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Rivoluzione Internazionale - n°130

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Contro la guerra imperialista! Contro le illusioni pacifiste! Per la lotta di classe in tutti i paesi!

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Ancora una volta il Medio Oriente è immerso nell’orrore. Ancora una volta una pioggia di bombe si abbatte sull’Iraq. E mentre le potenze “civilizzate” spargono morte e miseria su una popolazione che già muore di fame, una pioggia di menzogne si abbatte sul resto del mondo per giustificare questa guerra, o per mistificare e deformare ogni opposizione reale ad essa.

Stati Uniti e Gran Bretagna mentono!

Ci dicono che si tratta di una guerra per eliminare armi di distruzione di massa. Ma proprio questa guerra si combatte con armi di distruzione di massa e uno dei suoi principali obiettivi è proprio quello di dimostrare a che punto le armi di cui gli Stati Uniti dispongono sono potenti e distruttive, per scoraggiare chiunque voglia contestare la loro dominazione sul mondo. Inoltre sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che hanno fornito a Saddam le sue armi chimiche negli anni ottanta, sono loro che lo hanno aiutato ad usarle nella guerra Iraq-Iran nel 1980-88, e sono sempre loro che non hanno avuto niente da ridire quando Saddam ha gassato le popolazioni curde di Halabaja nel marzo 1988.

Ci dicono che è una guerra contro il terrorismo. Ma tutti gli Stati – e non solo gli Stati deboli come l’Afghanistan o l’Iraq o gli embrioni di Stato come l’OLP– usano il terrorismo come strumento di guerra. La Gran Bretagna da tempo si serve delle sue bande lealiste nell’Irlanda del Nord per fare il lavoro sporco per suo conto. E’ con la CIA che il nemico attuale degli Stati Uniti, Bin Laden, si è addestrato, per fare la guerra contro la Russia in Afghanistan. Così la Spagna, attuale alleato della Gran Bretagna e degli USA ha usato le squadre della morte GAL per eliminare senza processo i terroristi dell’ETA. E, peggio ancora,questi Stati Uniti, che pretendono di fare la lezione al mondo intero sul pericolo terrorista, non hanno esitato a sfruttare gli attacchi terroristi contro la loro popolazione civile per mobilitare questa al sostegno alla guerra. Oggi è sempre più evidente che lo Stato americano, benché informato da tempo dei progetti di attacchi di Al Quaida sul territorio americano, non ha fatto niente per impedirli.

La Francia, la Germania, la Russia sono anche loro portatori di guerra!

Queste menzogne sono oggi sempre più evidenti. Ma i paesi e gli uomini politici che proclamano di essere “contro la guerra”, spargono menzogne ancora più pericolose.

Ci dicono che questa guerra non è giusta perché non è stata avallata dalle Nazioni Unite. Ma nel 1991 la guerra che ha provocato il massacro di centinaia di migliaia di irakeni e ha lasciato a Saddam le mani libere per massacrare quelli che gli si rivoltavano contro era una guerra “legale”, approvata dall’ONU. L’ONU non difende nessun tipo di giustizia internazionale; essa è un covo di briganti dove si giocano sporchi intrighi e le rivalità tra le grandi potenze.

Oggi Chirac, Schroeder, e Putin hanno la faccia tosta di presentarsi come “portatori di pace”. Ma le referenze pacifiste della “alleanza” antiamericana non sono che una presa in giro: in questo stesso momento la Francia – che è stata già in passato la principale responsabile dell’armamento e dell’addestramento degli squadroni della morte Hutu in Ruanda – sta conducendo un intervento militare in Costa d’Avorio per difendere i propri interessi imperialisti in questo paese. Da parte sua, la Germania ha provocato un decennio di guerre nei Balcani, attraverso il suo sostegno alla secessione della Croazia e della Slovenia dalla vecchia Jugoslavia: in questa maniera essa voleva estendere la sua influenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Quanto alla Russia, le sue truppe continuano a devastare la Cecenia massacrando la sua popolazione.

Il capitalismo è imperialismo

I paesi che hanno cercato di fermare i piani di guerra degli Stati Uniti lo hanno fatto per proprie ragioni nazionali e imperialiste. Essi sanno che il vero obiettivo della “guerra contro il terrorismo” non è né Saddam, né Bin Laden, ma loro stessi.

Gli Stati Uniti non fanno mistero della loro strategia imperialista complessiva. Dopo il crollo del blocco russo, alla fine degli anni ottanta, essi si sono ripromessi di utilizzare la loro schiacciante superiorità militare per impedire l’emersione di ogni altra superpotenza capace di competere con loro. E’ in questo che sta il vero obiettivo di tutte le grandi azioni militari che hanno avuto luogo a partire dal 1991: la guerra del Golfo del 1991, quella del Kossovo nel 1999, l’Afghanistan nel 2002. Ma tutto è stato vano. Ognuna di queste azioni non ha fatto altro che spingere le altre potenze, piccole o grandi, a mettere sempre più in discussione l’autorità degli USA. Perciò gli Stati Uniti rilanciano la loro strategia su scala più grande. Essi vogliono adesso avere un controllo diretto sull’Asia centrale e sul Medio Oriente, ed estendere il loro campo d’azione fino all’Estremo Oriente. Confrontati all’indisciplina dei loro principali rivali – Francia e Germania in particolare – gli USA cercano né più né meno di accerchiare l’Europa, e di utilizzare il loro controllo sul petrolio del Medio Oriente come un’arma contro le potenze europee e contro il Giappone. La Germania e gli altri sono sulla difensiva, ma essi sono nondimeno attori attivi in questo grande gioco imperialista.

Gli Stati capitalisti non si comportano così perché hanno dei cattivi dirigenti o per stupidità, ma perché fin dal 1914 l’estensione a livello mondiale del capitalismo significa l’estensione globale della guerra. Essendosi diviso il dominio del pianeta, le diverse potenze nazionali non potevano più estendersi in maniera pacifica senza impadronirsi dei mercati e delle risorse dei loro rivali. Oggi, tutti gli Stati sono imperialisti e tutte le guerre del 20° e del 21° secolo – ivi compresa la sedicente guerra antifascista del 1939-45, ivi comprese le sedicenti “guerre di liberazione nazionale”, ivi compresa la “guerra santa” predicata da Bin Laden – sono delle guerre imperialiste.

Il capitalismo non può più vivere che attraverso la guerra. Questa è la prova che esso è diventato da tempo un ostacolo al progresso umano, che la sua esistenza minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità.

Contro tutte le illusioni pacifiste!

A febbraio milioni di persone sono scese in piazza per partecipare a delle manifestazioni, pensando che questo fosse il mezzo per “fermare la guerra”. Ma la guerra ha proseguito il suo cammino. Né i veti alle Nazioni Unite, né gli appelli ai grandi ideali, come la democrazia o la pace, hanno impedito alla guerra di passare.

Cento anni di conflitti imperialisti hanno mostrato che il pacifismo non ha mai potuto impedire al capitalismo di fare la guerra. In realtà il pacifismo è sempre stato utilizzato per preparare il terreno alla guerra diffondendo ogni tipo di pericolose illusioni:

- illusioni sugli interessi pacifici di certi paesi capitalisti, di certi partiti capitalisti o dell’ONU;

- illusioni che ci si possa opporre alla guerra con mezzi pacifici e legali;

- illusioni secondo cui la “democrazia” sarebbe un antidoto alle tendenze guerriere, che la “volontà dei popoli” potrebbe impedire ai governi di fare la guerra,

- illusioni che un giorno si potrebbe avere la pace nel mondo senza sbarazzarsi prima del sistema capitalista.

Queste illusioni non possono che disarmare ogni opposizione reale al corso, intrinseco del capitalismo, alla guerra. Peggio ancora, esse preparano la popolazione per l’arruolamento alla guerra perché se un capitale è “buono”, “pacifico”, e “rispetta gli interessi del popolo”, allora noi siamo tenuti a prendere le armi in sua difesa quando questo viene minacciato da un capitale “cattivo”, “antidemocratico” e “guerrafondaio”. Ed è per questo che queste illusioni sono deliberatamente incoraggiate da tutte le forze politiche della classe dominante e in primo luogo dai partiti della sedicente “sinistra”, dai socialdemocratici ai trotskysti.

Contro la guerra imperialista – lotta di classe internazionale!

Solo un movimento che non ha nessun interesse nazionale da difendere – un movimento internazionale della classe operaia – può opporsi alla guerra tra nazioni capitaliste.

In tutte le guerre è la maggioranza sfruttata che paga il prezzo più alto, che siano soldati o civili, sul fronte o in quanto produttori e consumatori a cui si chiede di lavorare di più e di mangiare di meno in nome dell’interesse nazionale.

Ma la classe operaia non è una semplice vittima passiva della guerra. Sono gli scioperi di massa e gli ammutinamenti del 1917-18 che hanno messo fine alla Prima Guerra Mondiale – e c’è voluto che l’ondata rivoluzionaria fosse vinta perché il capitalismo si lanciasse nella sua seconda carneficina mondiale. E quando la classe operaia è risorta sulla scena della storia alla fine degli anni sessanta, la sua resistenza alla crisi del capitalismo ha sbarrato la strada a una terza guerra mondiale. Nei fatti, la principale ragione della forma che prendono oggi i conflitti imperialisti – quella di azioni di “polizia” contro dei capri espiatori come Saddam – è che il capitalismo oggi non è capace di forzare la classe operaia a seguirlo in un conflitto aperto tra grandi potenze imperialiste.

La classe operaia non può evitare lo scontro con il sistema che ci sfrutta. La ragione stessa della fuga in avanti del capitalismo nella guerra, la sua incapacità ad assicurare lo sviluppo economico, provoca attacchi senza fine contro il livello di vita della classe operaia, attraverso uno sfruttamento crescente, la disoccupazione e la riduzione di tutti i benefici sociali. La marcia alla guerra provocherà una ulteriore accelerazione di questi attacchi e la richiesta di sacrifici sempre più grandi per gli sfruttati. Perciò la lotta inevitabile contro gli effetti della crisi economica costituisce anche una lotta contro la guerra.

Oggi la lotta della classe operaia non può essere che difensiva. Ma essa contiene i germi di una lotta offensiva, rivoluzionaria, di una guerra di classe contro l’insieme del sistema capitalista. Solo questa lotta può distruggere la macchina da guerra capitalista e condurre l’umanità verso una comunità mondiale che getterà le guerre imperialiste e le frontiere nazionali nella pattumiera della storia.

Contro ogni solidarietà con i nostri sfruttatori, che essi siano contro o a favore dell’attuale guerra, che essi siano americani, inglesi, spagnoli, francesi, tedeschi, cinesi, russi, italiani o irakeni!

Per la solidarietà internazionale della classe operaia!

Corrente Comunista Internazionale, marzo 2003

Questo volantino è distribuito in diversi paesi: Stati Uniti, Messico, Venezuela, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna, Olanda, Belgio, Svizzera, Svezia, India, Australia, Russia.

Supplemento a RIVOLUZIONE INTERNAZIONALE n. 129

Aut. Trib. di Napoli n. 2656 del 13/7/76

Per ogni contatto, richiesta, ecc., scrivere a:

R.I. C.P. 469, 80100 Napoli


Vita della CCI: 

  • Interventi [1]

Questioni teoriche: 

  • Guerra [2]

Corrispondenza: a proposito del referendum sull’articolo 18 e le mistificazioni della borghesia

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Un compagno ci ha inviato il testo che segue sulla questione del prossimo referendum sull’estensione dell’art. 18 anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Anche se in questo momento la questione della guerra è, giustamente, il centro della preoccupazione dei proletari, ci sono anche altre questioni che nello stesso momento toccano il livello di vita del proletariato e rispetto alle quali vengono portate avanti campagne di mistificazione da parte della borghesia e in particolare delle sue formazioni di “sinistra”. Perciò ci è sembrato utile pubblicare questa lettera facendola seguire da un nostro commento. La lettera “(...) Si tratta di milioni di persone “umane” che vivono board-line tra disoccupazione e precariato e che, quando e se trovano un lavoro, lo trovano in aziende piccole e piccolissime, la maggior parte delle quali con meno di 15 dipendenti. La stragrande maggioranza sono giovani che, nella miseria della loro esistenza, portano anche la disillusione di avere conseguito un titolo di studio inutile per risolvere il loro rapporto col lavoro. Il lavoro precario, se e quando lo trovano, impone loro forme di sfruttamento disumano, a volte fino a 12 ore al giorno per pochi spiccioli; in massima parte si tratta di lavoro nero, illegale; ma anche quando così non è, essi sono comunque sottoposti al costante ricatto di licenziamento. Ogni giorno, ed in ogni momento di ogni giorno possono essere rigettati nella disoccupazione e perdere i pochi spiccioli con cui sopravvivono. Non hanno futuro perché non hanno nulla su cui fondare un progetto di vita, sia pure una speranza o un’illusione. Vivono in una condizione di esistenza senza dignità sociale e senza diritti che li riduce a polvere di umanità, annichiliti, ed insultati nel loro più intimo rispetto per se stessi. Il loro essere sociale è incontestabilmente proletario, definito, in ultima analisi, nel rapporto col capitale finanziario. In questa massa proletarizzata sono via via precipitate tutte le stratificazioni sociali che si trovano immediatamente al di sopra del proletariato, ed essa contiene, oggi, la maggioranza dei lavoratori. Ci sarebbe molto da dire, e da maledire, sui misfatti della sinistra borghese e dei sindacati cha hanno voluto e promosso le forme e le istituzioni del precariato; basterebbe solo questo fatto, lo dico di passata, per dimostrare la funzione reazionaria che essi hanno assunto nell’epoca di decomposizione del capitalismo. Questo giovane proletariato, però, ha già cominciato a porsi domande sulla violenza e sulla miseria che marcano la sua esistenza. Sono domande ancora confuse, incoerenti, semicoscienti, ma nei suoi sentimenti profondi comincia ad affacciarsi un desiderio di riscatto, che è un primissimo sintomo di una domanda politica e che comincia già ad esercitare una pressione obiettiva sul corpo sociale. Alcune grandi questioni, come, ad esempio, quella della FIAT, hanno lasciato affiorare sentimenti di solidarietà dei giovani proletari per la classe operaia dell’industria e per le sue lotte. Nei loro confronti la borghesia non si sente affatto garantita dall’intenso lavoro che i sindacati fanno per tenerli disgregati, dispersi, divisi. Il fatto poi che sia stata proprio la massa proletarizzata a disertare il voto, togliendo circa tre milioni e mezzo di voti ai DS e circa ottocentomila voti a Rifondazione Comunista, nelle ultime tornate elettorali, aggiunse ulteriori pesanti preoccupazioni per la borghesia. La sinistra moderata borghese, che è in via di fallimento, non è più in grado di proporre loro l’illusione riformista; perciò la borghesia chiama in campo i suoi specialisti della demagogia. Il referendum sull’estensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/70) è un’operazione di questi specialisti. Questo referendum fu promosso poco dopo la lotta dei lavoratori contro l’abolizione dell’articolo 18 proposta dal governo Berlusconi. Allora decine di migliaia di giovani disoccupati e precari si mobilitarono al fianco degli operai dell’industria e, più ancora, si avvertì chiaramente la simpatia e la partecipazione solidale del proletariato diffuso con quella lotta. La sinergia fra proletariato industriale e massa proletarizzata esercitò una fortissima pressione sociale, obbligando il governo Berlusconi ad accantonare la proposta di abolizione dell’art. 18. Fu proprio allora, e proprio per ciò, che si mossero i demagoghi della borghesia, che proposero un referendum per estendere le tutele contro gli ingiusti licenziamenti anche ai lavoratori di aziende con meno di 15 dipendenti, cioè alla parte legalmente occupata della massa proletarizzata. In sé considerata, la domanda referendaria sarebbe, ovviamente giusta; ma non è precisamente questo il problema. Le indagini demoscopiche indicano una forte probabilità di vittoria dei “si”; di conseguenza, il mai abbastanza lodato “compagno” Cofferati ha subito proposto una legge che eviti il referendum.... al centrodestra, che, invece, vuole abolire del tutto l’art. 18. Sembrerebbe un controsenso, ma lo scopo di Cofferati e un altro. Se il referendum fosse invalidato per deficit di quorum, o se vincessero i “no”, allora si passerebbe subito all’abolizione dell’art. 18 per tutti i lavoratori. Se vincessero i “si”, allora si passerebbe subito alla legge di Cofferati riportando tutto a come prima e provocando una pesantissima demoralizzazione nei giovani proletari, che rigetterebbe indietro il processo di evoluzione della loro coscienza sociale. Inoltre ciò priverebbe il proletariato industriale dell’appoggio della massa proletarizzata. Questo referendum, dunque, è una perfida trappola, ed i demagoghi in questione avrebbero come premio di liquidare i resti dei DS ed accreditarsi come “sinistra” di sostituzione. P. Il nostro commento Concordiamo ovviamente con il compagno nel considerare questi lavoratori come parte integrante del proletariato con tutte le osservazioni sulle condizioni miserevoli cui essi sono soggetti. Vogliamo invece esprimere le nostre perplessità sulla valutazione che il compagno fa: 1) sullo stato di coscienza di questi strati proletari e sulla classe lavoratrice in genere e 2) sulla capacità di mistificazione della sinistra borghese. Lo stato di coscienza dei proletari Il compagno ha sempre espresso un accordo con la nostra analisi relativa al riflusso della coscienza di classe provocato dalla caduta del blocco dell’est e dalla successiva campagna sulla morte del comunismo messa su dalla borghesia. Ugualmente il compagno ha espresso accordo con l’idea che esiste oggigiorno solo un tenue recupero nella coscienza a livello sotterraneo, che si esprime a livello internazionale essenzialmente attraverso l’emergere di minoranze che si pongono alla ricerca di una chiarezza politica. Rispetto a questo punto di partenza, le formulazioni usate dal compagno ci sembrano esprimere però una chiara sopravvalutazione dello stato di coscienza della classe operaia. Quando il compagno dice che “questo giovane proletariato ha già cominciato a porsi domande sulla violenza e sulla miseria”, che “nei suoi sentimenti profondi comincia ad affacciarsi un desiderio di riscatto, che è un primissimo sintomo di una domanda politica e che comincia già ad esercitare una pressione obiettiva sul corpo sociale”, il compagno sembra non rendersi conto che la massa crescente di lavoratori precari e sottoccupati, oltre a vivere una situazione di vita e di lavoro estremamente miserevole, vive anche una situazione di dispersione, di atomizzazione che rende loro estremamente difficile organizzarsi per lottare e per collegarsi agli altri settori di lavoratori. Non sono certo i motivi per lottare che mancano, e probabilmente nemmeno la volontà, ma in mancanza di una ripresa più generale delle lotte dei settori più concentrati del proletariato, è per questi lavoratori difficile trovare gli strumenti, la forza e le forme per organizzarsi e partire in lotta. In mancanza di una tale situazione e di una esperienza in questo senso, è anche difficile per questa massa di proletari prendere coscienza delle ragioni di fondo della loro condizione. E’ perciò improbabile pensare che la borghesia si sia sentita particolarmente preoccupata per il malcontento che sicuramente esiste tra questi lavoratori, al punto di dover mettere in piedi una trappola specifica per impedire lo sviluppo della loro lotta. Più oltre, a proposito della manifestazione contro il governo Berlusconi che minacciava di cancellare lo stesso articolo 18, il compagno aggiunge: “Allora decine di migliaia di giovani disoccupati e precari si mobilitarono al fianco degli operai dell’industria e, più ancora, si avvertì chiaramente la simpatia e la partecipazione solidale del proletariato diffuso con quella lotta. La sinergia fra proletariato industriale e massa proletarizzata esercitò una fortissima pressione sociale, obbligando il governo Berlusconi ad accantonare la proposta di abolizione dell’art. 18.” Qui ancora si attribuisce, a nostro avviso, una valenza positiva ad una manifestazione che è stata fatta apposta per incanalare e addormentare sul nascere qualunque possibile malumore nei ranghi proletari e che infatti non ha avuto alcun seguito. Non ci sono stati slogan alternativi né tentativi di organizzare alcunché al di fuori del quadro sindacale. I lavoratori si sono limitati a marciare dietro le bandiere del sindacato senza esprimere alcun segnale di ricerca di un’autonomia di classe o di ricerca di una lotta più efficace. Questo non ci fa piacere, ma dobbiamo saper guardare con chiarezza in faccia alla realtà se vogliamo partecipare alla costruzione della società del futuro. Sulla capacità di mistificazione della sinistra borghese A questa prima debolezza del compagno corrisponde una seconda, speculare, di sottovalutazione dell’operato della borghesia, e della sinistra borghese in particolare. Il compagno dice: “Nei loro confronti la borghesia non si sente affatto garantita dall’intenso lavoro che i sindacati fanno per tenerli disgregati, dispersi, divisi. Il fatto poi che sia stata proprio la massa proletarizzata a disertare il voto, togliendo circa tre milioni e mezzo di voti ai DS e circa ottocentomila voti a Rifondazione Comunista, nelle ultime tornate elettorali, aggiunse ulteriori pesanti preoccupazioni per la borghesia. (…) La sinistra moderata borghese, che è in via di fallimento, non è più in grado di proporre loro l’illusione riformista; perciò la borghesia chiama in campo i suoi specialisti della demagogia. (…) In sé considerata, la domanda referendaria sarebbe, ovviamente giusta”. In verità, è proprio la mobilitazione di centinaia di migliaia se non di milioni di persone da parte di sindacati e partiti di sinistra che ha garantito alla borghesia di avere sotto controllo la situazione. Le recenti manifestazioni per la pace e contro la guerra in Iraq, su un piano diverso, ci mostrano quanto attivi e quanto efficaci, ahimè, sono queste strutture. D’altra parte il riflusso della coscienza che si è prodotto tra i proletari e provocato dalla perdita della prospettiva storica sposta il loro interesse sull’oggi, sul subito, motivo per cui le chiacchiere sindacali sul piano riformista hanno riacquistato tutto lo spazio che avevano perso in precedenza sotto i colpi della lotta di classe degli anni ‘70 e ‘80. Questa sottovalutazione si esprime, a nostro avviso, anche a proposito del referendum. Anche se se ne parla come di una “perfida trappola”, bisogna precisare anzitutto che questa trappola è rivolta all’insieme del proletariato e non solo ai proletari precari. Inoltre questa non consiste tanto nel fatto che la borghesia ha già preparato le contromisure a qualunque sia l’esito del referendum, ma nel referendum stesso. Il referendum si propone infatti come alternativo alla lotta, all’azione aperta, attiva e collettiva dei proletari, e quindi è di per se stesso uno strumento antiproletario, che vuole distogliere il proletariato dall’unico terreno che gli consente di difendersi dagli attacchi della borghesia, quello della lotta. Al posto di questo viene proposto di starsene buoni, di affidarsi agli specialisti della borghesia e di limitarsi ad esprimersi al momento del voto, con un no e un si che, e in questo siamo d’accordo con il compagno, in realtà non risolverebbe niente perché la borghesia è sempre pronta a cambiare le sue leggi se l’esito di un referendum le fosse contrario. Perciò non condividiamo l’espressione usata dal compagno quando dice “in sé considerata, la domanda referendaria sarebbe, ovviamente giusta” perché sembra che sia stato fatto solo un uso errato o mistificato di uno strumento altrimenti utilizzabile dal proletariato. In aggiunta a questo aspetto diversivo e passivizzante nei confronti del proletariato, il referendum ha anche il compito di rilanciare la mistificazione democratica, quella secondo cui si possano regolare i destini delle persone con un voto, a questo punto non importa se nelle elezioni normali o in un referendum specifico. Le elezioni sono proprio una mistificazione che serve ad illudere i proletari di poter contare nelle decisioni, di poter partecipare alla gestione della vita di un paese. Il cittadino proletario si esprime così insieme al cittadino borghese su un piano di falsa uguaglianza nell’illusione di poter incidere sul modo di condurre la società, modo che è invece condizionato a monte dalle esigenze del capitale, e a cui tutte le forze borghesi si adeguano. In più, nel chiuso dell’urna i proletari, già privi di ogni potere all’interno di questa società, vengono a mancare di quello che è la migliore arma nelle loro mani: quello dell’unità, dell’azione collettiva, nella quale non conta più il carattere del singolo, ma la forza della massa, quella forza che consente anche, nei momenti più favorevoli, di lanciare alla borghesia la sfida per il potere, come fu nell’ottobre del 1917 in Russia. Presi singolarmente invece i proletari sono soggetti alle pressioni, ai ricatti, alle mistificazioni, per cui c’è anche da dubitare che il voto anche in un referendum come quello sull’art. 18 sarebbe sicuramente favorevole al proletariato, come sembra invece credere il compagno. Perciò i rivoluzionari di fronte a questo come a qualsiasi altro referendum o scadenza elettorale non possono avere altro atteggiamento che quello di denunciare questo strumento della mistificazione democratica borghese.

Geografiche: 

  • Italia [3]

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

  • L'inganno parlamentare [4]

Sulle manifestazioni pacifiste in tutto il mondo: per lottare contro la guerra bisogna combattere il capitalismo

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Lo scorso 15 febbraio, nel mondo intero, le strade delle principali metropoli di tutti i continenti hanno risuonato di slogan quali: “No alla guerra!”, “Niente sangue per il petrolio!”, “Rifiutiamo una nuova carneficina!”, “Bush, Sharon, assassini!”, “Che assurdità è la guerra!” ed altri dello stesso tipo. Questi cortei “pacifisti” hanno trascinato folle immense, stabilendo un po’ ovunque dei record di mobilitazione, principalmente in quei paesi i cui governi si sono schierati con l’impresa guerriera di Bush contro l’Iraq: quasi tre milioni di partecipanti a Roma, un milione e mezzo a Londra, a Barcellona ed a Madrid. Ma anche negli altri Stati, dove le manifestazioni hanno assunto degli accenti e dei comportamenti “di unità nazionale” in sostegno al “fronte contro la guerra” delle borghesie nazionali, gli assembramenti sono stati quasi giganteschi: 500.000 persone a Berlino ed altrettante in Francia, più di 200.000 a Bruxelles. Anche negli Stati Uniti la protesta organizzata nella maggior parte delle grandi città del paese ha raggiunto un’ampiezza paragonabile alle grandi sfilate contro la guerra del Vietnam (250.000 manifestanti a New York). Mai la stessa “causa” aveva mobilitato tante persone nello stesso giorno a livello mondiale. Che la guerra sia una cosa abominevole, un’espressione di barbarie, è scontato. Questa è tanto più insopportabile e nauseante per la classe operaia che ne ha sempre pagato il prezzo più alto, con le sue condizione di esistenza, con la sua vita e il suo sangue. Ma siamo chiari: questa mobilitazione pacifista generale alla quale abbiamo assistito non era che un passaggio importante di una campagna ideologica di grande portata, menzognera e criminale, che la borghesia sviluppa dappertutto ed in particolare nei paesi in cui la classe operaia è più forte e concentrata. Le grandi masse pacifiste non hanno mai impedito le guerre imperialiste. Anzi sono servite a prepararle ed accompagnarle. Il pacifismo è uno strumento delle rivalità imperialiste Per prima cosa, gli assembramenti attuali, qualunque sia la loro ampiezza, non possono pesare seriamente sul corso degli avvenimenti. Essi non potevano in alcun modo impedire la guerra nella misura in cui gli Stati Uniti avevano già deciso di farla anche da soli o quasi, come poi è successo. Ma soprattutto la loro funzione primaria, essenziale, è precisamente mascherare i giochi reali della situazione e di impedire la presa di coscienza del vero problema da parte della popolazione in generale e della classe operaia in particolare: la responsabilità della guerra non cade su questo o quello Stato, o gruppo di paesi. La guerra è inscritta nel modo di vita del sistema di produzione capitalista nel suo insieme, nella sua globalità. Il campo della “pace” non esiste, non è che un’illusione. Fare credere che la “pace” è possibile nel capitalismo è un’enorme mistificazione. La “pace” non è che un momento della preparazione di una nuova guerra perché quest’ultima è divenuta un modo di vita permanente nel capitalismo decadente. E’ per tale motivo che non vi possono essere lotte contro la guerra che non siano contro il capitalismo. Il vero problema da porsi è a che cosa corrisponde e a chi serve questo fenomeno “pacifista” che supera di gran lunga l’ampiezza dei raggruppamenti “anti guerra” all’epoca della prima guerra del Golfo nel 1991? Esso è suscitato ed incoraggiato dalla stessa classe dominante indicando questo o quel paese, questa o quella frazione della borghesia come “fautore” di guerra. I “guerrafondai” ed i “pacifisti” si passano la palla per mistificare “l’opinione pubblica”: per gli uni il nemico principale è l’Iraq, per gli altri sono gli Stati Uniti. Si tratta per la borghesia di persuadere che c’è sempre un campo imperialista da scegliere (all’occorrenza, poco importa se gli avversari designati dai pacifisti siano gli Stati Uniti, il governo americano, o la sola frazione di Bush). D’altronde da uno degli slogan delle manifestazioni emergeva questa confessione rivelatrice: “la pace è patriottica” ciò che rivela con chiarezza che il “campo bellicista” non ha il monopolio della difesa degli interessi nazionali capitalisti. Ciò si traduce in un’ipocrisia ed un cinismo indicibili del sedicente “fronte anti-guerra”, in una forma inedita nella storia rappresentata attualmente da alcuni Stati che osano presentarsi come le colombe della “pace”. Finanche frazioni di destra dell’apparato borghese, che possono essere sospettate di tradimento verso l’ordine borghese, si spacciano come capo fila di una corrente “pacifista”. Non è grottesco vedere Chirac proposto come futuro “premio Nobel per la pace” nel momento in cui il governo francese è responsabile dell’attuale caos guerriero in Costa d’Avorio? Nello stesso “campo”, troviamo la Russia di Putin che continua a compiere i peggiori massacri e perpetrare i peggiori orrori attraverso il suo esercito in Cecenia, ed anche la Germania dove i predecessori di Schroëder non hanno esitato dieci anni fa ad incoraggiare lo scoppio della Iugoslavia che ha provocato anni di genocidi e guerre atroci nei Balcani, tutto ciò per i loro sordidi interessi imperialisti nazionali particolari. Attualmente, questi dirigenti, tanto sanguinari come gli altri, sono condotti a cavalcare le “correnti pacifiste” con le loro smargiassate e mettere i bastoni tra le ruote alla borghesia americana. Proclamano: “Chiediamo, esigiamo, imponiamo la pace al governo Bush!”, unicamente per affermare i loro interessi che li spingono in un comportamento apertamente contestatario verso gli Stati Uniti. Inoltre, una buona parte di essi in questa coalizione di facciata è pronta a cambiare parere ed a partecipare alla guerra contro l’Iraq sotto condizione, o se lo esige la pressione americana, o se “certe regole del diritto internazionale sono rispettate”, come una nuova risoluzione dell’Onu. Nessun governo può essere realmente contro la guerra ma solo contro le condizioni formali con cui gli Stati Uniti la impongono. Il pacifismo è un’arma della borghesia contro la classe operaia Questi assembramenti hanno la funzione di impedire che venga messo in causa il capitalismo, che si prenda coscienza che la guerra è l’espressione delle rivalità imperialiste di tutti gli Stati, prodotte dalla concorrenza capitalista nella difesa dei loro rispettivi interessi nazionali. Per certi Stati, si tratta chiaramente di chiamare ad una vera “union sacrée” dietro la propria borghesia nazionale. E’ il caso della Francia dove predomina nettamente un tono anti-americano, incoraggiato e sostenuto dalla quasi totalità delle frazioni politiche della borghesia nazionale, da Le Pen fino alle organizzazioni estremiste che “spingono” Chirac ad opporsi ancora di più alla politica degli Stati Uniti (1). La sua prima funzione è nutrire nelle popolazioni un sentimento anti-americano indicando gli Stati uniti come il solo “fattore di guerra”, l’avversario imperialista numero uno per eccellenza per deviare la loro ostilità alla guerra su un terreno borghese. Non ci sono guerre “giuste” ed altre “ingiuste”, forme accettabili per fare la guerra ed altre non, qualunque siano i campi in gioco. D’altra parte il risultato per le popolazioni prese in ostaggio è lo stesso, sono massacrate, bombardate, gasate, con le più nocive e mortali armi senza la minima considerazione “umanitaria”. Oggi, come sempre nel passato, il pacifismo resta il migliore complice per il lavaggio del cervello bellicista. Questa ideologia borghese è un vero peso per la classe operaia. Al di là dell’infamia di tutti quelli che propagandano una tale mistificazione per mascherare la loro ideologia nazionalista, il pacifismo mira ad un obiettivo particolare: recuperare il timore e l’avversione degli operai di fronte alla minaccia della guerra per avvelenare la loro coscienza e condurli a sostenere un campo borghese contro un altro. E’ per tale motivo che il pacifismo fa parte, come ogni volta che la borghesia ha bisogno di fare accettare ai proletari la sua logica mortale, di una vasta divisione di compiti tra le differenti frazioni imperialiste del capitale mondiale. Ciò che definisce il pacifismo non è la rivendicazione della pace. Tutto il mondo vuole la pace. Gli stessi guerrafondai non fanno altro che proclamare continuamente che essi vogliono la guerra per meglio stabilire la pace. Ciò che distingue il pacifismo, è la pretesa che si possa lottare per la pace, in se, senza toccare le fondamenta del mondo capitalista. Anche gli stessi proletari che, attraverso la loro lotta rivoluzionaria in Russia ed in Germania, misero fine alla Prima Guerra mondiale, volevano la fine della guerra. Ma se hanno potuto portare a termine la loro lotta, è perché hanno saputo condurla non CON i “pacifisti” ma malgrado questi e CONTRO di essi. A partire dal momento in cui è diventato chiaro che solo la lotta rivoluzionaria avrebbe potuto fermare il macello imperialista, i proletari russi e tedeschi si sono dovuti scontrare non solo con i “falchi” della borghesia, ma anche e soprattutto con tutti questi pacifisti della prima ora (menscevichi, socialisti-rivoluzionari, socialpatrioti) che, armi alla mano, hanno difeso ciò di cui essi non potevano più fare a meno e ciò che per loro era la cosa più preziosa: rendere inoffensiva per il capitale la rivolta degli sfruttati contro la guerra. Questo è sempre stato lo scopo reale del pacifismo! La storia ci offre delle esperienze edificanti su manovre di questo tipo. La stessa impresa che vediamo all’opera oggi, è stata denunciata con forza già dai rivoluzionari del passato: “La borghesia ha decisamente bisogno di frasi ipocrite sulla pace attraverso cui si deviano gli operai dalla lotta rivoluzionaria”, diceva Lenin nel marzo 1916. L’uso del pacifismo non è cambiato: “In ciò risiede l’unità di principio dei socialsciovinisti (Plekhanov, Scheidemann) e dei socialpacifisti (Turati, Kautsky), gli uni e gli altri, obiettivamente parlando, sono i servitori dell’imperialismo: gli uni lo servono presentando la guerra imperialista come la “difesa della patria”, gli altri difendono lo stesso imperialismo mascherandolo attraverso frasi sulla “pace democratica”, la pace imperialista che si annuncia oggi. La borghesia imperialista ha bisogno di servitori dell’uno e dell’altro tipo, dell’una e dell’altra sfumatura: ha bisogno dei Plekhanov per incoraggiare i popoli a massacrarsi gridando “Abbasso i conquistatori”; ha bisogno dei Kautsky per consolare e calmare le masse irritate attraverso inni e discorsi entusiasti in onore della pace”, scriveva già Lenin nel gennaio del 1917. Ed aggiungeva: “In realtà, la politica di Kautsky (per la Germania) e quella di Sembat-Henderson (per la Francia e la Gran Bretagna) aiutano in modo identico i loro rispettivi governi imperialisti, attirando principalmente l’attenzione sugli intrighi tenebrosi del concorrente e dell’avversario, e gettando un velo di frasi nebulose e di pii desideri sulle altrettanto imperialiste attività della “loro” borghesia. Cesseremmo di essere dei marxisti, cesseremo di essere in generale dei socialisti, se ci contentassimo di una meditazione per così dire cristiana, sulla virtù delle buone piccole frasi generali, senza mettere a nudo il loro significato”. Ciò che era vero al momento della Prima Guerra mondiale si è da quel momento invariabilmente confermato. Ancora oggi, di fronte alla nuova guerra nel Golfo, la borghesia ha potentemente organizzato la sua macchina pacifista in tutti i paesi. Per i rivoluzionari non è sufficiente denunciare la guerra voluta dagli Stati Uniti, ma è necessario allo stesso tempo mostrare l’ipocrisia di tutti gli altri Stati che mobilitano la popolazione contro questa guerra per opporsi agli stati Uniti e difendere i propri interessi nazionali. Solo la guerra di classe contro il capitalismo può mettere fine alla guerra imperialista La classe operaia non ha alcun interesse a sostenere un campo o l’altro, dunque non deve assolutamente farsi coinvolgere nelle imprese “pacifiste” animate da altri briganti imperialisti. L’ostilità alla guerra del proletariato deve restare legata, senza alcuna concessione, ad una posizione di principio che i rivoluzionari hanno sempre difeso: L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO, il rifiuto di fare causa comune con la propria borghesia nazionale. Mentre per ogni frazione concorrente della classe dominante, la propria posizione è dettata dal suo interesse imperialista da difendere in Iraq o più largamente in questa regione del Medio Oriente, la classe sfruttata non ha NESSUN interesse ad allinearsi dietro le presunte “giuste cause” dei suoi sfruttatori, siano esse “difensive” o “pacifiste”. La classe operaia deve basarsi sulla sua esperienza storica per prendere coscienza che i canti delle sirene del pacifismo servono solo ad attirarla in una trappola, su di un terreno strettamente borghese. Terreno nel quale può solo essere incatenata ad un campo imperialista contro un altro, può solo perdere la propria identità lasciandosi diluire nella massa indistinta del “popolo”, confusa tra le altre classi, al centro di un gigantesco movimento “cittadino” nel quale è impossibile affermare i propri interessi di classe. Quelli di una classe che non ha patria, né frontiere ed interessi nazionali da difendere. Oggi come ieri, la sola risposta che i lavoratori possono dare alla guerra ed al suo corollario che è il pacifismo, è la LOTTA DI CLASSE. La lotta contro la guerra non può essere che la lotta contro il capitale mondiale, contro questo sistema di sfruttamento, del quale sono la principale vittima. Perché è questo stesso sistema, di cui Bush, Blair, Berlusconi, Chirac, Scroëder, Saddam e consorti sono i degni rappresentanti, che da un lato sfrutta i proletari, li riduce alla disoccupazione e alla miseria, dall’altro, li massacra, li condanna all’esodo di massa, alla fame, all’epidemie. E’ solo sviluppando massicciamente la loro lotta sul proprio terreno di classe sfruttata, unificando le loro lotte a scala internazionale nei posti di lavoro e nelle strade, che i proletari di tutti i paesi, e principalmente quelli dei paesi più industrializzati d’Europa e d’America, potranno aprire una prospettiva di futuro per l’umanità: quella del rovesciamento del capitalismo. La pace è impossibile nel capitalismo. Il capitalismo è guerra! Contro la “santa alleanza” di tutti gli sfruttatori, contro tutte le manovre di intossicazione ideologica e di divisione del proletariato internazionale: Proletari di tutti i pesi unitevi!
Wim (21 febbraio 2003)

1 1. In questo quadro, anche se il pacifismo è tradizionalmente veicolato dai partiti di sinistra e d’estrema sinistra che restano i motori dei movimenti pacifisti, in particolare al fine di arruolarvi specificamente gli operai, la sua influenza va ben al di là dei divari tradizionali all’interno della borghesia. Allo stesso modo la mobilitazione dei “cristiani” è legata al ruolo eminente del papa nella crociata anti-americana.

Geografiche: 

  • Iraq [5]

Questioni teoriche: 

  • Guerra [2]

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Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/vita-della-cci/interventi [2] https://it.internationalism.org/tag/3/48/guerra [3] https://it.internationalism.org/tag/4/75/italia [4] https://it.internationalism.org/tag/2/31/linganno-parlamentare [5] https://it.internationalism.org/tag/4/85/iraq