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Nel numero n.519 (marzo-aprile-maggio2016), Le Prolétaire, organo di stampa del Partito Comunista Internazionale (PCI) fa una critica del nostro articolo: Attentati a Parigi, abbasso il terrorismo! Abbasso la guerra! Abbasso il capitalismo![1]
Nel considerarci “superficiali” e “impressionabili”, il PCI ironizza sul fatto che “La CCI è scioccata” per gli attentati, da qui il titolo dell'articolo preso in prestito dalla scrittrice Amélie Nothomb, Stupore e tremori. In effetti, Le Prolétaire confonde l'indignazione proletaria di fronte alla barbarie con ciò che immagina essere della sensibilità leziosa piccolo-borghese o del pacifismo.
Prima di rispondere a queste critiche e indipendentemente dai disaccordi che possiamo avere con questa organizzazione, ci teniamo innanzitutto a salutare la sua iniziativa polemica. Le polemiche nell'ambito rivoluzionario sono sempre state la linfa vivificante della lotta rivoluzionaria. Troppo poco frequenti oggi, sono tanto più preziose in particolare tra le organizzazioni che difendono i principi della Sinistra comunista. Esse sono indispensabili al chiarimento politico. Devono permettere un confronto delle posizioni politiche per alimentare la riflessione a favore dell’indispensabile elaborazione teorica necessaria ad orientare il proletariato e le sue minoranze alla ricerca di una coerenza delle posizioni rivoluzionarie.
Nazione o classe?
Non possiamo purtroppo rispondere qui a tutte le questioni sollevate in questo testo. A noi sembra prioritaria la questione nazionale in particolare perché in discussione tra gli elementi vicini al PCI[2]. En effetti, alla lettura dell'articolo di Le Prolétaire, appare che nell'ambito degli elementi che gravitano attorno alle posizioni “bordighiste” esiste un'interrogazione che mette in gioco la questione della nazione e dell'internazionalismo. Apprendiamo, infatti, che un partecipante a una riunione del PCI, insieme ad altri, si è seriamente chiesto se occorresse o no “condannare” l’ISIS, in virtù del “principio della lotta anti-imperialista”!
Questa problematica viene così riformulata da Le Prolétaire: “Bisognerebbe forse concluderne che l’IS rappresenterebbe una forza borghese anti-imperialista, una forza che, scuotendo lo status quo, lavorerebbe senza volerlo a favore della futura rivoluzione proletaria attraverso l’aumento del caos e l'indebolimento dell’imperialismo nella regione? Una forza che bisognerebbe dunque, più o meno, sostenere nonostante la sua brutalità e i suoi sinistri tratti reazionari?”. La risposta di Le Prolétaire a proposito di tale sostegno (o, come dice il PCI questo “più o meno sostegno”) è negativa. Ciò dimostra che i compagni del PCI si pongono dal punto di vista della classe operaia. D'altra parte si può osservare che il loro approccio sulla questione nazionale non è affatto quello degli anni 80, quando mettevano avanti la possibilità di “una lotta di liberazione del popolo palestinese”.
Ma quali sono oggi le argomentazione di Le Prolétaire? Ecco una prima affermazione: “A causa dell'assenza di qualsiasi forza proletaria, l’IS, come pure le altre formazioni armate 'moderate' o radicali, è stata la risposta contro-rivoluzionaria borghese – e non medievale o tribale – allo scombussolamento degli equilibri nazionali e regionali. L’IS non lotta per estendere il caos e indebolire l'ordine borghese, ma per restaurare quest’ultimo a suo profitto (...)”. I compagni del PCI parlano giustamente “dell'assenza di qualsiasi forza proletaria”. Ma nel passaggio di un altro articolo dello stesso numero, in risposta a questi stessi simpatizzanti, Le Prolétaire aggiunge: “L’ISIS è un nemico dei proletari, prima dei proletari della Siria e dell’Iraq, poi dei proletari dei paesi imperialisti. Prima di fare attentati in Europa, ha fatto attentati in Iraq ed altrove. Prima di fare attentati in Iraq ed altrove, ha represso i proletari nelle regioni che controlla (caso dei proletari dei trasporti a Mosul che avevano fatto un'azione di rivendicazione per le loro condizioni di lavoro e che per questa ragione sono stati giustiziati dall’ISIS)”. Un problema importante riguarda secondo noi la formulazione che evoca i proletari “dei paesi imperialisti”. In effetti, i compagni presuppongono che oggi alcuni paesi non sarebbero imperialisti. Non condividiamo assolutamente questo punto di vista. Il PCI prosegue affermando: “I proletari devono lottare contro tutte le oppressioni nazionali, per l'autodeterminazione e la libertà di separazione di tutti i popoli oppressi o colonizzati; non perché il loro ideale è la creazione di Stati borghesi, ma perché, affinché possano unirsi i proletari dei paesi dominanti e i proletari dei paesi dominati, i primi devono dimostrare nei fatti di non essere solidali all'oppressione che esercita la 'loro' borghesia e il 'loro' Stato ma, al contrario, che la combattono non solo a parole ma possibilmente in pratica. È il solo modo perché la proposta che fanno ai proletari dei paesi dominati, di unirsi su basi di classe anti-borghesi, possa essere compresa”. Questa posizione, che differisce dalle elucubrazioni nazionalistiche della sinistra del capitale, non è meno pericolosa e ambigua nelle sue premesse. Essa separa i proletari dei paesi “dominanti” da quelli dei paesi “dominati” e resta rinchiusa nella problematica “delle oppressioni nazionali”. Ma si potrebbe obiettare: questa posizione di Le Prolétaire, non è stata ereditata dalla tradizione del movimento operaio del passato?
La posizione di Rosa Luxemburg confermata dai fatti
In effetti, è stato così fino a che le condizioni storiche non sono cambiate radicalmente e che l'esperienza di nuove lotte non ha messo in discussione delle pratiche diventate inadeguate per la lotta operaia. Al suo primo congresso nel marzo 1919, l’Internazionale comunista riconosce che il capitalismo si trova nella sua fase di declino e fa riferimento al bisogno di una lotta internazionale del proletariato. Il Manifesto dell'Internazionale ai proletari del mondo intero, inizia con il riconoscere che “Lo Stato nazionale, dopo avere dato un impulso vigoroso allo sviluppo capitalista, è diventato troppo stretto per l'espansione delle forze produttive”[3]. Nella stessa logica, si sottolinea che “solo la rivoluzione proletaria può garantire alle plebi un'esistenza libera, poiché libererà le forze produttive di tutti i paesi dalle tenaglie degli Stati nazionali”. Il proletariato può dunque affrancarsi solo nel quadro di una lotta mondiale, in uno stesso movimento globale, unitario, che comprenda le roccaforti delle grandi metropoli. Come diceva Lenin, “i fatti sono testardi”. La tattica che era stata adottata dai bolscevichi, pensando di poter tutto sommato realizzare l'estensione della rivoluzione mondiale sostenendosi sul vecchio principio della liberazione nazionale, fu un terribile fiasco che fece precipitare il proletariato verso lo schiacciamento e la sconfitta. Gli esempi sono numerosi. In Finlandia la borghesia locale “liberata” approfittò “del regalo” dei bolscevichi per schiacciare l'insurrezione operaia nel gennaio 1918. Nei paese baltici, lo stesso anno, “la liberazione nazionale” permetteva alla borghesia britannica di schiacciare tranquillamente la rivoluzione sotto i tiri dei cannoni della marina!
I contributi critici più fertili sulla questione nazionale furono elaborati molto presto e con molta chiarezza da parte di Rosa Luxemburg:
“Sono gli stessi bolscevichi che hanno accentuato enormemente le difficoltà materiali, presentate dalla situazione, con una parola d’ordine messa in primo piano della loro politica: cioè ciò che si chiama il diritto delle nazioni a disporre di se stesse, o meglio ciò che si nascondeva sotto questa formula: lo spezzettamento della Russia come Stato (…) difensore dell’indipendenza nazionale fino al separatismo (…) Lenin e compagni si immaginavano che la Finlandia, la Polonia, la Lituania, l’Ucraina, i paesi balcanici, ecc. da essi liberati divenissero tanti alleati fedeli della rivoluzione russa. Noi abbiamo assistito allo spettacolo opposto: l’una dopo l’altra tali Nazioni hanno approfittato della libertà recentemente acquistata per allearsi all’imperialismo tedesco come nemiche mortali della rivoluzione russa e portare in Russia il vessillo della controrivoluzione”[4]
Nonostante al primo congresso dell’Internazionale comunista fosse emerso qualche elemento di chiarezza su questa questione, le sconfitte operaie successive e l'aumento dell'opportunismo avrebbero fagocitato questi fragili sforzi e favorito la regressione teorica. La lucida critica di Rosa Luxemburg sarà ripresa soltanto in modo molto minoritario da una parte della Sinistra italiana, in particolare da Bilan, la cui posizione fu ereditata da Internationalisme e oggi è difesa dalla CCI. Dopo l'ondata rivoluzionaria degli anni 20 e la sconfitta che portò al terribile periodo di controrivoluzione stalinista, nessuna presunta lotta di liberazione nazionale ha potuto produrre altro se non massacri e inquadramento dietro le nazioni e le potenze imperialiste rivali. Quello che all’epoca di Lenin poteva essere considerato un tragico errore, si è chiaramente attestato successivamente attraverso crimini sanguinari. Dalla prima guerra mondiale e con il declino storico del sistema capitalista, tutte le nazioni, grandi o piccole, sono diventate in realtà anelli di una catena imperialista che getta il mondo in una guerra permanente. In tutte le situazioni sono all’opera manovre imperialiste, indipendentemente dalla nazione considerata, mentre il proletariato non è che l'ostaggio della pretesa “liberazione” contro un'altra frazione borghese, e si trova contrapposto ai suoi fratelli di classe anch’essi sacrificati. E’ stato il caso, ad esempio, del Sudan che dopo l’indipendenza nel 1956 visse una guerra civile terribile, strumentalizzata dai blocchi imperialisti dell'Est e dell'Ovest, che provocò almeno due milioni di morti. In Angola, dopo i primi sollevamenti a Luanda nel 1961 e l'indipendenza nel 1975, anni e anni di guerra opposero le forze del MPLA al potere (Movimento di Liberazione dell'Angola, sostenuto dall'URSS) e i ribelli dell'UNITA (sostenuti dal Sudafrica e gli USA). Il bilancio di questa “lotta di liberazione” è stato di circa un milione di morti. In seguito, la decolonizzazione e il contesto della Guerra fredda ne saranno illustrazioni continue, dove i proletari saranno solo un carne da cannone dietro le bandiere nazionali.
Delle confusioni pericolose
Se Le Prolétaire non sostiene l’ISIS e se ha saputo evolvere sulla questione nazionale, tuttavia conserva alcune confusioni che lo hanno portato in passato ad abbandonare in maniera puntuale la posizione dell'internazionalismo proletario sostenendo, anche se in modo critico, le forze capitaliste dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), come mostra questo passaggio redatto all'epoca: “Con il suo impatto nelle masse arabe, la lotta contro Israele costituisce una leva formidabile nella lotta sociale e rivoluzionaria”[5]. Il quadro della lotta di liberazione nazionale, che poteva soltanto portarlo al fiasco politico, era così teorizzato da Le Prolétaire: “Il marxismo intransigente, gli riconosce, anche dove l'intervento autonomo del proletariato non ha potuto o non può ancora prodursi, anche se queste rivoluzioni non hanno potuto superare un orizzonte nazionale e democratico, il valore autenticamente rivoluzionario di sconvolgimenti tanto giganteschi quanto quelli che si sono prodotti in Oriente nel corso degli ultimi 60 anni, e che sarebbe vano ignorare col pretesto che non hanno portato al socialismo”[6].
L'abbandono puntuale della posizione di classe internazionalista a proposito del conflitto Israeliano-palestinese provocò una grave crisi all’interno del PCI che culminò con il suo smembramento con El Oumami sulla base di un posizionamento apertamente nazionalistico arabo che appunto abbiamo denunciato all'epoca: “Per El Oumami, 1’'unione sacra ebrea' fa scomparire gli antagonismi di classe all'interno di Israele. Inutile dunque fare appelli al proletariato di Israele. Questo è esattamente come ‘popolo tedesco, popolo maledetto' di staliniana memoria durante la seconda guerra mondiale. E quando durante la manifestazione 'OLP-solidarietà', al grido di 'Sabra e Chatila, vendetta!’ El Oumami si vanta ‘di avere catturato un sionista che ha ricevuto un terribile pestaggio’, si è a livello del ‘a ciascuno il suo crucco’ del PCF alla fine della seconda guerra. El Oumami si aggiunge alle file della borghesia al livello dello sciovinismo più abietto”[7]
L’opportunista presa di posizione di Le Prolétaire sul conflitto Israeliano-palestinese negli anni 80 è una concessione aperta all'ideologia nazionalista gauchiste (estrema sinistra del capitale). Sostenendo in modo critico la lotta dei palestinesi di fronte a Israele, dividendoli così dai loro fratelli di classe israeliani con il pretesto della loro fedeltà alla borghesia israeliana, Le Prolétaire partecipava a ratificare la divisione e abbandonava ogni principio di solidarietà di classe.
Oggi, Le Prolétarie non utilizza lo stesso argomento ma sembra evolvere di più verso l’empirismo. Se il PCI non affonda nella catastrofe rifiutando nettamente ogni sostegno all’ISIS, resta tuttavia ancora prigioniero di concezioni pericolose e confuse per la classe operaia, in particolare in un contesto in cui il nazionalismo riprende vigore a causa della propaganda statale e delle forti campagne populiste in corso. Le ragioni all’origine del persistere di tali confusioni sono legate al forte peso della contro-rivoluzione stalinista. Il capitalismo di Stato in URSS ha snaturato completamente l'esperienza dell'ondata rivoluzionaria degli anni 20 sfruttando i suoi errori peggiori per schiacciare il proletariato. In nome “dell'autodeterminazione”, del “diritto dei popoli a disporre di se stessi”, della “liberazione nazionale dei popoli oppressi” lo Stato stalinista ha saputo approfittare degli errori di Lenin per mistificarli e farne un dogma eterno che porterà purtroppo alcuni rivoluzionari, come quelli del PCI, a trarre delle false lezioni riprendendo a loro volta vecchi errori percepiti come “verità rivoluzionarie”.
Il PCI sottovaluta la realtà del caos imperialista
Ora, i fatti più recenti, a partire dalle carneficine imperialiste della Guerra fredda, non hanno fatto che confermare le posizioni di Rosa Luxemburg. Il permanere di confusioni sul “l'autodeterminazione dei popoli” è, a parer nostro, in gran parte responsabile delle posizioni aberranti che persistono ancora oggi e che spingono alcuni elementi a porsi la questione aberrante se l’ISIS deve essere sostenuto e sostenuto dai rivoluzionari in una lotta cosiddetta “anti-imperialista”. Dalla scomparsa del blocco dell'Est, le presunte lotte di liberazione nazionale hanno solo alimentato il caos mondiale. Lo testimonia la nascita dei mini-Stati nati dello smembramento dell'ex-impero stalinista, che ha generato aborti che non sanno fare altro che propagare i miasmi del nazionalismo. Lo abbiamo visto con lo scoppio dell'ex Iugoslavia e la guerra che se ne è seguita tra le nuove nazioni “liberate” o in occasione del conflitto in Cecenia (dove la città di Grozny è stata ridotta in cenere) e del conflitto nella zona franca etnica del Nagorno-Karabah in Azerbaigian con le tantissime vittime e le migliaia di profughi all'inizio degli anni 90. Una tale logica si estende anche a tutte le frazioni borghesi che non possiedono un territorio, i signori della guerra o altri terroristi che incarnano l'ideologia nazionalistica e la barbarie capitalista.
Nel suo articolo il PCI critica anche una formulazione usata nel nostro articolo, secondo cui ci sarebbe stato “un passo qualitativo con gli attentati di Parigi”. Occorre riconoscere che questa formulazione è stata criticata anche al nostro interno e può essere oggetto di un dibattito. Ma non per le ragioni che ne dà Le Prolétaire che evoca le nostre “dimenticanze” “degli anni di piombo in Italia negli anni settanta”, quella degli eventi “contro i dimostranti algerini uccisi dalla polizia nel 1961”, “le ecatombi nei paesi dell'Est”, ecc. Nei fatti la nostra formulazione, certamente criticabile, voleva semplicemente significare che questi attentati traducono un aggravamento della situazione caotica a livello mondiale, cosa che è molto diversa dall'idea “di una perdita di memoria” da parte nostra. Per contro, criticare le nostre presunte “dimenticanze” rivela che, per i compagni di Le Prolétaire, questi attentati sono da mettere sullo stesso piano di quelli perpetrati negli anni 70 e gli eventi al tempo della Guerra fredda. In un certo senso non ci sarebbe nulla di nuovo sotto il sole. Questa tendenza di Le Prolétaire a non vedere la dinamica reale dell’imperialismo è legata ad una visione statica della storia, che persiste a negare la realtà di una fase di decadenza del sistema capitalista e della sua evoluzione. Difendendo lo stesso principio “di liberazione nazionale” mentre decenni d'esperienza, e le sconfitte operaie che le accompagnano, hanno dimostrato la sua pericolosità, Le Prolétaire mostra una difficoltà a essere capace di tenere conto della realtà storica nel quadro di una dinamica vivente e dialettica. Continua a interpretare gli eventi secondo lo stesso dogma immutabile, una concezione chiaramente sclerotizzata, fossilizzata della storia e degli insegnamenti da trarre per il futuro del movimento operaio che fa sì che le sue posizioni e analisi si trovano a volte in ritardo con la realtà e anche in opposizione con le necessità della lotta di classe.
Che un'organizzazione della Sinistra comunista sia portata sebbene soltanto a formulare la questione di un sostegno eventuale all’ISIS rispetto ai suoi simpatizzanti o contatti, non può, in effetti, che provocare “stupori e tremori”. Una tale confusione politica significa la perdita di vista di ciò che fa la vera forza del proletariato: la sua solidarietà, la sua unità internazionale e la sua coscienza di classe.
Nella loro essenza stessa, le condizioni d'esistenza e la lotta del proletariato sono antagonistiche al quadro nazionale. Questo anche di fronte agli arcaismi e alla stupidità sovrannazionale “del grande califfato”, forma tipica degli interessi imperialisti di una borghesia senza nazione che cerca incessantemente, attraverso conquiste militari, di imporre un'autorità, un'amministrazione ed una moneta nazionali.
Possedendo soltanto la sua forza di lavoro e privato di qualsiasi forma di proprietà, il proletariato non ha interessi specifici se non il suo progetto rivoluzionario, al di là delle frontiere nazionali. Il suo interesse comune è la sua organizzazione e lo sviluppo della sua coscienza. Proprio perché hanno questo in comune i proletari del mondo intero possono unirsi grazie ad un potente cemento: la solidarietà. Questa solidarietà non è una sorta di ideale o di utopia, è una forza materiale grazie alla quale il proletariato internazionale può difendere i suoi interessi di classe e dunque il suo progetto rivoluzionario universale.
RI (marzo 2017)
.[1] Le CCI et les attentats : stupeurs et tremblements (La CCI e gli attentati: stupori e tremori), Le Prolétaire n.519.
[2] Tra le altre questioni importanti che non possiamo trattare in questo articolo (come il nostro preteso pacifismo, il rapporto di forza tra le classi, ecc.), va sottolineata la tematica inerente alla fase di decomposizione, situazione inedita della vita del sistema capitalista e quadro di analisi di questo periodo storico essenziale oggi per orientare le attività dei rivoluzionari.
[3] Storia dell’Internazionale Comunista 1919-1923, Edizione Feltrinelli
[4] Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, Edizioni Prometeo
[5] Le Prolétaire n.370 (marzo-aprile 1983)
[6] Le Prolétaire n.164 (dal 7 al 27 gennaio 1974)
[7] Rivista Internazionale n.32, Il partito comunista internazionale (Programma comunista) alle sue origini, come pretende di essere, come è. Disponibile in Inglese, spagnolo e francese sul nostro sito: www.internationalism.org