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Questo rapporto si iscrive nel quadro della risoluzione sulla situazione internazionale del 24° Congresso Internazionale della CCI[1] e in particolare sui seguenti punti:
«8. Se la progressione della decomposizione capitalista, parallelamente all’acuirsi caotico delle rivalità imperialiste, prende principalmente la forma di una frammentazione politica e di una perdita di controllo da parte della classe dirigente, questo non significa che la borghesia non possa più fare ricorso al totalitarismo di Stato nei suoi sforzi per mantenere la coesione della società. (…) L’elezione di Biden, sostenuta da una enorme mobilitazione dei mezzi di informazione, di certe parti dell’apparato politico e anche dell’esercito e dei servizi segreti, esprime questa reale controtendenza al pericolo di disintegrazione sociale e politica molto chiaramente incarnata dal trumpismo. Nel breve termine tali “successi” possono funzionare come un freno al caos sociale crescente.
9. La natura evidente della decomposizione politica ed ideologica della prima potenza mondiale non significa che gli altri centri del capitalismo mondiale siano capaci di costituire delle fortezze alternative di stabilità (...)
12. In questo panorama caotico non c’è alcun dubbio che il confronto crescente tra gli Stati Uniti e la Cina tende ad essere in primo piano. La nuova amministrazione ha così dimostrato la sua propensione alla “inclinazione verso l’est”.”
In questo quadro, questo rapporto prende in considerazione gli avvenimenti di questi ultimi mesi per contribuire alla riflessione sulle seguenti 3 questioni:
- A che sta il declino dell’egemonia degli Stati Uniti?
- La Cina ha avuto dei vantaggi dagli avvenimenti di questo periodo?
- Qual è la tendenza dominante attualmente sul piano dei confronti imperialisti?
1. Declino dell’egemonia americana e polarizzazione delle tensioni USA-Cina
“Confermatasi come sola superpotenza esistente, gli USA faranno tutto quello che è in loro potere per assicurarsi che nessuna nuova superpotenza – in realtà nessun nuovo blocco imperialista- possa affermarsi e sfidare il suo ‘Nuovo Ordine Mondiale’” (Risoluzione sulla situazione internazionale del 15° Congresso della CCI, 2003). La storia degli ultimi 30 anni è caratterizzata da un declino sistematico della loro leadership, nonostante una politica persistente volta a mantenere la loro posizione egemonica nel mondo.
1.1 Breve riassunto del declino dell’egemonia degli USA
Ci sono diverse tappe che caratterizzano gli sforzi degli Stati Uniti per mantenere la loro leadership di fronte alle minacce che si sviluppano. Esse sono anche marcate da dissensi interni in seno alla borghesia americana sulla politica da adottare e che accentuano le difficoltà.
a) Il “Nuovo Ordine Mondiale” sotto la direzione degli USA (Bush I e Clinton: 1990-2001)
Il presidente Bush senior sfruttò l’invasione del Kuwait da parte delle forze irachene per mobilitare una larga coalizione militare internazionale intorno agli USA per “punire” Saddam Hussein. La 1^ guerra del Golfo voleva costituire un “esempio”: di fronte a un mondo sempre più guadagnato dal caos e dal “ciascuno per sé” si trattava di imporre un minimo di ordine e di disciplina, e in primo luogo ai paesi più importanti dell’ex blocco occidentale. La sola superpotenza che si era mantenuta voleva imporre alla “comunità internazionale” un “nuovo ordine mondiale” sotto la sua egida, perché era la sola che ne aveva i mezzi, ma anche perché era il paese che aveva più da perdere nel disordine mondiale.
Tuttavia essa non sarà capace di mantenere questo ruolo se non rinchiudendo in maniera crescente l’insieme del mondo nel corsetto di ferro del militarismo e della barbarie guerriera, come al momento della sanguinosa guerra civile nella ex-Jugoslavia dove doveva contrastare gli appetiti imperialisti dei paesi europei (Germania, Gran Bretagna e Francia) imponendo sotto la sua autorità la “pax americana” nella regione (accordi di Daytona, dicembre 1995).
b) Gli USA come «Sceriffo/Gendarme Mondiale» (Bush 2: 2001-2008)
Gli attentati di Al-Qaeda dell’11 settembre del 2001 portarono il presidente Bush junior a scatenare una «Guerra contro il terrore» contro l’Afghanistan e soprattutto l’Iraq nel 2003. Malgrado tutte le pressioni e l’utilizzazione di menzogne finalizzate a mobilitare la “comunità internazionale” dietro gli USA contro “l’asse del male”, gli USA fallirono nell’intento di mobilitare gli altri imperialismi contro lo “Stato canaglia” di Saddam e invasero quasi da soli l’Iraq con un solo alleato significativo, l’Inghilterra di Tony Blair.
Il fallimento di questi interventi, sottolineato dal ritiro dall’Iraq (2011) e dall’Afghanistan (2021), ha messo in evidenza l’incapacità degli Stati Uniti di giocare allo “sceriffo del mondo” per imporre il suo “ordine” al mondo. Al contrario, questa “guerra contro il terrore” ha aperto il vaso di Pandora della decomposizione in queste regioni, favorendo l’espansione del “ciascuno per sé, che si è manifestato in particolare attraverso una moltiplicazione su scala planetaria delle ambizioni imperialiste di potenze come la Cina e la Russia, ovviamente dell’Iran, ma anche della Turchia, l’Arabia Saudita, o ancora gli Emirati del Golfo o il Qatar. Il crescente vicolo cieco della politica degli Stati Uniti e la fuga aberrante nella barbarie guerriera, ha messo in evidenza il netto indebolimento della loro leadership mondiale.
L’amministrazione Obama ha provato a ridurre l’impatto della catastrofica politica portata avanti da Bush (l’esecuzione di Bin Laden nel 2011 ha sottolineato la superiorità tecnologica e militare assoluta degli Stati Uniti) e ha individuato sempre più chiaramente l’ascesa della Cina come il pericolo principale per l’egemonia USA, cosa che ha scatenato intensi dibattiti in seno alla borghesia americana e al suo apparato statale.
c) La politica «America First» (Trump, e sostanzialmente proseguita da Biden: 2017)
La politica dell’”America first” sul piano imperialista messa in atto da Trump a partire dal 2017, costituisce in realtà il riconoscimento ufficiale del fallimento della politica imperialista americana di questi ultimi 25 anni: “L’ufficializzazione da parte dell'amministrazione Trump di far prevalere su qualsiasi altro principio quello della difesa dei loro soli interessi come Stato nazionale e l'imposizione di rapporti di forza favorevoli agli Stati Uniti come base principale delle relazioni con altri Stati, conferma e trae le implicazioni del fallimento della politica degli ultimi 25 anni di lotta contro il ciascuno per sé e come gendarme del mondo e della difesa dell'ordine mondiale ereditato dal 1945.(…)”[2]
Se questa politica implica una forte limitazione delle operazioni militari sul terreno data la mancanza di irreggimentazione delle masse operaie rispetto a impegni militari massicci con le conseguenti perdite che questo implicherebbe (vedi le difficoltà di reclutamento già incontrate da Bush junior per la guerra in Iraq), essa va comunque di pari passo con una polarizzazione crescente e una aggressività accentuata verso la Cina, sempre più riconosciuta come il pericolo principale. Se questa posizione era discussa in seno all’amministrazione Obama e se delle tensioni apparivano ancora in seno all’amministrazione Trump tra i sostenitori della lotta contro gli “Stati canaglia”, come l’Iran (Posizione di Pompeo, Kushner), e i sostenitori del “maggiore pericolo cinese” (servizi segreti ed esercito), la polarizzazione su quest’ultima opzione è incontestabilmente l’asse centrale della politica estera di Biden. Per gli USA si tratta di una scelta strategica per concentrare le loro forze sul confronto militare e tecnologico con la Cina, al fine di mantenere e anche di accentuare la loro supremazia, di difendere la loro posizione di “Padrino” del clan dominante di fronte ai clan avversari (la Cina e in parte la Russia) che minacciano più direttamente la loro egemonia. Già in quanto gendarme mondiale gli USA favorivano la violenza guerriera, il caos e il ciascuno per sé; la loro attuale politica non è per niente meno distruttiva, al contrario.
1.2. Polarizzazione delle tensioni nel mar della Cina
La polarizzazione degli USA verso la Cina e il conseguente ridispiegamento delle forze iniziate dall’amministrazione Trump sono stati pienamente ripresi da Biden, che non solo ha mantenuto le aggressive misure economiche contro la Cina messe in atto da Trump, ma ha soprattutto accentuato la pressione:
- Sul piano politico: la difesa dei diritti degli Uiguri e di Hong Kong, il rafforzamento diplomatico e commerciale con Taiwan, accusa di pirateria informatica verso la Cina;
- A livello militare nel mare della Cina, con azioni molto esplicite e spettacolari in questi ultimi mesi: moltiplicazione di esercitazioni militari con il coinvolgimento della flotta USA e degli alleati nel mare della Cina del Sud; rapporti allarmisti sulle minacce imminenti di un intervento cinese a Taiwan; presenza a Taiwan di forze speciali americane per addestrare le unità speciali taiwanesi; conclusione di un nuovo accordo di difesa, l’AUKUS, tra gli USA, l’Australia e la Gran Bretagna, che instaura un coordinamento militare orientato principalmente contro la Cina; impegno di Biden per un sostegno a Taiwan in caso di aggressione cinese.
Taiwan ha sempre giocato un ruolo importante nella strategia americana verso la Cina. Se durante la “guerra fredda” essa costituiva una pedina importante nel dispositivo di contenimento del blocco sovietico, negli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 ha rappresentato la vetrina della società capitalista globalizzata in cui la Cina era integrata. Ma con la crescita della potenza di quest’ultima l’obiettivo è cambiato e Taiwan gioca di nuovo un ruolo geostrategico per sbarrare l’accesso al Pacifico ovest alla marina cinese. D’altra parte, su un piano strategico, “le fonderie dell’isola producono in effetti la maggior parte dei semiconduttori di ultima generazione, componenti indispensabili all’economia elettronica mondiale (smartphone, dispositivi di connessione, intelligenza artificiale, ecc.)” (Le Monde diplomatique, ottobre 2021, pag. 7).
La Cina da parte sua ha reagito furiosamente a queste pressioni politiche e militari, soprattutto quelle riguardanti Taiwan: organizzazione di massicce manovre navali ed aeree davanti all’isola, pubblicazione di studi allarmisti che indicano un rischio di guerra “mai così elevato” con Taiwan, o piani di attacchi a sorpresa contro Taiwan, che porterebbe a una sconfitta totale delle forze armate dell’isola.
In questi ultimi mesi nel mare della Cina si sono succeduti avvertimenti, minacce e intimidazioni. Essi sottolineano la crescente pressione esercitata dagli USA sulla Cina. In questo contesto gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per tirarsi dietro altri paesi asiatici, inquieti per le velleità espansioniste di Pechino, cercando per esempio di creare una specie di NATO asiatica, il QUAD, che riunisce gli USA, il Giappone, l’Australia e l’India con la volontà di aggiungervi la Corea del Sud. D’altra parte e nello stesso senso Biden ha voluto rivitalizzare la NATO allo scopo di trascinare i paesi europei nella sua politica di pressione contro la Cina. Paradossalmente, la costituzione dell’AUKUS indica i limiti dell’allineamento delle altre nazioni dietro gli USA. L’AUKUS significa innanzitutto uno schiaffo alla Francia e azzera le belle parole di Biden sul “partenariato” in seno alla NATO. D’altronde, questo accordo conferma anche il nervosismo di paesi come l’India, con le sue proprie ambizioni imperialiste, e soprattutto della Corea del Sud e del Giappone, stretti tra la paura del rafforzamento militare della Cina e i loro considerevoli legami industriali e commerciali con essa.
2. Significato e impatto del ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan
Dopo lo sprofondamento di Iraq e Siria nel caos e in una barbarie sanguinosa, gli avvenimenti del settembre 2021 in Afghanistan confermano pienamente la tendenza dominante del periodo: il declino della leadership USA e la crescita del caos e del ciascuno per sé.
2.1. Il disastro USA in Afghanistan
Il crollo totale del regime e dell’esercito afghano, l’avanzata dei Talebani, nonostante un intervento militare americano nel paese durato 20 anni e le centinaia di miliardi di dollari inghiottiti nella “costruzione della nazione”, così come l’evacuazione nel panico di cittadini americani e collaboratori confermano in maniera eclatante che gli USA non sono più in grado di svolgere il ruolo di “gendarme del mondo”. Più specificamente, la ritirata drammatica e caotica delle truppe USA dall’Afghanistan ha portato a una sconfitta interna ed esterna dell’amministrazione Biden.
- Su un piano esterno, questo disastro ha minato l’affidabilità degli USA agli occhi degli “alleati”
Nella misura in cui lo stesso segretario della NATO, J. Stoltenberg, ha dovuto riconoscere che gli USA non garantiscono più di difendere gli alleati europei contro i loro nemici, ogni operazione accattivante di Biden verso la NATO e gli alleati è stata annichilita. L’assenza totale di concertazione in seno alla NATO e l’azione solitaria degli USA hanno provocato delle reazioni indignate a Londra, Berlino e Parigi. Quanto ai collaboratori degli americani in Afghanistan (come i curdi in Iraq, traditi da Trump), questi temono giustamente per la loro vita: ecco una prima potenza mondiale incapace di garantire la vita dei suoi collaboratori e il sostegno ai suoi alleati. Essa non merita dunque fiducia (come sottolineato sarcasticamente da Xi Jimping!).
- Sul piano interno, esso ha eroso la credibilità dell’amministrazione Biden
La risoluzione sulla situazione internazionale del 24° Congresso della CCI sottolinea che “L’elezione di Biden, sostenuta da una enorme mobilitazione dei mezzi di informazione, di certe parti dell’apparato politico e anche dell’esercito e dei servizi segreti, esprime questa reale controtendenza al pericolo di disintegrazione sociale e politica molto chiaramente incarnata dal trumpismo. Nel breve termine tali “successi” possono funzionare come un freno al caos sociale crescente.” Tuttavia il disastro afghano ha messo in evidenza non solo la mancanza di affidabilità degli USA verso i propri alleati, ma accentua anche le tensioni in seno alla borghesia USA e apre un’autostrada a tutte le forze avversarie (Repubblicani e populisti) che condannano questa ritirata frettolosa e umiliante da parte di una amministrazione che “disonora gli USA sul piano internazionale”. E questo in un momento in cui la politica di rilancio industriale e di grandi lavori, voluta dall’amministrazione Biden e ritenuta poter contenere i danni causati dal populismo, si scontra con una opposizione feroce dei Repubblicani al Congresso e di Trump mentre, di fronte a una politica vaccinale anti-Covid che ristagna, Biden è stato costretto a prendere delle misure di restrizione per la popolazione.
2.2. Imprevedibilità della situazione per gli altri imperialismi
L’assenza di una centralizzazione del potere da parte dei Talebani, la miriade di correnti e gruppi che compongono il movimento e gli accordi con i signori della guerra locali per impadronirsi rapidamente dell’insieme del paese fanno sì che il caos e l’imprevedibilità siano le caratteristiche della situazione, come dimostrato dai recenti attentati contro la minoranza Hazara. Questa situazione non può che intensificare la volontà di intervento dei differenti imperialismi ma anche l’imprevedibilità della situazione, e di conseguenze il caos ambientale.
- L’Iran è legato alle minoranze Hazara lungo le sue frontiere e vuole certo mantenere la sua influenza in questa regione. Il Pakistan ha il timore che questa vittoria dei Talebani (che finanzia attraverso i suoi servizi segreti) possa causare un movimento di indipendenza delle popolazioni pashtun alle sue frontiere. L’India che finanziava largamente il regime crollato, è già da ora confrontata a una intensificazione delle guerriglie mussulmane nel Kashmir indiano. La Russia ha rafforzato le sue truppe nelle ex repubbliche sovietiche asiatiche per contrastare ogni velleità di portare un sostengo ai movimenti jihadisti locali.
- E la Cina ricava qualche vantaggio dal ritiro americano? È vero il contrario. Il caos in Afghanistan rende ogni politica coerente e di lungo periodo aleatoria. D’altra parte la presenza dei Talebani alle frontiere della Cina costituisce un serio pericolo potenziale per le infiltrazioni islamiste in Cina (gli Uiguri), soprattutto visto che i “fratelli” pachistani dei Talebani sono già impegnati in una campagna di attentati contro i cantieri della “nuova via della seta”, che hanno provocato la morte di una decina di cooperanti cinesi.
La Cina tende a contrastare il pericolo in Afghanistan istallandosi nelle vecchie repubbliche sovietiche dell’Asia centrale (Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan). Ma queste repubbliche fanno tradizionalmente parte della zona di influenza russa, cosa che aumenta il pericolo di confronto con questo “alleato strategico”, al quale comunque l’oppongono fondamentalmente i suoi interessi a lungo termine (la “nuova via della seta”) – vedi il punto 4.2 sull’alleanza cino-russa.
3. La posizione della Cina sullo scacchiere imperialista
La Cina ha conosciuto in questi ultimi decenni una crescita sfolgorante sul piano economico e imperialista, che l’ha resa lo sfidante più importante degli Stati Uniti. Tuttavia, come dimostrato già dagli avvenimenti in Afghanistan del settembre 2021, essa non ha potuto approfittare né del declino degli USA, né della crisi del Covid-19 e delle sue conseguenze per rafforzare le sue posizioni sul piano dei rapporti imperialisti, al contrario. Vediamo le difficoltà a cui la borghesia cinese è confrontata sul piano della gestione del Covid, della gestione dell’economia, dei rapporti imperialisti e delle tensioni nel suo seno.
3.1. Difficoltà nella gestione del Covid
La Cina punta sull’immunità collettiva prima di aprire il paese, ma la politica di lockdown stretto che nel frattempo applica in città e regioni intere ogni volta che vengono identificate infezioni pesa fortemente sulle attività economiche e commerciali: per esempio la chiusura del porto di Yantian, terzo porto di container del mondo, nello scorso maggio ha condotto al blocco di migliaia di container e centinaia di navi sono state bloccate per mesi, disorganizzando totalmente il traffico marittimo mondiale.
Questa ricerca dell’immunità collettiva d’altra parte spinge province e città cinesi a imporre delle sanzioni finanziarie ai ritardatari. Di fronte alle numerose critiche sui social cinesi, il governo centrale ha bloccato questo tipo di misure che tendevano a “mettere in pericolo la coesione nazionale”.
Infine, la cosa più grave sono senza dubbio i dati sull’efficacia limitata dei vaccini cinesi comunicati da diversi paesi che li utilizzano: “In totale, la campagna di vaccinazione cilena – con il 62% della popolazione vaccinata attualmente – non sembra avere nessun importante impatto sulla proporzione di decessi” (H. Testard: “Covid-19: la vaccinazione in Asia decolla, ma aumentano i dubbi sui vaccini cinesi”, Asualyst, 21/07/2021). I responsabili cinesi oggi stanno prendendo in considerazione accordi per importare Pfizer o Moderna per rimediare all’inefficacia dei propri vaccini.
Al di là della innegabile responsabilità della Cina nello scoppio della pandemia, la gestione poco efficiente della crisi del Covid pesa sulla politica generale del capitalismo di Stato cinese.
3.2. Cumulazione di problemi per l’economia cinese
La forte crescita che la Cina conosce da 40 anni – anche se le cifre già diminuivano nell’ultimo decennio – sembra arrivare alla sua fine. Gli esperti si aspettano una crescita del PIL cinese inferiore al 6% nel 2021, contro il 7% medio dell’ultimo decennio e più del 10% del decennio precedente. Diversi sono i fattori che accentuano le attuali difficoltà dell’economia cinese:
- il pericolo di scoppio della bolla immobiliare cinese: Evergrand, il numero due delle imprese immobiliari cinesi, si ritrova oggi schiacciata da quasi 300 miliardi di euro di debiti, cioè il 2% del PIL del paese, a cui non può più far fronte. Altre imprese sono coinvolte, come Fantasia Holdings o Sinic Holdings quasi incapaci di pagare i loro creditori. In generale il settore immobiliare, che rappresenta il 25% dell’economia cinese, ha generato un debito pubblico e privato colossale che ammonta a migliaia di miliardi di dollari. Il fallimento di Evergrand non è in realtà che la prima sequenza di un futuro crollo totale di questo settore. Oggi gli alloggi vuoti sono talmente numerosi che si potrebbe ospitare 90 milioni di persone. Certo, il crollo immediato del settore sarà evitato nella misura in cui le autorità cinese non hanno altra scelta che limitare i danni del naufragio per evitare il rischio di un impatto molto severo sul settore finanziario: “(…) non ci sarà un effetto bolla come nel 2008 [negli USA] perché il governo cinese può fermare la macchina”, stima Andy Xie, economista indipendente, ex di Morgan Stanley in Cina, citato da Le Monde. “Io penso che con Anbang (gruppo assicurativo) e HNA (Hainan Airlines) si hanno dei buoni esempi di quello che può succedere: ci sarà un comitato costituito dall’azienda, i creditori e le autorità, che deciderà quali attività vendere, quali ristrutturare e, infine, quanto denaro resta e chi può perdere dei fondi.” (P.A. Donnet: “Crollo di Evergrand in Cina: fine del denaro facile, Asialyst, 25/09/2021).
Tuttavia se l’immobiliare cinese basa il suo modello economico su un enorme debito, numerosi altri settori sono in rosso: alla fine del 2020 il debito globale delle imprese cinesi rappresentava il 160% del Prodotto Interno Lordo del paese, contro l’80% circa per quello delle società americane, e gli investimenti “tossici” dei governi locali rappresentano, secondo gli analisti di Goldman Sachs, da soli 53.000 miliardi di yuan, cioè una somma che rappresenta il 52% del PIL cinese. Così lo scoppio della bolla immobiliare rischia non solo di contaminare altri settori dell’economia, ma anche di generare una instabilità sociale (quasi 3 milioni di posti diretti e indiretti sono legati a Evergrand), il grande timore del Partito Comunista Cinese.
- I tagli di energia: queste sono la conseguenza di un approvvigionamento di carbone insufficiente, causato per esempio dalle inondazioni record nella provincia di Shaanxi che produce il 30% del combustibile di tutto il paese, e anche dall’indurimento della regolamentazione anti-inquinamento deciso da Xi. La penuria pesa già sull’attività industriale in parecchie regioni: i settori della siderurgia, dell’alluminio e del cemento soffrono già della limitazione dell’offerta di elettricità. Questa limitazione ha ridotto di circa il 7% le capacità di produzione di alluminio e del 29% quelle di cemento (cifre di Morgan Stanley) e quelli della carta e del vetro potrebbero essere i prossimi settori coinvolti. Questi tagli frenano ormai la crescita economica dell’insieme del paese. Ma la situazione è ancora più grave di quanto non sembri a prima vista. “In effetti questa penuria di elettricità si ripercuote ormai sul mercato residenziale in certe regioni del Nord-Est. La provincia di Liaoning, per esempio, ha esteso i tagli di corrente del settore industriale a delle reti residenziali” (P.-A. Donnet, Chine: come la grave penuria di elettricità minaccia l’economia, Asialyst, 30.09.21)
- Le rotture nelle catene di produzione e di approvvigionamento. Queste sono legate alla crisi energetica, ma anche ai lockdown dovuti a infezioni Covid (vedi punto precedente). Esse toccano la produzione delle industrie di diverse regioni e accentuano il rischio di rottura delle catene di approvvigionamento nazionali e mondiali, già sotto pressione, tanto più che certe fabbricazioni sono confrontate a una penuria di semi-conduttori.
3.3. Sgonfiamento del progetto della «nuova via della seta”
La realizzazione della “nuova via della seta” diventa sempre più difficile, a causa dei problemi finanziari legati alla crisi del Covid e alle difficoltà dell’economia cinese, ma anche per le reticenze dei partner;
- da una parte il livello di indebitamento dei paesi “partner” è cresciuto a causa della crisi del Covid, e quindi essi si ritrovano nell’incapacità di pagare gli interessi sui prestiti cinesi. Paesi come lo Sri-Lanka, il Bangladesh, il Kirzikistan, il Pakistan, il Montenegro, e diversi paesi africani, hanno chiesto alla Cina di ristrutturare, ritardare o annullare il pagamento dei loro debiti dovuti quest’anno.
- da un’altra parte, c’è una crescente diffidenza da parte di numerosi paesi rispetto alle azioni della Cina (Unione Europea, Cambogia, Filippine, Indonesia), ed in più ci sono anche le conseguenze del caos prodotto dalla decomposizione, che destabilizza certi paesi chiave della “nuova via”, come per esempio l’Etiopia.
In breve, non bisogna meravigliarsi che nel 2020 si sia avuto un crollo del valore finanziario degli investimenti fatti nel progetto della “Nuova via della seta” (-64%), e la Cina ha prestato più di 461 miliardi di dollari dal 2013.
3.4. Accentuazione degli antagonismi in seno alla borghesia cinesi.
Con Deng Xiao Ping il capitalismo di Stato di tipo stalinista cinese, sotto la coperta di una politica di “creare dei ricchi per condividere la loro ricchezza”, ha stabilito delle zone “libere” (Hong Kong, Macao, ecc.) al fine di sviluppare un capitalismo di tipo “libero mercato” permettendo l’entrata dei capitali internazionali e favorendo anche un settore capitalista privato che, con il crollo del blocco dell’Est e la “globalizzazione” dell’economia degli anni ’90, si è sviluppato in maniera esponenziale, anche se il settore pubblico sotto il controllo diretto dello Stato rappresenta sempre il 30% dell’economia. Come ha preso la rigida e repressiva struttura dello Stato stalinista e del partito unico in carico questa “apertura” al capitalismo privato? Dagli anni ’90 il partito si è trasformato integrando massicciamente imprenditori e capi di impresa privati. “All’inizio degli anni 2000 il presidente di allora, Jang Zemin aveva eliminato il divieto di reclutare degli imprenditori del settore privato, visti fino ad allora come dei nemici di classe, (…). Gli uomini e le donne d’affari così selezionati diventano membri della élite politica, cosa che garantisce che le loro imprese siano, almeno parzialmente, protette dalle tendenze predatrici”. (Che resta del comunismo in Cina? Le Monde diplomatique 68, luglio 2021). Oggi i professionisti e i manager diplomati costituiscono il 50% degli aderenti del PCC.
I contrasti tra le differenti frazioni si esprimeranno quindi non solo all’interno delle strutture statali ma in seno allo stesso PCC. Da diversi anni (vedi Rapporto sulle tensioni imperialiste del 20° Congresso della CCI, 2013) le tensioni fra le diverse frazioni della borghesia cinese crescono, in particolare tra quelle più legate ai settori capitalistici privati, dipendenti dagli scambi e dagli investimenti internazionali, e quelle legate alle strutture e al controllo finanziario a livello regionale o nazionale, cioè tra quelle che vorrebbero un’apertura al commercio mondiale e quelle che difendono una politica più nazionalista. In particolare:
- la “svolta a sinistra” intrapresa dalla frazione che sostiene il presidente XI, e che significa meno pragmatismo economico e più ideologia nazionalista, ha intensificato le tensioni e l’instabilità politica in questi ultimi anni: lo testimoniano “le tensioni persistenti tra il primo ministro Li Xegiang e il presidente Xi Jinping sul rilancio economico, o anche sulla ‘nuova posizione’ della Cina sulla scena internazionale” (Cina: a Beidahie, “l’università estiva” del partito, le tensioni interne affiorano, A. Payette, Asialyst, 6/09/2020);
- la politica guerriera condotta dalla diplomazia cinese verso Taiwan ma allo stesso tempo la sensazionale dichiarazione di Xi che la Cina vuole raggiungere la neutralità dal carbone (carbon 0) per la sua economia nel 2060;
- le critiche esplicite verso Xi che ricorrono regolarmente (ultimamente il saggio “allerta virale” pubblicato da un professore di diritto costituzionale all’università Qinghua di Pechino in cui predice la fine di Xi);
- le tensioni fra Xi e i generali dell’Esercito Popolare;
- gli interventi dell’apparato statale verso gli imprenditori troppo “infiammati” e critici verso il controllo statale (Jack Ma e Ant Financial, Alibaba). Alcuni fallimenti (HNA, Evergrand) potrebbero essere legati alle lotte fra bande in seno al partito, nel quadro per esempio della cinica campagna per “proteggere i cittadini dagli eccessi della ‘classe capitalista’”.
In breve, lungi dal tirare profitto dalla situazione attuale, la borghesia cinese, come le altre borghesie, è confrontata al peso della crisi, al caos della decomposizione e alle tensioni interne, che essa cerca con tutti i mezzi di contenere in seno alle sue desuete strutture capitaliste di Stato.
4. L’estensione del caos, dell’instabilità e della barbarie guerriera
I dati analizzati nei punti precedenti mostrano certo che le tensioni fra gli USA e la Cina tendono ad occupare un posto predominante nella situazione imperialista, senza tuttavia che esse inducano una tendenza alla formazione di blocchi imperialisti. In effetti, al di là di certe alleanza limitate come l’AUKUS, la principale potenza del pianeta, gli USA, oggi non solo non riesce a mobilitare la altre potenze dietro la sua linea politica (contro l’Iraq o l’Iran prima, contro la Cina oggi) ma è in più incapace di difendere i suoi alleati e di darsi l’aspetto di un “leader di blocco”. Questo declino della leadership USA contribuisce ad un’accentuazione del caos che coglie sempre più la politica dell’insieme degli imperialismi dominanti, ivi compresa la Cina che a sua volta non riesce a imporre in maniera durevole la sua leadership ad altri paesi.
4.1. Caos e guerra
Il fatto che i Talebani abbiano “battuto” gli americani incoraggerà tutti questi piccoli squali che non esiteranno ad avanzare le proprie pedine in assenza di qualcuno capace di “imporre delle regole”. Stiamo entrando in una accelerazione del mondo senza legge e del più grande caos della storia. Il ciascuno per sé diventa il fattore dominante delle relazioni imperialiste e la barbarie guerriera minaccia intere zone del pianeta.
- Asia Centrale, Medio oriente e Africa:
Oltre alla barbarie della guerra civile in Iraq, Siria, Libia o Yemen e lo sprofondamento dell’Afghanistan nell’orrore, sono forti le tensioni tra l’Armenia e l’Azerbaigian, istigate dalla Turchia che provoca la Russia; è scoppiata la guerra civile in Etiopia (appoggiata dall’Eritrea) contro la “provincia ribelle” del Tigray (appoggiata dal Sudan e dall’Egitto); infine crescono le tensioni tra l’Algeria e il Marocco. La “Somalizzazione” degli Stati, e le zone di instabilità e dell’assenza di legge non cessano di crescere: il caos regna attualmente da Kabul ad Addis-Abeba, da Sanaa a Erevan, da Damasco a Tripoli, da Bagdad a Barmako.
- America centrale e del sud:
Il Covid colpisce duramente il subcontinente americano (1/3 dei decessi mondiali nel 2020 a fronte di 1/8 della popolazione mondiale) e lo fa precipitare nella sua peggiore recessione da 120 anni: contrazione del PIL del 7,7% e crescita della povertà del 10% nel 2020 (Le Monde Diplomatique, ottobre 2021). Il caos cresce, come ad Haiti, sprofondata in una situazione disperata, sotto il regno sanguinoso delle gang, e in una miseria orribile; la situazione è ugualmente catastrofica nell’America Centrale: centinaia di migliaia di disperati fuggono dalla miseria e dal caos e minacciano di inondare la frontiera meridionale degli Stati Uniti. La regione subisce delle convulsioni crescenti legate alla decomposizione: rivolte sociali in Colombia e in Cile, confusione populista in Brasile dove la prospettiva di destabilizzazione è ulteriormente accentuata nella prospettiva delle elezioni e di una nuova eventuale candidatura di Lula. Il Messico cerca di giocare le proprie carte (proposta di una nuova Organizzazione del Sudamerica), ma è troppo dipendente dagli USA per affermare le sue proprie aspirazioni. Gli Stati Uniti non sono stati capaci di rovesciare Maduro in Venezuela, a cui Cina, Russia e anche l’Iran continuano ad apportare un sostegno “umanitario”, come anche a Cuba. La Cina si è infiltrata, soprattutto dal 2008, nell’economia della regione ed è diventata un creditore importante di numerosi Stati latino-americani, ma la controffensiva degli USA esercita una forte pressione su alcuni Stati (Panama, Equador, Cile) per indurli a prendere le distanze rispetto alla “attività economica predatrice” di Pechino.
- Europa
Le tensioni fra la NATO e la Russia negli ultimi mesi si sono intensificate: dopo l’incidente del volo Ryanair dirottato e intercettato dalla Bielorussia per arrestare un dissidente rifugiatosi in Lituania, ci sono state in giugno le manovre della NATO nel Mar Nero al largo dell’Ucraina, in cui c’è stato uno scontro tra una fregata inglese e delle navi russe, e, a settembre, manovre congiunte tra gli eserciti russo e bielorusso alla frontiera della Polonia e dei Paesi Baltici a fronte di esercitazioni della NATO in territorio ucraino, una vera provocazione agli occhi di Putin.
4.2. Instabilità crescente
Il crescente caos aumenta anche le tensioni in seno alle singole borghesie e rafforza l’imprevedibilità del loro posizionamento imperialista: è il caso di paesi come il Brasile, dove la catastrofica situazione sanitaria e la gestione irresponsabile del governo Bolsonaro porta a una crisi politica sempre più intensa, e di altri paesi dell’America Latina (instabilità politica in Equador, in Perù, in Colombia e in Argentina). Nel vicino e medio oriente le tensioni fra i clan e le tribù che dirigono l’Arabia Saudita rischiano di destabilizzare il paese, mentre Israele è preda di una opposizione di una larga parte delle frazioni politiche di destra e di sinistra contro Netanyahu e i partiti religiosi, ma anche di pogrom all’interno del paese contro gli arabi “israeliani”. Infine c’è la Turchia che cerca una soluzione alle sue difficoltà politiche ed economiche in una fuga in avanti suicida in avventure imperialiste (dalla Libia all’Azerbaigian).
In Europa la disfatta in Afghanistan e la questione dei sottomarini, insieme al dopo-Brexit accentuano la destabilizzazione di organizzazioni provenienti dal periodo dei blocchi, come la NATO e la UE. In seno alla NATO, alcuni paesi europei hanno sempre più dubbi sull’affidabilità degli USA. Così la Germania non ha ceduto alle pressioni americane rispetto al gasdotto con la Russia nel mar Baltico e la Francia non digerisce l’affronto inflitto dagli USA con l’accordo sui sottomarini con l’Australia, mentre altri paesi europei continuano a vedere negli USA il loro principale protettore. La questione dei rapporti con la Gran Bretagna per implementare gli accordi sulla Brexit (su Irlanda del Nord e quota pesca) dividono i paesi della UE e ci sono forti tensioni tra la Francia e l’Inghilterra. In seno alla stessa UE i flussi di rifugiati continuano ad opporre gli Stati, con paesi come l’Ungheria e la Polonia che rimettono sempre più apertamente in questione i “poteri sovranazionali” definiti dai trattati europei, e l’idra del populismo minaccia la Francia nelle elezioni della primavera 2022.
Caos e accentuazione del ciascuno per sé tendono anche ad ostacolare la continuità dell’azione degli imperialismi maggiori: gli USA si vedono obbligati a mantenere la pressione con bombardamenti aerei regolari sulle milizie sciite che perseguitano le rimanenti forze americane in Iraq; i russi devono fare la parte dei “pompieri” nel confronto armato fra Armenia e Azerbaigian, istigato dal ciascuno per sé imperialista della Turchia; l’estensione del caos nel Corno d’Africa attraverso la guerra civile in Etiopia, con il coinvolgimento del Sudan e dell’Egitto che sostengono la regione del Tigray, e l’Eritrea il governo centrale etiope. Sconvolge in particolare i piani cinesi che facevano dell’Etiopia, vantata come un polo di stabilità, un punto di appoggio per il loro progetto di “nuova via della seta” in Nordafrica e avevano stabilito per questo una base militare a Gibuti. L’impatto continuo delle misure e delle incertezze legate alla pandemia è un ulteriore fattore destabilizzante nella politica imperialista dei diversi Stati: stagnazione della vaccinazione negli USA dopo una partenza alla grande, nuovi confinamenti in intere regioni e mancanza patente di efficacia dei vaccini in Cina, esplosione delle contaminazioni e della mortalità (660.000), diffidenza della popolazione verso i vaccini in Russia (il tasso di vaccinazione è poco più del 30%).
Questa instabilità caratterizza anche le alleanze, come quella tra la Cina e la Russia. Se questi paesi sviluppano una “cooperazione strategica” (formulazione del comunicato cino-russo del 28/06/2021) contro gli USA e in rapporto al Medio Oriente, all’Iran o alla Corea del nord, e organizzano anche delle esercitazioni comuni dei loro eserciti e navi, le loro ambizioni politiche sono radicalmente differenti: l’imperialismo russo mira soprattutto alla destabilizzazione di regioni e non può puntare a più che dei “conflitti congelati” (Siria, Libia, Ucraina, Georgia,…), mentre la Cina ha una politica economica ed imperialista di lungo termine, la “nuova via della seta”. D’altra parte la Russia è perfettamente cosciente del fatto che i percorsi della “via della seta”, per terra e per la via artica, sono direttamente in contrasto con i suoi interessi nella misura in cui minacciano direttamente le zone di influenza russe in Asia centrale e in Siberia e che, sul piano dell’apparato industriale, non può competere con la 2^ economia mondiale, dal momento che il suo PIL corrisponde a quello dell’Italia.
4.3. Sviluppo dell’economia di guerra
“L’economia di guerra (…) non è una politica economica che può risolvere le contraddizioni del capitalismo o creare le fondamenta di una nuova tappa dello sviluppo capitalista. (…) La sola funzione dell’economia di guerra è…la GUERRA! La sua ragion d’essere è la distruzione effettiva e sistematica dei mezzi di produzione e delle forze produttive e la produzione di mezzi di distruzione – la vera logica della barbarie capitalista” (Dalla crisi all’economia di guerra, Révue Internationale n.11, 1977). Il fatto che la prospettiva non sia verso la costruzione di larghe e stabili alleanze, di “blocchi” imperialisti pronti ad impegnarsi in un confronto mondiale e quindi che una guerra mondiale non si ponga attualmente non elimina per niente una accentuazione dell’economia di guerra. Sottomettere l’economia alle necessità militari pesa fortemente sull’economia, ma questa irrazionalità non è una scelta: è il prodotto del vicolo cieco in cui sta il capitale e che la decomposizione sociale accelera.
La corsa agli armamenti divora somme fenomenali nel caso degli USA, che hanno ancora un vantaggio su questo piano, ma anche della Cina che ha aumentato in maniera significativa le sue spese militari durante gli ultimi due decenni. “L'aumento del 2,6% delle spese militari mondiali arriva nell'anno in cui il PIL mondiale è diminuito del 4,4% (proiezione del Fondo Monetario Internazionale, ottobre 2020), principalmente per l'impatto economico della pandemia di Covid-19. Conseguentemente le spese militari in percentuale sul PIL hanno raggiunto una media mondiale del 2,4% nel 2020, contro il 2,2% del 2019. Si tratta del più forte aumento annuo di questo tipo di spese dopo la crisi economica e finanziaria del 2009” (comunicato stampa del SIPRI, aprile 2021). Questa corsa non riguarda solo le armi convenzionali e nucleari, ma anche la militarizzazione sempre più netta dei programmi spaziali e l'estensione della corsa in zone una volta risparmiate, come le regioni artiche.
Vista l'espansione terrificante del ciascuno per sé imperialista, la corsa agli armamenti non si limita agli imperialismi maggiori, ma coinvolge tutti gli Stati, in particolare nel continente asiatico che conosce una crescita significativa delle spese militari; l'inversione del peso rispettivo dell'Asia e dell'Europa fra il 2000 e il 2018 è fenomenale: nel 2000 l'Europa e l'Asia rappresentavano rispettivamente il 27% e il 18% delle spese mondiali di difesa. Nel 2018 questo rapporto si è rovesciato, l'Asia ne rappresenta il 28% e l'Europa il 20% (dati del SIPRI).
Questa militarizzazione si esprime oggi anche attraverso uno sviluppo impressionante delle attività cibernetiche degli Stati (attacchi di hacker, spesso legati direttamente o indirettamente agli Stati, come l'attacco cibernetico di Israele contro i siti nucleari iraniani), come pure dell'intelligenza artificiale e della robotica militare (robot, droni), che giocano un ruolo sempre più importante nelle attività di spionaggio o nelle operazioni militari.
Tuttavia, “la vera chiave della costituzione dell'economia di guerra (…) [è] la sottomissione fisica e/o ideologica del proletariato allo Stato, [il] grado di controllo che lo Stato ha sulla classe operaia”. (Idem, Révue Internationale n.11). Ebbene, questo aspetto è lungi dall'essere acquisito. Questo spiega perché l'accelerazione della corsa agli armamenti va di pari oggi con una forte reticenza tra le maggiori potenze imperialiste (USA, Cina, Russia, Gran Bretagna o Francia) all'impegno massiccio di soldati sul terreno (boots on the ground) per timore dell'impatto di un ritorno massiccio di “body bags” (bare) sulla popolazione e in particolare sulla classe operaia. Va anche rilevato l'uso di milizie private (organizzazione Wagner per la Russia, Blackwater/Academi per gli USA...) o l'uso di milizie locali per svolgere missioni militari: utilizzazione di milizie sunnite siriane da parte della Turchia in Libia e in Azerbaigian, di milizie curde da parte degli USA in Siria e in Iraq, degli Hezbollah o delle milizie sciite irachene da parte dell'Iran in Siria, di milizie sudanesi da parte dell'Arabia Saudita nello Yemen, di una forza regionale (Ciad, Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso) “ingaggiate” dalla Francia e dalla UE nella regione del Liptako,...
5. Impatto sul proletariato e sulla sua lotta
Quindi la prospettiva è a una moltiplicazione di conflitti barbari e sanguinosi:
“11. Nello stesso tempo proliferano i massacri causati da innumerevoli piccole guerre, mentre il capitalismo, nella sua fase finale, sprofonda in un ciascuno per se imperialista sempre più irrazionale”.
“13. Questo non significa che noi viviamo in un’era di più grande sicurezza rispetto all’epoca della guerra fredda, sottoposta alla minaccia di un Armageddon nucleare. Al contrario, se la fase di decomposizione è marcata da una perdita di controllo crescente da parte della borghesia, questo riguarda anche gli enormi mezzi di distruzione – nucleari, convenzionali, biologici e chimici – che sono stati accumulati dalla classe dirigente, e che sono ora più largamente distribuiti attraverso un numero di Stati-nazione molto più importante che in precedenza”[3].
Nella misura in cui noi sappiamo che la borghesia è capace di ritorcere I peggiori effetti della decomposizione contro il proletariato, dobbiamo essere coscienti del fatto che questo contesto di barbarie mortale non faciliterà per niente la lotte operaia:
- L'accelerazione della decomposizione provocherà guerre senza fine un po' dappertutto nel mondo, una moltiplicazione di massacri e della miseria, con milioni di rifugiati in fuga senza fine, un caos sociale indescrivibile e una distruzione dell'ambiente e tutto ciò aumenterà il sentimento di paura e di demoralizzazione nelle file del proletariato.
- I diversi conflitti armati saranno utilizzati per scatenare intense campagne di difesa della democrazia, dei diritti umani, dei diritti delle donne, come sta accadendo con l'Afghanistan, l'Etiopia, la Siria o l'Iraq.
Di conseguenza il nostro intervento deve denunciare la progressione della barbarie e il carattere insidioso della situazione, dobbiamo costantemente mettere il proletariato in guardia contro la sottostima dei pericoli che la situazione caotica dei conflitti genera nel contesto del ciascuno per sé come dinamica dominante:
“Lasciata alla sua propria logica, alle sue ultime conseguenze, essa [la decomposizione] conduce l’umanità allo stesso risultato di una guerra mondiale. Essere annientati brutalmente da una pioggia di bombe termonucleari in una guerra generalizzata o dall’inquinamento, la radioattività delle centrali nucleari, la fame, le epidemie ed i massacri delle differenti guerre locali (dove potrebbe anche essere usata l’arma atomica), il risultato è lo stesso. La sola differenza tra queste due forme di annientamento è che la prima è più rapida mentre la seconda è più lenta e quindi molto più sofferta”[4].
[2] Risoluzione sulla situazione internazionale (2019): conflitti imperialisti, vita della borghesia, crisi economica, 23° Congresso della CCI, 2019, punto 13.