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Nello scorso mese di gennaio la nostra organizzazione ha tenuto in Italia delle riunioni pubbliche sulle lotte operaie di Oaxaca, intitolate significativamente: “Rivolte a Oaxaca: esiste una situazione rivoluzionaria in Messico?”
Come abbiamo precisato nella nostra lettera di invito a compagni e lettori, il quesito si poneva con tanta più forza nella misura in cui intorno alla questione Oaxaca è fiorita una vasta propaganda di ambienti di una certa sinistra, particolarmente trotskista, che ha teso a presentare la situazione messicana come una situazione pre-insurrezionale. Noi invece riteniamo che, nonostante il carattere inizialmente spontaneo della lotta dei lavoratori messicani e una certa solidarietà che questa ha ricevuto in una prima fase, non sia questa la caratterizzazione che le si può attribuire per il semplice fatto che le rivendicazioni degli insegnanti e degli altri lavoratori della zona sono state strumentalizzate e svendute dalla cosiddetta APPO (Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca), organizzazione che ha utilizzato la lotta di questi lavoratori per esigere la destituzione di Ulises Ruiz e appoggiare la frazione politica che aspira a prendere il suo posto (1).
A partire da questo primo elemento una compagna, presente alla nostra riunione di Napoli, ha posto la questione se lo stesso si potesse dire per il movimento zapatista del Chiapas. Al che abbiamo risposto che in questo caso non si trattava neanche più di una lotta proletaria e che la controprova stava nel fatto che, nonostante la vicinanza geografica tra i due stati messicani di Oaxaca e del Chiapas, il cosiddetto movimento guerrigliero zapatista non aveva mosso un dito in solidarietà dei lavoratori di Oaxaca.
Al che la compagna ha ribattuto che non si poteva fare il confronto tra Oaxaca e il Chiapas, che non era possibile attendersi chissà che dal movimento zapatista visto che si trattava di un movimento di indigeni e di contadini.
A partire da questa affermazione il dibattito – di cui questo articolo vuole essere una testimonianza e un contributo - si è quindi sviluppato su quale sia il soggetto sociale capace di dare risposta ai problemi del momento, ovvero di operare i cambiamenti sociali e strutturali di cui tutti indistintamente avvertono la necessità. E naturalmente quale sia oggi la posta in gioco.
In realtà, in un mondo che vive la contraddizione storica più ridicola e assurda di tutti i tempi - ovvero una povertà assoluta di una fetta consistente dell’umanità (circa un quarto della popolazione mondiale che vive al di sotto dei livelli di povertà, con meno di 1 dollaro al giorno per vivere) a fronte di una sovrapproduzione di merci in tutti i campi che costringe i capitalisti a chiudere le fabbriche in tutto il mondo e a portare alla fame sempre più gente, riducendo ulteriormente la possibilità di vendere le merci che quegli operai hanno prodotto - è evidente che c’è da fare un’unica cosa: liberarsi di questo meccanismo perverso che vuole che un bene, per essere goduto, deve essere acquistato e per essere distribuito deve essere venduto.
Di fronte a questa contraddizione, che è al cuore delle contraddizioni del sistema capitalista, solo una classe come il proletariato, che è essa stessa nel cuore della società capitalista perché ne costituisce il motore economico e produttivo pur essendo la classe sfruttata di questa epoca, può diventare l’elemento di impulso di un cambiamento radicale.
Questa aspirazione ad essere la classe generatrice di una nuova società senza classi, il proletariato la deriva non da fantasticherie di qualche ciarlatano ma dal fatto di essere, oltre alla borghesia, l’unica altra classe storica del momento, la classe che ha, attraverso la sua lotta contro la borghesia e i suoi tentativi insurrezionali, particolarmente attraverso l’ondata rivoluzionaria degli anni ’20, dimostrato materialmente di essere la classe rivoluzionaria della nostra epoca storica. E il fatto di non essere essa stessa una classe sfruttatrice, di non avere alcun interesse specifico di classe da preservare all’interno di questa società, fa sì che il proletariato sia l’ultima classe rivoluzionaria della storia, la classe capace di instaurare una società comunista, una società senza classi.
Certamente, oltre al proletariato, esistono altri strati sociali che soffrono e che vanno in miseria, esistono tante altre contraddizioni e sofferenze. Come abbiamo già affermato nella discussione sviluppata nella nostra riunione pubblica e parafrasando Marx, possiamo dire che non c’è problema che non riguardi la classe operaia, che il proletariato è sensibile alle sofferenze di tutta l’umanità. Il problema però non è riconoscere o negare l’esistenza di queste contraddizioni, quanto comprendere da quale punto di vista collocarsi per rispondere a queste contraddizioni. Tornando alla questione del Chiapas e della lotta degli indios del Messico, qualunque persona dotata di un minimo di onestà è pronto a riconoscere che le popolazioni indigene precolombiane sono state massacrate e sfruttate in seguito alla conquista coloniale fatta dai paesi europei e che tuttora tali popolazioni sono sottoposte ad una discriminazione e a uno sfruttamento indicibili. Ma la risposta che dà lo zapatismo è una risposta che non porta da nessuna parte perché lo zapatismo, come ha ricordato la stessa compagna intervenuta nella discussione a Napoli, è un movimento che fa appello al popolo e non a una classe, il che significa che fa appello a dei sentimenti di nazione piuttosto che a degli interessi di classe per promuovere la lotta. Questa differenza è cruciale per capire come caratterizzare una lotta. Infatti quella degli zapatisti, ammesso che si voglia riconoscere tutta la buona fede ai suoi promotori, è una lotta che presenta le seguenti caratteristiche:
- nasce e rimane ancorata al quadro nazionale, il che spiega giustamente il fatto che non c’è stato alcun sostegno materiale da parte degli zapatisti verso il movimento di Oaxaca perché mancano i presupposti materiali per proiettarsi al di fuori del loro contesto, per esprimere un’azione solidale con altre lotte;
- si pone su un terreno di diritti di minoranze etniche che non pone in discussione il sistema di sfruttamento e di oppressione del capitalismo nei confronti dell’intera umanità;
- anche il riconoscimento di una autonomia politica fino alla costituzione di un nuovo stato, come nel caso del popolo palestinese, non fa che garantire ad una nuova borghesia dei privilegi che prima erano di un’altra borghesia (la creazione di uno stato in Palestina ad esempio garantirebbe alla borghesia palestinese un pezzo di potere ceduto dalla borghesia israeliana) senza nulla cambiare nelle condizioni materiali di sfruttamento dei proletari che passano da uno sfruttatore (israeliano) a un altro (palestinese);
- peraltro la costituzione di questo nuovo Stato non servirebbe neanche più, come una volta, a garantire un più veloce sviluppo delle forze produttive nella misura in cui il declino storico del sistema capitalista non permette più, e da tempo, che questo avvenga (2).
A questo punto ci si è posti il problema di come si può riconoscere una lotta proletaria, una lotta che vada nel senso della difesa degli interessi della classe. A tale proposito si è preso ad esempio la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua”, su cui si è sviluppato tutto un movimento di raccolta di firme e di sensibilizzazione, portato avanti da associazioni varie, preti e partiti di sinistra. Ancora una volta – e di proposito – non vogliamo mettere in discussione la buona o cattiva fede dei vari leader di questi movimenti, ma cercare di mostrare come il problema in sé, con i migliori e più onesti leader che si vogliano scegliere, non potrà che portare a una sconfitta se condotto dal punto di vista di un “movimento popolare” piuttosto che dal punto di vista della classe operaia.
Che significa limitarsi a vedere il problema dal punto di vista di un “movimento popolare”? Significa che, al di là del riconoscimento di questo o quell’abuso, si accetta di partire dai valori che l’attuale sistema sociale ci trasmette: ad esempio è proprio il modo di pensare corrente - che è quello della società borghese - che ci suggerisce che una azienda pubblica, proprio perché tale, dovrebbe fare di più gli interessi della popolazione mentre invece il privato per definizione dovrebbe essere l’incarnazione del profitto. Ma questi stereotipi sono completamente sbagliati. L’economia dei paesi dell’Europa dell’est per decenni è stata amministrata da regimi “comunisti” a parole, ma in realtà a capitalismo di Stato, dove in apparenza la proprietà era collettiva ma dove di fatto vigeva una situazione di schiavitù salariale completa e dove la qualità della vita era pessima. Ugualmente, se guardiamo le aziende “pubbliche” nostrane, anche qui possiamo scoprire come spesso, proprio per il fatto di avere la copertura dello Stato, i dirigenti di queste aziende profittano, a livello economico e di gestione della stessa azienda, molto più di quanto potrebbe fare un dirigente della stessa azienda privatizzata. Per esempio è noto che, mentre le aziende private sono, almeno nominalmente, sottoposte ai vari controlli, quelle pubbliche spesso usufruiscono di un occhio di riguardo da parte degli stessi organi di controllo nella misura in cui si tratta di… strutture pubbliche. Ma da dove viene e su che cosa poggia questa idea che “pubblico” è meglio che “privato”? In realtà una base materiale questa idea ce l’ha, e corrisponde al fatto che, soprattutto nel secondo dopoguerra, per fare ripartire l’economia dei vari paesi e dell’Italia tra questi, lo Stato è dovuto intervenire pesantemente per garantire questo rilancio e assumendo spesso in prima persona la gestione di settori produttivi e di servizi. All’interno di questa logica il capitale statale, proprio in quanto tale, ha potuto in più occasioni garantire condizioni di favore e tariffe particolarmente basse all’utenza pur di garantire dei servizi utili all’economia complessiva. Ad esempio per tutto un periodo l’iscrizione a scuola, l’assistenza sanitaria, i mezzi pubblici sono costati alla popolazione molto poco perché era necessario garantire un minimo di istruzione alla classe lavoratrice, un suo stato di salute decente per poterla sfruttare e una sua capacità di raggiungere i luoghi di lavoro senza problemi. E’ naturale che al confronto delle tariffe statali e comunali, quelle di qualche azienda privata risultava subito abnorme. Ma ormai con la crisi attuale anche questo è finito, e ce ne accorgiamo dai ticket ospedalieri, dalle tasse universitarie, dai biglietti del metrò, che sono tutti ormai prezzi di mercato. Più in generale possiamo dire che non esiste nessuna differenza di qualità tra pubblico e privato, che esiste anzi spesso una forte connivenza tra le due gestioni che è spesso funzionale a illudere “il popolo” e particolarmente la classe operaia della bontà di una certa soluzione adottata.
Qual è invece il punto di vista proletario sull’acqua? Quello di rivendicare un’erogazione sufficiente di acqua per tutti, e che sia pulita, pagandola il meno possibile. Questo è quanto importa ai lavoratori, indipendentemente che l’azienda sia pubblica o privata. Viceversa la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua” comporta tutta una serie di elementi che vanno contro gli interessi proletari che sono i seguenti: a) anzitutto si alimenta l’illusione sul fatto che possiamo essere noi a decidere sulla gestione di questa società; b) ci si pone una falsa alternativa: essere sfruttati da un ente pubblico o da un ente privato; c) inoltre una lotta condotta su questo piano ci porta a mescolare i proletari con tutti gli altri strati sociali “del popolo” i cui interessi materiali non sono omogenei ai nostri (ad esempio un albergatore o un proprietario di azienda agricola, se sono interessati anch’essi ad avere acqua a buon prezzo e pulita, possono risolvere il loro problema anche in maniera alternativa, poniamo attraverso la concessione a scavare un pozzo per emungere acqua di falda).
In conclusione, se è vero che esistono tantissime contraddizioni e sofferenze nella società in cui viviamo, la soluzione all’insieme di queste contraddizioni non potrà venire da una serie di lotte parcellari e specifiche e/o da una iniziativa popolare, ma dalla risposta dell’unica classe che ha in mano le sorti dell’umanità, la classe operaia. E’ per questo che è della più grande importanza saper riconoscere e distinguere le lotte che si pongono da un punto di vista genuinamente di classe da quelle che viceversa, nonostante la buona fede di chi le promuove, si pongono sul piano dell’interclassismo e partono dall’accettazione dello status quo.
Ezechiele, 25 febbraio 2007
1. Sul tema si possono leggere gli articoli pubblicati sul nostro sito web it.internationalism.org.
2. Vedi il nostro opuscolo sulla Decadenza del capitalismo e i nostri articoli “Nazione o classe: i comunisti e la questione nazionale” su Rivoluzione Internazionale n: 7 e 8.