Risoluzione sulla situazione internazionale (2021)

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Questa risoluzione affronta tutti i maggiori elementi della situazione mondiale: l’accelerazione della decomposizione, l’acuirsi delle rivalità imperialiste, una crisi economica senza precedenti, e le prospettive della lotta di classe.

Preambolo. Questa risoluzione si situa in continuità con il rapporto sulla decomposizione presentato al 22° Congresso della CCI, con la risoluzione sulla situazione internazionale presentata al 23° congresso, e con il rapporto su pandemia e decomposizione presentato al 24° congresso. Essa si basa sull’idea che non solo la decadenza del capitalismo passa per differenti fasi o stati, ma che alla fine degli anni ’80 essa ha raggiunto la sua fase ultima, la fase della decomposizione; anche la decomposizione stessa ha una storia, e un obiettivo entrale di questi testi è di mettere alla prova il quadro teorico della decomposizione rispetto all’evoluzione della situazione mondiale. Questi testi hanno mostrato che la maggior parte degli avvenimenti importanti degli ultimi  tre decenni hanno in effetti confermato la validità di questo quadro, come lo testimoniano l’esacerbazione del ciascuno per sé a livello internazionale, il rimbalzo dei fenomeni della decomposizione verso i centri del capitalismo mondiale attraverso lo sviluppo del terrorismo e la crisi dei rifugiati, l’ascesa del populismo e la perdita di controllo politico da parte della classe dirigente, la putrefazione progressiva dell’ideologia attraverso la propagazione della ricerca del capro espiatorio, del fondamentalismo religioso e delle teorie complottiste. E come la fase di decomposizione è l’espressione concentrata di tutte le contraddizioni del capitale, soprattutto nell’epoca del suo declino storico, così la attuale pandemia di COvid-19 è la distillazione di tutte le manifestazioni-chiave della decomposizione, e un fattore attivo della sua accelerazione.

 

La fase finale del declino capitalista e l’accelerazione del caos

1. La pandemia di Covid-19, la prima di una tale ampiezza dopo l’epidemia dell’influenza spagnola, è il momento più importante nell’evoluzione della decomposizione capitalista dopo l’apertura di questo periodo nel 1989. L’incapacità della classe dirigente a impedire dai 7 ai 12 milioni e più di morti che ne risultano conferma che il sistema capitalista mondiale, se lasciato libero, trascina l’umanità verso l’abisso della barbarie e verso la sua distruzione, e che solo la rivoluzione proletaria mondiale può stoppare questa deriva e condurre l’umanità verso un altro avvenire.

2. La CCI è praticamente sola a difendere la teoria della decomposizione. Altri gruppi della Sinistra Comunista la rigettano completamente, o perché, come nel caso dei bordighisti, non accettano che il capitalismo possa essere un sistema in declino (o, nel migliore dei casi, sono incoerenti e ambigui su questo punto); o, come per la Tendenza Comunista Internazionalista, perché parlare di una fase “finale” del capitalismo suona troppo apocalittico, o perché definire la decomposizione come una discesa verso il caos sarebbe una deviazione dal materialismo che, secondo loro, cerca di trovare le radici di ogni fenomeno nell’economia e soprattutto nella tendenza alla caduta del saggio di profitto. Tutte queste correnti sembrano ignorare che la nostra analisi è nella continuità della Piattaforma dell’Internazionale Comunista del 1919, che non solo insisteva sul fatto che la guerra imperialista mondiale del 1914-18 annunciava l’entrata del capitalismo nella “epoca della disgregazione del capitalismo, del suo dissolvimento interno, l’epoca della rivoluzione comunista del proletariato”, ma sottolineava anche che “l’antico ‘ordine’ capitalistico non esiste più, non può più esistere. Il risultato finale del processo produttivo capitalistico è il caos, e questo caos può essere superato soltanto dalla più grande classe produttrice: la classe operaia. Essa ha il compito di creare il vero ordine – l’ordine comunista”.  Così il dramma a cui l’umanità è confrontata si pone effettivamente in termini di ordine contro caos. E la minaccia di un crollo caotico era legata alla “anarchia del modo di produzione capitalista”, in altri termini ad un elemento fondamentale del sistema stesso – un sistema che, secondo il marxismo, e ad un livello qualitativamente più elevato rispetto ad ogni altro modo di produzione precedente, implica che i prodotti del lavoro umano diventino una potenza estranea che si erge al di sopra e contro i loro creatori. La decadenza del sistema, causata dalle sue insolubili contraddizioni, segna una nuova spirale in questa perdita di controllo. E come spiegato nella Piattaforma dell’Internazionale Comunista, la necessità di cercare di superare l’anarchia capitalista all’interno di ogni Stato-nazione – attraverso il monopolio e soprattutto con l’intervento dello Stato – non fa che spingere questa anarchia verso nuove vette su scala mondiale, con culmine nella guerra imperialista. Così, mentre il capitalismo può a certi livelli e per certe fasi frenare la sua innata tendenza al caos (per esempio, mediante la mobilitazione per la guerra durante gli anni ’30, o nel periodo del boom economico del dopoguerra), la tendenza più di fondo è quella della “disintegrazione interna” che per l’Internazionale Comunista caratterizza la nostra epoca.

3. Mentre il Manifesto dell’IC parla di una nuova “epoca”, c’erano in seno all’Internazionale delle tendenze a considerare la catastrofica situazione del mondo del dopoguerra come una crisi finale in termini immediati, piuttosto che come un’intera era di catastrofi che avrebbe potuto durare parecchi decenni. Questo è un errore in cui i rivoluzionari sono caduti in diversi momenti (a causa di un’analisi sbagliata ma anche perché non si può prevedere con certezza il momento preciso in cui si produce un cambiamento di portata storica): nel 1848, quando il Manifesto Comunista proclamava già che l’involucro del capitale era diventato troppo stretto per contenere le forze produttive che aveva messo in movimento; nel 1919-20, con la teoria del crollo brutale del capitalismo, sviluppata in particolare dalla Sinistra Comunista tedesca; nel 1938, con la posizione di Trotsky secondo cui le forze produttive avevano smesso di crescere. Anche la CCI ha sottostimato la capacità del capitalismo di estendersi e di svilupparsi a modo suo, anche in un contesto generale di progressivo declino, in particolare con la Cina stalinista dopo il crollo del blocco sovietico. Tuttavia questi errori sono il prodotto di una interpretazione immediatista della crisi capitalista, e non un difetto inerente alla teoria della decadenza in quanto tale, che vede il capitalismo di questa epoca come un ostacolo crescente allo sviluppo delle forze produttive e non come una barriera assoluta. Il capitalismo è in declino da più di un secolo, e riconoscere che noi tocchiamo i limiti del sistema è del tutto coerente con la comprensione del fatto che la crisi economica, al di là di alti e bassi, è essenzialmente diventata permanente; che i mezzi di distruzione hanno non solo raggiunto un livello tale che potrebbero distruggere ogni vita sul pianeta, ma che essi sono nelle mani di un “ordine” mondiale sempre più instabile; che il capitalismo ha provocato un disastro ecologico planetario senza precedenti nella storia umana. Insomma il riconoscimento del fatto che siamo effettivamente all’ultimo stadio della decadenza capitalista è basata su una valutazione lucida della realtà. Naturalmente questo va considerato su una scala di tempi storica e non sul giorno per giorno. Ciò significa che questa fase finale è irreversibile e non ci può essere altra alternativa storica che il Comunismo o la distruzione dell’umanità. E’ questa l’alternativa a cui è confrontata la nostra epoca.

4. La pandemia di Covid-19, contrariamente a quanto propagandato dalla classe dirigente, non è un avvenimento puramente “naturale”, ma è il risultato di una combinazione di fattori naturali, sociali e politici, tutti legati al funzionamento del sistema capitalista in decomposizione. Il fattore “economico” è certamente cruciale, e a più di un livello. E’ la crisi economica, la caccia disperata del profitto, che ha spinto il capitale a invadere ogni parte della superficie del globo, a impadronirsi di quello che Adam Smith chiamava “il dono gratuito” della natura, a distruggere gli ultimi santuari di vita selvatica aumentando considerevolmente il rischio di zoonosi. A sua volta il crack finanziario del 2008 ha provocato una riduzione brutale degli investimenti nella ricerca di nuove malattie, nelle attrezzature e nei trattamenti sanitari, cosa che ha aumentato in maniera esponenziale l’impatto mortale del Coronavirus, una situazione che è stata ancora aggravata dagli attacchi massicci al sistema sanitario (riduzione del numero di letti e di personale, ecc.) che è scoppiato al momento della pandemia. E l’intensificazione della concorrenza, del “ciascuno per sé” tra le imprese e le nazioni a livello mondiale ha ritardato di molto la fornitura di materiali di sicurezza e di vaccini. Contrariamente alle speranze utopistiche di certe parti della classe dirigente, la pandemia non darà luogo a un ordine mondiale più armonioso una volta che essa sarà stata sconfitta. Non solo perché questa pandemia non è probabilmente che un segno precursore di future, più gravi pandemie, dato che le condizioni fondamentali che l’hanno generata non possono essere eliminati dalla borghesia, ma anche perché la pandemia ha considerevolmente aggravato una recessione economica mondiale che era già imminente prima che la pandemia scoppiasse. Il risultato sarà il contrario dell’armonia, perché le economie nazionali cercheranno di strangolarsi reciprocamente nella lotta per i mercati e le risorse che si riducono. Questa concorrenza esacerbata si esprimerà certamente anche a livello militare. E il “ritorno al normale” della concorrenza capitalista farà pesare nuovi fardelli sulle spalle degli sfruttati del pianeta, che sopporteranno l’essenziale degli sforzi del capitalismo per recuperare una parte dei giganteschi debiti che ha contratto per cercare di gestire la crisi.

5. Nessuno Stato può pretendere di essere un modello di gestione della pandemia. Se certi Stati asiatici sono riusciti, in un primo tempo, a farvi fronte in maniera più efficace (anche se paesi come la Cina hanno falsificato le cifre e la realtà dell’epidemia), è grazie alla loro esperienza, sul piano sociale e culturale, di confronto con le pandemie, dato che questo continente ha storicamente costituito il terreno di sviluppo di nuove malattie, e soprattutto perché questi Stati hanno conservato i mezzi, le istituzioni e le procedure di coordinamento messe in campo durante la pandemia di SARS nel 2003. La propagazione del virus a livello planetario, la generazione internazionale di nuove varianti rivelano il livello di impotenza della borghesia, in particolare la sua incapacità ad adottare un approccio unificato e coordinato (come dimostrato dal recente fallimento della proposta di un trattato per la lotta contro le pandemie) e a fare in maniera che l’insieme dell’umanità sia protetta con i vaccini.

6. La pandemia, prodotto della decomposizione del sistema, si rivela così una forza importante nel prosieguo dell’accelerazione di questa decomposizione. In più il suo impatto sulla nazione più potente della terra, gli Stati Uniti, conferma quanto già notato nel rapporto del 22° congresso: la tendenza degli effetti della decomposizione a tornare con più forza nel cuore stesso del sistema capitalistico mondiale. Infatti gli Stati Uniti sono ora al “centro” del processo mondiale di decomposizione. La catastrofica gestione della crisi del Covid da parte dell’amministrazione populista di Trump ha certamente giocato un ruolo importante nel fatto che gli Stati Uniti conoscono i tassi di mortalità più elevati del mondo per quanto riguarda questa malattia. Allo stesso tempo l’estensione delle divisioni in seno alla classe dirigente americana è stata messa a nudo dalle contestate elezioni di novembre 2020, e soprattutto dall’assalto al Campidoglio da parte dei partigiani di Trump, con l’incoraggiamento di Trump e dei suoi collaboratori. Quest’ultimo avvenimento dimostra che le divisioni interne che scuotono gli Stati Uniti attraversano l’insieme della società. Anche se Trump è stato estromesso dal governo, il trumpismo resta una forza potente, pesantemente armata, che si esprime altrettanto bene nelle piazze come nelle urne. E con l’insieme dell’ala sinistra del capitale mobilitata dietro la bandiera dell’antifascismo c’è un pericolo reale che la classe operaia negli Stati Uniti venga coinvolta nei violenti conflitti tra le fazioni rivali della borghesia.

7. Gli avvenimenti negli Stati Uniti mettono anche in evidenza l’avanzata della decomposizione delle strutture ideologiche del capitalismo, dove ancora una volta questo paese “mostra la via”. L’arrivo al potere dell’amministrazione populista di Trump, la potente influenza del fondamentalismo religioso, la diffidenza crescente nei confronti della scienza, trovano le loro radici in alcuni fattori particolari della storia del capitalismo americano, ma lo sviluppo della decomposizione e in particolare lo scoppio della pandemia ha impregnato la vita politica di ogni sorta di idee irrazionali, che riflettono precisamente la totale assenza di prospettiva per il futuro offerta dalla società esistente. In particolare gli Stati Uniti sono diventati il punto nodale di irraggiamento della “teoria del complotto” nell’insieme del mondo capitalista avanzato, in particolare attraverso internet e i social media, che hanno fornito i mezzi tecnologici che hanno permesso di indebolire le fondamenta di ogni idea di verità oggettiva a un livello che lo stalinismo e il nazismo potevano solo sognare. Anche se si presenta sotto diverse forme, la teoria del complotto ha certi tratti comuni: la visione di élite segrete che dirigono la società di nascosto, un rigetto del metodo scientifico e una profonda diffidenza rispetto ad ogni discorso ufficiale. Contrariamente all’ideologia dominante della borghesia, che presenta la democrazia e il potere statale esistente come i veri rappresentanti della società, la teoria del complotto ha come centro di gravità l’odio verso le élite dominanti, odio che indirizza contro il capitale finanziario e la facciata democratica classica del capitalismo di Stato totalitario. Questo è quello che i rappresentanti del movimento operaio del passato qualificarono come “socialismo degli imbecilli” (August Bebel, in riferimento all’antisemitismo) – un errore ancora comprensibile prima della Prima Guerra mondiale, ma che sarebbe pericoloso oggi. Il populismo della teoria del complotto non è un tentativo contorto di approccio del socialismo o qualcosa che somigli a una coscienza della classe proletaria. Una delle sue principali fonti è la borghesia stessa: quella parte della borghesia che non accetta di essere esclusa appunto dai circoli elitari della sua propria classe, sostenuta da altre parti della borghesia che hanno perduto o stanno per perdere la loro precedente posizione centrale. Le masse che questo tipo di populismo attira dietro di sé, lungi dall’essere animate da una qualunque volontà di sfidare la classe dominante, sperano, identificandosi con la lotta per il potere di quelli che essi sostengono, di condividere in qualche maniera questo potere, o almeno di essere da lui favorite a spese di altri.

8. Se la progressione della decomposizione capitalista, parallelamente all’acuirsi caotico delle rivalità imperialiste, prende principalmente la forma di una frammentazione politica e di una perdita di controllo da parte della classe dirigente, questo non significa che la borghesia non possa più fare ricorso al totalitarismo di Stato nei suoi sforzi per mantenere la coesione della società. Al contrario, più la società tende a disgregarsi, più la borghesia ha bisogno di appoggiarsi sul potere centralizzatore dello Stato, che è il principale strumento della più machiavellica delle classi dominanti. La reazione delle frazioni della classe dirigente più responsabili verso gli interessi generali del capitale nazionale e del suo Stato di fronte all’ascesa del populismo ne è un esempio. L’elezione di Biden, sostenuta da una enorme mobilitazione dei mezzi di informazione, di certe parti dell’apparato politico e anche dell’esercito e dei servizi segreti, esprime questa reale controtendenza al pericolo di disintegrazione sociale e politica molto chiaramente incarnata dal trumpismo. Nel breve termine tali “successi” possono funzionare come un freno al caos sociale crescente. Di fronte alla crisi del Covid-19, i lockdown senza precedenti, ultimo risorsa per frenare la propagazione irresistibile della malattia, il ricorso massiccio all’indebitamento statale  per preservare un minimo di livello di vita nei paesi avanzati, la mobilitazione delle risorse scientifiche per trovare un vaccino, dimostrano il bisogno della borghesia di preservare l’immagine dello Stato come protettore della popolazione, il suo rifiuto di perdere la sua credibilità e la sua autorità di fronte alla pandemia. Ma sul lungo termine questo ricorso al totalitarismo di Stato tende ad acuire ancora di più le contraddizioni del sistema. La semi-paralisi dell’economia e l’accumulazione del debito non possono avere altro risultato che di accelerare la crisi economica mondiale, mentre a livello sociale l’aumento massiccio dei poteri della polizia e della sorveglianza dello Stato introdotta per far rispettare le leggi del confinamento – aumento inevitabilmente utilizzato per giustificare la repressione di ogni forma di protesta e di dissenso – aggrava visibilmente la diffidenza verso il potere politico, che si esprime principalmente sul terreno antiproletario dei “diritti del cittadino”.

9. La natura evidente della decomposizione politica ed ideologica della prima potenza mondiale non significa che gli altri centri del capitalismo mondiale siano capaci di costituire delle fortezze alternative di stabilità. Ancora una volta questo è più chiaro nel caso della Gran Bretagna, che è stata colpita simultaneamente dai più elevati tassi di mortalità per Covid in Europa e dai primi sintomi della mutilazione della Brexit, e che è confrontata a un pericolo reale di esplosione nelle “nazioni” che la costituiscono. I ripugnanti dissensi attuali tra la Gran Bretagna e la UE relativamente all’efficacia e alla distribuzione dei vaccini offrono una prova supplementare che la principale tendenza della politica borghese mondiale oggi va nella direzione di una frammentazione crescente, e non di unità di fronte a un “nemico comune”. La stessa Europa non è stata risparmiata da queste tendenze centrifughe, non solo rispetto alla gestione della pandemia, ma anche intorno alla questione dei “diritti dell’uomo” e della democrazia in paesi come la Polonia e l’Ungheria. E’ notevole che anche paesi centrali come la Germania, precedentemente considerata come un’oasi di relativa stabilità politica e che ha potuto basarsi sulla sua forza economica, sia adesso toccata da un caos politico crescente. L’accelerazione della decomposizione nel centro storico del capitalismo si caratterizza con una perdita di controllo e con difficoltà crescenti a generare una omogeneità politica.

Dopo la perdita della sua seconda più importante economia, anche se la UE non corre il rischio immediato di una scissione maggiore, tali minacce continuano ad aleggiare sul sogno di un’Europa unita. E mentre la propaganda dello Stato cinese mette in evidenza la disunione e l’incoerenza crescenti delle “democrazie”, presentandosi come un bastione di stabilità mondiale, il ricorso crescente di Pechino alla repressione interna, come contro il movimento “democratico” a Hong Kong e i mussulmani uiguri, è nei fatti la prova che la Cina è una bomba a scoppio ritardato. La crescita straordinaria della Cina è essa stessa un prodotto della decomposizione. L’apertura economica durante il periodo di Deng negli anni ’80 ha mobilitato enormi investimenti, provenienti essenzialmente dagli Stati Uniti, dall’Europa e dal Giappone. Il massacro di Tienanmen nel 1989 ha mostrato chiaramente che questa apertura economica è stata messa in atto da un apparato politico inflessibile che ha potuto evitare la sorte dello stalinismo nel blocco russo solo attraverso una combinazione di terrore statale, sfruttamento impietoso della forza lavoro che sottomette centinaia di milioni di lavoratori a uno stato permanente di lavoratori migranti e di crescita economica frenetica le cui basi sembrano ora sempre più fragili. Il controllo totalitario dell’insieme del corpo sociale, l’inasprimento repressivo a cui si dedica la frazione stalinista di Xi Jinping non rappresentano una espressione di forza ma al contrario una manifestazione di debolezza dello Stato, la cui coesione è messa in pericolo dall’esistenza di forze centrifughe in seno alla società e di importanti lotte intestine nella classe dominante.

La marcia del capitalismo verso la distruzione dell’umanità

10. Contrariamente a una situazione, tipo anni ’30, in cui la borghesia è capace di mobilitare la società per la guerra, il ritmo esatto e le forme della dinamica del capitalismo in decomposizione verso la distruzione dell’umanità sono più difficili da prevedere perché essi sono il prodotto della convergenza di diversi fattori, di cui alcuni possono essere parzialmente nascosti. Il risultato finale, come sottolineato nelle Tesi sulla decomposizione, è lo stesso: “Lasciata alla sua propria logica, alle sue ultime conseguenze, essa [la decomposizione] conduce l’umanità allo stesso risultato di una guerra mondiale. Essere annientati brutalmente da una pioggia di bombe termonucleari in una guerra generalizzata o dall’inquinamento, la radioattività delle centrali nucleari, la fame, le epidemie ed i massacri delle differenti guerre locali (dove potrebbe anche essere usata l’arma atomica), il risultato è lo stesso. La sola differenza tra queste due forme di annientamento è che la prima è più rapida mentre la seconda è più lenta e quindi molto più sofferta.”  Oggi i contorni di questa dinamica di annientamento si precisano. Le conseguenze della distruzione della natura da parte del capitalismo sono sempre più innegabili, come anche l’incapacità della borghesia mondiale, a dispetto di tutte le conferenze mondiali e le promesse di andare verso un’economia “verde”, di arrestare un processo che è inestricabilmente legato al bisogno del capitalismo di penetrare ogni angolo del pianeta nella corsa competitiva del processo di accumulazione. La pandemia di Covid è probabilmente l’espressione più significativa finora di questo profondo squilibrio tra l’uomo e la natura, ma altri segnali d’allarme si aggiungono, dalla fusione dei ghiacciai polari agli incendi devastatori in Australia e in California, passando per l’inquinamento degli oceani causato dai residui della produzione capitalista.

11. Nello stesso tempo proliferano i massacri causati da innumerevoli piccole guerre, mentre il capitalismo, nella sua fase finale, sprofonda in un ciascuno per se imperialista sempre più irrazionale. L’agonia di dieci anni della Siria, un paese oggi completamente rovinato da un conflitto che coinvolge almeno cinque campi rivali, è forse l’espressione più eloquente di questo terrificante caos, ma si possono vedere manifestazioni simili in Libia, nel Corno d’Africa e nello Yemen, guerre che sono state accompagnate e aggravate dall’emergere di potenze regionali come l’Iran, la Turchia e l’Arabia Saudita, nessuna delle quali vuole accettare la disciplina delle principali potenze mondiali: queste potenze di secondo o terzo ordine possono formare delle alleanze contingenti con gli Stati più potenti per poi ritrovarsi in campi opposti in altre situazioni (vedi il caso della Turchia e della Russia nella guerra in Libia). I ricorrenti scontri militari in Israele/Palestina sono un’ulteriore testimonianza della natura insolubile della maggioranza di questi conflitti. In questo caso il massacro di civili è stato acuito dallo sviluppo di un’atmosfera di pogrom in Israele, cosa che mostra l’impatto della decomposizione a livello militare e sociale. Allo stesso tempo assistiamo a un indurimento dei conflitti tra le potenze mondiali. L’acuirsi delle rivalità tra gli Stati Uniti e la Cina era già evidente con Trump, ma l’amministrazione Biden continua nella stessa direzione anche se con pretesti ideologici differenti, come le violazioni dei diritti dell’uomo in Cina; contemporaneamente la nuova amministrazione americana ha annunciata che non si farà prendere in giro dalla Russia, che ha perduto il suo punto d’appoggio alla Casa Bianca. E anche se Biden ha promesso di reinserire gli Stati Uniti in un certo numero di istituzioni e di accordi internazionali (sul cambiamento climatico, il programma nucleare iraniano, la NATO, …) questo non significa che gli Stati Uniti rinunceranno alla loro capacità di agire da soli per difendere i loro interessi. Gli attacchi militari contro le milizie filo-iraniane in Siria da parte degli Usa dopo qualche settimana dall’elezione di Biden costituiscono una dichiarazione evidente di queste intenzioni. Il prosieguo del ciascuno per sé renderà sempre più difficile, se non impossibile, agli Stati Uniti di imporre la loro leadership, a conferma delle caratteristiche disgregatrici della decomposizione.

12. In questo panorama caotico non c’è alcun dubbio che il confronto crescente tra gli Stati Uniti e la Cina tende ad essere in primo piano. La nuova amministrazione ha così dimostrato la sua propensione alla “inclinazione verso l’est” (ormai sostenuta dal governo conservatore in Gran Bretagna) che era già un asse centrale della politica estera di Obama. Questo si è concretizzato con lo sviluppo del “Quad”, un’alleanza esplicitamente anticinese tra gli Stati Uniti, il Giappone, l’India e l’Australia. Tuttavia questo non significa che stiamo andando verso la formazione di blocchi stabili e una guerra mondiale generalizzata. La marcia verso la guerra mondiale è ancora ostruita dalla potente tendenza al ciascuno per sé e al caos a livello imperialista, mentre nei paesi capitalisti centrali il capitalismo non dispone ancora degli elementi politici e ideologici – in particolare una sconfitta politica del proletariato – che potrebbero unificare la società e spianare il cammino verso la guerra mondiale. Il fatto che noi viviamo ancora in un mondo essenzialmente multipolare è in particolare messo in evidenza dalle relazioni tra la Russia e la Cina. Se la Russia si è mostrata molto disposta ad allearsi alla Cina su delle questioni specifiche, generalmente in opposizione agli Stati Uniti, essa non è meno cosciente del pericolo di subordinarsi al suo vicino orientale, ed è uno dei principali oppositori della “Nuova via della seta” della Cina che esprime la volontà di egemonia imperialista di quest’ultima.

13. Questo non significa che noi viviamo in un’era di più grande sicurezza rispetto all’epoca della guerra fredda, sottoposta alla minaccia di un Armageddon nucleare. Al contrario, se la fase di decomposizione è marcata da una perdita di controllo crescente da parte della borghesia, questo riguarda anche gli enormi mezzi di distruzione – nucleari, convenzionali, biologici e chimici – che sono stati accumulati dalla classe dirigente, e che sono ora più largamente distribuiti attraverso un numero di Stati-nazione molto più importante che in precedenza. Anche se non assistiamo a una marcia controllata verso una guerra condotta da blocchi militari disciplinati, non possiamo escludere il pericolo di fiammate militari unilaterali o anche di incidenti spaventosi che segnerebbero una nuova accelerazione allo scivolamento verso la barbarie.

Una crisi economica senza precedenti

14. Per la prima volta nella storia del capitalismo al di fuori di una situazione di guerra mondiale l’economia si è trovata direttamente e profondamente toccata da un fenomeno – la pandemia di Covid-19 – che non è legato direttamente alle contraddizioni dell’economia capitalista. L’ampiezza e l’importanza della pandemia, prodotto dell’agonia di un sistema in piena decomposizione e diventato completamente obsoleto, illustrano il fatto senza precedenti che il fenomeno della decomposizione capitalista intacca ormai anche l’insieme dell’economia capitalista in maniera massiccia e su scala mondiale.

Questa irruzione degli effetti della decomposizione nella sfera economica influenza direttamente l’evoluzione della nuova fase di crisi aperta, inaugurando una situazione totalmente inedita nella storia del capitalismo. Gli effetti della decomposizione, alterando profondamente i meccanismi del capitalismo di Stato messi in atto finora per “accompagnare” e limitare l’impatto della crisi, introducono nella situazione un fattore di instabilità e di fragilità, e di incertezza crescente.

Il caos che si impadronisce dell’economia capitalista conferma l’idea di Rosa Luxemburg secondo cui il capitalismo non conoscerà un crollo puramente economico: “Con quanta maggior potenza il capitale, grazie al militarismo, fa piazza pulita, in patria e all’estero, degli strati non-capitalistici e deprime il livello di vita di tutti i ceti che lavorano, tanto più la storia quotidiana dell’accumulazione del capitale sulla scena del mondo si tramuta in una catena continua di catastrofi e convulsioni politiche e sociali, che, insieme con le periodiche catastrofi economiche rappresentate dalle crisi, rendono impossibile la continuazione dell’accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia internazionale al dominio del capitale, prima ancora che, sul terreno economico, esso sia andato ad urtare contro le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo.” (L’accumulazione del capitale, cap. 32, Edizioni Einaudi, pag. 469).

15. Colpendo un sistema capitalista che già dall’inizio del 2018 entrava in un netto rallentamento, la pandemia ha rapidamente concretizzato la predizione del 23° congresso della CCI secondo cui noi ci dirigiamo verso una nuova caduta nella crisi aperta.

La violenta accelerazione della crisi economica – e il terrore della borghesia – si misurano attraverso la muraglia di debito elevata in tutta fretta per preservare il sua apparato produttivo dal fallimento e mantenere un minimo di coesione sociale.

Una delle manifestazioni più importanti della gravità della crisi attuale, contrariamente ai momenti di crisi economica aperta e alla crisi del 2008, risiede nel fatto che i paesi centrali (Germania, Cina e Stati Uniti) sono stati tutti colpiti simultaneamente e sono fra i più toccati dalla recessione con un forte ribasso del tasso di crescita nel 2020. Gli Stati più deboli a loro volta vedono le loro economie strangolate dall’inflazione, dalla crollo del valore delle loro monete e dalla pauperizzazione.

Dopo quattro decenni di ricorso al credito e all’indebitamento per contrastare la crescente tendenza alla sovrapproduzione, attraversati da recessioni sempre più profonde e da riprese sempre più limitate, la crisi del 2007-2009 aveva già marcato una tappa nell’infognamento del sistema capitalista nella sua crisi irreversibile. Se l’intervento massiccio degli Stati ha potuto salvare il sistema bancario dal fallimento completo spingendo il debito a livelli ancora più vertiginosi, le cause della crisi del 2007-11 non sono state ancora superate. Le contraddizioni della crisi sono passate a uno stadio superiore con il peso schiacciante del debito sugli stessi Stati. I tentativi di rilancio delle economie non sono sfociati in una vera ripresa: fatto senza precedenti dopo la Seconda Guerra Mondiale, al di fuori degli Stati Uniti, della Cina e, in misura minore, della Germania, i livelli di produzione di tutti i grandi paesi del mondo sono rimasti fermi o anche ridotti tra il 2013 e il 2018. L’estrema fragilità di questa “ripresa”, che conteneva tutte le condizioni di un nuovo significativo deterioramento dell’economia mondiale, presagiva già la situazione attuale.

Nonostante l’ampiezza storica dei piani di rilancio e stante il caotico sfacelo dell’economia non è ancora possibile prevedere come – e in che misura – la borghesia arriverà a stabilizzare la situazione, caratterizzata da ogni sorta di incertezze, con in primo luogo l’evoluzione della pandemia stessa.

Contrariamente a quello che la borghesia ha potuto fare nel 2008, riunendo il G7 e il G20, organismi che riuniscono i principali Stati capitalisti, e mettendosi d’accordo su una risposta coordinata alla crisi del credito, oggi ogni capitale nazionale reagisce in ordine disperso, senza nessuna preoccupazione se non il rilancio della propria macchina economica e della propria sopravvivenza sul mercato mondiale, senza concertazione tra le principali componenti del sistema capitalista. Il ciascuno per sé predomina in maniera decisiva.

L’apparente eccezione del piano europeo di rilancio, che comprende la mutualizzazione dei debiti tra i paesi dell’UE, si spiega con la coscienza dei due principali Stati di questa della necessità di un minimo di cooperazione tra di loro come condizione per evitare una destabilizzazione maggiore della UE, per far fronte ai loro principali rivali cinese e americano, e scongiurare il rischio di un declassamento accelerato della loro posizione nell’arena mondiale.

La contraddizione fra la necessità di contenere la pandemia e di evitare la paralisi della produzione ha portato alla “guerra delle mascherine” e alla “guerra dei vaccini”. Questa guerra dei vaccini, riguardante la loro produzione e la loro distribuzione, è un’immagine del crescente disordine in cui sprofonda l’economia mondiale.

Dopo il crollo del blocco dell’est, la borghesia ha fatto di tutto per mantenere una certa collaborazione fra gli Stati, in particolare appoggiandosi sugli organi di regolazione internazionale ereditati dal periodo dei blocchi imperialisti. Questo quadro della “globalizzazione” ha permesso di limitare l’impatto della fase della decomposizione sull’economia, spingendo all’estremo la possibilità di “associare” le nazioni a diversi livelli dell’economia – finanziario, produttivo, ecc.

Con l’aggravarsi della crisi e delle rivalità imperialiste, le istituzioni e i meccanismi multilaterali erano già messi alla prova dal fatto che le principali potenze sviluppavano sempre più politiche proprie, in particolare la Cina, con la costruzione della vasta rete parallela delle Nuove via della seta, e gli Stati Uniti che tendevano a voltare le spalle a queste istituzioni perché sempre più inadatte a preservare la loro posizione dominante. Già il populismo si presentava come un fattore di aggravamento della situazione economica introducendo un elemento di incertezza di fronte alle minacce della crisi. La sua ascesa al potere in diversi paesi ha accelerato il deterioramento dei mezzi imposti dal capitalismo dopo il 1945 per evitare ogni deriva verso un ripiegamento sul quadro nazionale che avrebbe favorito il contagio incontrollato della crisi economica.

Lo scatenamento del ciascuno per sé discende dalla contraddizione del capitalismo tra la scala sempre più globale della produzione e la struttura nazionale del capitale, contraddizione esacerbata dalla crisi. Provocando un caos crescente in seno all’economia mondiale (con la tendenza alla frammentazione delle catene produttive e la frammentazione del mercato mondiale in zone regionali, al rafforzamento del protezionismo e alla moltiplicazione delle misure unilaterali), questo movimento totalmente irrazionale di ogni nazione a salvare la propria economia a detrimento di tutte le altre è contro produttivo per ogni capitale nazionale e un disastro a livello mondiale, un fattore decisivo di deterioramento dell’insieme dell’economia mondiale.

Questo scivolamento delle fazioni borghesi considerate più “responsabili” verso una gestione sempre più irrazionale e caotica del sistema, e soprattutto l’avanzata senza precedenti della tendenza al ciascuno per sé, rivelano una crescente perdita di controllo sul proprio sistema da parte della classe dominante.

16. Sola nazione ad aver avuto un tasso di crescita positivo nel 2020 (2%), la Cina non è uscita trionfante o rafforzata dalla crisi pandemica, anche se essa ha momentaneamente guadagnato terreno a detrimento dei suoi rivali. Al contrario, la degradazione continua della crescita della sua economia, la più indebitata del mondo, che comporta anche un debole tasso di utilizzazione della capacità produttive e una proporzione di “imprese zombie” superiore al 30%, testimonia l’incapacità della Cina a giocare ormai il ruolo, che le è appartenuto nel 2008-2011, nel rilancio dell’economia mondiale.

La Cina deve fare i conti con la riduzione dei mercati mondiali, con la volontà di numerosi Stati di liberarsi dalla loro dipendenza rispetto alla produzione cinese e con il rischio di insolvibilità di un certo numero di paesi implicati nel progetto di Via della seta che sono tra i più duramente colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia. Il governo cinese prosegue quindi con l’orientamento di uno sviluppo economico interno del piano “Made in Cina 2025”, e del modello di circolazione “duale”, finalizzato a compensare la perdita della domanda estera con lo stimolo alla domanda interna. Questo cambiamento di politica non rappresenta tuttavia un “ripiegamento su sé stesso”, perché l’imperialismo cinese non vuole e non può voltare le spalle al mondo. Al contrario, l’obiettivo di questo cambiamento è di guadagnare una autarchia nazionale a livello delle tecnologie chiave al fine di essere tanto più capace di guadagnare terreno al di là delle proprie frontiere. Ciò rappresenta una nuova tappa nello sviluppo della sua economia di guerra. Tutto questo provoca pesanti conflitti in seno alla classe dirigente, tra i partigiani della direzione dell’economia del Partito Comunista cinese e quelli legati all’economia di mercato e al settore privato, tra i “pianificatori” del potere centrale e le autorità locali che vogliono esse stesse orientare gli investimenti. Sia negli Stati Uniti (rispetto ai giganti tecnologici “GAFA” della Silicon Valley) che – e con maggiore risolutezza – in Cina (rispetto ad Ant International, Alibabà, ecc.) si osserva una forte tendenza dell’apparato di Stato centrale a ridurre la taglia delle imprese diventate troppo grandi (e troppo potenti) per essere controllate.

17. Le conseguenze della distruzione sfrenata dell’ambiente da parte di un capitalismo in decomposizione, i fenomeni risultanti dai cambiamenti climatici e dalla distruzione della biodiversità, portano innanzitutto a una pauperizzazione crescente delle parti più deboli della popolazione mondiale (Africa subsahariana e Asia meridionale) o di quelle in preda a conflitti militari. Ma essi toccano sempre più tutte le economie, quelle dei paesi sviluppati in testa.

Attualmente si assiste alla moltiplicazione di fenomeni meteorologici estremi, a piogge e inondazioni estremamente violente, a vasti incendi che comportano enormi perdite finanziarie nelle città e nelle campagne per la distruzione di infrastrutture vitali (città, strade, istallazioni fluviali, ecc.). Questi fenomeni perturbano il funzionamento dell’apparato produttivo industriale e indeboliscono anche la capacità produttiva dell’agricoltura. La crisi climatica mondiale e la disorganizzazione crescente del mercato mondiale dei prodotti agricoli che ne risultano minacciano la sicurezza ambientale di numerosi Stati.

Il capitalismo in decomposizione non possiede i mezzi per lottare veramente contro il riscaldamento climatico e la devastazione ecologica. Questi hanno già un impatto sempre più negativo sulla riproduzione del capitale e non possono che costituire un ostacolo al ritorno delle crescita economica.

Motivata dalla necessità di rimpiazzare le industrie pesanti obsolete e i combustibili fossili, la “economia verde” non rappresenta uno sbocco per il capitale, né sul piano ecologico né su quello economico. Le sue filiere produttive non sono più verdi o meno inquinanti. Il sistema capitalista non ha la capacità di impegnarsi in una “rivoluzione verde”. Le azioni della classe dominante su questo piano acuiscono inevitabilmente una competizione economica distruttrice e le rivalità imperialiste. L’emergenza di nuovi settori potenzialmente redditizi, come la produzione di veicoli elettrici, potrebbe al massimo apportare dei benefici a certe parti delle economie più forti, ma tenuto conto dei limiti dei mercati solvibili, e dei crescenti problemi provocati dall’utilizzazione sempre più massiccia della creazione di moneta e dell’indebitamento, essi non potranno servire da locomotiva per l’insieme dell’economia.

La “economia verde” costituisce soprattutto un veicolo privilegiato di potenti mistificazioni ideologiche sulla possibilità di riformare il capitalismo e un’arma contro la classe operaia, con la giustificazione delle chiusure di fabbriche e dei licenziamenti.

18. A causa delle crescenti tensioni imperialiste, tutti gli Stati aumentano il loro sforzo militare, sia in volume che in durata. La sfera militare si estende sempre più a nuove “zone di conflitto”, come la cybersicurezza e la militarizzazione crescente dello spazio. Tutte le potenze nucleari rilanciano con discrezione i loro programmi atomici. Tutti gli Stati modernizzano e adattano le loro forze armate.

Questa folle corsa agli armamenti, a cui ogni Stato è irrimediabilmente condannato dalle esigenze della concorrenza interimperialista, è tanto più irrazionale in quanto il crescente peso dell’economia di guerra e della produzione di armi assorbe una parte considerevole della ricchezza nazionale: questa massa gigantesca di spese militari in tutto il mondo, anche se costituisce una fonte di profitto per i mercanti d’armi, dal punto di vista del capitale globale rappresenta una sterilizzazione e una distruzione di capitale. Gli investimenti realizzati nella produzione e nella vendita di armi e di attrezzature militari non costituiscono per niente un punto di partenza o una fonte di accumulazione di nuovi profitti: una volta prodotte o acquistate, le armi non possono servire che a seminare morte e distruzione o a essere sostituite quando sono diventate obsolete. Completamente improduttive, queste spese hanno: “un impatto economico (…) disastroso per il capitale. Di fronte a dei deficit statali già incontrollabili, l’aumento massiccio delle spese militari, che la crescita degli antagonismi interimperialisti rende necessario, è un peso economico che non fa che accelerare la discesa del capitalismo nell’abisso.” (Rapporto sulla situazione Internazionale del 5° Congresso della CCI, "Rapport sur la situation internationale ,Revue internationale n° 35).

19. Dopo decenni di debiti giganteschi, l’iniezione massiccia di liquidità degli ultimi piani di sostegno all’economia sorpassano di molto il volume degli interventi precedenti. I miliardi di dollari sbloccati dai piani americani, europei e cinesi hanno portato il debito mondiale al 365% del Prodotto Interno Lordo mondiale.

Il debito, che non ha smesso di essere utilizzato dal capitalismo lungo tutto il suo periodo di decadenza come palliativo alla crisi di sovrapproduzione, significa rimandare le scadenze nel futuro, anche a prezzo di convulsioni ancora più gravi. Oggi esso raggiunge livelli senza precedenti. Dopo la Grande Depressione degli anni ’30 la borghesia ha mostrato tutta la sua determinazione a mantenere in vita il suo sistema sempre più minacciato dalla sovrapproduzione e dalla ristrettezza dei mercati attraverso la sofisticazione dell’intervento dello Stato per esercitare un controllo generale sull’economia. Ma essa non dispone di nessun mezzo per attaccare le cause reali della crisi. Anche se non esiste un limite fisso e predeterminato alla fuga in avanti nell’indebitamento, un punto a partire dal quale diventerebbe impossibile continuare, questa politica non può continuare all’infinito senza che la crescita del debito abbia delle gravi ripercussioni sulla stabilità del sistema, come mostrato dall’ampiezza e dal ritmo sempre più frequente delle crisi dell’ultimo decennio, ma anche perché una tale politica si dimostra essere, dopo almeno quattro decenni, sempre meno efficace per rilanciare l’economia mondiale.

Il peso del debito non solo condanna il sistema capitalista a delle convulsioni sempre più devastatrici (fallimenti di imprese o anche di Stati, crisi finanziarie e monetarie, ecc.) ma, restringendo sempre di più la capacità degli Stati di barare con le leggi del capitalismo, finisce anche con l’ostacolare la capacità di questi di rilanciare le loro rispettive economie nazionali.

La crisi che si sviluppa ormai da decenni è destinata a diventare la più grave del periodo di decadenza, e la sua portata storica supererà anche la prima crisi di questa epoca, quella iniziata nel 1929. Dopo più di 100 anni di decadenza capitalista, con un’economia devastata dal settore militare, indebolita dall’impatto della distruzione ambientale, profondamente alterata nei suoi meccanismi di riproduzione dal debito e dalla manipolazione dello Stato, in preda alla pandemia e che soffre sempre più tutti gli altri effetti della decomposizione, è illusorio pensare che in queste condizioni ci sarà una ripresa durevole dell’economia mondiale.

20. Allo stesso tempo i rivoluzionari non devono essere tentati di cadere in una visione “catastrofista” di un’economia mondiale sull’orlo di un crollo finale. La borghesia continuerà a battersi fino alla morte per la sopravvivenza del suo sistema, che sia attraverso mezzi direttamente economici (come lo sfruttamento di risorse finora non utilizzate e di nuovi mercati potenziali, quelli illustrati dal progetto cinese della Nuova via della seta) o politici, soprattutto la manipolazione del credito e le forzature con la legge del valore. Ciò significa che ci possono sempre essere delle fasi di stabilizzazione tra convulsioni economiche che avranno conseguenze sempre più profonde.

21. Il ritorno di una sorta di “neokeynesianesimo” iniziato con gli enormi impegni di spesa dell’amministrazione Biden e i provvedimenti per l’aumento delle imposte sulle società –  motivato anche dalla necessità di mantenere la coesione della società borghese e dal bisogno altrettanto pressante di far fronte all’aggravamento delle tensioni imperialiste – mostra la volontà della classe dirigente di sperimentare differenti forme di gestione economica, soprattutto perchè le deficienze delle politiche neo-liberali lanciate neghi anni di Reagan e Thatcher sono state pesantemente messe in evidenza dall’insorgere della crisi pandemica. Ciononostante questi cambiamenti di politica non possono impedire all’economia mondiale di oscillare tra il doppio pericolo dell’inflazione e della deflazione, di nuove crisi del credito e di crisi monetarie che portano tutte a delle recessioni brutali.

22. La classe operaia paga un pesante tributo alla crisi. Innanzitutto perché è la più direttamente esposta alla pandemia e quindi è la principale vittima della propagazione dell’infezione, poi perché la caduta dell’economia scatena gli attacchi più gravi dalla Grande Depressione, su tutti i piani delle sue condizioni di vita e di lavoro, anche se non tutti saranno toccati alla stessa maniera.

La distruzione di posti di lavoro, nel 2020 quattro volte più importante che nel 2009, non ha ancora rivelato tutta l’ampiezza del considerevole aumento della disoccupazione di massa che si annuncia. Benché le sovvenzioni pubbliche accordate in certi paesi ai disoccupati parziali cerchino di attenuare lo choc sociale (negli Stati Uniti, per esempio, nel corso del primo anno della pandemia, il reddito medio dei salariati, secondo le statistiche ufficiali, è aumentato – per la prima volta, nella storia del capitalismo, durante un periodo di depressione) milioni di posti di lavoro spariranno nel prossimo periodo.

L’aumento esponenziale del lavoro precario e la diminuzione generale dei salari provocheranno un aumento gigantesco della pauperizzazione, che colpisce già molti lavoratori. Il numero di vittime della carestia nel mondo si è moltiplicato per due e la fame ricompare nei paesi occidentali. Per quelli che mantengono un lavoro, il carico di lavoro e il ritmo di sfruttamento si vanno aggravando.

La classe operaia non può aspettarsi niente dagli sforzi della borghesia per “normalizzare” la situazione economica, se non licenziamenti e riduzione dei salari, l’aumento dello stress e dell’ansia, drastici aumenti delle misure di austerità a tutti i livelli, nella scuola come nelle pensioni di invalidità e nelle prestazioni sociali. In breve, noi assisteremo a una degradazione delle condizioni di vita e di lavoro a un livello che nessuna generazione, dal secondo dopoguerra ad oggi, ha conosciuto.

23. Poiché il modo di produzione capitalista è entrato nella sua decadenza, cresce la pressione per lottare contro questo declino attraverso misure di capitalismo di Stato. Tuttavia, la tendenza al rafforzamento degli organi e delle forme di capitalismo di Stato è tutto salvo che un rafforzamento del capitalismo; al contrario, esse esprimono le crescenti contraddizioni sul terreno economico e politico. Con l’accelerazione della decomposizione nel disastro della pandemia, noi vediamo un forte aumento delle misure di capitalismo di Stato; queste non sono l’espressione di un più grande controllo dello Stato sulla società, ma costituiscono piuttosto l’espressione delle crescenti difficoltà ad organizzare la società nel suo insieme e ad impedire la sua crescente tendenza alla frammentazione.

Le prospettive per la lotta di classe

24. All’inizio degli anni ’90 la CCI ha riconosciuto che il crollo del blocco dell’Est, e l’apertura definitiva della fase di decomposizione avrebbero creato delle difficoltà crescenti per il proletariato: l’incapacità a riappropriarsi della sua prospettiva politica e storica che era già stato un elemento centrale delle difficoltà della classe operaia negli anni’80 sarebbe stata seriamente aggravata dalle assordanti campagne sulla morte del comunismo; in legame con questo, il sentimento di identità di classe del proletariato sarebbe stato severamente indebolito dal nuovo periodo, allo stesso tempo per gli effetti dell’atomizzazione e delle divisioni della decomposizione sociale, e per gli sforzi coscienti della classe dominante per acuire questi effetti con campagne ideologiche (la “fine della classe operaia”) e i cambiamenti materiali prodotti dalla politica di globalizzazione (eliminazione dei centri tradizionali della lotta di classe, delocalizzazione delle industrie verso regioni del mondo in cui la classe operaia non ha lo stesso grado di esperienza storica, ecc.).

25. La CCI ha avuto tendenza a sottostimare la profondità e la durata di questo riflusso della lotta di classe, vedendo spesso dei segni che la portavano a pensare che il riflusso era sul punto di essere superato e che avremmo visto, a breve, nuove ondate internazionali di lotta come nel periodo successivo al 1968. Nel 2003, sulla base di nuove lotte in Francia, in Austria e altrove, la CCI aveva predetto una ripresa delle lotte da parte di una nuova generazione di proletari che era stata meno influenzata dalle campagne anticomuniste e destinata a confrontarsi con un futuro sempre più incerto. In buona misura queste predizioni sono state confermate dagli avvenimenti del 2006-2007, in particolare con la lotta contro il CPE (Contratto di Primo Impiego) in Francia, e del 2010-2011, in particolare con il movimento degli Indignati in Spagna. Questi movimenti hanno mostrato degli avanzamenti importanti a livello della solidarietà fra le generazioni, dell’autoorganizzazione con lo strumento delle assemblee, della cultura del dibattito, delle preoccupazioni reali sull’avvenire prospettato alla classe operaia e all’umanità nel suo insieme. In questo senso essi hanno mostrato il potenziale di una unificazione delle dimensioni economiche e politiche della lotta di classe. Ciononostante, abbiamo avuto bisogno di molto tempo per capire le immense difficoltà a cui era confrontata questa nuova generazione, cresciuta nelle condizioni della decomposizione, difficoltà che avrebbero impedito al proletariato di invertire il riflusso post-’89 durante questo periodo.

26. Un elemento chiave di queste difficoltà è nell’erosione continua dell’identità di classe. Questo era già visibile nelle lotte del 2010-2011, in particolare nel movimento in Spagna: nonostante gli avanzamenti importanti realizzati a livello della coscienza e dell’organizzazione, la maggioranza si vedeva come dei “cittadini” piuttosto che come membri di una classe, cosa che la rendeva vulnerabile alle illusioni democratiche portate avanti da gruppi come Democracia Ya! (il futuro Podemos), ed in seguito al veleno del nazionalismo catalano e spagnolo. Nel corso degli anni seguenti il riflusso che si è prodotto dopo questi movimenti è stato approfondito dall’ascesa del populismo, che ha creato nuove divisioni in seno alla classe operaia internazionale – divisioni che sfruttano le differenze nazionali ed etniche, alimentate dagli atteggiamenti pogromisti della destra populista, ma anche delle divisioni politiche create dalla contrapposizione populismo e anti-populismo. Dappertutto nel mondo la collera e il malcontento crescono, a causa delle gravi privazioni materiali e delle ansie reali rispetto all’avvenire; ma in assenza di una risposta proletaria, gran parte di questo malcontento è stato canalizzato in rivolte interclassiste come quella dei Gilet Gialli in Francia, in campagne parcellari su un terreno borghese come le marce per il clima, in movimenti per la democrazia contro la dittatura (Hong Kong, Bielorussia, Myanmar, ecc.) o nell’intreccio inestricabile delle politiche identitarie razziali e sessuali che servono innanzitutto a oscurare la questione cruciale dell’identità di classe proletaria come sola base per un’autentica risposta alla crisi del modo di produzione capitalista.  La proliferazione di questi movimenti – che si tratti delle rivolte interclassiste o delle mobilitazioni apertamente borghesi – ha aumentato le difficoltà già considerevoli non solo per la classe operaia nel suo insieme ma per la stessa Sinistra comunista, per le organizzazioni che hanno la responsabilità di definire e difendere il terreno di classe. Un esempio chiaro di questo è stata l’incapacità dei bordighisti e della Tendenza Comunista Internazionale a riconoscere che la collera provocata dall’uccisione di George Floyd da parte della polizia nel maggio 2020 era stata immediatamente deviata verso dei canali borghesi. Ma anche la CCI ha conosciuto importanti problemi di fronte a questo ventaglio di movimenti spesso sconcertanti, e, nel quadro del suo esame critico degli ultimi 20 anni, dovrà seriamente esaminare la natura e l’estensione degli errori commessi nel corso del periodo che va dalla primavera araba del 2011 a queste rivolte e mobilitazioni più recenti, passando per le manifestazioni cosiddette “delle candele” in Corea del sud.

27. La pandemia in particolare ha creato delle difficoltà considerevoli per l classe operaia:

•           La maggioranza degli operai riconoscono la realtà di questa malattia e i pericoli reali che rappresentano gli assembramenti numerosi, con la conseguente impossibilità di assemblee generali e di manifestazioni operaie; il proletariato è confrontato non solo alla borghesia, ma anche, e in un senso più immediato, al virus. In generale la situazioni in cui le catastrofi giocano un ruolo preponderante non sono favorevoli allo sviluppo della lotta di classe. L’indignazione di Voltaire contro la natura a causa del terremoto di Lisbona non si è generalizzata. Contrariamente al “sisma sociale” dello sciopero di massa del 1905, il terremoto di S. Francisco del 1906 non ha fatto avanzare la causa del proletariato, lo stesso per quello di Tokyo del 1923.

•           Come sempre, la borghesia non esita ad utilizzare gli effetti della decomposizione contro la classe operaia. Se i confinamenti sono stati principalmente motivati dal fatto che la borghesia non aveva altro mezzo per impedire la diffusione della malattia, essa ha approfittato della situazione per rafforzare l’atomizzazione e lo sfruttamento della classe operaia, in particolare con lo strumento del nuovo modello dello “smart working”. Questa nuova tappa nell’atomizzazione della popolazione attiva è fonte di una sofferenza psicologica crescente, in particolare presso i giovani (con anche la crescita dei cassi di suicidio);

•           Ancora, la classe dirigente ha approfittato delle condizioni della pandemia per rafforzare i suoi sistemi di sorveglianza di massa e per introdurre nuove leggi repressive per limitare le proteste e le manifestazioni, nonché una violenza della polizia sempre più evidente contro ogni espressione di malcontento sociale;

•           Il massiccio aumento della disoccupazione risultante dal confinamento non costituirà, in questa situazione e a breve termine, un fattore di unificazione delle lotte operaie, ma avrà piuttosto tendenza ad aumentare l’atomizzazione:

•           Benchè il confinamento abbia provocato una grande malcontento sociale, quando questo si è espresso in maniera aperta, come in Spagna a febbraio e in Germania in aprile 2021, esso ha preso la forma di manifestazioni “per la libertà individuale” che costituiscono un completo vicolo cieco per la classe operaia;

•           Più in generale, il periodo di pandemia ha visto una nuova recrudescenza della “politica identitaria”, in cui l’insoddisfazione esistente rispetto all’attuale sistema viene frammentata in un uragano di identità che si affrontano, sulla base della razza, del genere, della cultura, ecc. e che costituiscono un ostacolo maggiore per il ristabilimento della sola identità capace di unificare dietro di sè e di liberare l’insieme dell’umanità: l’identità di classe proletaria. In più, dietro questo caos di identità in concorrenza che penetra l’insieme della popolazione, si nasconde la concorrenza tra differenti fazioni borghesi di destra e di sinistra, con il pericolo di trascinare la classe operaia in nuove forme di una reazionaria “lotta culturale” e anche di una guerra civile violenta.

28. Nonostante gli enormi problemi a cui è confrontato il proletariato, noi rigettiamo l’idea che la classe è già vinta a livello mondiale, o che essa sia sul punto di subire una sconfitta comparabile a quella del periodo di controrivoluzione, un tipo di sconfitta da cui il proletariato non sarebbe più capace di riprendersi. Il proletariato, in quanto classe sfruttata, non può evitare di passare per la scuola delle sconfitte, ma la questione centrale è di sapere se il proletariato è già stato così sommerso dall’avanzata implacabile della decomposizione che il suo potenziale rivoluzionario sia stato effettivamente intaccato. Misurare una tale sconfitta nella fase di decomposizione è un compito ben più complesso rispetto al periodo che ha preceduto la Seconda Guerra mondiale, quando il proletariato si era apertamente sollevato contro il capitalismo ed era stato schiacciato da una serie di sconfitte frontali, o rispetto al periodo che ha seguito il 1968, quando il principale ostacolo alla marcia della borghesia verso una nuova guerra mondiale fu la ripresa della lotta di classe da parte di una nuova generazione non sconfitta di proletari. Come abbiamo già ricordato, la fase di decomposizione contiene in effetti il pericolo che il proletariato non riesca semplicemente a rispondere e sia soffocato sul un lungo periodo – una morte lenta invece che in uno scontro di classe frontale. Nondimeno noi affermiamo che ci sono ancora sufficienti elementi che mostrano che malgrado l’avanzata incontestabile della decomposizione, malgrado il fatto che il tempo non gioca in favore della classe operaia, il potenziale di una profonda rinascita proletaria – che potrebbe portare a una riunificazione tra le dimensioni economiche e politiche della lotta di classe – non è scomparso, come confermato da:

•           la persistenza di importanti movimenti proletari che si sono avuti durante la fase di decomposizione (2006-7, 2010-11, etc.);

•           prima della pandemia si sono avuti diversi segni embrionari e molto fragili di riapparizione della lotta di classe, in particolare in Francia nel 2019. E anche se questa dinamica è stata in seguito largamente bloccata dalla pandemia e i confinamenti, si sono avuti, in un certo numero di paesi, dei movimenti di classe significativi, in particolare intorno alle questioni di sicurezza sul lavoro, soprattutto sanitaria, anche durante la pandemia;

•           i segni, piccoli ma significativi, di una maturazione sotterranea della coscienza, manifestatasi con un inizio di riflessione globale sul fallimento del capitalismo e la necessità di un’altra società in certi movimenti (soprattutto gli Indignati nel 2011), ma anche con l’emergenza di giovani elementi in ricerca di posizioni di classe e che si indirizzano verso l’eredità della Sinistra comunista;

•           più importante ancora, la situazione a cui la classe operaia è confrontata non è quella che ha seguito il crollo del blocco dell’est e l’apertura della fase di decomposizione nel 1989. Allora era possibile presentare questi avvenimenti come la prova della morte del comunismo e della vittoria del capitalismo e l’inizio di un avvenire radioso per l’umanità. Trenta anni di decomposizione hanno seriamente sconfessato questo inganno ideologico di un avvenire migliore, e la pandemia in particolare ha messo in evidenza l’irresponsabilità e la negligenza di tutti i governi capitalisti e la realtà di una società dilaniata da profonde divisioni economiche in cui non siamo per niente “tutti nella stessa barca”. Al contrario, la pandemia e il confinamento hanno teso a rivelare la condizione della classe operaia allo stesso tempo come principale vittima della crisi sanitaria ma anche come fonte di tutto il lavoro e di tutta la produzione materiale, e in particolare dei generi di prima necessità. Questo può essere una delle basi di un futuro recupero dell’identità di classe. E, insieme alla crescente comprensione che il capitalismo è un modo di produzione totalmente obsoleto, questo ha già giocato come fattore per l’apparizione di minoranze politicizzate la cui motivazione è stata innanzitutto quella di comprendere la situazione drammatica a cui l’umanità è confrontata. 

•           Infine, a un livello storico più ampio, il processo di decomposizione non ha eliminato il carattere associato del lavoro sotto il capitalismo. Questo permane nonostante l’atomizzazione sociale generata dalla decomposizione, malgrado i tentativi deliberati di frammentare la manodopera con stratagemmi tipo la “uberizzazione” dell’economia, malgrado le campagne ideologiche finalizzate a presentare i settori più istruiti del proletariato come la “classe media”. Il capitale mobilita sempre più lavoratori nel mondo, il processo di proletarizzazione e quindi di sfruttamento del lavoro vivo è ininterrotto. La classe operaia oggi è più numerosa e più interconnessa che mai, ma con l’avanzare della decomposizione l’atomizzazione sociale e l’isolamento si intensificano. Questo si esprime anche nelle difficoltà della classe operaia a fare l’esperienza della propria identità di classe. Non è che con le sue lotte sul proprio terreno di classe che la classe operaia è capace di creare il suo potere “associativo” che esprime un’anticipazione del lavoro associato nel comunismo. I lavoratori sono riuniti dal capitale nel processo di produzione, il lavoro associato è realizzato sotto costrizione, ma il carattere rivoluzionario del proletariato significa il rovesciamento dialettico di queste condizioni nella lotta collettiva. Lo sfruttamento del lavoro comune è rovesciato nella lotta contro lo sfruttamento e per la liberazione del carattere sociale del lavoro, per una società che sappia utilizzare coscientemente tutto il potenziale del lavoro associato. Così la lotta difensiva della classe operaia contiene i germi delle relazioni sociali qualitativamente più elevate che sono lo scopo finale della sua lotta – quello che Marx chiamava i “produttori liberamente associati”. Attraverso l’associazione, attraverso la riunione di tutte le sue componenti, di tutte le sue capacità e di tutte le sue esperienze, il proletariato può diventare possente, può diventare il combattente sempre più cosciente e unito per una umanità liberata e il suo segno annunciatore.

29. A dispetto della tendenza del processo di decomposizione ad agire sulla crisi economica, quest’ultima resta la “alleata del proletariato” in questa fase. Come dicevamo nelle Tesi sulla decomposizione:

 "l’aggravarsi inesorabile della crisi del capitalismo, costituisce lo stimolo essenziale della lotta e della maturazione della coscienza di classe, la condizione stessa della sua capacità di resistere al veleno ideologico dell’imputridimento della società. In effetti, mentre il proletariato non può trovare un terreno unificante di classe nelle lotte parziali contro gli effetti della decomposizione, la sua lotta contro gli effetti diretti della crisi costituisce la base dello sviluppo della sua forza e della sua unità. E ciò in particolare perché:

•           se gli effetti della decomposizione (per esempio 1’inquinamento, la droga, l’insicurezza, ecc.) colpiscono indistintamente tutti gli strati della società e costituiscono un terreno propizio alle campagne ed alle mistificazioni aclassiste (ecologia, movimenti antinucleari, mobilitazioni antirazziste, ecc.), gli attacchi economici (abbassamento del salario reale, licenziamenti, aumento dei ritmi, ecc.) che derivano direttamente dalla crisi colpiscono in modo specifico il proletariato (cioè la classe che produce il plusvalore e che si scontra col capitale su questo terreno);

•           la crisi economica, contrariamente alla decomposizione sociale che concerne essenzialmente le sovra-strutture, è un fenomeno che colpisce direttamente l’infrastruttura della società sulla quale riposano queste sovrastrutture; in questo senso, essa mette a nudo le cause ultime dell’insieme della barbarie che si abbatte sulla società, permettendo così al proletariato di prendere coscienza della necessità di cambiare radicalmente sistema, e non di cercare di migliorare degli aspetti di questo.” (Tesi 17)

30. Di conseguenza noi dobbiamo rigettare ogni tendenza a minimizzare l’importanza delle lotte economiche « difensive » della classe, che è una espressione tipica della concezione modernista che non vede la classe che come una categoria sfruttata e non anche come una forza storica, rivoluzionaria, E’ certamente vero che la lotta economica da sola non può bloccare la decomposizione : come dicono le Tesi sulla decomposizione “Per mettere fine alla minaccia che costituisce la decomposizione, le lotte operaie di resistenza agli effetti della crisi non bastano più: solo la rivoluzione comunista può mettere fine a tale minaccia.”

Ma è un profondo errore perdere di vista l’interazione costante e dialettica tra gli aspetti economici e politici della lotta, come sottolineava Rosa Luxemburg nel suo lavoro sullo Sciopero di massa del 1905; ed ancora nel fuoco della rivoluzione tedesca del 1918-19, quando la dimensione “politica” era in atto, lei insistette sul fatto che il proletariato doveva continuare a sviluppare le sue lotte economiche, come sola base per organizzarsi e unificarsi in quanto classe. Sarà la combinazione della ripresa delle lotte difensive su un terreno di classe, destinate a scontrarsi ai limiti oggettivi della società borghese in decomposizione e fertilizzate dall’intervento della minoranza rivoluzionaria, che permetterà alla classe operaia di realizzare la politicizzazione pienamente proletaria necessaria per indirizzarsi di nuovo verso la sua prospettiva rivoluzionaria e far uscire l’umanità dall’incubo del capitalismo in decomposizione.

31. In un primo periodo, la riscoperta dell’identità e della combattività di classe costituirà una forma di resistenza contro gli effetti corrosivi della decomposizione capitalista – un’arma contro la frammentazione della classe operaia e la divisione tra le sue differenti parti. Senza lo sviluppo della lotta di classe, fenomeni come quelli della distruzione dell’ambiente e la proliferazione del caos militare tendono a rinforzare il sentimento di impotenza e il ricorso a false soluzioni tipo l’ecologismo e il pacifismo. Ma ad uno stadio più sviluppato della lotta, nel contesto di una situazione rivoluzionaria, la realtà di queste minacce per la sopravvivenza della specie umana diviene un fattore di comprensione del fatto che il capitalismo ha effettivamente raggiunto la fase terminale del suo declino e che la rivoluzione è la sola soluzione possibile. In particolare, le pulsioni guerriere del capitalismo – soprattutto quando esse implicano direttamente o indirettamente le grandi potenze –possono essere un fattore importante nella politicizzazione della lotta di classe, giacché esse implicano allo stesso tempo un aumento molto concreto dello sfruttamento e del pericolo fisico, ma anche una conferma supplementare del fatto che la società è confrontata alla scelta capitale tra socialismo o barbarie. Da fattori di smobilitazione e di disperazione, queste minacce possono rafforzare la determinazione del proletariato a farla finita con questo sistema moribondo.

•           “Allo stesso modo, in tutto il periodo futuro, il proletariato non può sperare di utilizzare a proprio beneficio l’indebolimento che la decomposizione provoca all’interno della borghesia. In questo periodo il suo obbiettivo sarà quello di resistere agli effetti nocivi della decomposizione al suo interno contando solo sulle proprie forze, sulla propria capacità di battersi in maniera collettiva e solidale in difesa dei propri interessi in quanto classe sfruttata (anche se la propaganda dei rivoluzionari deve sottolineare in permanenza i pericoli della decomposizione). Solo nel periodo prerivoluzionario, quando il proletariato sarà all’offensiva, quando ingaggerà direttamente e apertamente la lotta per la sua prospettiva storica, esso potrà utilizzare alcuni effetti della decomposizione, in particolare la decomposizione dell’ideologia borghese e quella delle forze del potere capitalista, come punti su cui far leva e da ritorcere contro lo stesso capitale.” (Tesi sulla decomposizione)

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Lavori del 24° Congresso Internazionale della CCI