato seppellito il marito di Clara Zetkin, Ossip, il 31 gennaio 1889). Dopo le esequie, la CCI ha organizzato una riunione in omaggio alla sua memoria dove si sono ritrovate numerose delegazioni internazionali della CCI, numerosi simpatizzanti che hanno conosciuto personalmente Clara, e membri della sua famiglia. A suo figlio Marc, ai suoi nipoti Miriam e Yann-Daniel, inviamo la nostra più grande solidarietà e simpatia.
Pubblichiamo sotto un ampio estratto della lettera che la CCI ha inviato a suo figlio ed alla sua famiglia.
La CCI al compagno Marc
Caro compagno Marc, con queste parole vogliamo subito manifestarti la nostra solidarietà e la nostra simpatia in seguito alla scomparsa di Clara, tua madre e nostra compagna. Vogliamo anche esprimerti l'emozione che prova l'insieme dei compagni della nostra organizzazione. La maggior parte di noi aveva conosciuto Clara prima come la compagna di Marc, tuo padre, che ha sostenuto un ruolo così importante nella lotta della classe operaia, nei peggiori momenti che questa ha attraversato, ed anche come principale fondatore della CCI. Questo, era già un motivo di affetto e di rispetto verso Clara: “la compagna di Marc poteva essere solamente una persona di bene”. Il coraggio e la dignità che ha manifestato al momento della scomparsa di tuo padre, malgrado l'amore immenso che gli portava, ci hanno confermato la sua grande forza di carattere, una qualità che conoscevamo già e che non ha cessato di manifestarsi fino al suo ultimo giorno. E’ proprio per questo motivo che, per i militanti della CCI, Clara non era solamente la compagna di Marc, tutt’altro. Era una compagna che è restata fino alla fine fedele alle sue convinzioni, che ha continuato a condividere tutte le nostre battaglie, e che ha voluto, malgrado le difficoltà dell'età e della malattia, restare in stretto contatto con la vita della nostra organizzazione. Tutti i compagni sono stati impressionati dalla sua voglia di vivere e dalla lucidità che ha conservato fino all'ultimo istante. È perciò che l'affetto ed il rispetto che ciascuno di noi le aveva accordato al primo colpo non hanno fatto che rinforzarsi col passare degli anni. Poco prima della sua morte, tuo padre ci aveva parlato dell'immensa soddisfazione che gli recava la scomparsa dello stalinismo, questo boia della rivoluzione e della classe operaia. Allo stesso tempo, non aveva nascosto l'inquietudine che provava di fronte alle conseguenze negative che questo avvenimento andava a provocare sulla coscienza della classe operaia e la sua lotta. Clara, avendo conservato le sue convinzioni rivoluzionarie intatte, ha visto gli ultimi giorni della sua vita illuminati dalla ripresa della lotta delle nuove generazioni. Questo è per noi tutti, malgrado la nostra pena, un motivo di consolazione.
Con Clara, sparisce una delle ultime persone che è stata testimone ed attore di questi anni terribili dove i rivoluzionari si sono ritrovati una piccola minoranza che continua a difendere i principi internazionalisti del proletariato, una lotta condotta dai militanti della Sinistra italiana in particolare, della Sinistra olandese e della Sinistra comunista francese e senza la quale la CCI non esisterebbe oggi. Clara ci parlava talvolta di questi compagni e potevamo sentire nelle sue parole tutta la stima e l'affetto che portava loro. In questo senso, dopo la scomparsa di tuo padre, Clara continuava ad essere per noi un legame vivente con questa generazione di comunisti che rivendichiamo con fierezza. È questo legame che al di là della persona della nostra compagna Clara, abbiamo perso oggi. (…) Ancora una volta, caro compagno Marc, vogliamo manifestarti la nostra solidarietà e ti chiediamo di trasmettere questa solidarietà ai tuoi bambini ed agli altri membri della tua famiglia.
La CCI, 17 aprile 2006
Nel suo numero 479, datato da novembre 2005 a febbraio 2006, Le Prolétaire dedica circa quattro pagine alle sommosse di quest’autunno. Colonna dopo colonna, quest’organizzazione porta un sostegno incondizionato alla violenza dei giovani abitanti della periferia. Arriva addirittura a farne un punto di partenza per la lotta di tutta la classe operaia, un modello da seguire. "La rivolta delle periferie annuncia la ripresa della lotta proletaria rivoluzionaria!” potevamo leggere in grassetto ed in maiuscolo nel suo volantino. Pertanto, gli studenti che sono entrati in lotta quattro mesi più tardi hanno preso tutta un'altra strada. Non automobili bruciate a centinaia. Non scuole saccheggiate. Neanche notti intere ad affrontare gli sbirri, con i sassi in mano. Alla disperazione ed all'odio, all'autodistruzione ed al "non futuro", questi giovani della classe operaia hanno preferito l'unità e la solidarietà, l'auto-organizzazione e la costruzione dell'avvenire.
Quali sono i punti comuni tra i movimenti degli studenti e le sommosse d'autunno?
Solo guardando la cronologia degli avvenimenti, è facile pensare che la lotta contro il CPE logicamente succede alle sommosse, che ne è una specie di prolungamento. Oltretutto, vi sono in realtà alcuni punti comuni. Il primo, più visibile, è il coinvolgimento della gioventù. In entrambi i casi, sono i giovani della classe operaia ad essere scesi in strada. Ciò implica il secondo punto comune. La profondità della crisi economica ed il fallimento del capitalismo rendono totalmente insopportabile l’avvenire che si prospetta. I giovani non possono provare che una profonda angoscia ed una vera collera di fronte alla disoccupazione, ai piccoli lavori sottopagati ed altre galere che li aspettano. E’ per questo motivo che le sommosse hanno anche avuto e hanno ancora un significato importante per la classe operaia. Queste esplosioni di violenze hanno rivelato lo stato di povertà e di disperazione regnante nei ghetti di cemento. Il mondo intero ha potuto scoprire che "anche in Francia" le condizioni di vita degli operai e dei loro giovani si degradano e diventano insopportabili. Ecco ciò che c'è di comune tra le sommosse di periferia ed il movimento degli studenti: l'inquietudine della gioventù per l'avvenire. L'orizzonte chiuso, la prospettiva del domani sempre più scura. Ma la somiglianza si ferma là.
La borghesia ed i suoi media hanno tentato di tutto per rompere il movimento degli studenti. I telegiornali si sono riempiti di immagini di violenze. Quando un milione di persone manifestava in strada e migliaia di studenti si organizzavano in assemblee generali discutendo nelle università, il giornale televisivo delle 20 si soffermava solo sulle scene di depredazioni e di scontri tra alcuni casseurs con i CRS (celerini). Le immagini della Sorbona occupata e della scala gettata dalla finestra sugli sbirri hanno fatto il giro del mondo, e parecchie volte! Peggio: utilizzando i metodi più schifosi della provocazione e dell'infiltrazione, le forze dell'ordine hanno provato a più riprese a fare degenerare i cortei di manifestanti. Numerosi testimoni sono stati colpiti dall'evidenza che gli sbirri lasciavano passare le bande per creare una sensazione di paura. E non ci sono quasi dubbi che questi gruppi che correvano lungo i marciapiedi per rapinare gli studenti erano eccitati, manipolati e forse anche diretti in parte dalla polizia. Così, salutando le sommosse dell'autunno, proferendo in modo magniloquente alla fine del suo volantino "Viva la rivolta dei giovani proletari delle periferie contro la miseria, il razzismo e l'oppressione! Viva la prospettiva del proletariato in lotta per i suoi soli interessi di classe! Viva la ripresa della lotta generale di classe ivi compreso sul campo della violenza che la borghesia utilizza continuamente contro i proletari”! e qualificando gli atti esasperati dei giovani insorti di "violenza proletaria delle periferie", Le Prolétaire ha partecipato involontariamente alla trappola tesa dalla borghesia.
Ma la gioventù studentesca non ha né risposto alle provocazioni statali né seguito la direzione indicata dal “Partito Comunista Internazionale”. Al contrario, ha rigettato i metodi da sommossa organizzando dei servizi d’ordine per proteggersi dai saccheggi, impedire le devastazioni e non cadere nelle provocazioni dei CRS, pure avanzando delle parole di ordine unitarie per tutta la gioventù operaia, delle periferie o del resto. Questi futuri proletari hanno dato prova di una grande forza. Hanno difeso i valori della classe operaia: quella della solidarietà, della capacità ad organizzarsi ed a lottare collettivamente, di battersi per sé e per gli altri. È dunque il loro livello di coscienza che ha permesso agli studenti di non cadere nella trappola delle sommosse. Hanno compreso che gli scontri con i CRS erano totalmente sterili, che la distruzione per la distruzione era da bandire, che dunque i metodi da sommossa costituivano un vicolo cieco. Meglio ancora, i cortei studenteschi si sono organizzati per proteggersi contro il saccheggio delle bande delle periferie. E tuttavia, malgrado o piuttosto grazie a tutto ciò, hanno espresso un sentimento profondo di solidarietà verso gli insorti. Regolarmente nelle AG, echeggiavano interventi del tipo: "rifiutando il CPE, lottiamo tanto per noi quanto per i più sprovvisti". La dimostrazione più chiara è indubbiamente la rivendicazione di amnistia per tutti i giovani condannati durante l'autunno caldo. Durante le manifestazioni, era sorprendente il contrasto tra i cartelli che rivendicavano l'amnistia e le bande di giovani che saccheggiavano senza vergogna telefonini portatili e portafogli. Abbiamo visto delle studentesse malmenate piangere ripetendo instancabilmente "è tuttavia anche per essi che ci battiamo!"
La forza del movimento contro il CPE, la capacità degli studenti a portare nella lotta un sentimento di solidarietà ha avuto un risultato immediato: quello di coinvolgere in questa lotta la stragrande maggioranza della gioventù delle periferie. Nella misura in cui la lotta si sviluppava, gli alunni dei licei delle periferie sono venuti sempre più numerosi manifestazione dopo manifestazione, lasciando al margine la minoranza dei ladruncoli. Mentre le sommosse avrebbero potuto solo trascinare una parte dei giovani in un'isteria di violenza mentre l'altra parte si nascondeva impaurita, la lotta degli studenti, i suoi metodi ed i suoi scopi, ha offerto al tempo stesso un altro modo di battersi ed una prospettiva. Non bisogna credere che la violenza sia in sé da bandire e che fu bandita dagli studenti. I blocchi delle facoltà da parte di squadre incaricate ed organizzate fu una forma embrionale di violenza di classe. La violenza proletaria sarà necessaria alle lotte rivoluzionarie. Solo che questa violenza "portatrice di un nuovo mondo" non può prendere una qualsiasi forma. Deve girare le spalle allo scatenamento del furore distruttore cieco, all'appagamento di vendette personali, agli atti di barbarie ed al caos. La violenza proletaria è organizzata, ponderata, pensata collettivamente e portatrice dell'unità e della solidarietà della classe operaia. È una delle grandi lezioni dello sciopero di massa del 1905 e dell'insurrezione di ottobre 1917.
Quale ruolo può giocare in avvenire questo Le Prolétaire che fa l'elogio della violenza autodistruttiva?
Facendo l'elogio della violenza autodistruttiva, Le Prolétaire difende delle posizioni pericolose per la classe operaia. Una tale posizione da parte di un'organizzazione autenticamente proletaria può sorprendere in quanto somiglia agli slogan pseudo-radicali degli anarchici del tipo "quando si brucia, è buon segno". E questa organizzazione non ha nemmeno la scusa di essere malinformata. Sa molto bene ciò che sono state concretamente le sommosse: "in alcuni giorni, la rabbia dei giovani senza lavoro, senza salario, senza avvenire si è estesa a tutto il paese", "scaricano oggi una parte di questa violenza distruggendo tutto ciò che capita loro sottomano", o ancora "è una collera cieca, una manifestazione di collera esasperata". E tuttavia, essa difende questa rabbia, questa distruzione, quest'accecamento e questa disperazione che voltano le spalle agli interessi della classe operaia. Perché? La prima ragione, meno onorabile, è la volontà opportunista di piacere. Gridando "Viva la rivolta dei giovani proletari delle periferie contro la miseria, il razzismo e l'oppressione!" , ha provato a dotarsi con poca spesa di una vernice radicale, di apparire rivoluzionaria, un’organizzazione “pura e dura”. La CCI che ha assunto le sue responsabilità sottolineando il vicolo cieco di queste violenze sterili è così tacciata di "social-pacifista" da parte di un Prolétaire che porta sostegno e tutta la sua solidarietà ai giovani insorti. Ma veramente è essere solidale salutare questi atti disperati? E’ veramente essere solidale chiamare gli operai a partecipare a queste sommosse? Evidentemente no. Lo ripetiamo, la lotta degli studenti contro il CPE ha portato spontaneamente una solidarietà ben più vera di questo “Partito Comunista Internazionale”.
Al di là dell'adescamento, ci sono anche delle importanti debolezze che impediscono a Le Prolétaire di comprendere una qualsiasi cosa della lotta di classe. Mancanza di fiducia nel proletariato, incomprensione di ciò che è la violenza di classe, ignoranza totale del ruolo della coscienza, ecco le ragioni profonde che spingono in effetti Le Prolétaire a sostenere delle sommosse totalmente sterili e pericolose. Per comprenderlo, bisogna andare a grattare le sue analisi apparentemente elaborate… in superficie: "Se effettivamente gli operai si fossero già trovati numerosi sul terreno di classe, lasciare questo campo per dedicarsi a saccheggi sarebbe stato una regressione ed un passo indietro nella lotta anti-capitalista. Ma […] gli operai e più generalmente i proletari non si trovano che in numero infinitesimale sul terreno di classe, al contrario sono molto numerosi sul campo della collaborazione delle classi" e dunque "il fatto che una parte di questa maggioranza comincia a disertare questo campo della collaborazione delle classi, anche se momentaneamente, senza avere una consapevolezza chiara dei loro atti, senza prospettiva né progetto, è per i comunisti un segno di grande importanza: il segno che un passo avanti verso il terreno di classe, verso la ripresa della lotta di classe, sta avverandosi".
Se si riassume tutto questo in una frase, abbiamo: "le sommosse, sono meglio di niente". Incidentalmente, si vede che questo “Partito Comunista Internazionale” è totalmente staccato dalla dinamica attuale della classe operaia, dalla ricomparsa da alcuni anni della sua combattività. Non vedendo la lotta che si sviluppa sotto i suoi occhi, Le Prolétarie si aggrappa a qualsiasi cosa. Ma c'è qualcosa di ancora più grave. Quale immagine ha del proletariato e della sua lotta Le Prolétarie? Come può un'organizzazione rivoluzionaria credere che le sommosse, violenze senza scopo di cui le prime vittime sono gli stessi operai, possono costituire "un passo avanti verso il terreno di classe, verso la ripresa della lotta di classe"? Quali sono questi atti eroici che costituiscono una tale avanzata per la lotta della classe operaia? Gli scontri sterili con gli sbirri la cui sola motivazione era l'odio? Le migliaia di automobili di operai bruciati? O, forse, gli autobus e le scuole distrutte?
La disperazione che traspira attraverso la violenza autodistruttiva di giovani disperati costituisce uno sgambetto alla classe operaia ed assolutamente non un benché minimo passo avanti. Lo ripetiamo ancora una volta: le violenze urbane istillano la paura dell'altro, dividono gli operai ed i loro figli, spingono verso la propaganda sulla sicurezza. Soprattutto, rafforzano lo Stato borghese che permette alla borghesia di fare credere che all'infuori della democrazia, ogni lotta va verso il caos e non porta nessuno avvenire. Alla fine le sommosse inquinano la coscienza della classe operaia. Ma il PCI indubbiamente sembra non dare molto importanza alla questione della coscienza. La riflessione del proletariato sul suo avvenire, la sua capacità a battersi in modo unito e solidale…, a tutto ciò, Le Prolétaire preferisce "l'esplosioni di rabbia", "gli scontri violenti", "la rivolta elementare". Dopo tutto, non è Il Partito che è il detentore della coscienza? Non basta, per la rivoluzione vittoriosa, un Partito infallibile ed una classe operaia combattiva e determinata, piena di rabbia e di violenza? Ebbene no, compagni! La forza della classe operaia, è al contrario lo sviluppo della coscienza delle masse e della loro organizzazione. Sono le sue armi politiche essenziali.
Tra le sommosse ed il movimento anti-CPE, i metodi di lotta sono stati radicalmente differenti. Il primo poteva trascinare solamente alla distruzione, alla divisione e ridurre la fiducia della classe operaia a battersi per un avvenire il migliore. Al contrario, la presa in mano della lotta da parte degli studenti, la loro capacità ad organizzarsi in AG, ad avanzare delle parole d'ordine portatrici di solidarietà e di unità permettono al proletariato di compiere un grande passo. In breve, le sommosse guardavano verso il nulla, le lotte studentesche verso l'avvenire. Questa differenza fondamentale tra i due movimenti è sfuggita finora totalmente a Le Prolétaire, a tal punto che durante una permanenza a Parigi, i suoi militanti si sono stupiti che la CCI sostenga le lotte studentesche e si sono rallegrati che la nostra organizzazione abbia… cambiato posizione sull'autunno (sic!). Davanti alla lotta di classe, Le Prolétaire è indubbiamente come una gallina davanti ad un coltello. Possiamo chiederci con serietà e gravità quale ruolo sarà portato a giocare Le Prolétaire in seguito allo sviluppo delle lotte se continua così ad esaltare la violenza cieca e distruttrice?
Pawel
Nel mese di marzo scorso è apparsa sul forum di BC una segnalazione, da parte di un simpatizzante di questo gruppo, di una “aggressione della CCI contro la FICCI” che sarebbe avvenuta l’11 marzo a Parigi. Questo compagno, dopo aver riportato delle informazioni a proposito di una reale aggressione di Lotta Comunista nei confronti di suoi ex militanti, ha fatto sapere di aver letto che “delle cose simili succedono anche in Francia con delle aggressioni della CCI contro la FICCI e delle persone trascinate con la forza” (14 marzo 2006).
Avendo preso conoscenza di questo intervento sul forum di Battaglia, ci siamo affrettati a scrivere al compagno - che peraltro conosciamo perché anche nostro lettore ed in contatto con noi tramite corrispondenza mail - per presentargli i fatti così come erano realmente accaduti (1) e invitandolo a riflettere bene e responsabilmente sulle cose che gli avevamo comunicato. Alla fine della lettera che gli abbiamo inviato concludevamo dicendo di avere “piena fiducia in te, anche se le cose che ti abbiamo detto in questa lettera possono non convincerti del tutto. Reciprocamente ti chiediamo di avere un minimo di fiducia in noi e di avere la pazienza di comprendere la nostra posizione. Siamo naturalmente disponibili a rispondere a tutti i quesiti che tu vorrai porci sulla questione”. Non avevamo naturalmente la pretesa di cambiare completamente il giudizio del compagno con una sola lettera, ma il nostro intervento ha fatto sì che questo compagno, con atteggiamento molto responsabile, inviasse subito un messaggio di scusa a noi e uno sul forum di BC per dire “Certo, di quello che è successo in Francia abbiamo solo la versione di una delle parti. Ho ricevuto una e-mail della CCI dove mi critica per aver pubblicato il messaggio senza prima chiedere la loro versione. Non hanno torto.”
Purtroppo l’atteggiamento del gestore del forum, ovvero Battaglia Comunista, non è stato altrettanto responsabile come si può constatare dalla risposta data all’intervento appena menzionato:
“Ciao Raes,
sì, formalmente si doveva sentire anche cosa diceva la CCI, cioè l’altra campana, ma, dopo aver appurato i fatti, la sostanza è stata confermata, ossia che militanti della CCI hanno strattonato "rudemente" i compagni della Ficci, trascinandoli lontani dal luogo della riunione, con i soliti pazzeschi insulti (spie, canaglie, ladri, nonché leccaculo del BIPR). Da notare che il tutto è avvenuto sulla pubblica via, non nella sala dove la CCI teneva la riunione. Insomma, un comportamento alla Lotta (2) o come i gruppetti anni '70 che, in mancanza di argomenti politici, ricorrevano ai muscoli. Niente di nuovo, se non che protagonista di un simile episodio è un’organizzazione che si richiama alla “Sinistra Comunista”, dove tali metodi staliniani non hanno mai avuto diritto di cittadinanza. Vista l’abituale propensione alla deformazione dei fatti e delle posizioni altrui, è possibile che la CCI sfrutti il tuo intervento per imbastire chissà quale telenovela (assai scadente, per altro, com’è nel suo costume).
Ciao Raes, Smirnov, 26 marzo 2006.”
Anzitutto questa risposta mette in evidenza tutta la disonestà di Battaglia Comunista. Infatti, di fronte alle argomentazioni del compagno Raes prima si dice che sarebbe stato opportuno sentire anche l’altra campana, ovvero la CCI, per poi aggiungere che, “dopo aver verificato i fatti”, si deve concludere che la CCI non ha alcun diritto di reclamarsi alla sinistra comunista. Ma quando sono stati verificati questi fatti? E soprattutto come??? BC lascia intendere che c’è stata una verifica dei fatti laddove invece è rimasta, in tutta evidenza, alle fandonie del comunicato della Ficci visto che la CCI non è stata mai interpellata. Ed è proprio per coprire questa enorme mancanza del pur minimo principio del diritto di replica, concesso finanche dalla democrazia borghese, che BC si spinge a teorizzare che ascoltare l’altra campana non diventa più necessario “vista l’abituale propensione alla deformazione dei fatti e delle posizioni altrui” della CCI. In questo modo, per evitare di fare i conti con la CCI, si preferisce alzare ancora più il tiro delle accuse senza fornire, lo ripetiamo, la benché minima possibilità di esporre la propria versione dei fatti. In più risulta particolarmente odiosa la battuta finale in cui si mette in guardia il compagno Raes da una nostra possibile manipolazione dell’intervento fatto da questi sul forum di BC che, oltre ad essere un’ulteriore accusa gratuita finalizzata solo a creare un’enorme polverone per distrarre i lettori dalle questioni in gioco, è anche una maniera per allontanare subdolamente il compagno - che è anche un nostro lettore - dalla CCI.
Questo intervento è anche l’espressione dell’assenza totale di responsabilità politica da parte di BC nella misura in cui si fanno passare delle risposte su un soggetto così delicato, come la messa sotto accusa di un’altra organizzazione politica, attraverso l’intervento di un suo militante che visibilmente è il moderatore del sito ma che non si presenta neanche ufficialmente come militante di BC. Questo significa che BC ha perso completamente il rispetto della tradizione del movimento operaio e della sinistra comunista che vuole che il confronto tra organizzazioni che combattono dalla parte del proletariato contro la borghesia, per quanto distanti siano le loro reciproche posizioni, avvenga sempre su un piano di aperto ed esplicito confronto di posizioni, a volte anche scontro, ma sempre su un piano di correttezza politica e di leale confronto.
La presa di posizione di BC ha inoltre un carattere deliberatamente calunniatore poiché lascia pensare che è per dei motivi di disaccordo politico (“…in mancanza di argomenti politici…”) che la CCI proibisce l’accesso alle proprie riunioni pubbliche agli elementi della Ficci, mentre BC sa bene che non si tratta di questo ma del loro comportamento indegno di militanti di un’organizzazione rivoluzionaria. BC si concede anche il lusso di mettere sullo stesso piano le nostre pratiche con quelle dei gruppi gauchiste (“…insomma, un comportamento alla Lotta o come i gruppetti anni '70, che in mancanza di argomenti politici ricorrevano ai muscoli…”). Battaglia ha evidentemente tutto il diritto di pensare che il furto, il ricatto, lo spionaggio, le minacce fisiche – che sono i metodi adottati finora dalla Ficci (3) - siano delle pratiche proletarie, visto che ha rapporti cordiali e camerateschi con questi individui, ma almeno cerchi di non immischiarci in queste porcherie che sono metodi che non ci appartengono e che abbiamo sempre risolutamente rigettato.
Ancora, quando BC invoca la ben nota cattiva fede della CCI (“…l’abituale propensione alla deformazione dei fatti e delle posizioni altrui…”), il minimo sarebbe stato assumersi la responsabilità di fornire uno straccio di argomento a sostegno di quanto affermato. Ma anche qui niente di tutto questo. Di fatto la politica di BC è quella di attribuire agli altri la sua condotta politica che consiste nello snaturare sistematicamente le posizioni dell’avversario per poterle più comodamente combattere, pratica che per BC non costituisce purtroppo una novità (4). In particolare BC attribuisce alla CCI il suo stesso atteggiamento di rifiuto del dibattito ben illustrato dal suo sabotaggio delle conferenze della Sinistra Comunista nel 1980 (5) o dal suo comunicato in cui si afferma appunto che il BIPR rifiuta ormai di rispondere alle “accuse della CCI” (6).
Purtroppo le cose che abbiamo denunciato in questo articolo non sono una novità per Battaglia. A partire dall’ottobre 2004 abbiamo svelato e denunciato in maniera precisa una manovra congiunta che vedeva riuniti la Ficci, un fantomatico quanto inesistente Circulo de Comunistas Internacionalistas d’Argentina e la pavida Battaglia Comunista che si era prestata, nella sua storica paura del confronto con la nostra organizzazione, a reggere il gioco pericoloso dei due precedenti gruppi di parassiti e avventurieri. Il BIPR aveva infatti pubblicato in diverse lingue il comunicato del “Circulo” del 12 ottobre 2004 intitolato “Dichiarazione del Circulo de Comunistas Internacionalistas (Argentina): contro il metodo nauseabondo della Corrente Comunista Internazionale” che ci accusava di impiegare dei “metodi stalinisti” nei confronti dei membri del NCI che sarebbero stati molestati da noi a colpi di telefonate continue, vedi in nota il testo in questione (7).
La vergogna di Battaglia Comunista per aver sostenuto incautamente la politica della Ficci si è potuta ridurre solo in parte cancellando frettolosamente dal suo sito la serie di articoli infamanti nei nostri confronti che il Circolo d’Argentina aveva provveduto a inviare in gran quantità a BC e dichiarando incredibilmente che loro, il grande partito, non avrebbero mai più risposto agli “attacchi violenti e volgari da parte della CCI”, una maniera ancora una volta di non assumersi le responsabilità politiche che la situazione comportava. Noi chiediamo solo ai compagni onesti e privi di preconcetti di prendere visione di tutto il materiale che esiste (8) e di sottoporci a tutte le domande che desiderano. La prospettiva rivoluzionaria richiede che si liberi la strada il più velocemente possibile da atteggiamenti opportunisti e disonesti.
Ezechiele, 4 settembre 2006
1. I fatti sono ampiamente riportati in altri articoli già presenti da tempo sul nostro sito web:
- Calunnie e delazione, le due espressioni della politica della FICCI verso la CCI (ICC on line, 18 maggio 2006);
- La Ficci all’opera: menzogne e comportamenti da canaglia (ICC on line, 2 giugno 2006);
- La Ficci riceve la solidarietà che merita (ICC on line, 18 maggio 2006).
2. Con Lotta il compagno si riferisce al gruppo Lotta Comunista.
3. Va peraltro ricordato che il BIPR ha esplicitamente giustificato il furto di materiale della CCI da parte di un membro della FICCI, come è documentato dall’articolo Risposta al BIPR. Il furto e la calunnia non sono metodi della classe operaia! (18 novembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137).
4. Vedi a tale proposito l’articolo Di calunnia in menzogna, il BIPR si allontana dalla causa del proletariato su Rivoluzione Internazionale n. 140.
5. Vedi Polémique avec le BIPR sur la 4e conférence des groupes de la Gauche communiste : Une triste mascarade ... pubblicato sulla Revue Internationale n. 124, I trimestre 2006, o ancora Les conférences internationales de la Gauche Communiste (1976-1980) - Leçons d'une expérience pour le milieu prolétarien, Revue Internationale n. 122, III trimestre 2005.
6. Vedi Di calunnia in menzogna, il BIPR si allontana dalla causa del proletariato (sito web, archivio, aprile 2005).
7. “Chi non è con me merita di essere distrutto. Ecco la sentenza pronunciata dall’attuale CCI contro tutti quelli che non sono d’accordo con i suoi orientamenti politici fondamentali, o che si decidono a rompere con questo gruppo per dei disaccordi politici, o che ancora si rifiutano di accettare degli appellativi assurdi contro gli altri gruppi e/o compagni della sinistra comunista. Questi meritano di essere distrutti e scomparire per sempre. Benché ciò possa sembrare una menzogna, questa è la posizione che la CCI ha adottato ed è la ragione per la quale si è immessa in una dinamica di distruzione non solamente contro coloro che si arrischiano a sfidare le “leggi e le teorie immutabili” dei guru di questa corrente, ma anche contro tutti quelli che tentano di pensare con la propria testa e dicono NO alle minacce della CCI.
Perché diciamo questo?
Diciamo questo in seguito ad una serie di denunce fatte da militanti del Circulo de comunistas internacionalistas, e su loro richiesta, che testimoniano di essere stati chiamati per telefono dalla CCI. Queste telefonate tuttavia non erano innocenti. Avevano lo scopo subdolo di distruggere il nostro piccolo nucleo, dove i loro militanti, in maniera individuale, provocavano la mutua diffidenza e seminavano i germi della divisione tra i ranghi del nostro piccolo gruppo.
E’ così che, messi in allarme su questo metodo nauseabondo da parte dell’attuale direzione della CCI, noi, militanti del Circulo de comunistas internacionalista, per decisione unanime di tutti i militanti del nostro piccolo nucleo, denunciamo la CCI non solamente per questo metodo, ma anche per l’utilizzazione di pratiche che non corrispondono all’eredità lasciataci dalla Sinistra Comunista, ma piuttosto ai metodi propri della sinistra borghese e dello stalinismo.
Perché una Corrente riconosciuta internazionalmente se la prende con un piccolo gruppo?
La risposta a questa domanda deve essere ricercata all’interno stesso della CCI, perché il “fiasco” con il nostro gruppo ha costretto la frazione dirigente della CCI a mettere avanti dei nuovi pericoli esterni – il BIPR, la FICCI, e oggi il Circolo – per poter imporre l’ordine all’interno.
Questo perché la politica attuale della CCI provoca dei dubbi ed un clima interno di sfiducia reciproca. Essa rende necessaria la tattica stalinista della “terra bruciata”, cioè non solo la distruzione del nostro piccolo e modesto gruppo, ma anche l’opposizione attiva ad ogni tentativo di raggruppamento rivoluzionario di cui non è alla testa la CCI, per le sue politiche settarie ed opportuniste. E per questo non esita ad utilizzare tutta una serie di astuzie ripugnanti che hanno lo scopo di demoralizzare i suoi oppositori e, anche, di poter eliminare un “nemico potenziale”.
Questa è una chiara dimostrazione del fatto che l’attuale direzione della CCI non costituisce un fattore di unità e di raggruppamento rivoluzionario ma piuttosto un ostacolo a questo. Ciò è provato perfettamente dalle sue politiche di cricca, di setta e di tendenza nettamente opportunista. E di fronte ad ogni denuncia di ciò la risposta della cricca è sempre la stessa: o qualifica “parassiti” quelli che li denunciano o affibbia loro tutta una policromia di aggettivi qualificativi che provocano solo risa e scherno nel campo proletario, oltre a inquietudine perché la deriva nella quale si infogna la CCI costituisce un passo indietro per la classe operaia.
E’ così che, mancando l’adesione alle sue posizioni che non hanno niente a che vedere con la tradizione rivoluzionaria, la CCI tenta di sabotare ogni tentativo di raggruppamento rivoluzionario, come nel caso della Riunione Pubblica (del BIPR, ndr) del 20 ottobre 2004 a Parigi (Francia), e cerca oggi di distruggere il nostro piccolo gruppo d’Argentina.
Di fronte a tutto ciò, cosa ha deciso di fare il Circulo de Comunistas Internacionalistas?
Con atteggiamento unanime i compagni che la CCI ha chiamato al telefono per seminare i germi della sfiducia e della distruzione del nostro piccolo gruppo, propongono all’insieme dei membri del Circulo de comunistas internacionalistas il rigetto totale del metodo politico della CCI che loro considerano tipicamente stalinista ed il cui obiettivo centrale, obiettivo della direzione attuale della CCI, è impedire il raggruppamento rivoluzionario per il quale diverse correnti e gruppi lottano; e propongono di denunciare questi comportamenti di fronte all’insieme delle correnti che si dichiarano nella continuità della Sinistra comunista.
Buenos Aires, 12 ottobre 2004. Circulo de Comunistas Internacionalistas”
8. Riportiamo qui di seguito solo una selezione del materiale che riguarda questa triste storia: Lettera della CCI al BIPR (1 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 138); Il ‘Circulo de Comunistas Internacionalistas’ (Argentina): una strana apparizione; Il ‘Circulo de Comunistas Internacionalistas’: una nuova …strana apparizione (19 ottobre 2004); La CCI al BIPR (26 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); “Circolo di Comunisti Internazionalisti” (Argentina): impostura o realtà? (27 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); Dichiarazione del Nucleo Comunista Internacional a proposito delle dichiarazioni del “Circulo de Comunistas Internacionalistas” (27 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n.137); La CCI al BIPR (30 ottobre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); Corrispondenza tra la CCI e il BIPR: epilogo (3 novembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 137); Ultime notizie dall’Argentina : Il NCI non ha rotto con la CCI! (17 novembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 138); Lettera aperta della CCI ai militanti del BIPR (7 dicembre 2004) (sito web, archivio, Rivoluzione Internazionale n. 138); Minacce di morte contro la CCI. Solidarietà con i nostri militanti minacciati! (RzIz n. 140, aprile 2005); Corrispondenza, Apertura al confronto politico e fermezza nella difesa dei principi di classe (Rz 02/10/05).
Il pacifismo è un alleato della guerra non solo in Italia, come facciamo vedere in altra parte del giornale. Qui riportiamo un articolo della nostra sezione in Gran Bretagna che fa vedere come anche laggiù il pacifismo non ha perso l’occasione per schierarsi a fianco di uno dei due contendenti, supposto essere “l’attaccato” Le scuse per il brutale assalto delle forze armate israeliane prima su Gaza e poi sul Libano hanno raschiato la parte inferiore del barile per trovare ‘giustificazioni’ che restano ben discutibili. Di fronte ad attacchi in cui sono stati utilizzati bombardamenti indiscriminati, bombe a grappolo, bombe incendiarie al fosforo, bombe che rilasciano vapori di benzina facendo esplodere i polmoni, armi chimiche e tutto il resto dei dispositivi disponibili per un paese che ha armi nucleari e testate munite di uranio impoverito, ci aspettiamo che almeno Israele pubblichi i relativi opuscoli d'avvertimento prima dei bombardamenti. Quando la gamma degli obiettivi ha incluso aeroporti, strade, ponti, ambulanze, personale dell’ONU, civili, fabbriche, porti, poderi ed una gamma intera di altre infrastrutture essenziali (compreso l’attacco ad una centrale elettrica che ha riversato tonnellate di petrolio in mare), i sostenitori dell’offensiva israeliana si sono lamentati delle centinaia di vittime perché erano nel posto errato al momento sbagliato. Come i militari, che parlano di ‘spazzare’ il Libano del sud, così i sostenitori insistono che Israele sta difendendosi, come ogni nazione ha il diritto di farlo. Il nazionalismo è usato per giustificare tutto. Nel Libano la principale forza organizzata contro l'Israele è stata Hezbollah, fin dall’inizio degli anni ’80. Ha sostenuto di avere 13.000 razzi d'artiglieria all'inizio dell’ultimo conflitto. Li ha schierati generosamente contro città e villaggi nel nord di Israele. Con una precisione limitata sono stati lanciati contro località come la popolosa Haifa e l’araba Nazareth. Hezbollah dichiara di attaccare obiettivi militari, ma la maggior parte delle vittime è fatta di civili, come quelle fatte dallo Stato israeliano. Il fatto che finora ne ha ucciso a dozzine mentre Israele ne ha ucciso a centinaia riflette soltanto le differenti risorse
Non ci dovrebbero essere dubbi in quanto alle intenzioni di Hezbollah. Human Rights Watch ha criticato gli attacchi sulle aree civili in Israele il 18 luglio in parte perché “le testate usate suggeriscono un desiderio di elevare i danni nei confronti dei civili. Alcuni dei razzi lanciati contro Haifa negli ultimi due giorni contengono centinaia di cuscinetti a sfera che hanno un uso limitato contro gli obiettivi militari ma che causano un grande danno ai civili ed alle infrastrutture civili." C’era da aspettarselo perché l'ideologia di Hezbollah è identica a quella di Israele - sta difendendo lo Stato in cui svolge un ruolo nel parlamento e nel governo e in più di venti anni si è dimostrata come una efficace forza militare. Il nazionalismo è usato per giustificare qualsiasi cosa.
Il ruolo di Hezbollah come componente dello Stato libanese non è limitato alla sfera politica e militare. Già compie dichiarate funzioni di base dello stato, di fianco allo stato ‘ufficiale’, con una rete di base di assistenza sociale fatta di scuole, ospedali, cliniche e vari progetti di sviluppo. La classe dominante libanese dipende dal suo contributo che, a turno, è sostenuto dall'Iran e dalla Siria.
Le dimostrazioni per la guerra imperialista
Molti a sinistra hanno dato sostegno a Hezbollah. George Galloway è esplicito quando dice "glorifico il movimento di resistenza nazionale di Hezbollah" e le recenti dimostrazioni sono state decisamente a favore della guerra con la loro difesa dello sforzo militare libanese/Hezbollah e contro Israele.
Sponsorizzata dalla “Coalizione per Fermare la Guerra”, dai gruppi musulmani e dal CND (campagna per il disarmo nucleare) la dimostrazione del 5 agosto a Londra è stata una tipica approvazione della guerra. Durante il raduno tenuto alla fine della marcia abbiamo sentito con insistenza che Israele deve essere costretta a pagare le riparazioni, cosa che ricorda le richieste che fecero gli imperialisti francesi e britannici alla Germania dopo la prima guerra mondiale.
Un oratore ha chiesto ai “codardi capi arabi di non restare inginocchiati!", una chiara richiesta di reagire, di trascinare la guerra in altri paesi e far sprofondare la regione.
I membri del Partito del Rispetto hanno sostenuto di essere l'unico partito "pacifista" mentre hanno distribuito volantini a favore della guerra dove parlano esclusivamente dei danni inflitti al Libano. Lo slogan principale della marcia era "tregua incondizionata", ma la riserva - "fermare gli attacchi di Israele in Libano e a Gaza" - conferma che c’era una condizione al cessate il fuoco: non si applica a Hezbollah, alla Siria o all'Iran.
Raccontando bugie sulla ‘resistenza’
Ci sono altri modi di vendere ciò che Wilfred Owen ha chiamato "la vecchia bugia" di come è dolce morire per una causa patriottica. Il Partito Socialista degli Operai (SWP) ha chiamato alla "solidarietà con la resistenza" perché "la resistenza che Israele sta incontrando in Libano è una barriera ad ulteriori guerre e ad ulteriore distruzione". Il che è l'opposto della verità. L’attuale conflitto che coinvolge Gaza, Israele ed il Libano non è iniziato alcune settimane fa. Per capire le radici dei conflitti, proprio come quelli in Iraq, in Giordania, in Siria, Iran ed Egitto, è necessario ritornare alla prima guerra mondiale ed al crollo dell'impero ottomano. Le più grandi potenze imperialiste si sono impossessate di differenti zone dell’importante, strategicamente, Medio Oriente e da allora stanno manovrando nella regione. Le potenze più piccole, i gruppi e le fazioni sono stati usati dalle quelle più grandi o hanno cercato di soddisfare i loro propri appetiti. La formazione di Israele nel 1948, la guerra dei sei giorni nel 1967, l'invasione del Libano nel 1978, la guerra tra Iran e Iraq nel 1980-88, la guerra del Golfo nel 1991, l'invasione dell’Iraq nel 2003 – tutti questi sono momenti della guerra imperialista da cui nessuna potenza, grande o piccola, può tenersi in disparte. Oggi ogni fazione dice di essere d’accordo con la soluzione dei ‘due stati’ - ma Israele pensa alla Grande Israele ed i suoi avversari alla Palestina unificata. Lontano dall’essere una ‘barriera’ ad ulteriori guerre l’attuale conflitto fra Israele e Hezbollah mostra in tutte le sue caratteristiche di avere la capacità di intensificare e coinvolgere altre forze, quindi lasciando mano libera ad una distruzione molto più grande.
Lo SWP dice che Hezbollah "è sostenuto da una ondata crescente di solidarietà attraverso il mondo arabo". Questa è una debolezza nella lotta degli sfruttati e degli oppressi perché mostra che ci sono illusioni diffuse sulle forze nazionaliste che emergono dai conflitti imperialisti e che possono giocare un ruolo soltanto nella loro esacerbazione. Le varie forze di ‘resistenza’, in Palestina, Libano, Iraq o Afghanistan, sono presentate come le uniche risposte possibili alle offensive israeliane o alla repressione degli Usa e Gran Bretagna. Per esempio, lo SWP cita un attivista a Beirut che afferma "Hezbollah, e Hamas in Palestina, sono gli unici modelli di resistenza che ancora abbiamo, gli unici che funzionino." Tuttavia entrambe queste organizzazioni hanno le loro origini nelle fazioni che partecipano nel conflitto imperialista. Israele ha avuto un ruolo nella creazione di Hamas come avversaria di Al-Fatah di Yasser Arafat. Hezbollah era in molti sensi l’idea di Ali Akbar Mohtashemi, ambasciatore iraniano in Siria all'inizio degli anni ’80 ed ha avuto il supporto dell'Iran e della Siria fin da allora. Non sono modelli di ‘resistenza’ ma modelli delle forze ausiliarie dei principali battaglioni capitalisti.
Non troverete alcune ‘barriere’ alle future guerre e distruzioni nei ranghi di coloro che partecipano negli attuali conflitti. L'unica forza che ha la capacità di colpire al cuore del sistema capitalista che genera la guerra imperialista è la classe operaia internazionale.
Internazionalmente i dimostranti stanno chiedendo non soltanto di sostenere l’attuale conflitto, dicono anche di ‘esercitare una pressione sui governi occidentali’. Stanno chiedendo di credere che le grandi potenze come gli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia o Germania potrebbero comportarsi in modo diverso dall’essere predatori imperialisti. Come per i ‘movimenti di resistenza nazionali’ sono già integrati alle forze repressive e belliche del capitalismo o ne coltivano l’ambizione. La società capitalista spinge la classe operaia internazionale in conflitto con lo stato capitalista in tutto il mondo, ma dove la guerra imperialista può condurre soltanto ad una distruzione sempre più massiccia, la guerra di classe della classe operaia può condurre ad una società senza divisioni nazionali, alla liberazione dell’umanità.
6 agosto 2006
Alla fine di ottobre 2006, l’Alleanza Politica Socialista (SPA) ha convocato una conferenza di organizzazioni, gruppi e militanti internazionalisti nelle città coreane del sud di Seul e di Ulsan. Per quanto modesti fossero i numeri delle persone presenti, l’SPA, per quanto ne sappiamo, è la prima espressione organizzata nell’Estremo-Oriente dei principi della Sinistra Comunista e questa conferenza era certamente la prima del genere. Come tale, essa ha un’importanza storica e la CCI le ha dato il suo pieno e convinto sostegno inviando una delegazione per parteciparvi. (1)
Tuttavia, poco prima della conferenza, l’importanza politica di lungo termine dei suoi obiettivi è stata oscurata dall’acutizzarsi drammatico delle tensioni interimperialiste nella regione causato dall’esplosione della prima bomba nucleare della Corea del Nord e dalle manovre che sono seguite, particolarmente da parte delle diverse potenze presenti nella regione (USA, Cina, Giappone, Russia, Corea del sud). Di conseguenza questa questione è stata largamente dibattuta nel corso della conferenza e ha dato luogo all’adozione, da parte dei partecipanti i cui nomi sono riportati in basso, della seguente dichiarazione:
*******************
Dichiarazione internazionalista dalla Corea contro la minaccia di guerra
In seguito alle notizie relative ai test nucleari nella Corea del Nord noi, i comunisti internazionalisti riuniti a Seul e Ulsan:
1. Denunciamo lo sviluppo di nuove armi nucleari nelle mani di un altro stato capitalista: la bomba nucleare è l’ultima arma della guerra interimperialista, essendo la sua sola funzione lo sterminio totale della popolazione civile in generale e della classe operaia in particolare.
2. Denunciamo senza riserve questo nuovo passo verso la guerra intrapreso dallo stato capitalista della Corea del nord che ha così dimostrato ancora una volta (se fosse ancora necessario) che esso non ha assolutamente niente a che fare con la classe operaia o con il comunismo e che rappresenta solo la versione estrema e grottesca della tendenza generale del capitalismo decadente verso la barbarie militarista.
3. Denunciamo senza riserve l’ipocrita campagna condotta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati contro il loro nemico della Corea del nord, che non è altro che una preparazione ideologica per sferrare - quando ne avranno la facoltà - i loro propri attacchi preventivi, di cui la popolazione lavoratrice sarebbe la vittima principale, come avviene oggi in Iraq. Non abbiamo dimenticato che gli Stati Uniti sono l’unica potenza che ha utilizzato armi nucleari in guerra, annientando le popolazioni civili di Hiroshima e di Nagasaki.
4. Denunciamo senza riserve le pretese “iniziative di pace„ che appaiono sotto l’egida di altri gangster imperialisti come la Cina. Questi paesi non sono interessati alla pace, ma solo alla difesa dei loro propri interessi capitalisti nella regione. I lavoratori non possono avere alcuna fiducia nelle “intenzioni pacifiche„ di qualsivoglia stato capitalista.
5. Denunciamo senza riserve qualunque tentativo da parte della borghesia della Corea del sud di prendere delle misure repressive contro la classe operaia o contro dei militanti nella loro difesa dei principi internazionalisti con il pretesto della difesa della libertà nazionale o della democrazia.
6. Esprimiamo la nostra completa solidarietà con gli operai della Corea del nord e del sud, della Cina, del Giappone e della Russia che saranno le prime vittime nel caso in cui dovesse scoppiare un’azione militare.
7. Dichiariamo che soltanto la lotta di classe a livello mondiale può mettere fine una volta per sempre alla continua minaccia di barbarie, di guerra imperialista e di distruzione nucleare che pende sopra umanità nella società capitalista.
Gli operai non hanno alcuna patria da difendere! Operai di tutti i paesi, unitevi
Questa dichiarazione è stata sottoscritta dalle organizzazioni e gruppi seguenti:
Un certo numero di compagni presenti alla Conferenza hanno ugualmente sottoscritto la dichiarazione su base individuale:
___________
1. Torneremo più dettagliatamente sui contenuti di questa conferenza con un prossimo articolo.
Il seguente articolo ci è stato trasmesso dai membri del forum di discussione delle Midlands. Questo testo, oltre a darci una chiara visione generale del recente sciopero dei dipendenti comunali, contiene alcune informazione molto interessanti su una piccola ma significativa espressione della solidarietà di classe seguita allo sciopero.
Il 28 marzo 2006 c’è stato il più grande sciopero in Gran Bretagna dal 1926. Più di 1 milione operai del pubblico impiego comunale – settore edilizio, raccolta rifiuti, biblioteche, refezioni e pulizia scolastica e altri- sono stati mobilitai da otto sindacati, compresi Unison, Amicus, T&G e GMB per una “giornata di azione” contro la proposta di riforma del sistema pensionistico, che significherebbero per gli operai dell’amministrazione pubblica locale accettare lo stesso trattamento pensionistico della maggior parte dei lavoratori del settore privato e continuare a lavorare fino a 65 anni, anziché potersi ritirare a 60 anni come ora. Questa proposta di riforma delle pensioni si allinea alle riforme messe in atto in altri paesi europei, quali la Francia e l'Austria nel 2003 e negli USA. Questa è parte di un attacco più ampio dello Stato britannico contro il “salario sociale”, che include l'estensione dell'età lavorativa fino a 68 anni per quelli che attualmente sono sotto i 30 anni ed è un segno del fallimento storico del capitalismo. Incapace da tempo di fornire alcunché alla classe operaia, se non disoccupazione continua o superlavoro fino alla morte prematura, lo Stato adesso dice agli operai che non possono aspettarsi di essere “sostenuti” da lui nella loro vecchiaia, dopo tutta una vita di duro lavoro o sprecata con un sussidio di disoccupazione.
Come in Francia ed in Austria, come nello sciopero nei trasporti di New York alla fine del 2005, c’è stata una forte rabbia tra gli operai su queste riforme che mettono in questione l'idea stessa che il capitalismo possa offrire. Questa rabbia ha spinto i sindacati a mettersi alla testa delle proteste. La questione delle pensioni è un problema che tocca l’insieme della classe operaia; è un attacco all’insieme della classe; è una questione che unisce tutti gli operai, in qualsiasi settore lavorino, qualunque sia la loro età, se sono impiegati o disoccupati. Le mobilizzazioni di massa in Francia hanno mostrato l’ampiezza della rabbia degli operai lì; il grosso sciopero in Gran Bretagna ha mostrato la rabbia degli operai qui; questo non è un problema degli operai inglesi o del capitalismo inglese, ma un segno a livello mondiale del fallimento storico del capitalismo.
Sin dall'inizio i sindacati hanno tentato di dividere gli operai nelle varie categorie per spezzare ogni senso di solidarietà. Non c’è stato nessun appello per estendere lo sciopero alle altre categorie di lavoratori che possono andare in pensione a 60 anni, ma le cui le pensioni erano ugualmente minacciate – impiegati statali, insegnanti, o il personale sanitario, per esempio - o quelli nel settore privato che in genere devono lavorare fino a 65 anni. Anche tra i dipartimenti comunali c’è stata una divisione - alcune aree e settori hanno funzionato normalmente, altri sono stati chiusi o parzialmente chiusi perché gli operai erano in sciopero.
La stessa stampa ha attaccato i principi basilari della solidarietà di classe: i lavoratori comunali sono stati presentati come dei “privilegiati” (perché negli anni 80 le loro condizioni di lavoro non furono attaccate tanto selvaggiamente quanto quelle degli altri operai) e sono stati accusati di aver perso i contatti con la realtà economica, tornando indietro ai “giorni bui” degli anni 70 e 80 (cioè all'ultima volta che tantissimi operai in Gran Bretagna espressero la loro combattività).
In una città nelle Midlands, parecchi settori sono entrati in sciopero, compreso quello dei netturbini - che si compone sia di operai con contratto a tempo indeterminato, principalmente membri del sindacato GMB, che di operai con contratto a termine, principalmente operai giovani venuti in Gran Bretagna dalla Polonia dopo l'espansione sul versante est dell'UE, assunti attraverso le agenzie di collocamento. Questi operai per la maggior parte non sono sindacalizzati, e pochissimi di loro sono membri di un sindacato.
Risultato dello sciopero, gli scioperanti con un contratto a tempo indeterminato, ma non membri del sindacato, sono stati messi in riga attraverso, ad esempio, l’opzione di fare straordinari retroattivi - in un lavoro così mal pagato come quello dei netturbini, per molti operai è assolutamente vitale fare gli straordinari per poter sbarcare il lunario. I giovani operai polacchi assunti tramite agenzia, invece, che avevano scioperato in solidarietà con i loro compagni di lavoro del sindacato, sono stati licenziati. La reazione del personale a tempo indeterminato è stata di rabbia contro questa sfacciata provocazione. Nella mensa aziendale si è tenuta una riunione improvvisata di circa 35 operai – la metà dei quali del turno della mattina successiva - per decidere come ottenere che questi giovani operai fossero reintegrati. L’istanza è stata presentata al delegato sindacale del GMB nel reparto, che ha detto che poiché gli operai dell'agenzia non erano iscritti al sindacato, questo non avrebbe fatto niente per aiutarli. Una delegazione di tre operai ha richiesto alla direzione la reintegrazione degli operai licenziati. La risposta della direzione è stata che questi operai in realtà non erano stati licenziati da lei; il loro contratto di lavoro era con l'agenzia, era quindi l'agenzia, e non la direzione, che aveva rifiutato di riassumerli alla scadenza del contratto.
Questa risposta ipocrita ha provocato ancora di più gli operai del reparto. Ne è seguita un’altra riunione con la direzione, a cui gli operai hanno richiesto la reintegrazione dei compagni licenziati. La direzione ha acconsentito a scrivere una lettera all'agenzia per dire che gli operai polacchi non dovevano essere incolpati di non essersi recati al lavoro; che nella “confusione” dello sciopero era difficile sapere chi aveva o non aveva fatto il turno. Questa lettera è stata poi portata da due degli operai all’agenzia di collocamento - per accertarsi che questa arrivasse, poiché gli operai non avevano fiducia nel fatto che la direzione si assicurasse che la lettera fosse giunta a destinazione. Il risultato è stato che tutti gli operai licenziati sono stati reintegrati.
Unita, la classe operaia è una forza irresistibile; quando i lavoratori mostrano solidarietà tra di loro, intervenendo con partecipazione e solidarietà, esigendo dalla direzione la reintegrazione dei compagni licenziati, oltrepassando le barriere che il capitalismo prova ad erigere fra noi – sindacato/non sindacato, permanente/temporaneo, contratto diretto/tramite collocamento, nativo/immigrato-, ogni azione, benché in sé molto piccola, è parte del processo con il quale la classe operaia, come un tutt’uno, comincia a riscoprire la propria identità, quella di una classe mondiale e anche di una classe storica; una classe che porta in se il futuro dell'umanità, il comunismo.
Possiamo solo provare sentimenti d’indignazione e di nausea davanti a questa nuova manifestazione, a questo scatenamento di barbarie in Medio Oriente: 7.000 incursioni aeree sul territorio libanese, più di 1.200 morti in Libano ed in Israele, di cui più di 300 bambini con meno di 12 anni, circa 5.000 feriti, un milione di civili costretti a scappare dalle bombe o dalle zone di combattimento. Altri, troppo poveri per scappare si riparano come possono con la paura addosso... Quartieri, villaggi ridotti in rovine, ospedali presi d’assalto e pieni da scoppiare: tale è il bilancio provvisorio di un mese di guerra in Libano ed in Israele in seguito all’offensiva di Tsahal per ridimensionare l’ascesa crescente degli Hezbollah in risposta ad uno dei numerosi attacchi assassini delle milizie islamiche al di là della frontiera israelo-libanese. Le distruzioni sono valutate a 6 miliardi di euro, senza contare il costo militare della stessa guerra. Alla fine, l’operazione di guerra si chiude con un insuccesso che è anche una scottante sconfitta, mettendo brutalmente fine al mito dell’invincibilità, dell’invulnerabilità dell’esercito israeliano. Rappresenta inoltre un nuovo indietreggiamento e la continuazione dell’indebolimento della leadership americana. Al contrario, Hezbollah esce rinforzato dal conflitto e, attraverso la sua resistenza, ha acquistato una nuova legittimità agli occhi dell’insieme dei paesi arabi.
Questa guerra costituirà una nuova tappa nella messa a ferro e fuoco di tutto il Medio Oriente e nella caduta in un caos sempre più incontrollabile al quale tutte le potenze imperialiste avranno contribuito, dalle più grandi alle più piccole, in seno alla pretesa “comunità internazionale”.
Perché questi massacri, questa fiammata di combattimenti omicidi?
L’impasse della situazione in Medio Oriente si era già avuto con l’arrivo al potere dei “terroristi” di Hamas nei territori palestinesi (favorito dall’intransigenza del governo israeliano che ha contribuito alla “radicalizzazione” di una maggioranza della popolazione palestinese) e la lacerazione aperta tra le frazioni della borghesia palestinese, tra Fatah ed Hamas, impedisce oramai ogni soluzione negoziata. Il ritiro israeliano da Gaza, per isolare meglio ed accerchiare la Cisgiordania, non servirà a molto. Israele non aveva altra soluzione che spostarsi all’altro versante per fermare l’influenza crescente degli Hezbollah nel Sud del Libano, aiutati, finanziati ed armati dal padrino iraniano. Il pretesto invocato da Israele per scatenare la guerra è stata la richiesta di liberazione per 2 soldati israeliani fatti prigionieri dagli Hezbolllah: dopo mesi dalla loro cattura sono sempre prigionieri delle milizie sciite, e le prime trattative a tale proposito sono state appena abbozzate dall’ONU. Altro motivo invocato: “neutralizzare” e disarmare gli Hezbollah, i cui attacchi e le cui incursioni sul suolo israeliano dal Sud Libano sarebbero una minaccia permanente per la sicurezza dello Stato ebraico. Ma la reazione che si scatenerà sarà tanto sproporzionata quanto il voler ammazzare una zanzara con un bazooka. Lo Stato israeliano si è dedicato con brutalità ad una politica di vera e propria terra bruciata, con una ferocia ed un accanimento incredibile contro le popolazioni civili dei villaggi nel Sud Libano, cacciate senza riguardo dalle loro terre, dalle loro case, costrette a crepare di fame, senza acqua potabile, esposte alle peggiori epidemie. Sono 90 i ponti e innumerevoli le vie di comunicazione sistematicamente messe fuori uso (strade, autostrade...), 3 centrali elettriche e migliaia d’abitazioni distrutte, l’aeroporto di Beirut inutilizzabile. Il governo israeliano ed il suo esercito hanno continuamente proclamato la volontà “di risparmiare i civili”, massacri come quelli di Canaa sono stati definiti “incidenti spiacevoli” (come i famosi “danni collaterali” nelle guerre del Golfo e nei Balcani). Ma è tra la popolazione civile che si contano la maggior parte di vittime, e di parecchio: il 90% dei morti!
Questa guerra non poteva scoppiare senza il via libera degli Stati Uniti. Arenati fino al collo nel pantano della guerra in Iraq e in Afghanistan, e dopo l’insuccesso del loro “piano di pace” per regolare la questione palestinese, gli Stati Uniti possono solamente constatare l’insuccesso patente della loro tattica d’accerchiamento dell’Europa, di cui il Vicino e Medio Oriente erano, dal punto di vista strategico, le pedine principali. In particolare, la presenza americana in Iraq dopo tre anni si è tradotta in un caos sanguinoso, una vera guerra civile spaventosa tra fazioni rivali, attentati quotidiani che colpiscono ciecamente la popolazione, al ritmo di 80-100 morti al giorno. Tutti questi fiaschi e quest’impotenza manifestano l’indebolimento storico della borghesia americana nella regione che, di conseguenza, vede la sua leadership sempre più contestata nel mondo intero. Questa è del resto la ragione per cui nuove pretese imperialiste di altri Stati si affermano sempre più, a cominciare dall’Iran. In questo contesto, era fuori questione per gli Stati Uniti intervenire in prima persona quando il loro obiettivo nella regione è prendersela con questi Stati denunciati come “terroristi” ed incarnazione de “l’asse del male” costituito, secondo loro, dalla Siria e soprattutto dall’Iran di cui gli Hezbollah hanno il sostegno. L’offensiva israeliana, che doveva servire d’avvertimento a questi due Stati, dimostra la perfetta convergenza d’interessi tra la Casa Bianca e la borghesia israeliana. Del resto, gli Stati Uniti in seno all’ONU hanno continuamente frenato e sabotato per parecchie settimane gli accordi di cessate il fuoco per permettere all’esercito israeliano di piazzare le sue basi operative più lontano possibile in territorio libanese, fino al famoso fiume Litani.
A parte il fatto che non è proprio da mettere in conto per lo Stato ebraico di installarsi permanentemente nel Sud-Libano, i metodi ed i problemi ai quali sono confrontati gli Stati Uniti e lo Stato d’Israele in Medio Oriente fanno parte di una stessa dinamica: stessa necessità di fuga in avanti nelle avventure militari per conservare i propri interessi imperialisti ed il proprio statuto di gendarme; stesso pantano in cui possono solo arenarsi sempre di più; stessa incapacità a controllare una situazione di caos crescente in cui ogni loro intervento provoca altrettante aperture di vasi di Pandora.
Civili e militari in seno alla borghesia israeliana si rinfacciano la responsabilità di una guerra mal preparata. Israele fa l’amara esperienza che non è possibile combattere una milizia disseminata nella popolazione come si combatte un esercito ufficiale di uno Stato costituito. Hezbollah, come d’altronde Hamas, inizialmente non era che una delle innumerevoli milizie islamiche costituitesi contro lo Stato dell’Israele, nata all’epoca dell’offensiva israeliana nel Sud-Libano nel 1982. Grazie alla sua componente sciita ha prosperato beneficiando del copioso sostegno finanziario del regime degli ayatollah e dei mullah iraniani. Anche la Siria lo ha utilizzato dandogli un importante sostegno logistico per servirsene da retroterra quando fu costretta nel 2005 a ritirarsi dal Libano. Contemporaneamente, questa banda d’assassini sanguinari ha saputo tessere pazientemente una potente rete di sergenti reclutatori attraverso la copertura di un aiuto medico, sanitario e sociale, alimentato dai generosi fondi messi a disposizione dalla manna petrolifera dello Stato iraniano. Oggi, si può permettere di pagare i risarcimenti delle case distrutte o danneggiate dalle bombe e dai razzi allo scopo di arruolare nelle sue fila la popolazione civile. E abbiamo visto, dai vari reportage, come questo “esercito ombra” sia composto da numerosi ragazzini tra i 10 ed i 15 anni utilizzati come carne da cannone nei sanguinosi regolamenti di conto.
La Siria e l’Iran formano momentaneamente il blocco più omogeneo intorno ad Hamas o Hezbollah. In particolare, l’Iran mostra chiaramente l’ambizione a diventare la principale potenza imperialista della regione e il possesso dell’arma atomica in effetti le assicurerebbe questo ruolo. Non a caso da mesi il governo iraniano sta sfidando gli Stati Uniti perseguendo il suo programma nucleare, mentre moltiplica le arroganti provocazioni ed osteggia le sue intenzioni bellicose, dichiarando apertamente l’intenzione di radere al suolo lo Stato israeliano.
Il colmo del cinismo e dell’ipocrisia è raggiunto dall’ONU che, per tutto il tempo, non ha fatto che proclamare la sua “volontà di pace” pur lamentando la propria “impotenza”(1). Questa è un’odiosa menzogna. Questo “covo di briganti” è la palude dove si trastullano i più mostruosi coccodrilli. I cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono i maggiori predatori del pianeta.
- Gli Stati Uniti, la cui egemonia si basa sulla più potente armata militare del mondo ed i cui misfatti, dalla proclamazione nel 1990 “di un’era di pace e di prosperità” da parte di Bush Senior, si commentano da soli (le due guerre del Golfo, l’intervento nei Balcani, l’occupazione dell’Iraq, la guerra in Afghanistan...).
- La Gran Bretagna che ha accompagnato fino a questo momento le principali spedizioni punitive degli Stati Uniti per la difesa dei propri interessi. Essa intende così riconquistare la zona d’influenza di cui disponeva attraverso il suo vecchio protettorato in questa regione (principalmente Iran ed Iraq). Intende mantenere la sua presenza nella regione a qualsiasi prezzo, sperando di intascare i dividendi negli anni futuri.
- La Russia, responsabile delle peggiori atrocità all’epoca delle sue due guerre in Cecenia, che avendo mal digerito l’implosione dell’URSS e rimuginando un desiderio di rivincita, manifesta oggi nuove pretese imperialiste, approfittando della posizione di debolezza degli Stati Uniti. È per ciò che gioca la carta del sostegno all’Iran e più discretamente agli Hezbollah.
- La Cina che, approfittando della sua crescente influenza economica, sogna di accedere alle nuove zone di influenza fuori dall’Asia del Sud-est E l’Iran, a cui fa gli occhi dolci, fa parte degli Stati su cui punta per raggiungere i suoi scopi. Queste due potenze, ognuna per proprio conto, cercano di sabotare le risoluzioni dell’ONU delle quali erano state promotrici.
- In quanto alla Francia, il sangue che ha sulle mani non è meno sporco delle altre. Non solo ha partecipato pienamente ai massacri della prima guerra del Golfo nel 1991, ma la carta pro-serba che si è giocata nei Balcani l’ha spinta a lasciar massacrare freddamente in seno alle forze dell’ONU le popolazioni bosniache nell’enclave di Srebrenica nel 1993, a partecipare, attivamente alla caccia dei talebani in Afghanistan (la morte di 2 soldati all’interno della “forza speciale” del COS ha appena messo in piena luce quest’attività fino ad ora molto discreta)(2). Ma è soprattutto in Africa che l’imperialismo francese si è messo in luce per la difesa dei suoi sordidi interessi imperialisti provocando i massacri inter-etnici nel Ruanda, incoraggiando coi metodi più barbari gli Hutu allo sterminio dei Tutsi.
La borghesia francese ha conservato la nostalgia dell’epoca in cui divideva le zone di influenza in Medio Oriente con la Gran Bretagna. Dopo esser stata costretta a rimettere in causa la sua alleanza con Saddam Hussein all’epoca della prima guerra del Golfo nel 1991, con l’assassinio poi del suo “protetto” Massoud in Afghanistan, le sue speranze di riconquista si sono concentrate sul Libano. La Francia fu cacciata brutalmente all’epoca della prima guerra del Libano, nel 1982/83, dall’offensiva della Siria contro il governo libano-cristiano, poi per l’intervento israeliano comandato dal “macellaio” Sharon e teleguidato dagli USA, che costrinse la Siria fino a quel momento schierata nel campo dell’ex-URSS a lasciare il Libano ed a raggiungere il campo occidentale. Non ha perdonato alla Siria l’assassinio nel febbraio 2005 (attribuito a Bachar al-Assad) dell’ex-primo ministro libanese Rafi Hariri, grande “amico” di Chirac e della Francia. È per questo che, malgrado il suo desiderio di risparmiare l’Iran (qualificato “il grande paese” e ripetendo di voler negoziare con lui) si è allineata al piano americano sul Libano, intorno alla famosa risoluzione 1201 dell’ONU, orchestrando anche il piano del nuovo spiegamento del FINUL. A dispetto delle reticenze dello stato-maggiore, che ha protestato perché le operazioni militari della Francia all’estero che si troverebbero ormai “al limite” (circa 15.000 uomini impegnati su differenti e molteplici fronti: Costa d’Avorio con l’operazione Licorne, il Ciad, la RD del Congo, Gibuti, il Darfour, il Kosovo, la Macedonia, l’Afghanistan) il governo francese ha varcato il Rubicone. Ha accettato di portare il suo impegno in Libano con la presenza da 400 a 2.000 soldati in seno al FINUL, a certe condizioni: in particolare, la continuazione del suo mandato di comando generale sullo spiegamento dei 15.000 uomini previsti fino a febbraio 2007, il ricorso alla forza in caso d’aggressione. Scotta ancora, infatti, il ricordo dell’attentato, da parte di terroristi sciiti, contro il palazzo Drakar che ospitava il contingente francese a Beirut nell’ottobre 1983, conclusosi con la perdita di 58 paracadutisti, che causò il ritiro della Francia dal Libano. Tuttavia, non sono sparite le esitazioni della borghesia francese a passare dal campo diplomatico a quello militare. La missione essenziale del FINUL è quella di sostenere un esercito libanese appena ricostituito e molto debole - solo 15.000 uomini - incaricato di disarmare Hezbollah. Questa missione si annuncia tanto più pericolosa in quanto: due membri di Hezbolllah sono nel governo libanese; Hezbollah stesso forte del fatto di avere da solo dato smacco al potente esercito di Tsahal, non si è mai sentito tanto forte e pieno di sicurezza (ha dimostrato la sua capacità di lanciare razzi e minacciare le città del Nord d’Israele fino alla firma del cessate il fuoco); e, soprattutto, l’esercito libanese è già largamente infiltrato da lui.
Anche altre potenze sono in lizza, come l’Italia che, in cambio del più grosso contingente delle forze dell’ONU si vedrà affidare dopo febbraio 2006 il comando supremo del FINUL in Libano. Così, appena qualche mese dopo il ritiro delle sue truppe dell’Iraq, Prodi dopo avere criticato aspramente l’impegno dell’equipe Berlusconi in Iraq, presenta la stessa minestra in Libano confermando le ambizioni dell’Italia ad avere un suo posto nella corte dei grandi, a rischio di lasciarci le penne. L’insuccesso patente d’Israele e degli Stati Uniti rappresenta un nuovo passo importante nell’indebolimento dell’egemonia americana. Ma questo lungi da essere un fattore d’attenuazione dei conflitti, non fa che aumentarli. Costituisce anzi un incoraggiamento per decuplicare le pretese imperialiste di tutti gli altri Stati e annuncia quindi una destabilizzazione ed un caos crescente.
Il Medio Oriente offre oggi un concentrato del carattere irrazionale della guerra in cui ogni imperialismo si accanisce sempre più a difendere i propri interessi, al prezzo di un’estensione sempre più larga e sanguinosa dei conflitti, coinvolgendo un numero crescente di Stati. La Siria e l’Iran sono ormai sul piede di guerra. Ciò spinge gli Stati Uniti ed Israele ad organizzare una risposta ancora più terribile ed omicida. Il ministro della difesa israeliana ha chiaramente lasciato intendere che il cessate il fuoco era solamente una tregua per ridisporre le sue forze e preparare un secondo assalto dove promette di liquidare definitivamente Hezbollah.
L’estensione delle zone di scontri nel mondo è una manifestazione del carattere ineluttabile della barbarie del capitalismo. La guerra ed il militarismo sono diventati il modo di vita permanente del capitalismo decadente in piena decomposizione. È una delle caratteristiche essenziali del tragico vicolo cieco di un sistema che non ha nient’altro da offrire all’umanità se non miseria e morte.
Stanno crescendo le proteste contro la guerra . L’anno scorso ci sono state grandi manifestazioni a Tel Aviv e ad Haïfa per protestare contro il rialzo del costo della vita, contro la politica del governo d’aumento smisurato dei bilanci militari a scapito dei bilanci sociali che aveva come conseguenza un rialzo esorbitante dell’inflazione. L’insuccesso della guerra oggi può solamente favorire l’espressione crescente del malcontento sociale.
Nei territori palestinesi si esprime sempre più la rabbia dei dipendenti del pubblico impiego non pagati da parecchi mesi (a causa del congelamento dei crediti dell’Unione Europea dall’elezione di Hamas).
Tuttavia, milioni di persone tra i proletari e la popolazione civile, che siano di origine ebraica, palestinese, sciita, sunnita, druza, curda, maronita cristiana o altra, sono prese in ostaggio e subiscono un terrore quotidiano.
Quale solidarietà con le popolazioni vittime della guerra?
La borghesia proclama che bisogna rivendicare che “siamo tutti sionisti, nazionalisti palestinesi e patrioti libanesi”. Al contrario, i rivoluzionari devono proclamare alto e forte il grido d’unità del proletariato: “I proletari non hanno patria”. La classe operaia non ha nessun interesse nazionale né alcun campo da difendere. Questi interessi nazionali sono sempre quelli della borghesia che la sfrutta. Opporsi alla guerra, è opporsi a tutti i campi capitalisti. Solo il capovolgimento del capitalismo potrà mettere fine allo scatenamento della barbarie guerriera. La sola vera solidarietà, all’interno del proletariato verso i suoi fratelli di classe esposti ai peggiori massacri, è mobilitarsi sul proprio terreno di classe contro i propri sfruttatori. È battersi e sviluppare le sue lotte sul campo sociale contro la propria borghesia nazionale. Così com’è stato fatto con gli scioperi che hanno paralizzato l’aeroporto di Londra a Heathrow ed i trasporti a New York nel 2005, dai lavoratori della fabbrica Seat a Barcellona all’inizio dell’anno, dalla mobilitazione dei futuri proletari contro il CPE in Francia o dagli operai della metallurgia a Vigo in Spagna. Queste lotte, che mostrano una ripresa della lotta di classe a scala internazionale costituiscono, l’unico barlume di speranza di un futuro diverso, di un’alternativa per l’umanità alla barbarie capitalista.
Wim
1. Questo cinismo e quest’ipocrisia si sono rivelati pienamente sul campo, attraverso un episodio significativo: un convoglio di persone di un villaggio libanese, tra cui numerose donne e bambini, che tentavano di fuggire dalla zona dei combattimenti è andato in panne ed è stato preso di mira dalle mitragliatrici di Tsahal. I membri del convoglio hanno cercato allora rifugio presso un campo dell’ONU proprio lì vicino ma è stato risposto loro che era impossibile ospitarli perché non avevano nessuno mandato per fare ciò. La maggior parte (58) sono morti sotto il mitragliamento dell’esercito israeliano e sotto lo sguardo passivi delle forze del FINUL (secondo la testimonianza al telegiornale di una madre di famiglia scampata).
2. L’insistenza insolita dei media su quest’episodio, che sopraggiunge opportunamente, “mira” innanzitutto ad abituare la popolazione ad accettare l’idea che ci possano essere altre morti di soldati e numerose future vittime durante le operazioni militari alle quali parteciperanno le forze francesi nel Sud-Libano all’interno del FINUL.
In meno di sei mesi il nuovo governo di centrosinistra ha già abbondantemente dimostrato come qualsiasi coalizione stia al governo non fa altro che gli interessi della propria borghesia a scapito di quelli dei lavoratori.
Infatti, come se non bastassero a giustificare questo giudizio le misure prese sul piano economico con la manovra bis di giugno, tutte improntate a tagli e inasprimenti tariffari, o quelle che il governo si accinge a fare con la finanziaria 2006 (che vanno nella stessa direzione, vedi l’articolo in questo stesso numero), il governo Prodi si è dato un gran da fare sul piano internazionale per ridare slancio all’iniziativa imperialista dell’Italia, dopo gli anni di appannamento provocati dall’appiattimento del governo Berlusconi sulla politica degli USA.
E la nuova guerra in Libano è servita ad assicurare a questi sforzi il grande successo della condivisione del comando della missione “di pace” che l’ONU ha deciso dopo grandi trattative. Quale sia il significato di queste trattative e, quindi, di questa missione in Libano lo illustriamo nell’articolo di apertura del giornale, qui vogliamo far vedere come la “sinistra” italiana non abbia intenti diversi da quelli degli altri paesi che hanno voluto o che partecipano a questa missione.
I dubbi che la missione in Libano non sia affatto una missione di pace sono in effetti molto diffusi tra i lavoratori, i quali, con il ragionamento semplice ma molto concreto di chi deve tutti i giorni fare i conti con la realtà materiale e non con le ideologie, non vedono proprio come una missione di pace si possa fare inviando dei soldati armati di tutto punto, invece che aiuti materiali per le popolazioni. Altri, che magari hanno anche votato a sinistra proprio perché contrari agli interventi voluti dal governo Berlusconi in Afghanistan e Iraq, hanno subito visto la contraddizione di quelle forze che hanno sempre dichiarato di essere contro le missioni militari e oggi ne hanno fortemente voluta una proprio loro. Né può bastare ai lavoratori l’affermazione con cui tutto il governo e con più forza ancora Rifondazione Comunista, l’ala cosiddetta di “sinistra radicale” della coalizione governativa, hanno cercato di giustificare l’intervento in Libano, e cioè che essa è una missione di pace: “La missione in Libano è l’esatto contrario rispetto all’Iraq e all’Afghanistan. Una netta inversione di tendenza. Una spedizione di pace.” (F. Giordano, segretario di R.C., su Repubblica del 24 agosto 2006). Ma perché, Berlusconi gli interventi armati in Afganistan e Iraq non li aveva chiamati “missioni di pace”? Perché dovrebbero credere a Giordano quelli che non hanno creduto a Berlusconi?
Ed infatti non bisogna credergli. La missione in Libano non è diversa dai tanti interventi militari che l’Italia e le altre potenze occidentali hanno messo su dal 1991 in poi, mascherandole dietro i pretesti “umanitari”, “di pace” o, quando proprio era difficile sostenere questi argomenti, “di polizia internazionale”.
Quello che divide Giordano e la maggioranza del governo di centrosinistra dal centrodestra di Berlusconi è la strategia con cui si possono difendere meglio gli interessi dell’imperialismo italiano: per Berlusconi questo si poteva e si doveva fare stando dietro agli USA, qualsiasi scelta questi facessero e qualsiasi fesseria raccontassero per giustificare i loro interventi guerrieri; per Prodi e D’Alema invece, gli interessi italiani si difendono meglio in un quadro più europeo e di maggiore autonomia dagli USA, autonomia che è vista più come contrapposizione da parte di Rifondazione, mentre la Margherita è molto più prudente e attenta a non schiudere completamente la porta agli USA.
E questo è molto evidente quando dalle affermazioni di principio (“si tratta di una missione di pace”) che vengono fatte da tutti i partiti, di destra o sinistra che siano, si va più nel concreto. Berlusconi, per esempio, ha minacciato di non votare il varo della missione se questa non contemplava il disarmo di Hezbollah, ritornando su questa minaccia quando ha visto che il disarmo di Hezbollah è previsto dalla risoluzione ONU, anche se affidato in prima istanza all’esercito libanese. Per Giordano invece questa opportunità è assolutamente da escludere: “Sto dicendo che se qualcuno sostiene che dobbiamo andare a disarmare gli Hezbollah, allora non lavora effettivamente per la pace” (ibidem) (1). E per chi pensasse che è Giordano che è impazzito o è stato preso dal cretinismo parlamentare al pari del suo ex capo Bertinotti, può andare a rileggere Liberazione, giornale del partito, che ha appoggiato la missione che rappresenta “un nuovo inizio della politica estera italiana, non più appiattita sull’asse Washington-Tel Aviv” (Liberazione del 23 agosto 2006), affermazione che non potrebbe riassumere con più chiarezza la vera differenza tra la politica estera del centrodestra e quella del centrosinistra.
Così la missione in Libano contribuisce a smascherare la vera natura borghese del governo di centrosinistra, ivi inclusa la sua componente più estrema. Anzi, è proprio quest’ultima che torna più utile nel dare una copertura all’imperialismo italiano, tanto è vero che nessun esponente si è esentato dall’esprimere il suo appoggio alla missione:
“Quale stupenda prova di solidarietà e saggezza l’Europa sta dando!” (Rossana Rossanda), “Stavolta interviene l’ONU e non la NATO, con funzioni di polizia internazionale, e mi sta bene” (Lidia Menapace, icona del “pacifismo” italiano) (2)
Ed insieme alla sinistra, con la guerra in Libano si smaschera tutto il sedicente pacifismo, tanto attivo ai tempi dell’attacco all’Iraq ed ora silenzioso di fronte all’intervento italo-franco-europeo. In realtà il pacifismo piccolo borghese, quando, nella migliore delle ipotesi, non è l’espressione impotente del perbenismo delle “anime gentili”, è uno strumento della borghesia che serve ad ingannare i proletari sulle reali ragioni delle guerre e delle intenzioni dei propri rispettivi imperialismi. Lo stesso pacifismo è pronto ad appoggiare il proprio imperialismo quando sono in gioco gli interessi di questi, come hanno fatto i pacifisti italiani citati sopra, ma anche il piuttosto noto movimento “Peace now” israeliano, che nello scorso luglio non ha esitato ad appoggiare l’invasione del Libano perché “Israele era sotto attacco”.
Non si può essere contro la guerra se non si è contro il capitalismo, se non si denunciano come imperialiste tutte le parti belligeranti, senza distinzioni tra “aggressori” ed “aggrediti”, senza distinzione tra chi dice di fare la guerra in nome della pace e chi dice di volere la pace e manda i soldati ad imporla. L’unica vera lotta alla guerra è quella che può condurre il proletariato di ogni paese che, combattendo contro la propria borghesia, si oppone anche alla tendenza di questa alla guerra.
Ci sono forze che stanno su questa linea, come testimoniano molti contributi che arrivano al nostra indirizzo (3), e soprattutto su questa linea sta il proletariato mondiale, che con le sue lotte sta aprendo una nuova prospettiva per l’umanità, antagonista a quella di morte che ci propone il capitalismo.
Helios
1. In effetti basterebbe già questo per capire quale è il pacifismo di Rifondazione: Hezbollah è una banda di assassini che non ha esitato a lanciare migliaia di missili sui civili israeliani in nome e per conto del suo padrino iraniano, e che si è fatta scudo dei civili libanesi per ripararsi dalle incursioni israeliane; perché voler disarmare questi assassini vorrebbe dire “non essere per la pace”?
2. Citazioni riportate su Repubblica del 25 agosto 2006, come quelle di Ferrando riportate in nota 3.
3. Sentiamo già una vocina che ci dice: state dimenticando Ferrando e il suo “Partito Comunista dei lavoratori”. Non lo stiamo dimenticando, sappiamo bene che Ferrando ha affermato: “Considero sconcertante che una parte, pur limitata, del movimento per la pace, giunga ad appoggiare pubblicamente una missione militare”. Ma sappiamo anche che lo afferma perché, secondo lui, questa missione è stata “richiesta a gran voce da Bush e da Olmert come strumento di normalizzazione del Libano e del Medio Oriente”, e quindi con la preoccupazione che la missione non sia abbastanza esplicitamente contro USA ed Israele. Ed a fianco di Hezbollah, forza a cui sicuramente Ferrando guarda con simpatia, come ha guardato con simpatia la sedicente “resistenza” irachena, quella che ammazza bambini e lavoratori iracheni a più non posso (vedi in proposito Rivoluzione Internazionale n. 145).
Una dei punti forti della mistificazione democratica è quello della “alternanza”, cioè della possibilità di scegliere tra destra e sinistra per portare al governo quella coalizione che sembra più adatta a soddisfare i bisogni dei “cittadini-elettori”. La mistificazione è doppia: non solo infatti non è la libera scelta degli elettori a portare al governo questa o quella coalizione, bensì gli interessi della classe dominante, la borghesia (1), ma c’è anche, e soprattutto, il fatto che si tratta di una falsa alternativa, in quanto destra e sinistra difendono comunque gli interessi della classe dominante e del capitale nazionale (2).
La vera differenza tra destra e sinistra è la capacità di quest’ultima di meglio mistificare sulla realtà delle proprie azioni.
Così se la destra va in Iraq semplicemente per “seguire gli USA” in una guerra “sbagliata” (secondo la definizione della sinistra), ma in realtà per difendere gli interessi dell’imperialismo italiano, la sinistra va in Libano, sempre con soldati armati, sempre per difendere gli interessi dello stesso imperialismo, ma “per mantenere la pace”.
Se sul piano economico la destra non si fa scrupoli a chiedere sacrifici in nome di un “liberismo” che domani risolverà tutti i problemi dell’economia, la sinistra è costretta a mascherare i sacrifici che chiede dietro una cortina ideologica sulla “equità” o indispensabilità di sacrifici immediati per costruire un futuro più radioso.
E’ stato così anche per la presentazione della finanziaria 2006 che Prodi ha appena portato in Parlamento, presentandola con il commento “Difesi i più deboli” , anche se il giorno dopo, di fronte ai primi dubbi sulla natura della finanziaria, già il vice-ministro Visco ha dovuto affermare “Nel 2008 meno tasse per tutti”, promettendo così ancora miracoli, ma ammettendo anche implicitamente che quanto dichiarato il giorno prima non è poi tanto vero.
Ed infatti non lo è, come cominciano a dire anche settori della stessa maggioranza, e soprattutto come possiamo verificare se andiamo a guardare da vicino.
E’ vero che la finanziaria presentata da Prodi prende di mira, con un aumento delle tasse, i lavoratori autonomi e comunque quelli che guadagnano più di 30-35mila euro all’anno (tra 1500 e 1800 euro netti al mese, cioè una cifra che ben difficilmente può far definire ricchi quelli che li guadagnano, anche se superiore alla media del salario dei lavoratori dipendenti), quello che però è falso è che essa restituisca qualcosa di significativo a chi guadagna di meno, cioè i “più deboli” citati da Prodi. Infatti, con la ridefinizione delle aliquote, il guadagno per i redditi più bassi è, per i casi migliori, di poche decine di euro al mese, cioè una cifra che non solo non recupera potere d’acquisto, ma che in realtà è molto meno di quello che la stessa finanziaria costerà a tutti i lavoratori:
- aumento del bollo auto,
- ticket sanitari sulle prestazioni diagnostiche (10euro a ricetta) e sui ricoveri al pronto soccorso (23 euro, ma solo se poi non si viene ricoverati, per cui uno deve scegliere tra il pagare o l’augurarsi di avere qualcosa di grave!),
- aumenti delle tasse comunali che i sindaci hanno già promesso se restano i tagli ai finanziamenti agli enti locali,
- aumenti dei contributi pensionistici che, in misura percentuale diversificata, toccano comunque tutti i lavoratori
- tagli alle spese della pubblica amministrazione, che significa blocco parziale del turn over e peggioramento delle prestazioni (ad esempio nella scuola, dove è previsto l’aumento del numero di alunni per classe).
Questa è la reale natura della finanziaria presentata in Parlamento e che l’estrema sinistra governativa e i sindacati, ancora più che Prodi, cercano di presentare come una legge a favore dei lavoratori e dei più deboli. Tutti hanno sicuramente visto la veemenza con cui Giordano, attuale segretario di Rifondazione Comunista, ha difeso questa manovra. Così facendo, lungi dal dimostrare il vantaggio per i lavoratori della finanziaria, Giordano ha dimostrato la natura antioperaia di un partito che di comunista ha solo il nome e nient’altro.
E che la borghesia italiana metta avanti queste frazioni, cioè quelle che godono di una certa fiducia tra i lavoratori, per cercare di far passare una manovra che ancora una volta attacca il livello di vita dei lavoratori, dimostra quanto il capitale abbia un bisogno assoluto di continuare su questa strada. Perché gli attacchi a cui sono e sono stati sottoposti i lavoratori non sono legati alla cattiveria della destra o all’incapacità della sinistra, ma al fatto che l’una e l’altra non hanno altra via da percorrere se non questa, perché il capitale, di cui sono i difensori, è un sistema in crisi permanente che non può offrire più niente ai lavoratori, e questo non solo in Italia, ma nel mondo intero.
Perciò i lavoratori non devono cadere nella trappola: non solo la nuova finanziaria non restituisce loro niente, ma i sacrifici che essa richiede non possono in alcun modo assicurare un futuro migliore.
La sola strada per assicurarsi un futuro migliore i lavoratori la possono trovare nelle loro lotte contro i sacrifici, lotte che cominciano a svilupparsi un po’ dappertutto nel mondo, e che in Italia tardano un po’ proprio perché la sinistra del capitale è riuscita finora a bloccare i lavoratori addossando tutte le colpe dei sacrifici a Berlusconi e compagni. Adesso il re è nudo e i lavoratori devono riprendere la loro iniziativa, senza fidarsi dei sindacati che hanno già dimostrato, con le loro dichiarazioni di accettazione della finanziaria, di essere ancora una volta complici degli attacchi ai lavoratori.
Helios, 5/10/2006
1. E’ vero che negli ultimi anni si è potuto osservare che la capacità della borghesia di controllare il meccanismo elettorale, anche a causa delle sue divisioni interne, diminuisce sempre più, ma questo non significa che la scelta è passata nelle mani degli elettori, anche perché ogni forza politica mente normalmente su quello che è o che vuole fare, per cui su che base sarebbe possibile fare una vera scelta?.
2. Gli interessi del capitale nazionale possono anche collidere con quelli di questa o quella frazione borghese, per cui a volte lo Stato, vero difensore del capitale nazionale, sembra agire al di sopra delle parti, ma in realtà gli interessi che esso difende sono solo quelli del capitale nel suo insieme. E’ in questo senso che Marx diceva che ogni governo costituisce il comitato d’affari della borghesia.
L'attuale conflitto in Libano ha luogo in un'area che non solo è strategicamente una delle più importanti al mondo, ma anche una di quelle più densamente popolate e urbanizzate. Siamo ben lontani dai deserti dell'Iraq del sud o degli altopiani dell'Afghanistan. In questo senso il conflitto attuale, forse anche più di quelli nei Balcani negli anni '90, necessariamente riporta alla mente gli orrori della seconda guerra mondiale e induce una riflessione su quello che la società attuale ci riserva. Ciò è particolarmente importante per il proletariato europeo che è stato al centro degli orrori dell'ultima guerra mondiale. Ma questa riflessione ce la dobbiamo attendere anche tra i lavoratori del Medio Oriente, nonostante il successo immediato delle borghesie locali nella mobilitazione di guerra. Nei mass-media europei è stata riportata la notizia secondo cui sono circolate su siti internet riprese effettuate con web-cam nelle zone di guerra. Questa attività a quanto pare è soprattutto iniziativa di giovani. Spinti da una convinzione spesso non chiara ma profonda che tutti i mezzi di comunicazione ufficiali mentono, questi giovani filmano quello che avviene intorno a loro e rendono direttamente disponibili queste immagini su internet. In risposta alla guerra attuale, i giovani – e a volte anche dei bambini – da entrambe le linee del conflitto – hanno filmato e hanno scambiato fotografie degli attacchi militari che loro hanno subito. Rendendosi conto della somiglianza, di fatto della identità della causa delle loro sofferenze, questo scambio di immagini è divenuto un'espressione diretta di solidarietà tra le vittime di guerra. Sebbene ciò che viene espresso qui sia della solidarietà umana, e non ancora esplicitamente dell'internazionalismo proletario, quest'ultimo in questo caso è implicitamente contenuto nella prima.
Nel numero di giugno del nostro giornale in Francia (1) l’articolo “60 anni fa il Fronte Popolare irreggimentava gli operai per la guerra imperialista”, ricordava come il “Fronte popolare” in Francia, contrariamente alle attuali campagne ideologiche della borghesia che ne fanno n periodo di “conquiste della classe operaia”, costituì un momento della preparazione della guerra imperialista mondiale con l’arruolamento del proletariato dietro la difesa dello Stato capitalista in nome dell’antifascismo. In questo articolo affrontiamo, con la guerra di Spagna, l’ultima tappa di questo imbrigliamento del proletariato internazionale, realizzato da tutte le frazioni della sinistra borghese e dei sindacati sotto la bandiera mistificatrice della lotta “antifascista”.
Questa terribile tragedia operaia, ancora oggi cinicamente presentata come la “rivoluzione sociale spagnola” o “una grande esperienza rivoluzionaria”, segna il trionfo della controrivoluzione attraverso lo schiacciamento ideologico e fisico (più di un milione di morti tra il 1931 ed il 1939 in Spagna) delle ultime forze vive del proletariato europeo. Questa carneficina fu la prova generale per lo scatenamento della guerra imperialista mondiale.
Gli anni dal 1930 al 39 sono gli anni di preparazione alla guerra che marcia sulle ceneri dell’ondata rivoluzionaria sorta contro la Prima Guerra mondiale. Ovunque nel mondo il proletariato è diviso, disfatto, preso nella morsa capitalista – che l’allontana dal proprio terreno di classe con la falsa alternativa “fascismo o democrazia” – e sottomesso all’isteria nazionalista che lo porta inesorabilmente verso la guerra. Nello stesso tempo, in seguito alla morte dell’Internazionale comunista, sanzionata dalla proclamazione del “socialismo in un solo paese”, la quasi totalità delle organizzazioni operaie in piena degenerazione sono conquistate al campo della borghesia dove tendono a disaggregarsi completamente. I “patiti comunisti” diventano la cinghia di trasmissione de “la difesa della patria socialista” agli ordini della controrivoluzione staliniana. Le sole voci che si levano controcorrente mantenendosi fermamente su delle posizioni di classe, come “Bilan” (organo della Sinistra Comunista d’Italia all’estero, tra il 1933 ed il 1938), sono quelle di un pugno di rivoluzionari.
Spagna 1936: la sinistra svia e sottomette il proletariato allo Stato borghese La Spagna, dove sussiste una frazione del proletariato mondiale ancora non schiacciata data la non partecipazione di questo paese alla Prima Guerra mondiale, si trova al centro di una vasta manovra della borghesia unita nello spingere gli operai ad abbandonare il loro terreno di classe e farli deviare sul terreno capitalista di uno scontro esclusivamente militare ed imperialista. Data la sua posizione geografica di porta dell’Europa, chiudendo il Mediterraneo da una parte e aprendo le vie sull’Atlantico e su l’Africa dall’altra, la Spagna costituiva il terreno ideale per l’affermazione delle tensioni imperialiste esasperate dalla crisi economica, soprattutto per gli imperialismi tedesco ed italiano che cercavano di assicurarsi un punto di forza nel Mediterraneo ed accelerare il corso verso la guerra. Inoltre, le strutture arcaiche di questo paese, profondamente scosse dall’irruzione della crisi economica mondiale del capitalismo negli anni 30, offrivano un terreno favorevole per sviare il proletariato. Si mantiene il mito di una “rivoluzione democratica borghese” ad opera degli operai, per trascinarli dietro l’alternativa “repubblica contro monarchia” che prepara la via alla lotta “antifascismo contro fascismo”. Dopo la dittatura di Primo de Rivera, instaurata nel 1923 e che beneficiava della collaborazione attiva del sindacato socialista UGT, la borghesia spagnola elabora, a partire dall’agosto 1930, il “Patto di San Sebastian” al quale vengono associati i due grandi sindacati, l’UGT e la CNT, quest’ultima dominata dagli anarco-sindacalisti, e che getta preventivamente le basi di una “alternativa repubblicana” al potere monarchico. Poi, il 14 aprile 1931, fa abdicare il re Alfonso XIII con la minaccia di uno sciopero dei ferrovieri e proclama la repubblica. Di colpo, al momento delle elezioni, viene portata al potere una coalizione social-repubblicana. Il nuovo governo “repubblicano e socialista” non tarda a dare la vera misura della sua natura antioperaia. La repressione si abbatte violentemente sui movimenti di sciopero che nascono di fronte al rapido aumento della disoccupazione e dei prezzi, facendo centinaia di morti e di feriti tra gli operai, in particolare nel gennaio 1933 a Casas Viejas in Andalusia. Durante questa ondata di repressione, il repubblicano “di sinistra” Azana ordina alla truppa: “Né feriti, né prigionieri, tirate al ventre!”. Questa sanguinosa repressione delle lotte operaie, fatte in nome della democrazia e che durerà due anni, permetterà alle forze di destra di organizzarsi e porta la coalizione governativa ad annaspare. Nel 1933 le elezioni danno la maggioranza alla destra. Una parte del Partito socialista, molto screditato dalla repressione di cui si è fatto agente, ne approfitta per fare una virata a sinistra. La preparazione del fronte di guerra imperialista, cioè la necessità di sviare il proletariato mentre gli scioperi si sviluppano, è la realtà in seno alla quale si articola l’attività delle organizzazioni politiche di sinistra. Gli scioperi si amplificano tra aprile e maggio del '34. I metallurgici di Barcellona, i ferrovieri e soprattutto gli operai edili a Madrid, ingaggiano delle lotte molto dure. Di fronte a queste tutta la propaganda della sinistra e dell'estrema sinistra è centrata sull'antifascismo per trascinare gli operai in una politica di “fronte unito di tutti i democratici”, una vera camicia di forza per il proletariato. Dal 1934 al 1935, gli operai sono sottoposti ad un martellamento ideologico incessante in vista delle elezioni, per la messa in opera di un programma di fronte popolare e per “far fronte al pericolo fascista”. Nell'ottobre del '34, spinti dalle forze di sinistra, gli operai delle Asturie cadono nella trappola di uno scontro suicida con lo Stato borghese che li dissangua. La loro insurrezione e la loro eroica resistenza nelle zone minerarie e nella cintura industriale di Oviedo e di Gijon vengono completamente isolate dal PSOE e l'UGT che usano tutti i mezzi per impedire che la lotta si estenda al resto della Spagna, in particolare a Madrid. Il governo dispiega allora nelle Asturie 30.000 uomini con carri armati ed aerei per schiacciare senza pietà gli operai, aprendo così un periodo di violenta repressione in tutto il paese. Il Fronte popolare porta gli operai al massacro Il 15 gennaio 1935, viene siglata l'alleanza elettorale del Fronte popolare dall'insieme delle organizzazioni di sinistra, così come dai gauchisti trotskisteggianti del POUM. I dirigenti anarchici della CNT e della FAI derogano ai loro “principi anti-elettorali” per coprire questa impresa di un complice silenzio che equivale chiaramente ad un sostegno. Nel febbraio 1936, viene eletto il primo governo del Fronte popolare. Mentre si sviluppa una nuova ondata di scioperi, il governo lancia appelli alla calma, chiede agli operai di cessare gli scioperi, dicendo che questi fanno il gioco del fascismo; il PCE arriverà a dire che “dei padroni provocano ed attizzano gli scioperi per delle ragioni politiche di sabotaggio”. A Madrid, dove il 1° giugno scoppia uno sciopero generale, la CNT impedisce ogni confronto diretto con lo Stato, lanciando le sue famose parole d'ordine d'autogestione. Questa autogestione servirà ad intrappolare gli operai nella “loro” fabbrica, la “loro” campagna o la “loro” città, in particolare in Catalogna ed in Aragona. Sentendosi forti, le forze militari si lanciano a luglio in un “pronunciamiento” partito dal Marocco e diretto da un Franco che fa i suoi primi passi da generale sotto gli ordini della repubblica dominata dai socialisti. La risposta operaia è immediata: il 19 luglio 1936, gli operai dichiarano lo sciopero contro il colpo di stato di Franco e vanno in massa nelle caserme per disarmare questo tentativo, senza preoccuparsi delle direttive contrarie del Fronte popolare e del governo repubblicano. Unendo la lotta rivendicativa alla lotta politica, gli operai fermano con questa azione la mano omicida di Franco. Ma, simultaneamente, gli appelli alla calma del fronte popolare - “Il governo comanda, il Fronte popolare obbedisce” – vengono altrove rispettati. A Siviglia, per esempio, dove gli operai che hanno seguito le consegne di attesa del governo si fanno massacrare in un orribile bagno di sangue dai militari. Le forze di sinistra del capitale dispiegano allora pienamente le loro manovre d'imbrigliamento (2). In 24 ore il governo che negoziava con le truppe franchiste e organizzava con queste i massacri degli operai, cede il posto al governo Giral, più a “sinistra” e più “antifascista”, che prende la testa del sollevamento operaio per orientarlo verso lo scontro con il solo Franco e su un terreno esclusivamente militare! Gli operai vengono armati solo per essere mandati “al fronte” contro le truppe di Franco, al di fuori del loro terreno di classe. Meglio ancora, la borghesia tende allora la trappola criminale di una sedicente “scomparsa dello Stato capitalista repubblicano”, quando invece questo si rifugia dietro un presunto “governo operaio” che porta gli operai all’union sacrée contro Franco attraverso organismi quali il Comitato centrale delle Milizie antifasciste ed il Consiglio centrale dell'economia. Si crea così l'illusione di un “doppio potere” che getta definitivamente gli operai nelle mani dei loro carnefici. I sanguinosi massacri che hanno luogo in seguito in Aragona, a Oviedo, a Madrid, sono il criminale risultato della manovra della borghesia repubblicana e della sinistra che ha fatto abortire le reazioni operaie del 19 luglio 1936. Da quel momento, centinaia di migliaia di operai vengono arruolati nelle milizie degli anarchici e del POUM per “difendere la rivoluzione sociale” e vengono mandati a farsi ammazzare sul fronte imperialista “antifranchista” dal governo del Fronte popolare. Queste milizie saranno presto militarizzate, e gli operai più combattivi serviranno da carne da cannone per gli interessi capitalisti che credevano di combattere. Avendo abbandonato il suo terreno di classe, il proletariato subirà tutto il giogo della guerra e vedrà imporsi uno sfruttamento selvaggio in nome dell’economia di guerra “antifascista” da parte del Fronte popolare: riduzione dei salari, inflazione, razionamento, militarizzazione del lavoro, allungamento della giornata di lavoro e divieto del diritto di sciopero… Il proletariato di Barcellona si solleva di nuovo nel maggio 1937, ma in maniera disperata, facendosi massacrare dal Fronte popolare, dal PCE e la sua succursale del PSUC in testa, tanto che le truppe franchiste fermarono volontariamente la loro avanzata per poter permettere ai carnefici staliniani di schiacciare gli operai: “Il 19 luglio 1936, i proletari di Barcellona, A PUGNI NUDI, annientarono i battaglioni di Franco ARMATI FINO AI DENTI. Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, MUNITI DI ARMI, lasciano sulla strada ben più vittime che a luglio, quando dovevano respingere Franco ed è il governo antifascista – che comprende fino agli anarchici ed a cui il POUM è indirettamente solidale – che scatena la feccia delle forze repressive contro gli operai” scriveva Bilan nel 1938 nell’articolo “Piombo, mitraglia, galera: così risponde il Fronte popolare agli operai di Barcellona” (3). In questa sanguinosa tragedia tutte le cosiddette organizzazioni operaie hanno non solo dimostrato la loro integrazione allo Stato borghese, ma partecipato a pieno allo schiacciamento del proletariato; gli uni, come il PCE, il PSUC (che si consacra qui grande partito dell’ordine borghese), il PSOE e l’UGT assumendo direttamente il ruolo di carnefici, gli altri, come la CNT, la FAI, il POUM spingendo gli operai ad abbandonare il proprio terreno di classe in nome del “fronte antifascista” per gettali nelle braccia dei loro assassini e nella mischia imperialista. La presenza di ministri anarchici e della CNT nel governo della Catalogna e poi nel governo centrale di Caballero, è stato un potente fattore di mistificazione del Fronte popolare contro gli operai. Gli anarchici hanno avuto un ruolo di primo piano per conto della borghesia e nella sua manovra, imbrogliando gli operai sulla natura di classe del governo e del Fronte popolare: “Tanto sul piano dei principi che per convinzione, la CNT è sempre stata anti-statale e contro ogni forma di governo. Ma le circostanze hanno cambiato la natura del governo spagnolo e dello Stato. Oggi il governo, in quanto strumento di controllo degli organi dello Stato, non è più una forza di oppressione contro la classe operaia, così come lo Stato non rappresenta più un organismo che divide la società in classi. L’uno e l’altro opprimeranno ancor di meno il popolo ora che dei membri della CNT vi fanno parte” (Federica Montseny, ministro anarchico, 4 novembre 1936). Tutte le organizzazioni del Fronte popolare, ed in particolare gli stalinisti che se ne fecero il braccio armato, dichiararono una guerra feroce contro gli elementi delle rare correnti che, anche se con molta confusione, lottavano per difendere le posizioni rivoluzionarie, inviandoli sui posti più esposti del fronte, lasciandoli senza munizioni, facendoli imprigionare dalla polizia delle “forze repubblicane” o assassinandoli puramente e semplicemente. Gli avvenimenti della Spagna hanno dimostrato chi erano veramente quelli che pretendevano di essere al fianco degli operai, democratici, socialisti, “comunisti” e anarchici, ma che nella pratica sono stati i difensori più accaniti dello Stato borghese e del capitale nazionale, i peggior nemici della classe operaia. La guerra di Spagna si prolunga fino al 1939 concludendosi con la vittoria militare di Franco nel momento in cui le altre frazioni del proletariato mondiale, dappertutto vinte dalla controrivoluzione, servivano a loro volta da carne da cannone nello scontro imperialista generalizzato dietro le rispettive borghesie nazionali. C.B.
Il “non ci sono governi amici e governi nemici“ gridato da un operaio della FIAT di Mirafiori al segretario della CGIL, Guglielmo Epifani, coglie una questione che gira nella testa di molti lavoratori, soprattutto di quelli che hanno votato per l’attuale maggioranza. La domanda è “perché li abbiamo votati, se devono fare una politica uguale a quella di Berlusconi?” Ed è una domanda giusta, perché effettivamente la legge finanziaria che l’attuale maggioranza si appresta a votare chiede ancora una volta sacrifici a quelli che già ne fanno da anni e che fanno sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese (1). Quello che c’è di ingenuo nella maniera di porre la questione è che quello di Prodi potesse essere un governo amico dei lavoratori. Non lo è, e non potrebbe esserlo, perché nel capitalismo “ogni governo costituisce il comitato d’affari della borghesia”, come diceva il vecchio Marx, verità che è stata più e più volte confermata in Italia come nel resto del mondo dai vari Blair, Schroeder, e Prodi vari. Del resto sono stati i vari governi di centrosinistra succedutisi dal 1992 (primo governo Amato) al 2001 (con la breve parentesi del primo governo Berlusconi durato meno di un anno) a portare avanti il più massiccio attacco alle condizioni di vita dei lavoratori che l’Italia ricordi. E se ogni governo non può che fare gli interessi della propria borghesia, oggi questo significa che l’unica politica possibile è quella dei sacrifici, vista la situazione di crisi che vive il sistema capitalista nel suo complesso (2).
Una questione però resta, e ci è stata posta da alcuni compagni: se, nell’attuale fase di capitalismo decadente, la differenza fra destra e sinistra sta solo nel diverso ruolo che i diversi apparati politici della borghesia svolgono nei confronti dei lavoratori (con la destra che deve principalmente portare avanti le ideologie liberiste, e la sinistra che deve invece mistificare gli operai per impedire che essi prendano coscienza del futuro che il capitalismo riserva all’umanità), perché la borghesia italiana ha voluto far vincere la sinistra, visto che la politica che doveva per forza di cose portare avanti ne avrebbe indebolito l’immagine nei confronti dei lavoratori stessi? La questione è legittima e impone una risposta.
La prima risposta sta nel fatto che la “alternanza” al governo tra destra e sinistra è il principale puntello della mistificazione democratica: se la borghesia lasciasse governare sempre la destra, su cosa potrebbe basarsi l’illusione, di cui è principale portatrice proprio la sinistra, che con lo strumento democratico, con le elezioni, i lavoratori possono cambiare i loro destini? Il secondo argomento è più legato alle vicende italiane e in particolare alle conseguenze che qui si sono avute con il crollo del blocco sovietico (e la conseguente disgregazione del blocco occidentale). Il crollo dell’URSS provocò abbastanza velocemente il disfacimento del suo blocco imperialista e, venendo meno questo, anche il blocco avversario, quello costruito intorno agli USA, non aveva più senso di esistere, per cui anche nel campo occidentale si aprì una fase di allontanamento dal leader di blocco (diventata in poco tempo contestazione di questa leadership e tendenza, da parte di ogni paese occidentale, a portare avanti i propri interessi nel mondo anche in contrasto con l’antico capo). Questo venir meno dell’interesse da parte dell’Italia per l’alleanza con gli USA ebbe anche delle conseguenze sul piano degli equilibri politici interni: l’Italia infatti, per la sua posizione geografica strategicamente importante e per la presenza di un forte partito “comunista” filosovietico, era sempre stata sotto un controllo particolare da parte degli USA, che si esercitava centralmente attraverso la Democrazia Cristiana, partito che impersonava l’alleanza con gli Stati Uniti. Venuta meno le necessità di questa alleanza, anche i partiti ad essa legati furono messi in crisi e abbandonati dalla stessa borghesia italiana (o per meglio dire da una parte di essa): è questa la motivazione di “tangentopoli” (altrimenti conosciuta come operazione “Mani Pulite”), una delle più grosse operazioni di “pulizia” politica (e non morale, come si è cercato di far credere!!) che un paese occidentale abbia conosciuto. Con la messa in evidenza delle ruberie che i partiti al governo avevano portato avanti (e la DC era stata al governo ininterrottamente dal dopoguerra), questi partiti furono spazzati via, e con essi fu messa in crisi l’alleanza con gli USA. Ma questa operazione, che aveva una sua logica, ebbe come conseguenza la distruzione, o la disgregazione, di tutti i partiti che avevano occupato il centro e la destra della politica (3). Questo ha significato che la sinistra rischiava di dover reggere le sorti di governo per chissà quanto tempo. A questo ha supplito la “discesa in campo” di Berlusconi, un uomo che, mettendo a disposizione la sua azienda e i suoi mezzi economici, è stato capace di costruire un partito in grado di ereditare (almeno in parte) la forza elettorale della DC e di creare così un polo di centrodestra) che, grazie anche alla svolta democratica dell’MSI di Fini, potesse proporsi come alternativo alla sinistra così da ricreare il gioco dell’alternanza senza il quale la mistificazione della democrazia non sta in piedi. Ma la discesa in campo di Berlusconi non è avvenuta solo per volontà di una parte della borghesia italiana di ricostruire un partito di centrodestra, è stata anche l’espressione degli interessi USA di mantenere un’influenza sul suolo italiano. E Berlusconi si era e si è dimostrato ampiamente amico degli USA. Nei fatti Berlusconi si è dimostrato troppo appiattito sulle scelte americane, come dimostrato in particolare dalla infelice e poco redditizia missione in Iraq, e in più di essere troppo impegnato a difendere i propri interessi personali (vedi le varie leggi ad personam varate dal suo governo) per badare a quelli più generali del capitale nazionale. Così, durante il governo Berlusconi, il capitalismo italiano si è trovato diviso dalla maggior parte degli altri paesi europei, sul piano imperialista, e sul piano economico ha perso diverse posizioni sullo scacchiere mondiale, mentre è tornato a salire il deficit pubblico (senza che migliorassero le prestazioni sociali). E’ toccato quindi alla coalizione di centrosinistra provare a mettere riparo ai danni provocati da Berlusconi. Dopo aver messo mano alla politica estera (missione in Libano in accordo con gli altri paesi europei e con una forza mistificatoria ben superiore a quella della missione in Iraq), adesso il governo Prodi prova a rimettere in ordine i conti del proprio capitale e per farlo non può che ricorrere ad altri sacrifici per i lavoratori E’ solo riducendo la parte di ricchezza che ritorna alla classe operaia (cioè il salario diretto ed indiretto) che lo Stato italiano può sperare di riuscire a mantenere la sua competitività sul mercato mondiale ed a finanziare le spese militari che gli consentono di avere un posto sullo scacchiere imperialista. Naturalmente il fatto che sia un governo di sinistra ad attaccare i lavoratori non è senza rischi. E’ ben difficile, ad esempio, per una forza come Rifondazione Comunista stare con due piedi in una scarpa: essere una “forza di governo responsabile” (cioè che lavora per le esigenze dello Stato), ed al tempo stesso mantenere l’immagine di chi sta “dalla parte dei lavoratori” e che è “contro la guerra”. Questa schizofrenia a cui è costretta RC rischia effettivamente di suscitare una riflessione tra i proletari e delle reazioni esplicite di sfiducia e rabbia come quelle a Mirafiori. Non esistono quindi governi amici della classe operaia, viceversa esiste uno scontro di classe che vede la borghesia attaccare sempre di più i livelli di vita della classe operaia. Non è che riconoscendo questo stato di fatto che i proletari potranno cominciare a difendersi veramente, sviluppando le loro armi per contrapporsi agli attacchi della borghesia. E le armi dei lavoratori sono le loro lotte, condotte in maniera autonoma e senza il controllo dei sindacati, primi alleati della borghesia (e non solo dei governi di sinistra). E’ questa la strada che in molti paesi i lavoratori stanno intraprendendo, è questa la sola strada che anche i lavoratori italiani hanno per potersi difendere veramente, lasciando da parte ogni illusione su “governi amici” o “sindacati rappresentativi”.
10/12/2006 Helios
1. Per i dettagli vedi Rivoluzione Internazionale n. 147
2. Il che non vuol dire che qualche paese capitalista non possa “avanzare” a scapito di altri. Anzi, è proprio il detto “mors tua vita mea” che caratterizza la vita del capitalismo dell’ultimo secolo, un secolo di guerre, di scontri e di concorrenza spietata, in un mondo diventato ormai troppo piccolo per consentire un qualsivoglia sviluppo del mercato, come era stato nei secoli precedenti. Le cifre che esibiscono paesi come la Cina o anche l’India in questi ultimi tempi sono essenzialmente l’espressione di una politica di sottrazione di mercati ad altri paesi capitalisti (il nord Africa all’Europa, ad esempio) e a condizioni di vita e di lavoro sempre più miserevoli in cui è stata ridotta la classe operaia cinese e indiana che non può che esprimere la prospettiva verso cui ci spinge questo barbaro sistema a livello mondiale. 3. In effetti fu scompaginato anche il PSI, partito storicamente di sinistra, ma che aveva governato per diversi anni con tutte le compagini di centro e di destra (DC, PRI, PSDI, PLI). Comunque il vero vuoto venne a costituirsi al centro e alla destra dello schieramento politico borghese.
Riceviamo da un nostro simpatizzante un interessante commento sulla finanziaria del governo Prodi e sul reale significato delle elezioni nella società attuale. Il testo non ha bisogno di commenti e riceve da parte nostra un pieno sostegno su quanto sviluppa sul reale significato delle elezioni e sul ruolo privilegiato svolto dalla sinistra del capitale nel mistificare la classe operaia. Cari Compagni, la denuncia fatta da Deaglio a proposito dei brogli telematici elettorali è molto pesante. Adesso ho potuto vedere riconosciuta la giustezza della posizione di non lasciarsi truffare dall'elettoralismo, da parte di molte persone che avevano disprezzato ed irriso questa scelta. Ma bisogna ancora chiarire che non si tratta di un'eccezione, dato che, a quanto pare, anche l'attuale presidente degli Stati Uniti d'America è stato eletto grazie a meccanismi analoghi. Dunque nella democrazia borghese il responso elettorale è predeterminato, a seconda se alla borghesia conviene affidare a questa o quell'altra parte del suo schieramento politico l'amministrazione dello Stato (mai il potere, che rimane solo e sempre alla classe borghese). E quindi, una finanziaria da macelleria sociale, non certo dissimile da quella che avrebbe varato Berlusconi: l'importo dichiarato è di 40 milioni di euro, in realtà più di 60, cioè 120 000 miliardi delle vecchie lire di cui circa il 67% andrà direttamente a sostenere la crisi capitalistica ed il rimanente a pagare gli interessi sui debiti di Stato. Però...in cambio i cosiddetti “comunisti” hanno ottenuto un elegante campanellino di Presidente della Camera, con il quale possono accompagnare la messa funebre delle speranze dei proletari precari. E questa violenza, questa ignobile mutilazione di ogni diritto per i precari e per i proletari, poggia su una truffa da baraccone, su un volgare trucco. Le elezioni, in regime borghese possono essere solo questo, l'organizzazione cinica e depravata di inganni a cui concorrono tutti i partiti borghesi, ma principalmente quelli che dichiarano di stare dalla parte dei proletari. Fa più ribrezzo un Bertinotti o un Diliberto che non un Berlusconi, perché deve necessariamente essere maggiore il loro grado di cinismo. Alla storia occorrerà un secchio della spazzatura molto capiente per farceli entrare tutti. P., 23/11/06
La repressione che lo Stato ha scatenato contro la popolazione di Oaxaca mette a nudo la ferocia sanguinaria della democrazia. Oaxaca si è trasformato da cinque mesi in una vera polveriera, nel quale i corpi paramilitari e polizieschi sono stati il braccio armato del terrore statale. Le perquisizioni, i sequestri e la tortura sono utilizzati ogni giorno dallo Stato per ristabilire “l'ordine e la pace”. Il risultato dei soprusi polizieschi non è un “risultato nullo”, come pretende il governo. In effetti questo si conclude con decine di “dispersi”, di prigionieri e almeno tre morti (senza contare la ventina di persone uccise tra maggio e ottobre di quest'anno dalle guardie bianche). Sei anni fa la classe dominante proclamò che l'arrivo al potere di Fox augurava un “periodo di cambiamenti”, ma la realtà ha messo in evidenza che indipendentemente dalle parti o le persone che arrivano al governo, il capitalismo non può offrire alcun miglioramento... ed è più evidente che mai che il sistema attuale può offrire soltanto più sfruttamento, più miseria e più repressione. L’insieme della classe operaia deve trarre tutte le lezioni da ciò che avviene a Oaxaca, deve capire che la situazione di violenza e di repressione che si sviluppa qui non è dovuta ad un governo in particolare o ad un uomo politico particolare, ma deriva dalla natura del capitalismo stesso, e deve anche criticare le debolezze e difficoltà nelle quali i lavoratori si trovano intrappolati. È necessario fare un bilancio generale sul significato delle mobilitazioni attuali per trarne gli insegnamenti e permettere così che le prossime lotte siano preparate al meglio.
La borghesia utilizza il malcontento a proprio beneficio
Le manifestazioni attuali a Oaxaca sono senza alcun dubbio le espressioni del malcontento dei lavoratori contro lo sfruttamento e le ignominie del capitalismo. Le mobilitazioni in questa regione esprimono il malcontento di fronte al deterioramento persistente delle condizioni di vita, sono il frutto di una rabbia profonda e rivelano un vero coraggio e una reale determinazione alla lotta; tuttavia esse sono state manipolate dalla borghesia, che è riuscita a far si che gli obiettivi, i metodi e l'organizzazione delle azioni di protesta non fossero sotto il controllo dei lavoratori. I conflitti che si sviluppano nell'ambito della borghesia hanno potuto deviare il malcontento sociale ed utilizzarlo a proprio beneficio, trasformando una lotta per delle rivendicazioni salariali in un movimento senza prospettive, nella misura in cui questo è stato sviato da una delle frazioni della borghesia, quella “democratica”, contro un'altra composta dai vecchi “papaveri”. Esigere la destituzione di Ulises Ruiz (1) è soltanto un appoggio esplicito alla frazione che pretende di prendere il suo posto. In questa falsa alternativa, i lavoratori in ogni caso ci perdono e la loro potenza di classe si ritrova ridotta ad essere un sostegno ad una frazione della borghesia. Ben prima delle manifestazioni di maggio, una frazione della classe dominante ha tentato di utilizzare la massa degli sfruttati come “forza di pressione” per indebolire la frazione avversaria. L'intervento diretto di Esther Gordillo, di Murat, di Ulises Ruiz stesso e di altri, attraverso il sindacato degli insegnanti (SNTE-CNTE, compresi i settori “critici” come la CCL), mostra chiaramente che la borghesia, in particolare la frazione dei “papaveri” della regione meridionale, ha approfittato del malcontento per i propri interessi. Così una lotta che trovava le sue origini nella rivolta contro la miseria e che criticava lo sfruttamento capitalista è stato trasformato in una mobilitazione contro la “cattiva gestione” della canaglia di turno al governo, limitandone le aspirazioni originarie alla ricerca della democratizzazione del sistema. Di fronte a queste mobilitazioni, il sistema ha mostrato tutta la sua natura sanguinaria, ma l’uso da parte dello Stato del terrore va oltre la repressione contro i dimostranti di Oaxaca. L’obiettivo principale dell'incursione delle forze militari e poliziesche non è lo sterminio dell'Assemblea popolare del popolo di Oaxaca (APPO), ma quello di estendere il terrore in quanto arma di avvertimento e di minaccia all'insieme dei lavoratori. Il terrore statale è stato scatenato combinando le forze di repressione dello Stato e quelle del governo federale, mettendo in evidenza che anche quando ci sono lotte interne fra le varie bande della borghesia, queste riescono a ben intendersi quando si tratta di portare a buon fine il loro compito repressivo; supporre che è possibile “dialogare” con un settore del governo, significa alimentare la speranza illusoria che può esistere un settore della borghesia che sia “progressista” o “illuminato”. Dare come obiettivo principale al movimento di mobilitazioni il ritiro di Ulises Ruiz dal governo di Oaxaca, significa dare l'illusione che il sistema capitalista potrebbe migliorare diventando più democratico o cambiando gli uomini alla sua testa. Limitare la riflessione alla contestazione di Ulises Ruiz, sacrificare la mobilitazione verso quest'obiettivo, non partecipa affatto allo sviluppo della coscienza ma al contrario alimenta la confusione e dà la falsa speranza che gli sfruttati potrebbero avere un “governo migliore”. La parola d'ordine dell’APPO di unire le forze contro Ulises Ruiz non è affatto un rafforzamento della riflessione collettiva e dell'azione cosciente, è al contrario l'estensione della confusione e la sottomissione della forza sociale agli interessi di una delle frazioni della borghesia contro un'altra. La dimostrazione più evidente di ciò è il fatto che la questione salariale, che era alla base del movimento, viene messa in secondo piano per lasciare il posto alla rivendicazione della destituzione del governatore della regione. Questa manovra ha permesso al sindacato ed al governo federale di ridurre la questione salariale ad un semplice problema tecnico di apporto adeguato di risorse ad una regione sulla base di una pianificazione delle finanze pubbliche, permettendo così di isolare il problema e presentarlo come una questione “locale”, senza alcun legame con gli altri salariati del paese. Nello stesso senso, i metodi di lotta messi in atto, i picchetti, i blocchi, le marce estenuanti ed gli scontri disperati, non hanno affatto permesso di alimentare la solidarietà; al contrario, hanno isolato il movimento riducendolo pertanto ad un facile obiettivo per la repressione.
Nello stesso senso, le “bombe propagandistiche” della guerriglia non hanno affatto aiutato lo sviluppo della coscienza, così come non hanno affatto indebolito il sistema, al contrario: questi atti sono piuttosto l'espressione disperata di declassati, se non si tratta semplicemente di un ignobile simulacro dello Stato per avere un “pretesto” per scatenare la repressione.
APPO: un corpo estraneo al proletariato
La composizione sociale dell’APPO (costituita da organizzazioni “sociali” e sindacati) mostra che quest'organizzazione, e dunque le decisioni che prende, sfugge alle mani del proletariato. La sua natura non proletaria è dimostrata dal fatto che essa è fondamentalmente dominata da settori non salariati (e questo è già una manifestazione della sua debolezza) e soprattutto dal fatto che lascia la discussione e la riflessione ai sindacati ed ai gruppi dell'apparato di sinistra della borghesia (cioè legati direttamente o indirettamente agli interessi di alcune frazioni della classe dominante). È questo che permette che venga diluita la forza potenziale dei lavoratori nell'azione, questa forza che non può esprimersi in una struttura che, benché presentandosi sotto forma di cosiddette assemblee aperte, esprime nella pratica la sua vera essenza, quella di un fronte interclassista condotto dalla confusione e la disperazione degli strati medi. L'appello del 9 novembre 2006 per la trasformazione dell’APPO in struttura permanente (l'Assemblea statale dei popoli di Oaxaca) lo dimostra bene. Questo definisce la Costituzione del 1917 della borghesia messicana un “documento storico che ratifica la tradizione emancipatrice del nostro popolo...” e chiama a difenderlo, così come chiama a difendere “il territorio e le sue risorse naturali”. Il suo radicalismo si riduce alla difesa dell'ideologia nazionalistica, vero veleno per i lavoratori. L'appello contiene inoltre una vera e propria falsificazione dell’internazionalismo proletario, quando proclama la necessità “di stabilire legami di cooperazione, di solidarietà e di classe con tutti i popoli della terra per la costruzione di una società giusta, libera e democratica, una società veramente umana” attraverso la lotta per …”la democratizzazione dell'ONU”! La creazione dell’APPO non è stato un avanzamento per il movimento dei lavoratori. La sua formazione è al contrario legata allo schiacciamento del loro malcontento di classe. L’APPO è apparsa come una “camicia di forza” per contenere la combattività proletaria. I gruppi stalinisti, maoisti, trotskysti ed i sindacati che la compongono hanno saputo snaturare il coraggio e le espressioni di solidarietà della classe operaia imponendo un orientamento ed un'azione lontana mille miglia dai suoi interessi e da quelli del resto degli sfruttati. I raffronti che osa fare l’APPO tra la sua struttura e quella dei Soviet, la sua pretesa ad essere un “embrione del potere operaio”, sono i veri attacchi lanciati contro le autentiche tradizioni del movimento operaio. L'organizzazione autenticamente proletaria si distingue per il fatto che gli obiettivi che si dà sono direttamente legati ai suoi interessi di classe, cioè alla difesa delle sue condizioni di vita. Il suo fine non è la difesa “dell'economia nazionale”, dell'economia dello Stato ed ancora meno la democratizzazione del sistema che la sfrutta. Essa cerca soprattutto di difendere la sua indipendenza politica rispetto alla classe dominante, indipendenza che le permette di assumere la lotta contro il capitalismo. È in questo senso che le lotte rivendicative dei lavoratori contengono la preparazione alla critica radicale dello sfruttamento: esprimono la resistenza alle leggi economiche del capitalismo e la loro radicalizzazione apre la via alla rivoluzione. Queste lotte sono momenti che fanno parte della preparazione alle lotte rivoluzionarie che dovrà fare il proletariato, in questo senso sono il germe della lotta rivoluzionaria.
La coscienza e l'organizzazione sono le armi dei lavoratori per affrontare il capitalismo
In quanto classe internazionale ed internazionalista, il proletariato deve assimilare e far propria, in tutti i paesi, l’esperienze delle sue lotte passate. Gli è dunque indispensabile, per dar impulso allo sviluppo della sua coscienza, far riferimento ad esempio alle lezioni della mobilitazione sviluppata dagli studenti e dai lavoratori in Francia nella primavera del 2006 contro il contratto di primo impiego (CPE). La lezione essenziale di questo movimento è stata la sua capacità di organizzazione, che gli ha permesso di mantenere un tale controllo della lotta da impedire ai gauchistes ed ai sindacati di deviare il movimento dal suo obiettivo centrale, il ritiro del CPE. Le lotte dei lavoratori di Vigo in Spagna, nello stesso periodo, sono andate nello stesso senso, difendendo le proprie rivendicazioni salariali e l'estensione della lotta mediante il controllo delle assemblee contro il sabotaggio sindacale. La difesa delle condizioni di vita, l'autonomia organizzativa e la riflessione di massa raggiunte da questi movimenti sono lezioni per tutto il proletariato, lezioni che deve mettere davanti per sferrare le sue lotte.
18 novembre 2006.
1. Governatore dello Stato di Oaxaca, che appartiene al vecchio partito dirigente del Messico, il PRI, corrotto e clientelare.
(da Révolution Internationale n° 374, dicembre 2006).
Dovunque nel mondo, la classe operaia subisce pesanti colpi da parte dei suoi sfruttatori, sia da parte dei padroni privati che dello Stato, sia nei paesi evoluti che in quelli più poveri. Attacchi sui salari, aggravamento della disoccupazione, riduzione di sovvenzioni di qualsiasi natura, attacchi alle condizioni di lavoro, riduzione alla miseria di frazioni sempre più ampie della classe operaia a livello internazionale, questo è il compenso per un proletariato che paga ad un prezzo ogni giorno più caro la crisi del capitalismo. Ma questi attacchi non colpiscono un proletariato sconfitto, pronto ad accettare passivamente tutti i sacrifici che gli vengono chiesti. Al contrario, vediamo manifestarsi nell'insieme dei paesi del mondo reazioni operaie sempre più forti per resistere e rispondere a tali attacchi. Malgrado l'enorme blackout operato dai mezzi di comunicazione nei paesi evoluti, vediamo in particolare nel continente latino-americano le reazioni di una classe operaia che non è disposta ad accettare la miseria senza battersi. Queste non sono azioni isolate, ma un momento della combattività crescente che da tre anni sta sviluppandosi a livello internazionale.
Contro la violenza degli attacchi, si sviluppa la combattività operaia
In Honduras, in settembre, ci sono stati scioperi molto importanti del settore del trasporto urbano della capitale del paese, Tegucigalpa, che si è fermato completamente per due giorni dopo che i tassisti ed i conduttori di autobus si sono messo in sciopero per protestare contro l'imposizione da parte del governo di un aumento del prezzo dei carburanti del 19,7%.
Nel Nicaragua, dopo le violente proteste che hanno avuto luogo all'inizio dell'anno a Managua in seguito all'aumento delle tariffe dei trasporti, dopo gli scioperi massicci del personale della sanità in aprile, la capitale è stata bloccata dagli scioperanti del settore dei trasporti.
In Cile, in un contesto di perquisizioni, di arresti e di repressione brutale da parte del governo socialdemocratico di Michelle Bachelet, nel settore dell'educazione è scoppiato a fine settembre uno sciopero contro le penose condizioni d'insegnamento, sciopero che ha unito professori, studenti e liceali (quest’ultimi dal mese di agosto conducono una lotta molto radicale). Uno dei temi del movimento era il rifiuto degli scioperi parziali per una lotta della massima ampiezza. Quest’estate gli operai della miniera di rame di Escondida si sono messi in sciopero (per la prima volta dall'apertura della miniera nel 1991) per tre settimane per richiedere il 13% di aumento dei salari ed un’indennità di 30.000 euro. Alla fine hanno ottenuto un aumento del 5% ed un’indennità straordinaria di 13.000 euro. Inoltre il nuovo contratto avrà una durata di 40 mesi invece di due anni, il che è una truffa perché gli stipendi non saranno più rinegoziabili prima di questi 40 mesi.
In Bolivia, gli operai che lavorano nelle miniere di stagno sono entrati in lotta per parecchie settimane per rivendicazioni salariali e contro dei licenziamenti in corso, subendo la feroce repressione del governo di sinistra di Evo Morales, grande amico di Fidel Castro.
In Brasile, dopo gli scioperi del mese di maggio nelle fabbriche Volkswagen contro i 5000 licenziamenti previsti dal gruppo auto, gli impiegati di banca entrano in sciopero in settembre per adeguamenti salariali.
In Messico in primavera, parecchie migliaia di operai della siderurgia hanno fermato il lavoro per cinque mesi nelle fabbriche di Sicartsa ed Atenco, sulla costa Pacifica del paese, con scioperi colpiti da una violenta repressione poliziesca. Gli scioperi degli insegnanti della città di Oaxaca, uno dei tre Stati più poveri del Messico, scioperi che hanno dato nascita ad un movimento di occupazione della città da parte di tutta la popolazione, da metà giugno ad oggi, confermano quest’aumentata resistenza della classe operaia contro gli attacchi capitalisti.
Le trappole elettorali e populiste
Le espressioni di questa forte combattività nella classe operaia dell'America latina vengono ostacolate dalle numerose trappole che la borghesia sviluppa a livello ideologico. Queste lotte si svolgono in un clima generale di propaganda elettorale e populista di sinistra i cui sostenitori più conosciuti sono Lula e soprattutto Chavez. Le recenti elezioni di Morales in Bolivia e di Bachelet in Cile, sono state salutate da tutta la stampa, in particolare quella della sinistra borghese, come avanzamenti della democrazia e vengono al momento giusto per snaturare e deviare questo sviluppo della lotta della classe operaia. La stessa cosa si verifica con le elezioni presidenziali in Brasile e il battage sul mantenimento di Lula al potere. In Messico, lo sciopero dei 70.000 insegnanti di metà giugno ad Oaxaca, malgrado la forte volontà militante dei lavoratori ed il fatto che tutta la popolazione si sia riconosciuta in esso e l’abbia sostenuto, è stato sviato e imprigionato ponendo come rivendicazione principale la richiesta di dimissioni del governatore Ruiz, in un ambito interclassista dove tutte le frazioni di sinistra e di estrema sinistra, sindacali e politiche, hanno snaturato il sentimento di solidarietà reale presente tra la popolazione, portandolo sul terreno localista e nazionalista con il pretesto di volere dare il loro sostegno agli insegnanti. Migliaia di manifestanti hanno bloccato la città, occupando parecchie stazioni radio, difendendo con bastoni e machete le loro barricate contro gli attacchi armati dei “convogli della morte” (poliziotti in borghese con i passamontagna agli ordini del governatore). E’ stata anche creata un’Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca (APPO) nella quale l'ideologia “indianista indigena”, particolarmente forte, ha mirato ad annacquare ancora di più le rivendicazioni degli insegnanti in una vasta “rivendicazione popolare” informe. Dal mese di agosto l’SNTE (sindacato nazionale degli insegnanti) ed i partiti di sinistra si sono accaniti a focalizzare l’iniziale movimento di sciopero, sui salari e le condizioni della scuola, sulla persona di Ulises Ruiz. che aveva usato il denaro destinato alle scuole, in particolare quello destinato a pagare la merenda dei bambini, per la sua campagna elettorale e che aveva fatto sparare sugli insegnanti che occupavano il centro della città il 14 giugno, dando vita ad una radicalizzazione estrema del movimento. Da settembre questo movimento, grazie ai sindacati ed all’APPO, con la fine dello sciopero degli insegnanti è diventato una sinistra farsa con manifestazioni “di sostegno” al Messico, scioperi della fame, sostegno di Amnesty International, ecc., il tutto in un'atmosfera gauchiste pseudo-radicale destinata a frenare ogni presa di coscienza su quella che era stata la posta in gioco all'inizio dello sciopero e delle possibilità di estensione reale che essa offriva. Così, un milione di persone hanno bloccato il centro di Messico per due mesi per denunciare la falsificazione delle elezioni da cui era uscito sconfitto il candidato “dei poveri”, Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO) e per esigere una riconta dei voti. Quest’ultimo si è fatto anche eleggere “per acclamazione” capo del governo, proclamando che “è la strada che governa”. In Bolivia, i minatori si sono fatti intrappolare dai sindacati (sostenitori del governo “indianista” di sinistra di Morales la cui elezione era stata salutata come “una speranza per il popolo”, nella difesa della “loro” miniera per finire poi in un bagno di sangue. Oggi si può constatare, in particolare a partire dal 2003, una tendenza alla ripresa delle lotte del proletariato veramente a livello internazionale. Sia nei paesi centrali e più sviluppati del pianeta che nei paesi della periferia e più poveri, la classe operaia prova ad opporre la lotta e la solidarietà di classe agli attacchi incessanti e sempre più brutali di un sistema capitalista in crisi. E le armi utilizzate dalla borghesia per fare passare questi attacchi sono sempre dello stesso tipo: la violenza e la mistificazione.
La violenza e la repressione sono evidentemente più spettacolari nei paesi della periferia, particolarmente in America latina. Ma è anche presente in quelli più evoluti dove, quando non si esercita a forza di manganello ed attraverso i gas lacrimogeni, continua a pesare quotidianamente sotto forma di ricatto alla disoccupazione ed ai licenziamenti. Quanto alle mistificazioni che mirano a sabotare le lotte, a distruggere la solidarietà e la coscienza di classe, a disperdere e deviare la combattività, esse non conoscono frontiere. Ovunque, i sindacati, i partiti di sinistra e le organizzazioni gauchiste ne sono i principali artefici. Le tematiche sono sempre le stesse e si possono riassumere nella difesa della democrazia borghese e nella difesa del capitale nazionale. Dovunque, la mistificazione elettorale è usata a iosa: bisogna “ben votare”, e se non si possono eleggere i “migliori per i lavoratori” (è così che si presentano i partiti di estrema sinistra) allora bisogna impedire che i “peggiori” (i partiti della destra tradizionale) avanzino votando per i “meno peggio” (la sinistra classica). Secondo questi signori gli operai si dovrebbero mobilitare, non contro il capitalismo come un tutto, quali che siano le sue forme, ma contro il “capitalismo liberale e mondializzato”. In questo senso, le menzogne usate contro le lotte operaie in America latina non sono molto diverse da quelle che vengono servite qui da noi dai partiti della “sinistra anti-liberale”. Vi si aggiungono solo alcuni ingredienti locali, come l'indigenismo (la difesa dei diritti degli indi), o il populismo alla Chavez o alla Morales. I discorsi “anti-imperialisti” radicali di questi due personaggi, che sono i nuovi eroi per una buona parte dell'estrema sinistra dei paesi sviluppati, non ne fanno i difensori degli operai il cui sfruttamento è lo stesso, che sia organizzato da “stranieri”, da “compatrioti” o dallo Stato nazionale stesso. Proprio al contrario, lo sciovinismo che queste persone provano ad incrostare nelle coscienze operaie è sempre stato il peggior nemico del proletariato. Perché le lotte operaie che attualmente si sviluppano su scala internazionale non siano soffocate dalla classe dominante, perché possano costituire una nuova tappa del proletariato verso la sua emancipazione, è necessario che si sviluppi in seno a quest’ultimo una coscienza crescente tanto sulla posta in gioco che sulle trappole tese dai difensori dell'ordine borghese. per sconfiggerli: la coscienza che non c'è alcuna salvezza per gli operai se loro stessi non prendono in mano le proprie lotte e le estendono il più possibile in modo solidale; la coscienza che queste lotte fanno parte di una lotta internazionale degli sfruttati contro tutti i settori della borghesia.
Mulan, 25 ottobre 2006
(da Révolution Internazionale n. 373)
Cinquant’anni dopo la rivolta operaia che scosse l’Ungheria nel 1956, gli avvoltoi della borghesia ne “celebrano” l’anniversario nel loro stile abituale. La stampa borghese tradizionale versa una lacrima sulla resistenza eroica del “popolo ungherese” “per l'indipendenza nazionale” e contro gli “orrori del comunismo”. Tutte queste celebrazioni non descrivono che l'apparenza della rivolta, e dunque mascherano e distorcono il suo significato reale. La rivolta operaia del 1956 in Ungheria non è l’espressione della volontà del “popolo” di riformare il “comunismo” alla stalinista o conquistare “l’indipendenza della nazione”. È il risultato diretto delle contraddizioni insolubili del capitalismo in Europa dell’Est e nel mondo intero.
Lo sfruttamento stalinista della forza lavoro nei paesi dell’est
Appena finita la seconda Guerra mondiale, la pressione delle rivalità imperialiste tra Mosca e Washington spinge il Cremlino ad intraprendere una fase di produzione frenetica d’armamenti. Industria pesante e produzione militare saranno allora sviluppate a detrimento dei beni di consumo e delle condizioni di vita della classe operaia. L’Unione sovietica, che in seguito alla vittoria occupa Europa orientale, esige dai nuovi paesi satelliti la completa sottomissione dei loro apparati produttivi agli interessi economici e militari dell’URSS.
Un vero sistema da vampiri si mette in moto fin dal 1945-1946 con, per esempio, lo smantellamento di certe fabbriche ed il loro trasferimento, operai compresi, sul suolo russo. In Russia e nei suoi paesi satelliti gli operai subiscono un regime di super sfruttamento della loro forza lavoro simile all’inferno descritto da Dante. Così, in Ungheria, grazie alla ricetta stalinista dello stakanovismo, il piano del 1950 farà quintuplicare la produzione di armamenti. La borghesia sovietica doveva mantenere gli stipendi bassi e sviluppare l’industria pesante nel più breve tempo possibile. Nel periodo 1948-53, le condizioni di vita degli operai in tutto il blocco dell’Est cadono al di sotto del livello d’anteguerra, ma la Russia uscirà da questo periodo con la sua bomba H ed i suoi Sputnik.
In queste condizioni, la collera in seno al proletariato non tardò a farsi sentire. Lo sfruttamento furibondo era sempre meno sopportabile; l’insurrezione covava. Gli operai cecoslovacchi come quelli di Berlino-Est nel 1953 si erano già rivoltati rendendo necessario l’intervento dei carri armati russi per ristabilire l’ordine. Il vento di rivolta contro lo stalinismo che soffiava all’est doveva trovare il suo coronamento nell’insurrezione ungherese d’ottobre 1956. L’insurrezione di Budapest del 23 ottobre approfitta, in un primo tempo, di una manifestazione organizzata all’origine dagli studenti “in solidarietà con il popolo della Polonia” che intanto aveva tentato di sollevarsi poco prima contro la cappa di piombo dei regimi stalinisti.
La risposta intransigente delle autorità che trattarono i manifestanti come “fascisti” e “controrivoluzionari”, la repressione sanguinosa condotta dall’AVO (la polizia segreta) e soprattutto, il fatto che la manifestazione “studentesca” fosse stata rafforzata da migliaia di operai, trasformarono in insurrezione armata la protesta pacifica che esigeva riforme democratiche ed il ritorno al potere del leader “riformista” Imre Nagy.
Non è qui che possiamo esaminare in tutti i dettagli gli avvenimenti che vanno dall’insurrezione del 23 ottobre fino all’intervento della Russia che è costato la vita a migliaia di persone, in maggioranza giovani operai. Vorremmo ritornare solamente sul carattere generale della rivolta con lo scopo di portarla fuori dalle terribili confusioni che la circondano. L'opposizione alla “vecchia guardia” stalinista si esprimeva in due modi. La prima proveniva dalla stessa borghesia, condotta dai burocrati liberali e sostenuta dagli studenti, dagli intellettuali e da artisti un poco più radicali. Essi difendevano una forma più democratica e più proficua del capitalismo di Stato in Ungheria. Ma “l’altra opposizione” era la resistenza spontanea della classe operaia allo sfruttamento mostruoso che le era imposto. In Ungheria, questi due movimenti sono coesistiti nell’insurrezione. Ma è l’intervento determinante della classe operaia che ha fatto trascendere questo movimento di protesta in insurrezione, ed è poi la contaminazione dell’insurrezione operaia con tutta l’ideologia nazionalista e democratica degli intellettuali che ha ostacolato il movimento proletario. Questa permeabilità della classe operaia al veleno nazionalista non è altro che il prodotto del corso storico di allora, quello della controrivoluzione iniziata negli anni 1920. Il proletariato si ritrova, su scala mondiale, al minimo delle forze, annientato ideologicamente dalla sconfitta della sua prima ondata rivoluzionaria del 1917-1923, schiacciato fisicamente dalla guerra mondiale ed inquadrato dai sindacati da una parte e dalle forze dell’ordine dall’altra. Gli era di conseguenza impossibile, senza una prospettiva chiara, superare lo stadio della rivolta per andare verso quello della rivoluzione, come gli era difficile in Ungheria premunirsi contro la propaganda nazionalista di una frazione della borghesia e del suo esercito.
Gli operai hanno scatenato il movimento di protesta a causa delle condizioni intollerabili in cui erano costretti a vivere e a lavorare. Una volta gettato il loro peso nel movimento, questo prese un carattere violento ed intransigente che nessuno aveva predetto. Sebbene differenti elementi abbiano preso parte alla lotta (studenti, soldati, contadini, ecc.), sono essenzialmente giovani lavoratori che, nei primi giorni dell’insurrezione, distrussero il primo contingente di carri armati russi mandati a Budapest per restaurare l’ordine. Fu principalmente la classe operaia a prendere le armi per combattere contro la polizia segreta e l’esercito russo. Quando la seconda ondata di carri russi arrivò per schiacciare l’insurrezione, furono i quartieri operai ad essere attaccati e mandati in rovina perché erano questi i principali centri di resistenza. Ed anche dopo la restaurazione de “l’ordine”, l’instaurazione del governo Kadar e il massacro di migliaia di operai, il proletariato ha continuato a resistere conducendo lotte aspre e numerose. La più chiara espressione del carattere proletario della rivolta è stata l’apparizione di consigli operai in tutto il paese. Sorti a livello di fabbrica, questi consigli determinarono contatti tra intere regioni industriali, tra le varie città, e rappresentarono senza alcun dubbio il centro organizzativo di tutta l’insurrezione. Questi presero in carica l’organizzazione della distribuzione di armi e cibo, la direzione dello sciopero generale e diressero la lotta armata. In certe città detenevano il comando totale ed incontestato. L’apparizione di questi soviet seminò inquietudine e spavento in seno alla classe capitalista sia all’Est che all’Ovest.
Ma cantare le lodi delle lotte degli operai ungheresi senza analizzare le loro debolezze estreme e le loro confusioni sarebbe un tradimento dei nostri compiti come rivoluzionari, che non si riducono ad applaudire passivamente alla lotta del proletariato, ma criticare i suoi limiti e sottolineare gli scopi generali del movimento della classe. Nonostante che gli operai avessero di fatto il potere in grandi zone dell’Ungheria durante il periodo insurrezionale, la ribellione del 1956 non era un tentativo cosciente da parte del proletariato di prendere il potere politico né di costruire una nuova società. Era una rivolta spontanea che è fallita nel divenire una rivoluzione perché mancava alla classe operaia una comprensione politica chiara degli scopi storici della sua lotta, anche perché subiva ancora tutto il peso ideologico legato alla controrivoluzione. La prima difficoltà degli operai ungheresi era resistere all’enorme peso dell’ideologia nazionalista e democratica. Gli studenti e gli intellettuali erano i propagatori più attivi di quest’ideologia, ma gli stessi operai soffrivano inevitabilmente di tutte queste illusioni. E dunque, piuttosto che affermare gli interessi autonomi del proletariato contro lo Stato capitalista e tutte le altre classi, i consigli tendevano ad identificare la lotta degli operai con la lotta “popolare” per riformare la macchina statale in vista de “l’indipendenza nazionale”, pura utopia reazionaria nell’epoca della decadenza capitalista e dell’imperialismo. Al posto di chiamare, come avevano fatto i Soviet della Russia nel 1917, alla distruzione dello Stato borghese ed all’estensione internazionale della rivoluzione, i consigli si limitarono ad esigere il ritiro delle truppe russe, una “Ungheria socialista indipendente” sotto la direzione di Imre Nagy, la libertà d’espressione, l’autogestione delle fabbriche, ecc. I metodi di lotta utilizzati dai consigli erano implicitamente rivoluzionari, esprimendo la natura intrinsecamente rivoluzionaria del proletariato. Ma gli scopi che hanno adottato restavano tutti nel quadro politico ed economico del capitalismo. La contraddizione nella quale i consigli si ritrovarono può essere riassunta nella seguente rivendicazione, avanzata dal consiglio operaio di Miskolc: “Il governo deve proporre la formazione di un Consiglio Nazionale Rivoluzionario, basato sui consigli operai dei differenti dipartimenti e di Budapest, e composto da delegati eletti democraticamente da questi. Nello stesso tempo, il vecchio Parlamento deve essere sciolto” (Citato in Burocrazia e Rivoluzione in Europa dell’Est di Chris Hermann, p.161). Piuttosto che spingere avanti la dinamica della loro lotta, i consigli hanno indirizzato le loro rivendicazioni di scioglimento del parlamento e la realizzazione di un consiglio centrale degli operai al governo provvisorio di Imre Nagy, cioè alla stessa forza che avrebbero dovuto sopprimere! Tali illusioni non potevano che condurre allo schiacciamento dei consigli o alla loro integrazione nello loro Stato borghese.
Bisogna comunque riconoscere alla maggioranza dei consigli operai che essi o sono stati distrutti nella lotta o si sono sciolti quando hanno visto che non vi erano più speranze nella lotta e che erano condannati a diventare degli organi strumentalizzati del governo Kadar. L’incapacità degli operai ungheresi a sviluppare una comprensione rivoluzionaria della loro situazione è apparsa anche nel fatto che, a nostra conoscenza, nessun raggruppamento politico rivoluzionario è stato generato in Ungheria da questa enorme convulsione. Come scriveva Bilan, (la pubblicazione della Sinistra italiana), a proposito della Spagna degli anni 1930, l’insuccesso del proletariato spagnolo a creare un partito di classe malgrado la natura radicale della sua lotta era fondamentalmente l’espressione del profondo vuoto in cui il movimento proletario internazionale si trovava in quel momento. Da un certo punto di vista, la situazione del 1956 era anche peggiore: l’ultima delle frazioni comuniste di sinistra era sparita, e non solamente in Ungheria, ma ovunque nel mondo; il proletariato si ritrovava quasi senza nessuna propria espressione politica. Le deboli voci rivoluzionarie che potevano esistere erano sommerse facilmente dal clamore di queste forze della controrivoluzione il cui ruolo è di parlare “a nome” della classe operaia. Gli stalinisti di tutti i paesi mostravano la loro natura brutalmente reazionaria calunniando il sollevamento operaio di “cospirazione” al servizio del clan del vecchio dittatore Horthy o della CIA. In quest’epoca molti individui hanno lasciato i “Partiti Comunisti” per disgusto, ma tutti i PC senza eccezione hanno sostenuto la repressione selvaggia degli operai ungheresi. Inoltre alcuni di loro, guidati dal “grande timoniere”, il Presidente Mao a Pechino, criticarono Krusciov per non avere represso gli operai ungheresi abbastanza severamente! I trotskisti potevano apparire a fianco degli operai per aver espresso il loro “sostegno” al sollevamento. Ma caratterizzando la rivolta come una “rivoluzione politica” per la “democrazia operaia” e “l’indipendenza nazionale”, hanno contribuito a rafforzare la mistificazione insidiosa secondo la quale lo Stato in Ungheria aveva già un carattere operaio e doveva essere epurato solamente dalle sue deformazioni burocratiche per ritrovarsi interamente nelle mani degli operai. Non solo le organizzazioni trotskiste hanno diffuso un peso ideologico che serviva a mantenere la lotta degli operai dentro il quadro dello Stato borghese, ma hanno sostenuto apertamente l’ala burocratica più “liberale” dei regimi stalinisti. La presa di posizione di Ernest Mandel, grande prete della IV Internazionale nel 1956, a proposito della vittoria della cricca Gomulka in Polonia è priva di ogni ambiguità: “La democrazia socialista avrà ancora molte battaglie da portare avanti in Polonia, (ma) la battaglia principale, quella che ha permesso a milioni di operai di identificarsi di nuovo con lo Stato operaio, è già vinta" (citata da Harman, p. 108). Dal 1956, sono state pubblicate alcune analisi anche più “radicali” sugli avvenimenti in Ungheria, ma che rompono veramente poco con il quadro del trotskismo. Per esempio, i libertari di Solidarity, nel loro opuscolo Ungheria 56, vedono la rivendicazione dell’autogestione operaia (elaborata dai sindacati ungheresi!) come il vero fattore rivoluzionario del sollevamento. Ma questa rivendicazione, come l’appello all’indipendenza nazionale ed alla democrazia, era solamente un ulteriore diversivo al compito centrale degli operai: la distruzione dello Stato capitalista, l’impadronirsi da parte dei consigli non semplicemente della produzione, ma del potere politico. Molte frazioni della borghesia ricordano oggi con nostalgia gli anni 1950 perché questo era un periodo dove l’ideologia borghese sembrava avere conquistato il controllo assoluto della classe operaia. Gli operai dell’Europa dell’est si sono dunque ritrovati isolati e sottomessi a tutte le illusioni generate da una situazione in apparenza “particolare”. Con un capitalismo occidentale che sembrava tanto prospero e libero, non era difficile per gli operai del blocco dell’est vedere il loro nemico nella Russia o nello stalinismo, e non nel capitalismo mondiale. Ciò spiega le terribili illusioni che avevano spesso gli insorti sui regimi “democratici” dei paesi occidentali. Molti speravano che l’occidente “venisse in loro aiuto” contro i Russi. Ma l’occidente aveva già riconosciuto a Yalta il “diritto” della Russia di sfruttare e di opprimere i lavoratori dei paesi dell’est, e non aveva nessuno interesse a venire in aiuto di qualcosa del tutto incontrollabile come era il sollevamento di massa degli operai.
Il mondo capitalista non è più quello degli anni ‘50. Dalla fine degli anni ‘60 l’insieme del sistema è caduto ancora più profondamente in una crisi economica insolubile, espressione della decadenza storica del capitalismo da circa un secolo. In risposta a questa crisi, una nuova generazione di lavoratori ha aperto un nuovo periodo di lotta di classe a scala internazionale. Se si paragonano gli scioperi della Polonia negli anni 1970 al sollevamento in Ungheria, si può vedere che molte illusioni degli anni ‘50 hanno cominciato a perdere la loro presa. Gli operai della Polonia non si sono battuti come “polacchi” ma come operai; il loro nemico immediato non erano “i Russi” ma la propria borghesia; il loro obiettivo immediato non era la difesa del “proprio” paese ma la difesa del livello di vita. È questa riapparizione del proletariato internazionale sul suo terreno di classe che ha rimesso la rivoluzione comunista mondiale all’ordine del giorno della storia. Ma, sebbene il sollevamento ungherese appartenga ad un periodo superato della classe operaia, esso contiene molti insegnamenti per la lotta del proletariato di oggi sul piano della presa di coscienza del suo ruolo rivoluzionario. Attraverso gli errori e le confusioni, il sollevamento sottolineava numerose lezioni cruciali a proposito dei nemici della classe operaia: il nazionalismo, l’autogestione, lo stalinismo sotto tutte le sue forme, la “democrazia” occidentale, ecc. Ma allo stesso tempo, nella misura in cui essa ha ossessionato la borghesia dell’est e dell’ovest con lo spettro dei consigli operai armati, l’insurrezione è stata un eroico segnale premonitore del futuro che attende il proletariato in tutto il mondo.
Da World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna
Nello scorso numero di questo giornale abbiamo visto come, di fronte al crescere delle tensioni guerriere, il cosiddetto pacifismo si dimostri complice dei guerrafondai e abbiamo ricordato che di fronte a questa tendenza ineluttabile del capitalismo solo la lotta contro questo sistema può costituire un vero freno alla guerra, come dimostrato dalla rivoluzione russa del 1917, che spinse la borghesia mondiale a mettere fine alla prima guerra mondiale prima che questa arrivasse agli estremi della sua furia distruttiva. Questa posizione, che viene definita dell’internazionalismo proletario perché basata sul fatto che i proletari non hanno un fronte da scegliere, ma un capitale internazionale da combattere, si sta diffondendo a livello internazionale e costituisce, oggi come oggi, assieme ad una rinata tendenza alla solidarietà all’interno delle lotte che si sviluppano nei vari paesi, un elemento caratterizzante e qualificante delle nuove leve di rivoluzionari che emergono ai quattro lati del pianeta.
Per dare una testimonianza dell’emergere di queste nuove leve di rivoluzionari abbiamo già pubblicato sul nostro sito web, nella rubrica ICC on line, la Dichiarazione Internazionalista fatta da una conferenza di gruppi riuniti nella Corea del sud. (1) Qui di seguito riportiamo invece, preceduto da una introduzione, un volantino contro la recente guerra in Libano prodotto da una formazione politica di compagni turchi.
Mentre l'orizzonte politico sembra oscurato dalla guerra e la barbarie, la prospettiva proletaria vive e si sviluppa. Lo dimostrano non soltanto lo sviluppo delle lotte della classe operaia in varie parti del mondo, ma anche la comparsa in vari paesi di piccoli gruppi ed elementi politicizzati che cercano di difendere le posizioni internazionaliste che sono il segno distintivo della politica proletaria. Il gruppo “Enternasyonalist Komunist Sol” (“Sinistra comunista internazionale”) in Turchia è un'espressione di questa tendenza. Riproduciamo qui un volantino che questo gruppo ha prodotto in risposta alla guerra in Libano. L'emergere di questa voce internazionalista in Turchia è tanto più significativa in quanto il nazionalismo (diffuso in particolare dalla sinistra del capitale) è particolarmente forte in questo paese. Inoltre la Turchia è profondamente implicata nelle rivalità interimperialiste che devastano questa regione. Lo Stato turco è sul punto di lanciare una nuova offensiva contro i nazionalisti kurdi del PKK - campagna militare che sarà certamente giustificata ideologicamente dalla recente ondata di attacchi terroristici in molte città turche, attribuite alle fazioni nazionalistiche kurde. La questione kurda è direttamente legata alla situazione in Iraq ed in Siria, e la Turchia è uno di quegli Stati ad avere stretti legami con Israele. La guerra in Libano ha un forte peso sugli operai in Turchia; allo stesso tempo, la classe operaia turca, che ha una lunga tradizione di lotte combattive, potrebbe svolgere un ruolo importante nello sviluppo di un'alternativa proletaria alla guerra imperialista in questa regione.
Il volantino di EKS sulla situazione in Libano ed in Palestina
Il 12 luglio, subito dopo il rapimento dei soldati israeliani da parte di Hezbollah, il presidente israeliano Ehoud Olmert ha promesso ai libanesi una “risposta molto dolorosa e di grande ampiezza”. Il 3 luglio all'alba, lo Stato di Israele cominciava un'invasione e spingeva la sua classe operaia in una nuova guerra nazionalista ed imperialista. Lo Stato di Israele ha lanciato quest'invasione per i suoi propri interessi e senza preoccuparsi del sangue che poteva essere versato. In 15 giorni circa 400 civili libanesi hanno perso la vita. La recente tregua non garantisce che i massacri non ricominceranno poiché lo Stato di Israele ha mostrato che è pronto a distruggere tutto quello che minaccia i suoi interessi, non soltanto nell'ultimo conflitto ma anche attraverso la continua tortura dei palestinesi.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Israele non è il solo responsabile di questo conflitto. Né Hezbollah, che attualmente attira l'attenzione del mondo per gli attacchi che sferra contro gli Israeliani con una violenza che eguaglia la loro, né l’OLP ed Hamas, che da anni conducono una guerra nazionalista in Palestina, possono essere considerati dei “puri”. Hezbollah, che Israele ha messo all’indice davanti al mondo prima dell'inizio del conflitto, ha ucciso civili israeliani con razzi che provengono dalla Siria e dall’Iran, durante tutta la guerra. Hezbollah è un'organizzazione antisemita e fondamentalista. Più importante ancora, contrariamente a ciò che pensano alcuni, Hezbollah non si è battuto per proteggere il Libano. Al contrario, è per i propri interessi che ha forzato la classe operaia libanese a raggiungere il fronte nazionalista e si è battuto soltanto per difendere i territori che controlla e l'autorità che detiene. L’OLP, che ha spinto gli operai palestinesi dal terreno della lotta di classe alle grinfie della loro borghesia nazionale, ed Hamas che è altrettanto reazionario, violento, antisemita e fondamentalista quanto Hezbollah, anche loro non fanno che difendere i loro interessi. Qui è necessario descrivere brevemente cosa è l’imperialismo. Contrariamente a ciò che molta gente pensa, l’imperialismo non è una politica che esercitano i potenti Stati nazionali allo scopo di prendere il controllo delle risorse degli Stati nazionali più deboli. Al contrario, si tratta della politica di ogni Stato nazionale, o di organizzazioni che funzionano come uno Stato nazionale, che controllano una certa zona, le risorse di questa e che esercitano la loro autorità sulla popolazione di questo territorio. Più semplicemente, l’imperialismo è la politica naturale che pratica qualsiasi Stato nazionale o qualsiasi organizzazione che funziona come uno Stato nazionale. Come abbiamo visto nell'ultimo conflitto tra Israele ed Hezbollah, in alcune situazioni, gli Stati nazionali o le organizzazioni che funzionano come uno Stato nazionale, hanno conflitti d'interesse e questi conflitti sfociano in una guerra interimperialista.
In una tale situazione, ciò che dicono i gauchistes in Turchia e nel mondo, risulta ancora più ridicolo ed incoerente. In Turchia come nel mondo, la maggior parte dei gauchistes hanno dato il loro sostegno totale all’OLP e ad Hamas. Rispetto all'ultimo conflitto, si sono espressi unanimemente per dire “siamo tutti Hezbollah”. Seguendo questa logica, secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”, hanno interamente sostenuto questa violenta organizzazione che ha spinto la classe operaia in una disastrosa guerra nazionalista.
Il sostegno dei gauchistes al nazionalismo ci mostra perché questi non hanno molto di diverso da dire rispetto a quello che dice l’MPH (partito del movimento nazionale - i Lupi grigi fascisti) non solo su Hezbollah, OLP ed Hamas ma anche su altri argomenti. In Turchia, in particolare, i gauchistes non hanno alcuna idea di ciò di cui parlano.
La guerra tra Hezbollah ed Israele e la guerra in Palestina sono entrambe guerre interimperialiste, ed i diversi campi in gioco utilizzano, tutti, il nazionalismo per trascinare la classe operaia della loro regione nel proprio campo. Più gli operai sono risucchiati nel nazionalismo, più perderanno la loro capacità ad agire come classe. È per questo che né Israele, né Hezbollah, né OLP, né Hamas devono essere sostenuti, in nessun caso. Ciò che deve ricevere un sostegno in questo conflitto, è la lotta dei lavoratori per sopravvivere, non le organizzazioni nazionaliste o gli Stati che li fanno uccidere. E ancora più importante, ciò che si deve fare in Turchia è operare per la coscienza di classe e la lotta di classe che si svilupperanno qui. L’imperialismo ed il capitalismo incatenano i paesi gli uni agli altri; per questo l'indipendenza nazionale è impossibile. Solo la lotta della classe operaia per i propri bisogni può offrire una risposta.
Per l’internazionalismo e la lotta di classe!
Enternasyonalist Komunist Sol
1. Dalla nostra introduzione alla dichiarazione internazionalista dalla Corea: “Alla fine di ottobre 2006, l’Alleanza Politica Socialista (SPA) ha convocato una conferenza di organizzazioni, gruppi e militanti internazionalisti nelle città coreane del sud di Seul e di Ulsan. Per quanto modesti fossero i numeri delle persone presenti, l’SPA, per quanto ne sappiamo, è la prima espressione organizzata nell’Estremo-Oriente dei principi della Sinistra Comunista e questa conferenza era certamente la prima del genere. Come tale, essa ha un’importanza storica e la CCI le ha dato il suo pieno e convinto sostegno inviando una delegazione per parteciparvi.”
Il recente conflitto tra Israele e Hezbollah in Libano ha costituito ancora una volta l’occasione, in un gran numero di paesi, per sentire elevarsi voci contro "l'imperialismo americano" come il principale, addirittura unico, seminatore di guerra e destabilizzazione. I gauchistes sono spesso i primi in questo elenco. In Francia, in particolare, i trotskisti di LO (Lotta Operaia) e della LCR (Lega dei comunisti rivoluzionari) non perdono mai l'occasione per stigmatizzare l'imperialismo americano, e quello del suo alleato israeliano, qualificato come "espansionismo sionistico", che massacrano, saccheggiano, occupano e sfruttano i "popoli" e le "nazioni" oppresse. Ma la prima potenza mondiale non ha il monopolio dell'imperialismo. Anzi, quest'ultimo è una condizione sine qua non alla sopravvivenza di ciascuna nazione. Il periodo di decadenza del capitalismo, cominciato circa un secolo fa, segna l'entrata del sistema nell'era dell'imperialismo generalizzato al quale nessuna nazione può sottrarsi. Questa tensione permanente contiene la guerra come prospettiva ed il militarismo come stile di vita per tutti gli Stati, siano essi grandi, piccoli, forti, deboli, aggressori o aggrediti.
Per dare una definizione molto generale, l'imperialismo è la politica di un paese che cerca di conservare o estendere il suo dominio politico, economico e militare su altri paesi o territori; questa definizione ci riconduce a numerosi momenti della storia umana, dai vecchi imperi assiri, romani, ottomani o alle conquiste di Alessandro il Grande fino ai nostri giorni. Però, nel capitalismo, questo termine acquista un significato molto particolare. Come scriveva Rosa Luxemburg "la tendenza del capitalismo all'espansione costituisce l'elemento più importante, il tratto notevole dell'evoluzione moderna; in effetti l'espansione accompagna tutta la carriera storica del capitale, essa ha preso nella sua attuale fase finale, l'imperialismo, un'energia così impetuosa che mette in discussione tutta l'esistenza civilizzata dell'umanità" (1). È dunque vitale comprendere ciò che è l'imperialismo in un sistema capitalista diventato decadente, ciò che genera oggi quei conflitti che mettono a ferro e fuoco il pianeta tutto, ciò che nella "fase finale attuale […] mette in discussione tutta l'esistenza civilizzata dell'umanità". Dal momento che il mercato mondiale è stato costituito all'inizio del ventesimo secolo ed è stato diviso in zone commerciali e di influenza tra Stati capitalisti avanzati, l'intensificazione e gli scatenamenti della concorrenza che risultavano tra queste nazioni hanno condotto all'aggravamento delle tensioni militari, allo sviluppo senza precedente di armamenti ed alla sottomissione crescente dell'insieme della vita economica e sociale agli imperativi militari per la preparazione permanente alla guerra. Rosa Luxemburg ha distrutto le basi della mistificazione secondo cui solo uno Stato, o un gruppo particolare di Stati, che dispongono di una certa potenza militare, sarebbero i soli responsabili della barbarie guerriera. Se tutti gli Stati non dispongono degli stessi mezzi, tutti hanno la stessa politica. Se, infatti, le ambizioni di dominio mondiale possono manifestarsi solamente tra gli Stati più potenti, non significa che i più piccoli non condividono gli stessi appetiti imperialistici. Accade come nel campo della mafia, in cui solo il grande padrino può dominare la città intera, mentre il magnaccia di quartiere regna su una sola strada. Tuttavia, niente li distingue sul piano delle aspirazioni o dei metodi di gangster. E' così che tutti i piccoli Stati sviluppano con altrettanta energia degli altri la loro ambizione a diventare una nazione più grande a spese dei loro vicini. E' per tale motivo che è impossibile fare una distinzione tra Stati oppressori e Stati oppressi. In effetti nei rapporti di forza che si impongono tra loro gli squali imperialisti, tutti sono ugualmente concorrenti nell'arena mondiale. Il mito borghese dello Stato o del blocco aggressore a causa del militarismo viscerale serve a giustificare la guerra "difensiva". La stigmatizzazione dell'imperialismo più aggressivo costituisce solo la propaganda di ogni avversario per reclutare le popolazioni nella guerra. Il militarismo e l'imperialismo costituiscono manifestazioni sempre più aperte dell'entrata del sistema capitalista nella sua decadenza, a tal punto che fin dall'inizio del ventesimo secolo hanno provocato un dibattito tra i rivoluzionari.
La spiegazione materialista dell'imperialismo
Di fronte al fenomeno dell'imperialismo, differenti teorie sono state sviluppate dal movimento operaio per spiegarlo, particolarmente da Lenin e Rosa Luxemburg. Le loro analisi sono comparse alla vigilia e durante la Prima Guerra mondiale contro la visione di Kautsky che faceva dell'imperialismo un'opzione tra altre politiche possibili per gli Stati capitalisti e che poteva sfociare su una "fase di super imperialismo, di unione e non di lotta degli imperialismi del mondo intero, una fase della cessazione delle guerre in regime capitalista, una fase di sfruttamento in comune dell'universo da parte del capitale finanziario unito a scala internazionale”. (2) Al contrario, gli approcci marxisti hanno in comune il considerare non solo l'imperialismo come un prodotto delle leggi del capitalismo, ma sempre più come una necessità legata al suo declino. La teoria di Lenin riveste un'importanza particolare perché gli ha permesso nel primo conflitto mondiale di difendere un rigoroso internazionalismo che è diventato poi la posizione ufficiale dell'Internazionale Comunista. Tuttavia, Lenin affronta soprattutto la questione dell'imperialismo in un modo descrittivo senza riuscire a spiegare chiaramente l'origine dell'espansione imperialista. Per lui, è essenzialmente un movimento dei paesi evoluti che ha per caratteristica principale l’utilizzazione nelle colonie del capitale delle metropoli "in sovrabbondanza", allo scopo di ottenere dei "superprofitti" approfittando di una mano d'opera meno cara e di materie prime abbondanti. In questa concezione, i paesi capitalisti avanzati diventano i parassiti delle colonie; l'ottenimento dei "superprofitti", indispensabili alla loro sopravvivenza, spiega lo scontro mondiale per conservare o conquistare delle colonie. La conseguenza di ciò è la divisione del mondo in paesi oppressori da una parte e in paesi oppressi nelle colonie dall'altra. "L'insistenza di Lenin sul fatto che i possedimenti coloniali erano un tratto distintivo ed anche indispensabile dell'imperialismo non ha retto alla prova del tempo. Malgrado la previsione che la perdita delle colonie, precipitosa per le rivolte nazionali in queste regioni, avrebbe scosso il sistema imperialista fino ai suoi fondamenti, l'imperialismo si è adattato facilmente e completamente alla decolonizzazione. La decolonizzazione [dopo il 1945] ha espresso solo il declino delle vecchie potenze imperialiste ed il trionfo dei giganti imperialisti che non erano ostacolati da un gran numero di colonie al momento della prima guerra mondiale. E’ così che gli Stati Uniti e l'URSS hanno potuto sviluppare una politica cinica "anti-coloniale" per portare avanti i loro obiettivi imperialisti, appoggiandosi sui movimenti nazionali e trasformandoli immediatamente in guerre interimperialiste per "popoli" interposti" (3). Partendo dall'analisi dell'insieme del periodo storico e dell'evoluzione del capitalismo come sistema globale, Rosa Luxemburg è giunta ad una comprensione più completa e profonda del fenomeno dell'imperialismo. Ha messo in evidenza la base storica dell'imperialismo nelle stesse contraddizioni del sistema capitalista. Mentre Lenin si limita a constatare il fenomeno dello sfruttamento delle colonie, Rosa Luxemburg analizza che le conquiste coloniali hanno accompagnato costantemente lo sviluppo capitalista nutrendo l'insaziabile necessità dell'espansione capitalista e hanno rappresentato, attraverso la penetrazione nei nuovi mercati, l'introduzione dei rapporti capitalisti nelle zone geografiche dove non esistevano ancora: "L'accumulazione in un campo esclusivamente capitalista è impossibile. Da là risulta fin dalla nascita del capitale il suo bisogno di espansione nei paesi e negli strati non capitalisti, la rovina dell'artigianato e della classe contadina, la proletarizzazione degli strati medi, la politica coloniale (la politica "di apertura" dei mercati), l'esportazione dei capitali. L'esistenza e lo sviluppo del capitalismo dalla sua origine sono stati possibili solamente attraverso un'espansione costante sia nella produzione che nei paesi nuovi" (4). E' in tal modo che l'imperialismo si è accentuato considerevolmente nell'ultimo quarto del diciannovesimo secolo... "Il capitalismo, alla ricerca arida e febbrile di materie prime e di acquirenti che non fossero né capitalisti, né salariati, rubò, decimò ed assassinò le popolazioni coloniali. Fu l'epoca della penetrazione e dell'estensione dell'Inghilterra in Egitto, della Francia in Marocco, a Tunisi e nel Tonchino, dell'Italia nell'est dell'Africa, sulle frontiere dell'Abissinia, della Russia zarista in Asia Centrale ed in Manciuria, della Germania in Africa ed in Asia, degli Stati Uniti nelle Filippine ed a Cuba, infine del Giappone sul continente asiatico" (5). Ma questa evoluzione blocca il capitalismo nella contraddizione fondamentale: più la produzione capitalista estende la sua impresa sul globo, più stretti diventano i limiti del mercato creato dalla ricerca sfrenata del profitto rispetto al bisogno di espansione capitalista. Al di là della concorrenza per le colonie, Rosa Luxemburg identifica nella saturazione del mercato mondiale e la rarefazione degli sbocchi non capitalisti una svolta nella vita del capitalismo: il fallimento ed il vicolo cieco di questo sistema che "non può compiere più la sua funzione di veicolo storico dello sviluppo delle forze produttive" (6). È questa anche la causa, in ultima analisi, delle guerre che caratterizzano ormai lo stile di vita del capitalismo decadente.
L'imperialismo, stile di vita del capitalismo in decadenza
Una volta raggiunti i limiti del globo terrestre, per il mercato capitalista la rarefazione degli sbocchi solvibili e di nuovi mercati apre la crisi permanente del sistema capitalista mentre la necessità di espansione resta una questione vitale per ogni Stato. Oramai, questa espansione può solamente farsi a detrimento degli altri Stati in una lotta per la ripartizione attraverso le armi del mercato mondiale. "All'epoca del capitalismo ascendente le guerre (nazionali, coloniali e di conquista imperialista) esprimevano la marcia ascendente, di fermentazione, di allargamento e di espansione del sistema economico capitalista. La produzione capitalista trovava nella guerra la continuazione della sua politica economica attraverso altri mezzi. Ogni guerra si giustificava e pagava le sue spese aprendo un nuovo campo per una maggiore espansione, assicurando così lo sviluppo di una maggiore produzione capitalista. (...) La guerra fu il mezzo indispensabile al capitalismo per aprirgli delle possibilità d’ulteriore sviluppo, all'epoca in cui queste possibilità esistevano e potevano essere aperte solamente con la violenza.” (7) Ormai, "La guerra diventa il solo mezzo non di soluzione alla crisi internazionale ma il solo mezzo attraverso il quale ogni imperialismo nazionale tende a liberarsi delle difficoltà con cui è alle prese, a spese degli Stati imperialisti rivali" (8).Questa nuova situazione storica impone in tutti i paesi del mondo lo sviluppo del capitalismo di Stato. Ogni capitale nazionale è condannato alla competizione imperialista e trova nello Stato l'unica struttura sufficientemente forte per mobilitare tutta la società per affrontare i suoi rivali economici sul piano militare. "La crisi permanente pone l'inevitabilità del regolamento di conti tra imperialisti attraverso la lotta armata. La guerra e la minaccia di guerra sono gli aspetti latenti o manifesti di una situazione di guerra permanente nella società. La guerra moderna è una guerra basata sulle macchine. In vista della guerra è necessaria una mobilitazione mostruosa di tutte le risorse tecniche ed economiche dei paesi. La produzione di guerra diventa anche l'asse della produzione industriale e principale campo economico della società" (9). E' per tale motivo che il progresso tecnico è condizionato interamente dal militare: l'aviazione si sviluppa prima militarmente durante la prima guerra mondiale, l'atomo utilizzato come bomba nel 1945, l'informatica ed Internet concepiti come strumenti militari per la NATO. Il peso del settore militare in tutti i paesi assorbe tutte le forze vive dell'economia nazionale per sviluppare un armamento da utilizzare contro altre nazioni. All'alba della decadenza, la guerra era concepita come un mezzo di ripartizione dei mercati. Ma col passare del tempo, la guerra imperialista perde la sua razionalità economica. Fin dall'inizio della decadenza, la dimensione strategica prende il passo sulle questioni rigorosamente economiche. Si tratta di conquistare posizioni geostrategiche contro tutti gli altri imperialismi nella lotta per l'egemonia, per imporsi come potenza e difendere il proprio rango. In questo periodo del declino del capitalismo, la guerra rappresenta sempre più un disastro economico e sociale. Quest'assenza di razionalità economica della guerra non significa che ogni capitale nazionale si astenga da saccheggiare le forze produttive dell'avversario o del vinto. Ma una tale "rapina", contrariamente a ciò che pensava Lenin, non costituisce più lo scopo principale della guerra. Mentre certi immaginano ancora, ufficialmente per fedeltà a Lenin, che la guerra possa essere motivata dagli appetiti economici (il petrolio è il primo nella hit-parade su questa questione) la realtà si incarica di dare loro una risposta. Il bilancio economico della guerra in Iraq condotta dagli Stati Uniti dal 2003 non sembra francamente pendere dal lato della "redditività". I redditi del petrolio iracheno, anche sperati per i prossimi anni 100, pesano ben poco di fronte alle spese abissali effettuate dallo Stato americano per condurre questa guerra, senza che si veda, per il momento, una loro frenata. L'entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione porta all'incandescenza le contraddizioni contenute nel periodo di decadenza. Per tutti i paesi, ogni conflitto particolare in cui sono impegnati implica dei costi che superano largamente i benefici che possono trarre. Le guerre hanno per risultato, senza parlare degli stessi massacri, solo distruzioni massicce che lasciano completamente esangui e nella rovina completa i paesi dove si svolgono, che non saranno mai ricostruiti. Ma nessuno di questi calcoli di profitto o di perdita elimina la necessità degli Stati, tutti gli Stati, a difendere la loro presenza imperialista nel mondo, a sabotare le ambizioni dei loro rivali, o ad aumentare i loro bilanci militari. Al contrario, essi sono presi tutti in un ingranaggio irrazionale dal punto di vista economico e della redditività capitalista. Ignorare l'irrazionalità della borghesia significa sottovalutare la minaccia reale di distruzione pura e semplice che pesa sull'avvenire dell'umanità.
(tradotto da Révolution Internationale n° 335 - maggio 2003)
1. Rosa Luxemburg, L’Accumulazione del capitale, Einaudi
2. Lenin, L'imperialismo stadio supremo del capitalismo, Editori Riuniti.
3. Révue Internationale n°19, p. 11.
4. Rosa Luxemburg, Una anticritica. Ne L'accumulazione del capitale, mostra che la totalità del plusvalore estratto dallo sfruttamento della classe operaia non può essere realizzato dentro i rapporti sociali capitalisti, perché gli operai, i cui salari sono inferiori al valore creato dalla loro forza lavoro, non possono acquistare tutte le merci che producono. La classe capitalista non può consumare tutto il plusvalore poiché una parte di questa deve servire alla riproduzione allargata del capitale e deve essere scambiata. Dunque il capitalismo, considerato da un punto di vista globale, è obbligato costantemente a ricercare degli acquirenti alle sue merci all'infuori dei rapporti sociali capitalisti. 5. Il Problema della guerre di Jehan, Bilan 1935, citato nella Révue Internationale n°19. 6. Rosa Luxemburg, Una anticritica, in L’accumulazione del capitale, Einaudi. 7. Rapporto alla conferenza di luglio 1945 della Gauche Communiste de France (Sinistra Comunista di Francia). 8. Ibid. 9. Ibid.
La gravità del riscaldamento climatico legato all'emissione di gas a effetto serra è “una scomoda verità”. Almeno, è ciò che ci dice Al Gore, l’ex-vice presidente degli Stati Uniti che, dopo il suo fiasco elettorale nel 2000, vola di conferenza in conferenza (dagli Stati Uniti, al Giappone, dalla Cina, alla Germania...) per rivelare al mondo, come un uccello del malaugurio, questa “scomoda” verità. E’ logico quindi che il regista pro-democratico Davis Guggenheim abbia messo in scena una di queste innumerevoli conferenze in un documentario al titolo: Una scomoda verità. La cosa “scomoda” a questo punto è che a consegnarci questa grande verità in un magistrale corso, sul grande schermo ed a livello planetario, sia proprio un alto dignitario della borghesia americana. Sono più di trent’anni che la comunità scientifica si dedica al problema ed oltre dieci anni che questa ha constatato unanimemente l'aggravamento del riscaldamento della terra legato all'inquinamento industriale. In fin dei conti, la sola ed unica rivelazione che contiene questo film è Al Gore stesso ed il suo dono innato per la commedia. In effetti, quello che si presenta oggi come il paladino della difesa dell'ambiente, dopo i suoi anni di studi a Harvard dove seguiva assiduamente i corsi del professore Roger Revelle (pioniere della teoria del riscaldamento globale), è lo stesso di quello che più tardi, con Clinton, “ha autorizzato lo scarico di diossina negli oceani ed ha lasciato che si compiesse il più grande disboscamento di tutta la storia degli Stati Uniti” (The Independent, apparso sul giornale francese Courier International del 15 giugno 2006). Albert Gore, come una spugna inzuppata d'ipocrisia, è un esemplare molto rappresentativo della sua classe sociale. Tutti gli Stati sono coscienti della posta in gioco a livello climatico. Tutti proclamano la volontà di fare qualcosa per preservare l'ambiente naturale della specie umana e garantire il futuro delle prossime generazioni. Tuttavia, nonostante le incendiarie dichiarazioni del Summit sulla terra a Rio (1992) o le buone risoluzioni del protocollo di Kyoto (1998), l'inquinamento va crescendo e le minacce legate allo sconvolgimento del clima si amplificano. In effetti, la scomoda verità che la borghesia nasconde dietro tutte le sue conferenze, e ora i suoi film, è che il mondo capitalista è completamente impotente a trovare una soluzione ai danni climatici... e ciò tanto più che ne è il primo responsabile.
Il riscaldamento climatico è un pericolo per il futuro della specie umana
Il sistema capitalista, in fallimento da più di un secolo, non rappresenta più alcun progresso per l'umanità. La sua esistenza si poggia oggi su una base malata e distruttiva. Le disastrose conseguenze ecologiche, avvertite sin dagli anni 1950, ne sono una ulteriore dimostrazione. Gli esami di carotaggio del ghiaccio non mentono! I campioni prelevati in Antartico con questo metodo, permettono di studiare la composizione dell'atmosfera su molte centinaia di migliaia di anni. Questi indicano chiaramente che i tassi di CO2 non sono mai stati tanto alti come a partire dalla metà del 20º secolo. Le emissioni di gas a effetto serra, caratteristica del modo di produzione capitalista, sono aumentate incessantemente e la temperatura media si accresce ad un ritmo regolare. “Il pianeta è oggi più caldo di quanto non lo è mai stato nel corso degli ultimi 2 millenni, e, se la tendenza attuale continua, sarà probabilmente più caldo entro la fine del 21º secolo come non lo è mai stato negli ultimi due milioni di anni” (The New Yorker, apparso in Courier International, ottobre 2006). Questo aumento di calore è del resto visibile ad occhio nudo ai due poli del globo. Lo scioglimento dell’Antartide è tanto spinto che si prevede la sua scomparsa entro il 2080. Tutti i grandi ghiacciai si stanno riducendo e gli oceani si riscaldano. Nel 1975, James Hansen, direttore dell'istituto Goddard di studi spaziali (il GISS), si è interessato ai cambiamenti climatici. “Nella sua tesi dedicata al clima di Venere, egli avanza l'ipotesi secondo la quale se il pianeta presenta una temperatura media di superficie di 464°C, è perché è avvolta da una nebbia di gas carbonico responsabile di un effetto serra considerevole. Qualche tempo dopo, una sonda spaziale fornisce la prova che Venere è effettivamente isolata da un'atmosfera composta al 96% di biossido di carbonio (CO2)” (The New Yorker). Ecco a cosa potrebbe somigliare la terra, in un futuro molto lontano, sotto l'effetto dell'accumulo continuo di CO2... l'estirpazione di qualsiasi forma di vita. Ciò detto, non c’è bisogno di proiettarsi così lontano per rendersi conto del potenziale devastante del riscaldamento climatico. Ben prima che l'effetto serra abbia trasformato la terra in un forno immenso a più 400°C, i segni premonitori dello sconvolgimento climatico già bastano a causare vere catastrofi per la specie umana: inondazioni, malattie, tempeste... Il direttore del British Antarctic Survey, Chris Rapley, ha fatto osservare all’inizio del 2005 che la calotta glaciale dell'Antartico Occidentale stava fondendo. Ora, quest'ultimo (come la Groenlandia) contiene tanta acqua da far salire il livello dei mari di 7 metri, cosa che corrisponde all'immersione a medio termine di vaste estensioni di terre abitate in Tailandia, in India, nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti... Un altro direttore, quello dell’INSERN, ha evidenziato nel 2000 che “la capacità riproduttrice ed infettiva di molti insetti e roditori, vettori di parassiti o di virus, è legata alla temperatura ed all’umidità dell’ambiente. In altre parole, un aumento della temperatura, anche modesto, dà via libera all’espansione di numerosi agenti patogeni per l’uomo e per gli animali. E’ così che le malattie parassitarie come la malaria (…) o delle infezioni virali come la dengue (febbre rompiossa), certe encefaliti e febbre emorragiche hanno guadagnato terreno negli ultimi anni. O sono ricomparse in settori dove erano scomparse, o toccano delle regioni finora risparmiate…”. Un ultimo elemento. La frequenza e la potenza degli uragani non potranno che aumentare con il riscaldamento. Infatti, la colonna d'aria umida che li crea si forma soltanto quando la temperatura di superficie del mare è superiore a 26°C. Se gli oceani si riscaldano, aumentano le zone che superano questa soglia. Quando Katrina ha raggiunto la categoria 5 della classificazione degli uragani, la temperatura si aggirava sui 30°C alla superficie del golfo del Messico. Inoltre, secondo Kerry Emanuel del Massachusetts Institute of Technology, “il perdurare del riscaldamento rischia di aumentare il potenziale distruttivo dei cicloni tropicali e, con l'aumento delle popolazioni costiere, aumentare in modo sostanziale il numero delle vittime dovute agli uragani nel 21° secolo”. Così, dopo aver studiato le statistiche sull'intensità degli uragani degli ultimi 50 anni, K. Emanuel arriva alla conclusione che gli ultimi uragani durano in media più a lungo e che la velocità dei loro venti è del 15% più elevata, il che significa una capacità di distruzione aumentata del 50%. Al confronto le dieci piaghe d'Egitto e tutte le inondazioni della Bibbia messe insieme sono bazzecole.
Una scomoda verità: il sistema capitalista responsabile del rischio climatica
Contrariamente a Venere, il cui clima è evoluto naturalmente verso temperature infernali, il riscaldamento attuale della terra ha tutt’altra origine... l'attività industriale degli uomini. Questa verità non ha tuttavia nulla di uno scoop, dato che un buon numero di climatologi (e la borghesia stessa) non ne fa mistero. Il manifesto del film di Al Gore è ancora più esplicito mostrando il camino di una fabbrica dal quale esce un fumo che assume la forma di un ciclone. “L'industria è colpevole!” Ecco un comodo capro espiatorio, perché in realtà non è l'industria in sé a dover essere messa in causa ma piuttosto il modo in cui la si fa funzionare, in altre parole, il modo in cui funziona il capitalismo. Il modo di produzione capitalista ha sempre inquinato l'ambiente anche nel 19° secolo quando era ancora un fattore di progresso. Bisogna dire che il capitalismo se ne infischia altamente dell'ambiente. “Accumulare per accumulare, produrre per produrre, questa è la parola d'ordine dell'economia politica che proclama la missione storica del periodo borghese. E non si è illusa neanche per un momento sui travagli della ricchezza: ma a che pro fare piagnistei che non cambiano in nulla i destini storici?” (Karl Marx, Il Capitale - libro I). L'accumulazione del capitale, tale è lo scopo supremo della produzione capitalista e poco importa la sorte riservata all'umanità o all'ambiente... finché frutta, va bene! Il resto è poca cosa. Ma quando questo sistema entra nella sua fase di declino storico all'inizio del 20° secolo, la distruzione della natura prende tutt’altra dimensione. Allora diventa impietosa, come la lotta senza quartiere che si fanno tra loro i capitalisti per mantenersi sul mercato mondiale. Ridurre i costi di produzione al massimo per essere il più possibile competitivi diventa allora una regola di sopravvivenza inevitabile. In questo contesto, le misure per limitare l'inquinamento industriale sono ovviamente un costo insopportabile. La permanente necessità economica di ridurre al massimo i costi di produzione spiega l'ampiezza dei danni materiali ed umani causati dagli elementi naturali. Case di cartone, dighe senza manutenzione, sistemi di soccorso inefficienti... il capitalismo non è neppure capace di garantire un minimo di protezione contro i cataclismi, le epidemie e gli altri flagelli che contribuisce a propagare. L'impresa cinematografica del signor Gore finisce col dirci che, tuttavia, abbiamo il potere di cambiare le cose, di riparare il male che è stato fatto e di allontanare la minaccia del riscaldamento climatico se ci prendiamo la briga di diventare dei perfetti... “eco-cittadini”. Per questo i titoli di coda del suo film sgranano un lungo elenco di raccomandazioni: “cambiate il termostato”, “piantate un albero”... “votate per un candidato che si impegna a difendere l'ambiente... se non ce ne sono, candidatevi!” Ed infine “se siete credenti, pregate perché gli altri cambino comportamento”. Forse è questo il solo consiglio sensato e degno di questo nome che un borghese possa dare: “prima che il sole si offuschi e che le stelle cadono dal cielo mettetevi in ginocchio e pregate”. Bell’ammissione d'impotenza della borghesia e del suo mondo! La classe operaia non può permettersi di lasciare più a lungo le sorti del pianeta tra le mani di questa gente e del loro sistema. La crisi ecologica è la prova ulteriore che il capitalismo deve essere distrutto prima che lui trascini il mondo nell'abisso. Far nascere una società che mette al centro l’uomo ed il suo divenire è diventato una necessità imperiosa. Il comunismo sarà questo mondo necessario e la rivoluzione proletaria il cammino per condurvi l'umanità.
Jude (20 ottobre 2006)
(da Révolution Internationale n° 373, novembre 2006)
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