Il comunismo significa l’eliminazione della legge del valore e del sistema dell’impresa

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Caro compagno,

 Abbiamo ricevuto volentieri la tua ultima lettera e salutiamo di nuovo i tuoi contributi sulla legge del valore e sull’autogestione. Essi fanno parte dell’indispensabile discussione tra comunisti per definire con il massimo rigore il programma della rivoluzione proletaria. Ecco come tu abbordi il problema:

 Nel vostro libro, la decadenza del capitalismo, voi dite che sotto il socialismo la produzione delle merci sarà eliminata. Ma è impossibile liquidare la produzione delle merci senza abolire la legge del valore. Dalla teoria di Marx, sotto il socialismo, i prodotti del lavoro saranno scambiati secondo la quantità dei tempi di lavoro necessari (secondo il lavoro), cioè conformemente alla legge del valore.”

 -“nel vostro opuscolo Piattaforma della CCI, il punto 11 s’intitola: “L’autogestione: autosfruttamento del proletariato” Che cosa vuol dire autosfruttamento? Lo sfruttamento è l’appropriazione dei prodotti del lavoro altrui. Se capisco bene, l’autosfruttamento è l’appropriazione dei prodotti del proprio lavoro. Così Robinson Crosué, si autosfruttava  quando consumava i prodotti del suo proprio lavoro. Robinson Crosué sfruttava se stesso.”

 Cercheremo di rispondere a queste due questioni, mostrando come esse siano legate.

 Il carattere storico e transitorio della legge del valore.

 Nella tua lettera del 26 dicembre 2004 tu citi un passaggio della Critica del programma di Gotha di Marx: “egli [il produttore individuale] riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale ad un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra.

 Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali. (1)

 L’idea essenziale difesa da Marx qui, è che dopo la rivoluzione, allorché il proletariato detiene il potere, è ancora necessario per tutto un periodo allineare i “salari” degli operai sul tempo di lavoro e, in conseguenza, di calcolare i tempi di lavoro contenuti nei prodotti, al fine di arrivare ad un “valore di scambio” dei prodotti che può essere espresso in “buoni di lavoro”. La produzione delle merci, la legge del valore, e dunque il mercato, sussistono ancora, e noi siamo d’accordo con lui. Noi comprendiamo dunque la tua sorpresa quando, nel nostro libro La decadenza del capitalismo, tu hai letto che nel socialismo la produzione delle merci sarebbe scomparsa. Nei fatti si tratta di un malinteso sui termini. In effetti nella nostra stampa noi utilizziamo sempre la parola socialismo come un sinonimo di comunismo come scopo finale del proletariato: una società senza classi e senza Stato dove i prodotti del lavoro non saranno più delle merci, dove la legge del valore sarà stata eliminata. Dall’epoca in cui scriveva Miseria della filosofia (1847), Marx era chiaro su questo: nel comunismo non ci sarà più scambio, non ci saranno più merci: “in una società futura, dove l’antagonismo di classe sarà cessato, dove non ci saranno più classi, l’uso non sarà più determinato dal minimo del tempo di produzione; ma il tempo di produzione che si consacrerà ai differenti oggetti sarà determinato dal loro grado di utilizzazione sociale.”(2)   In questo stadio, il valore si scambio sarà stato abolito. La comunità umana riunificata, attraverso i suoi organi amministrativi incaricati della pianificazione centralizzata della produzione, deciderà quale quantità di lavoro dovrà essere consacrata alla produzione di questo o quel prodotto. Ma essa non avrà più bisogno del “passaggio” dello scambio come avviene nel capitalismo perché l’importante è il grado di utilizzazione sociale dei prodotti. Noi saremo allora in una società dell’abbondanza dove non solamente i bisogni più elementari dell’essere umano sono soddisfatti ma dove questi stessi bisogni conoscono un formidabile sviluppo. In questa società lo stesso lavoro avrà completamente cambiato natura: essendo il tempo consacrato alla creazione dei bisogni di sussistenza ridotto al minimo, il lavoro diverrà per la prima volta una attività veramente libera. La distribuzione, come la produzione, cambieranno ugualmente di natura. Poco importa ormai il tempo consacrato dall’individuo alla produzione sociale, regnerà solo il principio: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!”

 L’identificazione e la difesa di questo scopo finale della lotta proletaria – una società senza classi, senza Stato né frontiere nazionali, senza merci – attraversano tutta l’opera di Marx, Engels e dei rivoluzionari delle generazioni successive. È importante ricordarlo poiché questo scopo determina profondamente il movimento che conduce ad esso e i mezzi necessari a metterlo in opera.

 Dopo l’esperienza della rivoluzione russa, poi della controrivoluzione stalinista, noi pensiamo che è preferibile per la chiarezza di parlare d’un “periodo di transizione dal capitalismo al socialismo” piuttosto che di “socialismo” o di “fase inferiore del comunismo”. È evidente che non si tratta di una semplice questione di terminologia. In effetti, la dittatura del proletariato non può essere concepita come una società stabile, né come un modo di produzione specifico. È una società in piena evoluzione, tesa verso la realizzazione di uno scopo finale, di sconvolgimenti sociali e politici, dove gli antichi rapporti di produzione sono attaccati e declinano mentre appaiono e si rafforzano i nuovi. Nella “Critica del programma di Gotha”, prima del passaggio citato all’inizio di questo articolo Marx precisa che: “quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa [sottolineato da noi], come emerge dalla società capitalista; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita.”(3) Qualche pagine dopo, afferma chiaramente: “tra la società capitalista e la società comunista si situa il periodo di trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. A questo periodo corrisponde ugualmente un periodo di transizione politica dove lo Stato non sarebbe essere altra cosa che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.”

 La nostra lettera precedente aveva permesso, sembra, di eliminare questo malinteso e la tua risposta esprimeva un accordo sul fondo. “dalla mia comprensione del marxismo, questo periodo di transizione si chiama socialismo. Io non parlo del comunismo del mercato, ma del socialismo di mercato. (..) Con l’aumento delle forze produttive, la distribuzione in funzione del lavoro si trasforma in distribuzione secondo i bisogni, il socialismo si trasforma passo a passo in comunismo e il mercato scomparirà nel tempo.”

 Nella tua lettera del 26 dicembre 2004, tu sottolineavi che esistono tre forme di distribuzione dei prodotti basati sui tempi di lavoro socialmente necessari contenuti in essi:

 - attraverso l’intermediario del denaro (D), nel qual caso lo scambio delle merci (M) si effettua sotto la forma M – D – M;

 - attraverso l’intermediario di un buono di lavoro (B) di cui parlava di cui parlava Marx:  M – B – M

 - direttamente sotto la forma del baratto; M – M

 E tu notavi che, nei tre casi, noi avevamo a che fare con uno scambio di merci, quindi con l’esistenza di un mercato, cioè con una società che utilizza un equivalente generale, la moneta, per esprimere il tempo di lavoro, anche se la moneta non è necessaria nel caso arcaico del baratto per determinare l’equivalenza. Come tu dici: “La  moneta e i buoni sono quasi la stessa cosa, perché misurano la stessa cosa – il tempo di lavoro. La differenza tra i due è la stessa che c’è tra un regolo graduato in centimetri e un altro graduato in pollici.” Siamo d’accordo con te per dire che è con questa situazione economica che si confronterà il proletariato dopo la presa del potere e che ignorare ciò significa una regressione in rapporto al marxismo. Tanto più che la guerra civile tra il proletariato e la borghesia a scala mondiale provocherà numerose distruzioni che comporteranno una diminuzione della produzione. Incessantemente i comunisti devono combattere le illusioni su una estinzione rapida e senza problemi della legge del valore. La necessità per il proletariato di portare a termine la soppressione dello scambio e di creare le condizioni del deperimento dello Stato, farà del periodo di transizione un periodo di sconvolgimento rivoluzionario come l’umanità non ha mai conosciuto. Malgrado queste precisazioni, è evidente che un disaccordo sussiste. Tu scrivi, per esempio, nella stessa lettera: “sotto il socialismo i prodotti del lavoro saranno scambiati secondo la quantità di lavoro socialmente necessario. E là dove i prodotti del lavoro sono scambiati secondo la quantità di lavoro, il mercato e la produzione delle merci continuano ad esistere. In conseguenza, per abolire la produzione delle merci occorre abolire la distribuzione basata sulla quantità di lavoro. Dunque, se voi volete abolire la produzione delle merci, voi dovete abolire il socialismo. Se voi vi considerate marxisti, voi dovete riconoscere che il socialismo nella sua essenza è basato sul mercato. Altrimenti  andate dagli anarchici!”

 Da ciò che abbiamo visto prima, noi supponiamo che tu designi per “socialismo” il periodo di transizione dal capitalismo al comunismo. Questo periodo resta, per sua definizione, instabile: o il proletariato è vittorioso, e “l’economia di transizione” è trasformata nel senso del comunismo, cioè verso l’abolizione dell’economia mercantile; o il proletariato perde terreno, le leggi del mercato si riaffermano, e c’è il pericolo che la strada verso la controrivoluzione sia aperta.

L’ignoranza degli anarchici

 Ancora nella stessa lettera, tu scrivi che si trova questa ignoranza presso gli anarchici. In effetti, per loro, l’emancipazione dell’umanità riposa unicamente su uno sforzo di volontà e, in conseguenza il comunismo potrebbe vedere l’alba in qualsiasi epoca storica. Così facendo essi rigettano ogni conoscenza scientifica dello sviluppo sociale e di conseguenza sono incapaci di comprendere quale ruolo possono giocarvi la lotta di classe e la volontà umana. Nella sua Prefazione al Capitale, Marx rispondeva, senza nominarli, agli anarchici che negano l’inevitabilità di un periodo di transizione: “Se pure una società è arrivata a scoprire la legge di natura del proprio movimento – e scopo ultimo di questa opera è rivelare la legge economica del movimento della società moderna – non può né saltare né togliere di mezzo con decreti le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare e attutire le doglie del parto.”(4)

 Secondo Marx ed Engels, la necessità della dittatura del proletariato, cioè di un  periodo di transizione tra i due modi di produzione “stabili” che costituiscono il capitalismo e il comunismo, riposa su due fondamenti:

 - l’impossibilità di uno sbocciare del comunismo nel seno del capitalismo (contrariamente al capitalismo che si sviluppò nel seno del feudalesimo);

 - il fatto che il formidabile sviluppo delle forza produttive ottenuto dal capitalismo è ancora insufficiente per permettere il pieno soddisfacimento dei bisogni umani che caratterizza il comunismo.

 Gli anarchici non solo sono evidentemente incapaci di comprendere ciò, ma in più la loro “visione del comunismo” non supera in alcun modo lo stretto orizzonte borghese. Lo si può constatare già nell’opera di Proudhon. Per quest'ultimo, l'economia politica è la scienza suprema e si ostina ad individuare in ogni categoria economica capitalista i buoni ed i cattivi lati. La parte buona dello scambio è che mette faccia a faccia due valori uguali. Il lato buono della concorrenza è l'emulazione. E troverà inevitabilmente un qualcosa di buono nella proprietà privata: "Ma è ovvio che se la disuguaglianza è uno degli attributi della proprietà, non è tutta la proprietà; poiché ciò che rende la proprietà deliziosa, come diceva non so più quale filosofo, è la facoltà di disporre a volontà non soltanto del valore del suo bene ma della sua natura specifica, sfruttarlo a proprio piacimento, di rintanarsi e di richiudersi, di farne l’ uso che l'interesse, la passione ed il capriccio vi suggeriscono.” (5)

 Ci annunciavano il regno della libertà, ci buschiamo sogni limitati e meschini del piccolo produttore. Per gli anarchici, la società ideale è soltanto un capitalismo idealizzato dove regneranno da padrone lo scambio e la legge del valore, cioè le condizioni dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Al contrario, il marxismo si presenta come una critica radicale del capitalismo che difende la prospettiva di una vera emancipazione del proletariato e, allo stesso tempo, dell'umanità tutta intera. Marx ed Engels hanno sempre combattuto il comunismo grezzo che limitava la rivoluzione alla sfera della distribuzione e che arrivava semplicemente ad una divisione della miseria. Gli opponevano l’esplosione delle forze produttive liberate dagli ostacoli del capitalismo. Non richiedevano soltanto la soddisfazione delle necessità elementari dell'essere umano ma ancora il compimento di quest'ultimo, il superamento della separazione tra l'individuo e la comunità, lo sviluppo di tutte le facoltà dell'individuo attualmente soffocate dalla piovra della divisione del lavoro: “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ‘da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”(6)

 Con ciò, il marxismo non cede alle frasi roboanti del radicalismo piccolo borghese e dell'utopia; sa che il solo mezzo per uscire dal capitalismo, sono l'eliminazione del lavoro salariato e dello scambio che riassumono tutte le contraddizioni del capitalismo, che sono la causa ultima delle guerre, delle crisi e della miseria che devastano la società. La politica economica messa in opera dalla dittatura del proletariato è completamente volta verso questo scopo. Secondo questa concezione, non c'è trasmutazione spontanea ma distruzione dei rapporti sociali capitalisti.

 Questo richiamo ci permette di sottolineare l’estrema confusione con la quale gli anarchici pretendono di superare la separazione dell'operaio con i prodotti del suo lavoro. Nella loro visione, diventando proprietari della fabbrica dove lavorano, gli operai diventano inevitabilmente proprietari dei prodotti del loro lavoro. Li dominano infine, ne ottengono anche l'integrità del piacere. Risultato: la proprietà è diventata eterna e sacra. Siamo qui in presenza di un regime di tipo federalista ereditato dai modi di produzione precapitalisti. È lo stesso procedimento di Lassalle. Quest'ultimo ha appreso da Marx che lo sfruttamento si traduce nell'estrazione di plusvalore. Richiediamo di conseguenza per l'operaio il prodotto integrale del lavoro ed il problema è regolato. Così facendo, come dice Engels nell'Anti-Dühring: “si ritira alla società la funzione progressiva più importante della società, l’accumulazione; la si rimette nelle mani e all’arbitrio degli individui.”(7). Dopo i lavori di Marx, queste confusioni sul lavoro, la forza lavoro ed il prodotto del lavoro sono diventate propriamente inammissibili. Questo sproloquio teorico comune a Lassalle ed agli anarchici forma la base delle concezioni sull’autogestione. Qui, non ci si orienta più verso l'abolizione dello scambio ed il comunismo, si moltiplicano gli ostacoli sul proprio cammino. Ecco come Marx, sempre nella Critica del programma di Gotha, conclude la critica aspra di queste concezioni: "mi sono occupato ampiamente del ‘frutto integrale del lavoro’ da una parte, dall’altra parte dell’‘ugual diritto’ della ‘giusta ripartizione’,  per mostrare quanto si vaneggia, allorché da un lato si vogliono nuovamente imporre come dogmi al nostro partito concetti, che in un certo momento avevano un senso, ma ora sono diventati frasi antiquate; e, dall’altro lato, quanto la concezione realistica, così faticosamente fatta acquisire al partito ma che ora si è radicata in esso, viene di nuovo deformata con fandonie ideologiche di carattere giuridico e simili, così comuni tra i democratici e i socialisti francesi.”(8)

 Da questo punto di vista, ci sembra che tu ti fermi nel cammino del tuo ragionamento. Tu sei d’accordo con noi per dire che, durante questo periodo, non ci sarà sfruttamento della classe operaia per il fatto che sarà il proletariato ad esercitare il potere, a causa del processo di collettivizzazione dei mezzi di produzione, perché il pluslavoro non ha più la forma di un plusvalore destinato all'accumulo del capitale ma è destinato (una volta defalcato il fondo di riserva e ciò che è destinato ai membri improduttivi della società) alla soddisfazione crescente dei bisogni sociali. Dici molto giustamente: "La differenza tra il socialismo [periodo di transizione] ed il capitalismo consiste nel fatto che sotto il socialismo la mano d'opera non esiste in quanto merce" (lettera del 23 gennaio 2005). Ma affermi nella lettera successiva: "La legge del valore resterà in vigore completamente, non parzialmente". Ciò che rafforza ancora la tua espressione: "socialismo di mercato”. Vedi bene la necessità di attaccare il salariato ma non quella di attaccare lo scambio commerciale. Ora, i due sono legati profondamente.

 La legge del valore scoperta da Marx non consiste solamente nel delucidare l'origine del valore delle merci, essa risolve l'enigma della riproduzione allargata del capitale. Anche se il proletario riceve dalla vendita della sua forza lavoro uno stipendio che corrisponde al suo valore reale, fornisce tuttavia un valore molto superiore nel processo di produzione. Lo sfruttamento che permette che sia estratto così un tale plusvalore dal lavoro del proletario esisteva già nella produzione commerciale semplice a partire dalla quale il capitalismo è nato e si è sviluppato. Non è dunque possibile sopprimere lo sfruttamento del proletariato senza attaccare lo scambio commerciale. È ciò che ci spiega chiaramente Engels ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: "non appena i produttori non consumarono più direttamente il loro prodotto, ma lo passarono in altre mani nello scambio, perdettero il dominio su di esso. Non sapevano più che cosa ne sarebbe avvenuto; era data la possibilità che il prodotto, un giorno, venisse adoperato contro il produttore per sfruttarlo ed opprimerlo. Perciò nessuna società può mantenere durevolmente il dominio sulla propria produzione e il controllo sugli effetti sociali del suo processo di produzione a meno che non abolisca lo scambio tra individui."(9)

 Se la legge del valore resta "in vigore completamente ", come tu affermi, allora il proletariato resterà una classe sfruttata. Affinché lo sfruttamento cessi durante il periodo di transizione, non basta che la borghesia sia stata espropriata. Occorre ancora che i mezzi di produzione smettano di esistere in quanto capitale. Al principio capitalista del lavoro morto, del lavoro accumulato, cui si sottomette il lavoro vivo in vista della produzione di plusvalore, bisogna sostituire il principio del lavoro vivo che domina il lavoro accumulato in vista di una produzione destinata alla soddisfazione dei bisogni dei membri della società. La dittatura del proletariato dovrà in questo senso combattere il produttivismo assurdo e catastrofico del capitalismo. Come diceva la Sinistra Comunista di Francia, " La parte di pluslavoro che il proletariato potrà prelevare sarà forse in principio grande tanto quanto sotto il capitalismo. Il principio economico socialista non potrebbe dunque essere distinto, nella grandezza immediata, dal rapporto tra il lavoro pagato e non pagato. Solo la tendenza della curva, la tendenza all'avvicinamento del rapporto potrà servire come indicazione dell'evoluzione dell'economia ed essere il barometro che indica la natura di classe della produzione.”(10)

 L’autogestione, una trappola mortale per il proletariato

 La seconda questione in discussione è trattata al punto 11 della nostra piattaforma: "l'autogestione, auto-sfruttamento del proletariato". Tu affermi qui un netto disaccordo con la nostra posizione. Ti sembra inconcepibile che gli operai stessi possano sfruttarsi. "ma non comprendo affatto", scrivi, "come è possibile sfruttarsi, è quasi la stessa cosa di derubarsi." Dalle grandi lotte operaie della fine degli anni 1960, la maggior parte delle nostre sezioni è stata confrontata concretamente alla questione dell'autogestione da parte degli operai della "loro" impresa nell'ambito della società capitalista. Hanno potuto dunque verificare nella pratica che sotto la maschera dell’autogestione si nasconde la trappola dell'isolamento teso dai sindacati. Gli esempi sono infatti numerosi: la fabbrica di orologi Lip in Francia nel 1973, Quaregnon e Salik in Belgio nel 1978-79, Triumph in Inghilterra nella stessa epoca e recentemente nella miniera di Tower Colliery in Galles. Ogni volta lo scenario è lo stesso: la minaccia di fallimento causa la lotta degli operai, i sindacati organizzano l'isolamento della lotta e finiscono per ottenere la sconfitta facendo balenare il riacquisto della fabbrica dagli operai ed i quadri, a costo di versare, se necessario, molti mesi di salario o il premio di licenziamento per aumentare il capitale dell'impresa. Nel 1979, la fabbrica Lip, nel frattempo diventata cooperativa operaia, è costretta a chiudere sotto la pressione della concorrenza. In occasione dell'ultima assemblea generale, un operaio esprime la sua collera e la sua disperazione di fronte ai delegati sindacali che erano diventati in realtà i veri proprietari dell'impresa: "Voi siete ignobili! Oggi siete voi che ci mettete alla porta... Ci avete mentito!"(11) Far accettare i sacrifici che la crisi economica impone, esige di soffocare all’origine le lotte operaie di resistenza, ecco l'utilità della parola d'ordine dell'autogestione.

 Questa posizione di principio è interamente conforme al marxismo. Occorre inoltre osservare che non siamo i primi ad utilizzare la nozione d'auto-sfruttamento degli operai. Ecco ciò che scriveva Rosa Luxemburg in 1898:

 "Ma nell'economia capitalista lo scambio domina la produzione e, in considerazione della concorrenza, fa dello sfruttamento spietato, cioè del predominio totale degli interessi del capitale sul processo produttivo, la condizione per l’esistenza dell’impresa. Ciò si manifesta in pratica nella necessità di rendere il lavoro il più possibile intensivo, di abbreviarlo o allungarlo a seconda della situazione di mercato, di ingaggiare la forza-lavoro o licenziarla e metterla sul lastrico a seconda delle richieste del mercato dello smercio, in una parola nel mettere in pratica tutti i metodi conosciuti che rendono un'impresa capitalista capace di essere concorrenziale. Nella cooperativa di produzione ne deriva la necessità contraddittoria per i lavoratori di governare se stessi con tutto l'assolutismo che si richiede, di svolgere con se stessi il ruolo dell’imprenditore  capitalistico. Per questa contraddizione  la cooperativa produttiva va in rovina, riconvertendosi in impresa capitalista oppure, nel caso che gli interessi dei lavoratori siano più forti, sciogliendosi.”(12).

 Quando gli operai svolgono "riguardo a essi stessi il ruolo di imprenditori capitalisti", è ciò che noi chiamiamo auto-sfruttamento. La tua difesa dell'autogestione si appoggia sull'esperienza delle cooperative operaie al 19° secolo e tu citi in particolare la "Risoluzione sul lavoro cooperativo", adottata al primo congresso dell’AIT. Infatti, Marx ed Engels hanno varie volte incoraggiato il movimento cooperativo, principalmente le cooperative di produzione, non così tanto per i loro risultati pratici ma piuttosto perché consolidavano l'idea che i proletari avrebbero potuto molto bene fare a meno dei capitalisti. È per questo che si sono affrettati a sottolineare i limiti, i rischi incessanti ch’esse possano cadere più o meno direttamente sotto il controllo della borghesia. La loro preoccupazione era di evitare che le cooperative non deviassero gli operai dalla prospettiva rivoluzionaria, dalla necessità della conquista del potere su tutta la società. Questa risoluzione afferma:

"a) Riconosciamo il movimento cooperativo come una delle forze trasformatrici della società presente, fondata sull'antagonismo delle classi. Il suo grande merito è di mostrare praticamente che il sistema attuale di subordinazione del lavoro al capitale, dispotico e impoverente, può essere soppiantato dal sistema repubblicano dell'associazione dei produttori liberi ed uguali.

 b) Ma il sistema cooperativo ristretto alle forme minuscole derivate dagli sforzi individuali degli schiavi salariati, è impotente a trasformare di per sé la società capitalista. Per convertire la produzione sociale in un ampio ed armonioso sistema di lavoro cooperativo, sono indispensabili dei cambiamenti generali. Questi cambiamenti non saranno mai ottenuti senza l'occupazione delle forze organizzate della società. Dunque, il potere dello Stato, strappato dalle mani dei capitalisti e dei proprietari terrieri, deve essere trattato dai produttori stessi."(13)

 Tu citi del resto la prima parte di questo passaggio ma non la seconda che gli dà pertanto un'illuminazione fondamentale e che riflette molto più fedelmente il vero pensiero di Marx. Si sa che nella 1a Internazionale, Marx era obbligato a coesistere con tutta una serie di scuole socialiste confuse che sperava di far progredire. Prendendo coscienza di sé,  il movimento operaio si sbarazzerà delle "ricette dottrinarie” e Marx vi contribuì attivamente. Le associazioni cooperative appartenevano a questo tipo dottrinario ed intendevano sostituirsi alla lotta di classe, alla protezione degli operai, alla lotta sindacale ed anche al rovesciamento della società capitalista. Per Marx, era indispensabile che la classe operaia si elevasse all'altezza di una comprensione teorica di ciò che essa doveva realizzare nella pratica. In questo senso, la formula: "un ampio ed armonioso sistema di lavoro cooperativo" designa innegabilmente nel suo spirito la società comunista e non una federazione di cooperative operaie.

 La prima parte di questa risoluzione significa per te che la lotta per le riforme non è contraddittoria con il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo, che ne è complementare. Ma questa complementarità era possibile soltanto all'epoca del capitalismo progressista, epoca in cui la borghesia poteva ancora svolgere un ruolo rivoluzionario rispetto alle vestigia del feudalesimo e dove gli operai dovevano partecipare alle lotte parlamentari e sindacali per il riconoscimento dei diritti democratici, per imporre grandi riforme sociali per accelerare la comparsa delle condizioni della rivoluzione comunista. Oggi, al contrario, viviamo l'epoca della decadenza del capitalismo. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, con l'emergenza di un nuovo periodo del capitalismo, quella dell’imperialismo, della decadenza, le riforme sono diventate impossibili. Senza questo passo storico proprio del marxismo, si finisce per dimenticare l'avvertimento di Lenin in La rivoluzione proletaria ed il rinnegato Kautsky: "uno dei metodi più ipocriti dell’opportunismo consiste nel ripetere una posizione valida in passato." Affermi che, secondo Marx, "il socialismo sorge nell'ambito della società borghese vecchia e morente." Se leggiamo il Manifesto comunista, ad esempio, non troviamo da nessuna parte tale idea. Marx ed Engels spiegano che la borghesia aveva sviluppato nuove rapporti di produzione gradualmente nell'ambito del feudalesimo e che la sua rivoluzione politica viene a completare la sovranità economica acquisita prima. Mostrano in seguito che il processo è inverso per il proletariato: "Tutte le classi, che fino ad ora s’impossessarono del potere, cercarono sempre di consolidare la posizione raggiunta, con l’assoggettare la società tutta intera alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletari, invece, solo per una via possono impossessarsi delle forze produttive sociali, ed è quella di abolire il modo con il quale essi conseguono un provento, il che importa che si abolisca tutto l’attuale sistema di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da assicurare, essi hanno solo da abolire ogni sicurezza privata, ed ogni privata garanzia.” (Manifesto del Partito Comunista, “Borghesi e Proletari”)

 La rivoluzione politica del proletariato rappresenta la condizione indispensabile per la nascita di nuove relazioni di produzione. Ciò che sorge nell'ambito della società borghese, sono le condizioni del socialismo, non il socialismo stesso.

 Le crudeli leggi della concorrenza

 Per sostenere la tua argomentazione, sviluppi l'idea che "la decadenza significa il ristagno economico, la fioritura della delinquenza, l'aumento della miseria e della disoccupazione, un potere di Stato debole ed instabile (un esempio che colpisce sono gli imperi militari nell'antica Roma che si mantenevano solo per alcuni mesi), la lotta di classe acuta. E la cosa principale che non avete citato nel vostro libro La decadenza del capitalismo, è la comparsa di nuovi rapporti di classe al centro della vecchia società che muore. Nell'impero romano erano i coloni, gli schiavi nelle aziende agricole, dunque dei servi nella loro essenza. Nel periodo della distruzione della società borghese, sono le imprese autogestite, più precisamente le cooperative."  È vero che, nel capitalismo decadente, la società borghese è segnata da una grande instabilità. La borghesia deve fare fronte ad un indebolimento economico senza precedenti, la crisi di sovrapproduzione esercita le sue devastazioni a causa dell'insufficienza dei mercati solvibili su scala internazionale, le rivalità imperialiste si inaspriscono e portano alla guerra mondiale. Precisamente, la borghesia risponde a questa situazione con un rafforzamento dello Stato come fu già il caso nella decadenza dell'impero romano e, riguardo al feudalesimo, con la monarchia assoluta. L'aggravarsi della concorrenza, la necessità di un eccessivo sfruttamento del proletariato, la comparsa di una disoccupazione massiccia, uno Stato totalitario che estende i suoi tentacoli a tutta la società civile (e non uno "Stato debole ed instabile"), ecco precisamente le ragioni che rendono ormai impossibile la sopravvivenza delle cooperative operaie.

 Siamo completamente d'accordo con te per dire che sono "i comunisti di Sinistra che avevano ragione sulla questione (del capitalismo di Stato) e non Lenin." Avevano capito intuitivamente che il capitalismo si rafforzava in Russia anche in assenza di una borghesia privata e che il potere della classe operaia era in pericolo. Infatti, sotto la pressione dell'isolamento della rivoluzione, i Consigli Operai hanno perso il potere a profitto dello Stato con il quale il partito bolscevico si era completamente identificato. Ma non siamo d'accordo con i rimedi proposti dall'opposizione operaia della Kollontai. Richiedere che la gestione delle imprese e lo scambio dei prodotti passassero sotto il controllo operaio di ogni fabbrica poteva soltanto peggiorare il problema, renderlo ancora più complicato. Non soltanto gli operai avrebbero ottenuto soltanto un potere simbolico ma avrebbero in più perso la loro unità di classe che si era realizzata così magnificamente con il sorgere dei Consigli Operai e l'influenza di un reale partito d'avanguardia nel loro seno, il partito bolscevico.

 Al contrario tu pensi che: "è molto più facile e comodo per gli operai controllare la produzione a livello di imprese (...) Dopo l’ottobre ’17, l'economia è stata gestita in modo centralizzato. Concludendo, il socialismo si è degradato in capitalismo di Stato, nonostante la volontà dei bolscevichi. (...) Dunque, sotto il socialismo, i consigli operai non avranno la funzione di gestire l'economia, non progetteranno la produzione né distribuiranno i prodotti. Se si attribuiscono queste funzioni ai Consigli Operai, il socialismo evolverà inevitabilmente verso il capitalismo di Stato." Per quanto ci riguarda, siamo convinti che la centralizzazione sia fondamentale per il potere operaio. Se ritiri la centralizzazione del socialismo, allora ottieni le Comunità autonome anarchiche ed una regressione delle forze produttive. Ciò che è avvenuto in Russia, è che una forza centralizzata, lo Stato, ha soppiantato un'altra forza centralizzata, i Consigli Operai. Da dove è dunque venuta la burocrazia, la nuova borghesia staliniana? Essa è venuta dallo Stato, non dai Consigli Operai che, quanto a loro, hanno subito un processo di deterioramento che li ha condotti alla morte. Non è la centralizzazione che è la causa della decomposizione della rivoluzione russa. Se i Consigli Operai sono stati indeboliti a questo punto, se gli stessi bolscevichi si sono fatti fagocitare dallo Stato, è a causa dell'isolamento della rivoluzione. Le mitragliatrici che assassinavano il proletariato tedesco raggiungevano, indirettamente, il proletariato russo che, immediatamente, diventò soltanto un gigante ferito, indebolito, esangue. Nuova conferma di questa grande lezione della rivoluzione russa: il socialismo è impossibile in un solo paese!

 Per concludere, ritorniamo alla tua concezione dell'autogestione delle imprese sotto il capitalismo.(14) In queste cooperative, gli operai decidono collettivamente la ripartizione del profitto. Il lavoro salariato non esiste più, "gli operai ricevono il valore d'uso e non il valore di scambio della loro forza lavoro." Inizialmente, pensiamo che ci sia qui una confusione tra "valore di scambio" e "valore d'uso": quest'ultimo esprime l'utilità di ciò che è prodotto, l'impiego che se ne può fare. E precisamente, una delle specificità fondamentali, rispetto alle altre epoche della storia, del processo di produzione messo in atto dal proletariato moderno, è precisamente che i valori d'uso che produce possono essere adattati soltanto dalla società intera: contrariamente alle scarpe (ad esempio) prodotte dall'artigiano ciabattino, le centinaia di milioni di chip prodotti dagli operai di Intel o AMD non hanno alcun valore d'uso "in sé"; il loro valore d'uso esiste soltanto come componenti di altre macchine prodotte da altri operai in altre fabbriche e che rientrano nella catena di produzione di altre fabbriche ancora. La stessa cosa è vera anche per i "ciabattini" moderni: gli operai di Jinjiang in Cina producono 700 milioni di scarpe all'anno, si ha difficoltà ad immaginare che potrebbero portarle tutte! Inoltre immaginiamoci una tale fabbrica autogestita remunerare gli operai in mietitrebbiatrici, per definizione indivisibili e tale altra in penne a sfera.

 Ma ammettiamo, come dici, che gli operai ricevano l'equivalente allo stesso tempo del capitale variabile e del plusvalore prodotto. Non possono tuttavia consumare completamente il profitto dell'impresa ma soltanto una parte relativamente debole, dovendo il rimanente essere trasformato in nuovi mezzi di produzione. Infatti, le leggi della concorrenza (poiché siamo qui in una situazione di concorrenza) fanno sì che qualsiasi impresa deve ingrandirsi ed aumentare la sua produttività se non vuole perire. Una parte del profitto è dunque accumulata e trasformata nuovamente in capitale. E necessariamente una parte importante tanto quanto quella di una fabbrica non autogestita, altrimenti l'impresa autogestita non si ingrandirà rapidamente come le altre e finirà per scomparire.

 Almeno, i costi di produzione della fabbrica autogestita devono essere così bassi come quelli del resto dell'economia capitalista, altrimenti non troverà acquirenti per i suoi prodotti. Ciò vuol dire inevitabilmente che gli operai delle fabbriche autogestite dovranno allineare i loro salari ed il loro ritmo di lavoro su quelli degli operai impiegati da imprese capitaliste: in una parola, dovranno auto-sfruttarsi. In più, ci troviamo nelle stesse condizioni di sfruttamento che in qualsiasi altra impresa poiché la forza lavoro resta sottoposta, alienata al lavoro morto, al lavoro accumulato, al capitale. Al massimo possono recuperare la frazione del profitto che, nell'impresa capitalista tradizionale, va al consumo personale del proprietario o costituisce i dividendi degli azionisti. Gli operai che si erano rallegrati di avere ottenuto un supplemento al loro salario dovranno rapidamente prendere un tono più basso. I capi che avevano eletto in tutta fiducia, sapranno rapidamente convincerli a rendere questo supplemento ed anche ad acconsentire delle riduzioni salariali. "Né la trasformazione in società per azioni, né la trasformazione in proprietà di Stato, (né la trasformazione in imprese autogestite, potremmo aggiungere) elimina la qualità di capitale delle forze produttive", dice Engels nell'Anti-Dühring. La trasformazione dello statuto giuridico delle imprese non cambia nulla nella loro natura capitalista. Poiché il capitale non è una forma di proprietà, è un rapporto sociale. Solo la rivoluzione politica del proletariato, imponendo un nuovo orientamento alla produzione sociale può eliminare il capitale. Ma non può ottenerlo arretrando rispetto al livello di socializzazione internazionale raggiunto sotto il capitalismo. Deve al contrario completare questa socializzazione rompendo il quadro nazionale, il quadro dell'impresa e la divisione del lavoro. La parola d'ordine del Manifesto comunista prenderà allora tutto il suo senso: "proletari di tutti i paesi, unitevi!". Aspettando una tua risposta, ricevi i nostri saluti fraterni e comunisti.

 CCI, 22 novembre 2005

 1. Karl Marx, Critica del programma di Gotha, Laboratorio Politico, pag. 22

 2. K. Marx, Miseria della filosofia, 

 3. K. Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 21

 4. K. Marx, Prefazione della prima edizione del libro primo del Capitale, Newton Compton Editori, pag. 6

 5. Pierre Joseph Proudhon, Che cos’è la proprietà?

 6. K. Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 23

 7. Friedrich Engels,  Anti-Dühring 

 8. K.Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 24

 9. F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cap.V , Ed. Riuniti, pag.140. 

 10. “L’esperienza russa” Internationalisme n° 10, maggio 1946, ripubblicato nella Revue Internazionale n° 61, 2° trim. 1990

 11. Révolution Internationale  n° 67, nov. 1979

 12. Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione? Newton Compton Editori. Parte seconda: “sindacati, cooperative e democrazia politica” pag. 51

 13. K. Marx, Risoluzione del Primo congresso dell’AIT (riunito a Ginevra nel settembre  1866).

14. Per citare la tua lettera: “l’autogestione (nel pieno senso del termine), è quando gli operai gestiscono la loro impresa  anche condividendosi i profitti. In realtà, l'impresa è diventata proprietà degli operai."

 "Per me, le imprese cooperative hanno le caratteristiche seguenti:

  1) l’assenza completa del lavoro salariato, 

  2) l'elezione di tutti i responsabili,

  3) la distribuzione dei profitti da parte del collettivo dei lavoratori dell'impresa."

 "Nelle imprese in cui il lavoro salariato non esiste, cioè quando gli operai ricevono il valore d'uso (il capitale variabile + il plusvalore) e non il valore di scambio della loro forza lavoro (il capitale variabile), la produzione è dieci volte più efficace."

 "Gli operai fabbricano prodotti, li vendono sul mercato. Con ciò che hanno guadagnato, possono comperare l'equivalente della stessa quantità di lavoro da altri operai. C'è stata una distribuzione effettuata sulla base della quantità di lavoro. In seguito, una parte del valore va al rinnovo dei mezzi di produzione, mentre l'altra va al consumo individuale degli operai.”

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