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Tutto questo prima di un tributo e della sepoltura in programma per il 15 dicembre nel suo villaggio di Qunu nel sud. La maggior parte dei grandi dignitari del mondo (ufficialmente 53) era presente in questo grande stadio: gli Obama, Hollande, Joakim Gauk (Germania), Dilma Rousseff (Brasile) e molti altri personaggi come il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon.
Questa grande e sacra unione è la migliore prova che Mandela, elogiato in precedenza da tutti i gauchisti e gli stalinisti, è ora riconosciuto come un degno rappresentante storico della sua classe: la borghesia! Questo riconoscimento unanime di tutta la classe dominante, sinceramente a lutto, è in netto contrasto con il comportamento che la stessa classe ha avuto in passato nei confronti di autentici rivoluzionari. Gli stessi dignitari hanno spesso non solo fatto assassinare le grandi figure del movimento operaio, come è avvenuto per Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Trotzkij ma, lungi dal meditare in seguito, hanno sempre scaricato tonnellate di calunnie contro di loro. Fu in particolare il caso della morte di Lenin dove, in tutti i giornali dell’epoca, venne raddoppiato l'odio accumulato. E che dire di Marx che, agli occhi di tutti i borghesi, incarnava il “diavolo” in persona?
Oggi, il riconoscimento dei valori nazionalisti e di uomo del capitale vale per Mandela tutti gli onori postumi. Una manna per l'azienda che ha trasformato momentaneamente i bordi dello stadio di Soweto a Johannesburg in un vero e proprio supermercato all’aperto: T-shirt con l'immagine del grande leader e altri prodotti del mondo capitalista che Mandela ha difeso con zelo. Il proletariato non perde nulla. Egli non piangerà questa figura che, come viene mostrato nell’articolo qui sotto, incarnava molto bene lo sfruttamento capitalista.
Nell’ultima parte della sua vita, Nelson Mandela era considerato una sorta di “santo” moderno, un apostolo della riconciliazione nazionale e internazionale sotto gli auspici benevoli della democrazia e della non violenza. Intellettuali borghesi di ogni sorta, stampa, politici e tutta la banda di “opinionisti” descrivevano con il ritratto di un uomo illustre “il padre della nazione sudafricana”, facendolo apparire a volte nelle vesti di un modello di umiltà, integrità e onestà, a volte sotto quelle di un “eroe” dotato di una notevole propensione per il perdono.
Ma questo ritratto elogiativo nasconde di fatto la vita reale di un politico borghese che non ha mai esitato a sferrare i colpi più duri e utilizzare le peggiori manovre contro le classi sfruttate.
Il “bilancio” di Mandela come capo del governo è eloquente: secondo un recente rapporto di Oxfam, il Sudafrica è “il paese con più diseguaglianze al mondo e queste diseguaglianze sono aumentate rispetto alla fine dell’apartheid”. L'ANC[1] ha in effetti governato per quasi vent’anni una società in cui le classi sfruttate, soprattutto la popolazione nera di queste, sono immerse nella peggiore miseria. Eppure, benché Mandela sia stato il rappresentante indiscusso della ANC dagli anni 1940, gli “opinionisti” lo presentano ancora come un uomo politico molto diverso dagli altri leader africani e del resto del mondo.
L'uomo del perdono?
Dopo la morte di Mandela, i bollettini speciali della stampa borghese l’hanno ripetuto in tutti i modi possibili: Mandela ha perdonato i suoi aguzzini! Che generosità! Che altruismo per il bene di tutti!
Il mito dell’“uomo del perdono”, che esiste solo per magnificare le illusioni democratiche veicolate dalla figura di Mandela, è d’altronde confermato da lui stesso nella sua autobiografia, scritta nel 1994, La lunga strada verso la libertà (Long Walk to Freedom - LWF): “In prigione, la mia collera contro i bianchi si affievolisce, ma il mio odio per il sistema cresce. Volevo che il Sudafrica vedesse che io ho amato anche i miei nemici mentre odiavo il sistema che ci spingeva l’uno contro l'altro.” (LWF, p.6802)[2]
Nonostante le ricostruzioni storiche completamente irrazionali circolanti dopo la sua morte, Mandela non è uscito di prigione grazie al suo carattere moderato e neanche per la “forza delle sue convinzioni” o per la bontà d’anima del vincitore ex aequo del Nobel per la Pace F.W. de Klerk, capo del governo sudafricano. Come sempre con la borghesia, la realtà è molto più spregevole. Mandela è stato liberato dalla sua prigione sotto la pressione di una parte dell’apparato politico sudafricano e di diverse grandi potenze, soprattutto gli Stati Uniti, che sono stati in grado di individuare in questo vecchio alleato dell'URSS, appena smantellata, l’opportunità di garantire una continua fornitura mineraria, nonostante i problemi provenienti da una società di apartheid sfiatata e minacciata ad ogni momento di esplosione sociale. Così, quando Mandela lasciò la prigione, l’ANC subito s’adoperò per rassicurare gli investitori circa la capacità del futuro governo di tutelare gli interessi economici. Nel Messaggio di Mandela alle Grandi Imprese americane del 19/06/1990, possiamo leggere ciò che lui ha detto molte volte: “Il settore privato, sia nazionale che internazionale, riceverà un contributo fondamentale per realizzare la ricostruzione economica e sociale dopo l'apartheid. (... ) Siamo sensibili al fatto che, in quanto investitori in un’Africa post apartheid, avrete bisogno di avere fiducia nella sicurezza dei vostri investimenti, un ritorno sufficiente ed equo per il vostro capitale e un buon clima generale di pace e di stabilità.”[3] Assicurare al Capitale la pace sociale attraverso la mistificazione democratica: questo è il vero significato della liberazione “miracolosa” di Mandela e l’improvvisa conversione di questo fomentatore di attentati mortali alla non violenza e al perdono!
Un convinto sostenitore degli interessi del Capitale nazionale!
All’inizio alleato del regime stalinista, che ha per molto tempo fornito addestramento militare ai suoi partigiani, Mandela, alla fine del 1980, cioè nel momento stesso in cui stava negoziando la sua liberazione, si è adoperato per demolire la sua immagine di “socialista” a favore di quella di difensore degli interessi nazionali sudafricani.
Mandela ha spesso fatto riferimento alla Carta della Libertà dell’ANC, adottata nel 1955: “Nel giugno del 1956, nel mensile Libération, ho notato che la Carta mirava all’impresa privata e permetteva al capitalismo di svilupparsi per la prima volta in Africa.” (LWF, p.205). Nel 1988, quando lui negoziava in segreto con il governo, ha fatto riferimento allo stesso articolo “in cui dicevo che la Carta per la libertà non era una ricetta per il socialismo, ma per il capitalismo applicato in Africa. Ho detto loro che dopo non avevo cambiato idea.” (LWF, p.642). Analogamente, quando Mandela ha ricevuto la visita, nel 1986, di una delegazione di importanti personalità, “ho detto loro che ero un nazionalista sudafricano, non un comunista, che i nazionalisti stanno diventando sempre più importanti.” (LWF, p.629)
Di questo nazionalismo immutabile e del suo ruolo nella “pacificazione” della società a favore della borghesia, Mandela ne era pienamente consapevole quando scriveva sul massacro di Sharpeville nel 1960, “la Borsa di Johannesburg crollò e i capitali cominciarono a fuggire dal paese.” (LWF, p.281). Di fatto, la fine dell'apartheid aprì un periodo di incremento degli investimenti esteri in Sudafrica.
Ma "l’emergenza" economica del paese si fece ben inteso con il sudore della classe operaia, in gran parte composta da lavoratori neri, senza che questa potesse uscire minimamente dalla povertà assoluta in cui era immersa da molti decenni. Tuttavia, nel corso degli anni ‘950, Mandela diceva che “l’obiettivo nascosto del governo era di creare una classe media africana per spegnere l’appello dell’ANC e la lotta per la liberazione.” (LWF, p.223) In pratica, la “liberazione” politica dei lavoratori neri e quasi tre decenni di governo dell’ANC non hanno gonfiato in modo significativo le fila di questa “classe media” africana.
L'incremento dello sfruttamento ha significato anche la repressione, la rimilitarizzazione della polizia, il divieto di manifestazioni e attacchi fisici contro i lavoratori, come si è visto, per esempio, con lo sciopero dei minatori di Marikana, nel corso del quale quarantaquattro lavoratori sono stati uccisi e decine seriamente feriti.[4]
Nella sua autobiografia, Mandela ha ipocritamente scritto che “tutti gli uomini, anche quelli che hanno più sangue freddo, hanno un minimo di decenza e se il loro cuore è toccato, sono in grado di cambiare” (LWF, p.549). Ciò che può essere vero per gli individui non lo è per il capitalismo: questo sistema non ha alcuno scrupolo di decenza e non può essere modificato. Le apparenze del governo nero dell’ANC sono diverse da quelle dei loro predecessori bianchi, ma lo sfruttamento e la repressione rimangono.
La favola della non violenzaLa classe dominante usa l’ideologia della non violenza per spingere il proletariato a rinunciare alla sua violenza di classe, di massa e organizzata, e sostituirla con l’impotenza politica. E per farlo, deve inventarsi dei modelli e delle storie che dimostrano l’efficacia della lotta non violenta.
Il mito di un Mandela “non violento” è come tale una grossa e ridicola menzogna. L’ANC, nella sua lotta di “liberazione”, ha spudoratamente utilizzato una forma particolarmente malvagia di violenza, tipica delle classi senza futuro: il terrorismo. Quando la tattica non violenta ha dimostrato la sua inefficacia, l'ANC ha creato un’ala militare, nella quale Mandela ha svolto un ruolo centrale. “Esistevano quattro tipi di attività violente: il sabotaggio, la guerriglia, il terrorismo e la rivoluzione aperta”. Mandela sperava che il sabotaggio “portasse il governo al tavolo dei negoziati”. Sebbene furono date precise istruzioni “affinché non avessimo nessuna perdita di vite umane ( ... ), se il sabotaggio non avesse prodotto i risultati attesi, eravamo pronti a fare il passo successivo: la guerriglia e il terrorismo.” (LWF, p.336)
Così, il 16 Dicembre 1961, “degli ordigni artigianali esplosero nelle centrali elettriche e negli uffici governativi a Johannesburg, Port Elizabeth e Durban.” (LWF, p.338) Nel 1983, quando l’ANC organizzò il primo attentato mortale in cui diciannove persone furono uccise e più di duecento ferite, Mandela scrisse: “La morte violenta di civili è stato un tragico incidente e ho sentito un profondo orrore all'annuncio del numero delle vittime. Ma come sono stato scosso da queste vittime, allo stesso modo sapevo che tali incidenti sono l’inevitabile conseguenza della decisione di intraprendere un conflitto militare” (LWF, p.618). Adesso si fa riferimento a tali “incidenti” utilizzando il dolce eufemismo di “danni collaterali”.
Nella sua testimonianza in tribunale, nel 1964, Mandela si è autodefinito come un “ammiratore” della democrazia: “Ho un grande rispetto per le istituzioni politiche britanniche e il sistema giuridico di questo paese. Considero il Parlamento inglese come l’istituzione più democratica del mondo e l'indipendenza e l’imparzialità della sua magistratura hanno sempre suscitato la mia ammirazione. Il congresso degli Stati Uniti, la dottrina di questo paese che garantisce la separazione dei poteri e l’indipendenza della magistratura, risvegliano in me sentimenti analoghi” (LWF, p.436 ). Come campione di democrazia, Mandela serve ancora gli interessi sordidi della sua classe essendo chiaramente destinato a incarnare, da morto come da vivo, la punta avanzata dell’ideologia democratica moderna e di un preteso capitalismo dal volto umano.
KS e El Genericor (10 dicembre)
[1] African National Congress, il partito di Nelson Mandela al potere dalla fine dell'apartheid nel 1994.
[2] L’impaginazione è quella del libro in inglese.
[3] Sottolineatura nostra.
[4] Potete leggere i nostri articoli sul movimento sociale del 2012: Sudafrica: la borghesia sguinzaglia poliziotti e sindacati contro la classe operaia, (https://it.internationalism.org/node/1236) e: Dopo il massacro di Marikana, l’Africa del Sud è attraversata da scioperi massicci (it.internationalism.org/node/1255).