Abbiamo appreso del decesso, in seguito ad una lunga malattia, del compagno Mauro Stefanini, militante di lunga data e tra i più devoti di Battaglia Comunista, lui stesso figlio di un vecchio militante della Sinistra italiana. Ci teniamo a pubblicare qualche estratto del messaggio di solidarietà che la CCI ha immediatamente indirizzato ai militanti del BIPR ed alcuni passaggi della risposta di ringraziamento che ci ha fatto pervenire un militante del BIPR a nome della sua organizzazione.
Compagni,
è con profonda tristezza che abbiamo saputo del decesso del compagno Mauro. (...) La sua vivacità ed il suo contatto caloroso mancheranno ai compagni della nostra organizzazione che lo conoscevano personalmente.
Ma ci sono altre due ragione per le quali la sua morte ci tocca profondamente.
In primo luogo, sentiamo la scomparsa di Mauro come una perdita per la classe operaia. Evidentemente la sue qualità personali come oratore e redattore hanno il loro peso. Ma ciò che per noi è più importante è il suo impegno e la sua dedizione militante. Un impegno ed una dedizione che ha conservato anche quando la malattia stava vincendo.
In secondo luogo, noi non dimentichiamo che Mauro era il figlio di Luciano, un membro della Frazione italiana verso il quale il nostro compagno Marc nutriva grande stima per la sua dedizione, ma anche per la sua lucidità politica dato che fu uno dei primi, all’interno della Frazione, a comprendere pienamente le implicazioni del periodo storico aperto dalla Prima Guerra mondiale sulla questione fondamentale della natura dei sindacati.
Una delle conseguenze della terribile contro-rivoluzione che si è abbattuta sulla classe operaia dopo la sconfitta della rivoluzione mondiale, è la scomparsa quasi completa di una tradizione molto vivace nel movimento operaio del passato: il fatto che molti bambini (come le figlie di Marx, il figlio di Wilhem Liebknecht e molti altri ancora) prendevano il testimone dai loro genitori concretizzando così la continuità della lotta proletaria tra le generazioni. Mauro è stato uno dei pochissimi a proseguire questa tradizione e ciò è un elemento ulteriore della nostra simpatia per lui. (...).
E’ per questo che voi potete credere, compagni del BIPR, nell’assoluta sincerità della nostra solidarietà e dei nostri saluti comunisti.
Compagni,
a nome del BIPR, vorrei ringraziarvi per la vostra espressione di solidarietà in seguito alla perdita gravissima del compagno Mauro. Effettivamente, come voi avete detto, per noi è una scomparsa molto dolorosa: per i suoi doni di umanità, per la sua passione e la sua dedizione alla causa del proletariato, Mauro era un compagno come è raro trovarne. Il suo essere comunista era, se si può dire, "inscritto" nei suoi geni: non solo perchè veniva da una famiglia che ha dato tutto alla causa del comunismo, ma soprattutto perchè il suo spirito si ribellava istintivamente alla minima manifestazione di oppressione e di ingiustizia. Non sarà facile colmare il vuoto politico che lui lascia, sarà impossibile colmare il vuoto umano. (...).
Ringraziandovi ancora, vi indirizziamo i nostri saluti comunisti.
Risposta del BIPR
Lettera della CCI
I recenti dati sull’andamento dell’economia italiana hanno ufficializzato una situazione che più nera non si può. Una diminuzione del Prodotto Interno Lordo per due trimestri consecutivi, accompagnata da una diminuzione della produzione industriale, significa una recessione aperta (confermata dalle previsioni OCSE di una diminuzione del PIL sull’intero 2005); un deficit del bilancio statale che aumenta, superando anche i limiti del patto di Maastricht; una competitività dell’apparato industriale che precipita, con una incapacità per l’industria italiana a reggere la concorrenza internazionale. Tutto questo significa che l’azienda Italia è sull’orlo del fallimento, produttivo e finanziario, e questa volta non c’è più la possibilità della "svalutazione competitiva", cioè dell’abbassamento fittizio dei prezzi delle merci italiane, realizzato tramite la svalutazione della moneta. L’euro non lo consente: una sua svalutazione (che comunque non può decidere il governo italiano) avrebbe sì un effetto sul mercato internazionale, ma favorirebbe l’economia di tutti i paesi europei, che sono i principali concorrenti dell’Italia. D’altra parte, per i nostalgici della lira va ricordato che l’euro ha protetto l’Italia, e gli altri paesi, da tempeste finanziarie tipo quella toccata all’Argentina, che ha sprofondato questo paese nella miseria più nera. Quello che è più grave, quindi, è che non esiste via d’uscita, se non quella solita di ulteriori attacchi alla classe operaia, che ha già pagato caro il costo di una crisi che colpisce il capitalismo del mondo intero. Quando il centrosinistra accusa Berlusconi di essere il principale responsabile della situazione mente sapendo di mentire: la responsabilità principale sta nel fallimento storico di questo sistema di produzione, come è testimoniato dal fatto che negli ultimi anni, a partire da quelli in cui al governo c’era il centrosinistra, c’è stato un peggioramento continuo delle condizioni di vita e di lavoro dell’intero proletariato italiano, un peggioramento che ha portato all’aumento del numero di famiglie povere; ormai anche in Italia, come già era successo negli USA, i poveri non si contano più solo tra i disoccupati, gli emarginati, ma anche tra quelli che hanno un lavoro, solo che il salario che percepiscono non consente loro di assicurarsi più del minimo necessario per la sopravvivenza.
Se la borghesia di tutto il mondo ha provato a forzare le stesse leggi dell’economia, per continuare a tirare avanti (in primo luogo continuando a produrre solo sulla base del debito), la borghesia italiana comincia a manipolare i dati reali dell’economia, per impedire alla classe operaia di prendere coscienza completa dell’entità del disastro. Così il governo ha mentito alla Commissione Europea sui dati del deficit statale degli ultimi due anni (superiore al fatidico 3% stabilito dal trattato di Maastricht), così l’ISTAT mente sui dati riguardanti l’inflazione che, almeno per i beni di prima necessità, è di gran lunga superiore a quel 2-3% dichiarato e su cui vengono calcolati gli adeguamenti salariali all’inflazione.
Ma le menzogne lasciano il tempo che trovano, perché su questo piano ogni famiglia operaia fa i conti con le proprie tasche e non certo con i dati ufficiali. E le tasche dei lavoratori sono sempre più vuote, dopo più di una decina di anni di sacrifici.
E comunque ci sono altri dati che lo testimoniano: secondo la Od&M, una società di consulenza che monitorizza i redditi di un milione di lavoratori dipendenti di ogni categoria in Italia, vi è una effettiva diminuzione del potere d’acquisto e milioni di italiani si sono veramente impoveriti. "A farne maggiormente le spese sono stati gli impiegati perché è l’intero valore delle attività impiegatizie a risultare diminuito". Per queste categorie, infatti, si sarebbe registrata dal 2001 una perdita secca, tutto compreso, superiore al 13%. "Da una parte le nuove tecnologie hanno sostituito l’uomo in molte mansioni e banalizzato i compiti. Dall’altra sono arrivati i Co.co.co., gli interinali, i contratti a termine: forze precarie e a buon mercato". La stessa Istat ha detto che nel 2003 la spesa media mensile delle famiglie italiane ha raggiunto i 2313 euro, 119 euro in più rispetto al 2002, un aumento del 5,4.
Tenendo conto del fatto che l’Istat, dal 2000 al 2003, calcola un’inflazione totale del 7,8%, una segretaria ha perso il 17,8 % del suo potere d’acquisto, un disegnatore grafico il 15,4%, un responsabile del servizio clienti il 14,1 %, un contabile il 13,7 mentre un operaio in media perde il 9,0%. L’impiegato che si è difeso meglio di tutti, quello addetto ai call-center, ha ceduto il 2,1% di retribuzione reale, ma partiva da livelli salariali tra i più bassi di tutto il mercato del lavoro: 17.319 euro lordi annui tre anni fa.
La riduzione del potere d’acquisto dei salari e/o la riduzione assoluta del valore degli stipendi erogati ai lavoratori si riflette naturalmente sull’andamento dei consumi dei cittadini. È del 23 febbraio scorso la comunicazione da parte dell’Istat secondo cui le vendite al dettaglio sono calate dello 0,4% rispetto al 2003, il peggiore dato da 10 anni a questa parte. Non solo: dicembre, periodo d’oro per gli acquisti sul quale i commercianti facevano conto per risollevarsi, ha chiuso a meno 0,5%. In parallelo, l’osservatorio del ministero della salute, l’Osmed, ha indicato un aumento dei prezzi dei medicinali del 15,9%, laddove l’Istat ha rilevato addirittura una diminuzione del 3,1%.
Anche sul piano dell’occupazione, se si va a cercare oltre i dati propagandistici del governo, troviamo una situazione sempre peggiore. Ecco un interessante stralcio da un articolo del Corriere della Sera del 27 giugno 2003:
"Il tasso di disoccupazione scende al minimo degli ultimi undici anni. Secondo i dati diffusi ieri dall’Istat, in aprile ha raggiunto l’8,8%: in dodici mesi si sono creati 301.000 posti di lavoro in più e per la prima volta l’Italia scende sotto la soglia del 9% e si allinea perfettamente alla media europea. Fa addirittura meglio della Germania, inchiodata a una percentuale di senza lavoro del 9,4%, della Francia (9,1%) e della Spagna (11,4%). Una tendenza positiva, rilevano i tecnici dell’Istituto di statistica, che dura da almeno cinque anni, dal 1998: da allora, quando la percentuale di disoccupazione era pari al 12,1%, si sono creati 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro superando la soglia dei 22 milioni di occupati. (…) Tuttavia, l’aumento del tasso di occupazione è un dato economico che va curiosamente in senso opposto alla crisi dei consumi e alla scarsa crescita del PIL. Come si spiega? "Se fossero tutti nuovi posti di lavoro – afferma l’economista Tito Boeri – avremmo una ricaduta anche sui consumi, quindi l’unica spiegazione possibile è nella regolarizzazione dei contratti anzi, più in particolare, nella sanatoria dell’immigrazione che da sola coinvolge oltre 700.000 persone". Quindi nessun nuovo posto di lavoro, ma solo regolarizzazione di una parte di quelli già esistenti.
Il risultato finale di tutto questo è che il 16,6% dei bambini in Italia vivono in famiglie povere, cioè in famiglie il cui reddito è la metà di quello medio. Tale percentuale è aumentata di due unità rispetto a quella dell’anno scorso.
Questi risultati non li possiamo imputare tutti a Berlusconi, anzi. Sono stati i governi di sinistra che, a partire da quello Amato del 1992, hanno portato avanti una politica di austerità che è alla base dell’attuale perdita del potere d’acquisto dei lavoratori e della precarizzazione delle loro condizioni di vita e di lavoro. Tutti noi ricordiamo come ci avevano chiesto questi sacrifici in nome dell’entrata nell’euro che ci avrebbe dovuto portare finalmente in una situazione di stabilità che avrebbe posto fine ai sacrifici. Invece la situazione attuale è peggiore di quella che c’era all’inizio di tutto questo periodo di austerità. E questo per un motivo molto semplice: alla base di tutto questo non c’è tanto l’incompetenza di Berlusconi, ma la crisi economica mondiale che spinge i governi di tutto il mondo a continuare con la sola ricetta economica che la borghesia conosce, quella degli attacchi alla classe operaia. È questo che si accinge a fare ancora una volta il prossimo probabile governo di centrosinistra, addebitandone le cause a Berlusconi.
I lavoratori non devono farsi incantare da queste sirene del capitale ma ingaggiarsi, fin da ora, nell’unica impresa che può frenare questo massacro: quello delle lotte unite e solidali di tutti i lavoratori.
Helios, 30/05/05
Dal 14 marzo l'inquietudine internazionale si è orientata verso lo stretto di Formosa. In questa data il parlamento cinese ha votato, per la prima volta, un legge antisecessione che autorizza Pechino a fare uso di mezzi militari contro Taiwan nel caso in cui le autorità dell'isola avessero optato per l'indipendenza. Il 13 marzo, il presidente cinese Hu-Jinto, in divisa militare, aveva perfino fatto appello pubblicamente agli ufficiali a "prepararsi ad un conflitto armato". Il messaggio era chiaro: la borghesia cinese non avrebbe permesso la separazione di Taiwan, non sarebbe indietreggiata di fronte a niente, guerra compresa.
Immediatamente la tensione è salita velocemente, non solo nel Sud-est asiatico, ma anche tra la Cina ed il Giappone. Quest’ultimo, di fronte alle bellicose dichiarazioni della Cina non poteva restare inerme. Tokio con fermezza ha dunque fatto sapere che questa legge anti-secessione avrebbe avuto immancabilmente un effetto negativo sulla pace e la stabilità della regione, annunciando nello stesso tempo che le sue forze militari avevano già preso il controllo di un faro localizzato sull'arcipelago di Senkaku. Arcipelago tradizionalmente rivendicato da Pechino che lo chiama Diayou. La Cina ha replicato qualificando questo atto militare come una "grave provocazione totalmente inaccettabile".
Il concatenarsi delle tensioni crescenti tra la Cina ed il Giappone ha trovato un'espressione evidente con le manifestazioni anti-giapponesi preparate in ogni piazza dallo Stato cinese, con il pretesto della pubblicazione da parte di Tokio di manuali di storia che minimizzano le atrocità commesse dall'esercito giapponese durante la colonizzazione di una parte della Cina negli anni 1930. In risposta, il Giappone, per la prima volta, ha qualificato la Cina come "potenziale minaccia", evidenziando l'aggravamento della situazione in questa regione del mondo. La situazione nel Sud-est asiatico si è aggravata a tal punto che mai, dal 1945, il Giappone aveva ufficialmente abbandonato la sua neutralità sulla delicata situazione di Taiwan.
Questo spinta febbrile al bellicismo da parte della Cina non ha provocato la risposta del solo Giappone. Gli Stati Uniti hanno fatto sapere che, malgrado Washington dal 1972 ammette una sola Cina di cui Taiwan fa parte, non avrebbe accettato
Il crollo dell'URSS nel 1989 e l'affermazione degli Stati Uniti come unica grande potenza mondiale, avevano già sconvolto la politica imperialista della Cina fin da allora. Dalla formazione della Repubblica popolare cinese nel 1949, passando per il 1972 data in cui la Cina e gli Stati Uniti si sono ritrovati alleati contro l'Unione Sovietica, lo sviluppo delle tensioni inter-imperialiste sono rimaste sempre contenute in un ambito che ne ha limitato la pericolosità per l'insieme del mondo. A partire dal 1989, e con lo sprofondamento accelerato del capitalismo nella decomposizione, la situazione é cominciata a cambiare.
La base dell'alleanza strategica sino-americana resa necessaria all'esistenza di un comune nemico, l’URSS, era sparita ed a partire dalla metà degli anni 1990 si è potuto vedere la prima spinta spettacolare alle tensioni nella regione tra la Cina e gli Stati Uniti. Il bombardamento da parte degli Stati Uniti dell'ambasciata cinese a Belgrado, il 7 maggio 1999, ad un mese dall'insuccesso della visita dell'alta diplomazia cinese a Washington, è stato un'espressione evidente dell’opposizione degli Stati Uniti alle evidenti aspirazioni della Cina a fare il cavaliere solitario nell'arena imperialista mondiale.
Da allora gli appetiti imperialisti di Pechino non hanno tuttavia smesso di acuirsi e con essi una volontà di apparire come una forza militare con la quale le altre grandi potenze avrebbero dovuto fare i conti, in particolare gli Stati Uniti. È particolarmente significativo che il bilancio militare della Cina non smette di crescere! Da quindici anni, le spese militari aumentano ad un ritmo annuo a due cifre: dall' 11,6% nel 2004 al 17% del 2002, che rappresenta non meno del 35% del bilancio nazionale. Segno dei tempi e dei bisogni dell'imperialismo cinese sono la marina e soprattutto l'aviazione che mirano ad un rapido ammodernamento.
Del resto lo Stato cinese, finché può, approfitta delle difficoltà della prima potenza mondiale ad imporsi sul pianeta. Lo testimoniano le interferenze della Cina nel processo di discussione sul dossier nucleare dell'Iran. Il ministro degli Affari esteri cinese Li-Zhaoxing, durante un viaggio a Teheran, ha dichiarato che la Cina si sarebbe opposta all'ONU ad ogni tentativo di sanzionare l'Iran. È la stessa politica imperialista che spinge questo paese a sostenere il regime islamico sudanese. Nello stesso senso, la sua politica nei confronti di Pyongyang, capitale della Corea del Nord, è tra le più chiare: un segno forte della pretesa imperialista della Cina di piantare i propri paletti nella sua zona di influenza naturale, a scapito della politica americana. La borghesia cinese si è inoltre sforzata di consolidare in questi ultimi tempi la sua influenza in Laos, in Cambogia, in Birmania, addirittura in Tailandia, in Malaysia ed in Indonesia, e ciò direttamente contro gli Stati Uniti.
Ma Taiwan non è il solo punto caldo dello scontro larvato in Asia. Anche l'Aksai-chin e l'Arunachal-Pradesh, situati alla frontiera tra la Cina e l'India, sono regioni sempre più contese da questi due Stati e sono potenzialmente origine di scontro tra queste due potenze nucleari. Se momentaneamente c’è una relativa diminuzione delle tensioni tra l'India ed il Pakistan da una parte, e tra l'India e la Cina dall’altra, ciò non significa affatto una stabilità di questa regione per i tempi a venire. Se il Primo ministro indiano Mammhan Singh ha potuto dichiarare: "l'India e la Cina condividono la stessa aspirazione a costruire un ordine politico ed economico internazionale giusto, equo e democratico", è perché gli squali imperialisti in Asia, che sono la Cina, l'India ed il Pakistan sono costretti per il momento a mettere in sordina i loro reciproci scontri, per far fronte all'attuale offensiva degli Stati Uniti in questa parte del mondo.
In questa situazione, è ovvio che le altre potenze imperialiste mondiali, in particolare la Francia, la Germania e la Russia, devono tentare anche loro di difendere i propri interessi in questa regione, andando ad ombrare ulteriormente gli Stati Uniti già confrontati all'indebolimento della loro leadership mondiale. I recenti viaggi di Chirac e poi di Raffarin in Cina non avevano come unico scopo rafforzare i legami economici tra Parigi e Pechino. Si trattava anche di riaffermare il sostegno della Francia, subentrata alla Germania, a togliere l'embargo sulle vendite di armi cinesi e nello stesso momento vendere una tecnologia avanzata alla Cina. Una Cina più forte e più aggressiva di fronte agli Stati Uniti fa il gioco della Germania e la Francia. In effetti, se la strategia americana di insediamento di basi militari nel Kirghizistan, in Tagikistan, in Afghanistan ed in Uzbekistan mira ad accerchiare contemporaneamente l'Europa e la Russia, ciò serve anche a porre uno sbarramento contro l'influenza espansionista della Cina verso l'occidente, contribuendo così ad isolare tra loro i suoi principali concorrenti imperialisti.
Sbagliato credere che lo sviluppo delle tensioni imperialiste in Asia significa che la barbarie capitalista non continua ad accelerarsi nelle altre regioni del mondo. È vero proprio il contrario. È chiaro che la borghesia americana si ritrova sprofondata nel pantano iracheno, nonostante le proclamate intenzioni di iniziare un ritiro parziale delle truppe dal 2006. Essa è anche sul chi vive in Medio Oriente nei confronti della Siria e dell'Iran, ma anche sul fronte dell'estremo oriente rispetto alla Corea del Nord. E per continuare a giocar il ruolo di gendarme del mondo, è spinta continuamente in una fuga in avanti sul terreno militare. Il moltiplicarsi dei punti caldi in Estremo Oriente, dove la spinta dell'imperialismo cinese diventa un polo di preoccupazione preponderante, porta fin da ora la Casa Bianca a rafforzare le sue basi militari nella regione ed i suoi legami con Stati quali l'Indonesia, le Filippine, la Malesia, la Tailandia o ancora lo Sri Lanka. L'evoluzione della situazione nel Sud-est asiatico mostra una volta di più alla classe operaia che tutti i discorsi di pace della borghesia preparano solo nuove guerre e che questo sistema capitalista non ha niente da offrire se non la barbarie. La minaccia di una guerra in Asia ne è una nuova espressione, gravida di conseguenze per l'avvenire. Gli appetiti e le pretese dei principali rivali dell'imperialismo americano, tra i quali si pone oggi apertamente la Cina, non possono che aumentare. La crisi della leadership americana, la sua offensiva attuale e le reazioni che ne derivano, spingono il mondo in una spirale di caos crescente.
Tino, 22 aprile
L’intensificazione degli scontri imperialisti porta ad un caos sempre più profondo
La pressione imperialista della Cina
Il Sud-est asiatico, un nuovo focolare di tensioni
Mentre i media agli ordini della borghesia danno ampia risonanza al referendum sulla Costituzione europea, come se da questo dipendesse la pace e la stabilità nel mondo, la barbarie capitalista continua drammaticamente la sua marcia avanti. In particolare l'Asia è diventata il nuovo epicentro dell'accelerazione delle tensioni inter-imperialiste.
passivamente e senza reagire un’azione di forza militare della Cina su Taiwan. "Questa legge anti-secessione è scellerata", ha dichiarato Scott Clellan, portavoce della Casa Bianca. "Noi ci opponiamo ad ogni modifica unilaterale dello status quo". Queste chiare e nette dichiarazioni sono state fatte dalla segretaria di Stato americano Condoleeza Rice al presidente Hu-Jintao, durante la sua visita a Pechino il 21 marzo scorso. È chiaro ora che per far fronte agli aumentati appetiti imperialistici della Cina, il Giappone e gli Stati Uniti fanno causa comune in questa parte del mondo. Tale è il senso dell'accordo firmato da Washington e Tokio che si da "come obiettivo strategico comune" quello di operare per una "risoluzione pacifica" delle questioni riguardanti lo stretto di Formosa.La lettera del compagno del gruppo "La Scintilla" che pubblichiamo qui di seguito pone al centro un problema che sempre più spesso ci viene posto da molti compagni, e cioè la lotta contro la dispersione delle energie rivoluzionarie, sulla base di un confronto serio e approfondito. Nella risposta, che abbiamo indirizzato a tutti i compagni del gruppo, oltre a sostenere pienamente la necessità di un lavoro su questo piano e più in generale per la costruzione del futuro partito (facendo riferimento alla politica che la CCI ha da sempre condotto su questo piano), ci è sembrato importante chiarire come le nostre recenti prese di posizioni sull’atteggiamento e le posizioni assunte dal BIPR (tutte pubblicate sul nostro sito web), a cui il compagno fa riferimento, siano coerenti ed assolutamente necessarie per un reale lavoro verso la costruzione del partito, che non può prescindere dalla lotta contro l’opportunismo e contro comportamenti propri della classe dominante e dunque inaccettabili all’interno del movimento operaio. L’"asprezza" dei testi a cui evidentemente il compagno fa riferimento, non è quindi dovuta alla volontà di "voler rimarcare a tutti i costi la più minima differenza", pratica che come giustamente pensa il compagno va rigettata, ma alla necessità di difendere i metodi ed i principi proletari senza i quali nessun futuro partito rivoluzionario sarà possibile e dunque nessuna rivoluzione proletaria potrà essere vittoriosa.
La lettera del compagno
Cari compagni,
chi vi scrive è un militante dell’ "organizzazione proletaria La Scintilla" di Roma. Anche noi ci richiamiamo all’esperienza della sinistra comunista italiana. Siamo un gruppetto di una decina di ventenni (chi più chi meno) da sempre attenti alle vicende interne alla nostra corrente. Pur se pochi numericamente siamo abbastanza determinati a ricostruire in Italia un partito autenticamente marxista che sappia incidere realmente sulla classe. A tale obiettivo strategico adeguiamo tutta la nostra attività fatta di diffusione di materiale, propaganda in mezzo alla gioventù operaia e, arrivo al punto della mail, al ricompattamento delle residue forze dell’area rivoluzionaria. Pur scontrandoci spesso con compagni di altre strutture su le più disparate questioni teoriche, restiamo convinti che i marxisti rivoluzionari debbano risolvere le divergenze teoriche in maniera dialettica e scientifica e, se non ho interpretato male il pensiero di Lenin, dividersi solo nel caso di un’abiura dei principi rivoluzionari. Solo il partito può garantire un dibattito PRODUTTIVO, al di fuori di esso si cade nel burocratismo e ci si riduce a far polemica tra intellettuali. Marx non ebbe timore di trascinarsi appresso gli anarchici e i mazziniani, consapevole che la scientificità di una teoria trionfa solo nel confronto virile con le tesi errate e nel suo divenire strategia vincolante per i membri del partito. Detto questo non capiamo il livello di asprezza raggiunto tra voi e Battaglia su questioni si importanti, ma che non possono degenerare in un’accusa reciproca di opportunismo. L’opportunismo è una resa VOLONTARIA alla collaborazione tra le classi e non certo un errore teorico che, se pur commesso e non riconosciuto come tale, non mette in discussione la validità generale sull’uso della violenza rivoluzionaria. A noi giovani proprio questo risulta indigesto: il voler rimarcare a tutti i costi la più minima differenza e non le FONDAMENTALI PAROLE D’ORDINE IN COMUNE che ancora oggi sono ignorate dal proletariato (dittatura di classe, abolizione della proprietà, etc., etc.). Certo di una vostra risposta, vi saluto
V., 8 marzo 2005
La nostra risposta
Cari compagni,
(...) anzitutto vogliamo esprimere tutta la nostra contentezza per aver ricevuto notizie dell’esistenza di un gruppo di giovani compagni che fanno riferimento alla sinistra comunista italiana. Pensiamo che voi siate sicuramente d’accordo nel considerare che la sinistra comunista italiana ha avuto un ruolo centrale nella storia del movimento operaio internazionale dell’ultimo secolo e sul fatto che ancora oggi costituisce un riferimento imprescindibile per chi voglia intraprendere il faticoso ma appassionante compito di contribuire alla ricostruzione del partito rivoluzionario. Naturalmente, quando si parla di sinistra comunista italiana, occorre chiarire a cosa precisamente si fa riferimento, nella misura in cui tale corrente ha essa stessa più anime al suo interno, tutte proletarie naturalmente, ma non tutte omogenee tra di loro. Nel concreto ci riferiamo al fatto che si definiscono, con buona ragione, sinistra comunista italiana sia la corrente bordighista, sia la corrente che ha prodotto il gruppo Battaglia Comunista, sia ancora la corrente di compagni che, esclusi e/o messi in minoranza all’interno del PCI dopo il processo di bolscevizzazione, cominciano a lavorare all’estero come "frazione" del PCI elaborando, tramite la rivista Bilan, un bilancio delle ragioni della sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ‘20. Per quanto ci riguarda, la nostra organizzazione - che in realtà fa riferimento all’insieme dei contributi prodotti dalla sinistra comunista "internazionale" piuttosto che alla sola sinistra comunista "italiana" - deve moltissimo al gruppo Bilan perché questo ha saputo, meglio di altre componenti, attestarsi sul terreno del marxismo scientifico tirando delle lezioni politiche di grande importanza da un’analisi politica impietosa dei motivi della sconfitta della rivoluzione russa e del tradimento dei partiti ex-comunisti. Una delle cose più importanti di questa eredità a cui ci rifacciamo è la convinzione profonda che, fra organizzazioni di natura proletaria - organizzazioni cioè che si collocano e agiscono sullo stesso terreno di classe e per gli stessi fini storici, per quanto diversificate possano essere le reciproche posizioni politiche - ci debba essere uno sforzo per promuovere un continuo confronto delle posizioni, nella convinzione che l’appartenenza allo stesso campo di lotta implichi che il rafforzamento di ognuna di queste componenti comporti al tempo stesso un rafforzamento di tutto il campo proletario. Questa è la politica che ci ha sempre caratterizzato fin dalla nascita, anzi possiamo dire che siamo nati proprio grazie a questa politica, attraverso un processo di aggregazione di forze inizialmente non omogenee in seguito ad una serie di discussioni, conferenze e convergenze progressive tra gruppi diversi fino alla costituzione dell’attuale organizzazione internazionale che è la CCI avvenuta nel 1975. La stessa formazione della CCI non ha comportato nessuna chiusura verso l’esterno, ma il proseguimento della stessa politica verso tutti gli altri gruppi esistenti all’epoca o che sono sorti successivamente a livello internazionale. Se oggi siamo presenti in 3 continenti e in una quindicina di paesi diversi è proprio grazie a questa politica in cui abbiamo messo sempre al centro la discussione. D’altra parte, la nostra mancanza di settarismo si evince non solo dai nostri sforzi di promuovere conferenze o dalla nostra partecipazione convinta a quelle promosse da altri (come nel caso delle tre conferenze internazionali organizzate nella seconda metà degli anni ’70 per iniziativa di Battaglia Comunista), ma anche nella preoccupazione che abbiamo espresso nei momenti difficili per la classe operaia perché le organizzazioni del campo politico rivoluzionario reagissero in maniera coordinata per far fronte nella maniera più efficace possibile alle difficoltà del momento. Ci riferiamo ad esempio all’appello che abbiamo rivolto al BIPR (organizzazione che raccoglie il gruppo italiano Battaglia Comunista e il gruppo inglese Communist Workers Organisation) e alle formazioni bordighiste Programma Comunista, Il Comunista-Le Proletarie e Il Partito di Firenze in occasione della guerra in Kosovo e quella in Iraq per far sentire in maniera unitaria alla classe operaia la voce degli internazionalisti. Questo appello, così come altri da noi lanciati, è rimasto senza risposta perché purtroppo il settarismo è una malattia molto diffusa all’interno del movimento operaio, ma la nostra politica non per questo è cambiata. Per quanto riguarda poi il fatto che, recentemente, compagni come voi hanno potuto sorprendersi alla lettura di testi particolarmente duri scambiati tra il BIPR e la CCI, ciò dipende dalla scelta molto grave compiuta dal BIPR di farsi complice e sostenitore di gruppi parassiti (1) che praticano il furto, la delazione e la diffusione di menzogne nei nostri confronti e che – recentemente – sono anche portatori di gravi minacce nei confronti di nostri compagni. Concretamente il BIPR:
- si è espresso in accordo con la FICCI, piccolo gruppo di nostri ex militanti, per dire che bisogna distruggere la CCI;
- ha dato una giustificazione politica al furto dell’indirizzario dei nostri contatti da parte della FICCI;
- ha pubblicato sul proprio sito testi del sedicente Circulo de Comunistas Internacionalistas (in realtà invenzione di un impostore) che ci riempivano di fango accusandoci di usare metodi "nauseabondi" e "stalinisti" contro dei compagni, di volerli distruggere, ecc.
- ha rifiutato a lungo di pubblicare una nostra smentita di questo insieme di calunnie rivolte nei nostri confronti, come è invece riconosciuto nella prassi giornalistica finanche di giornali borghesi come "diritto di replica";
- ha rifiutato di aderire alla nostra richiesta di partecipare ad un jurì d’onore internazionale per darci la possibilità di difenderci, come è da sempre consuetudine nella storia del movimento operaio;
- ha poi, di fronte all’esibizione dei documenti che smentivano tutta la montatura contro di noi - di cui loro erano stati fiancheggiatori attivi e convinti - non solo ignorato la nostra richiesta di pubblicare questi documenti con una smentita di quanto avevano lasciato credere per settimane e settimane, ma hanno molto codardamente fatto scomparire, uno dopo l’altro dal loro sito, tutti i documenti che avevano con tanta leggerezza pubblicato in modo da non lasciare traccia dell’infamia di cui si erano macchiati.
In coerenza con la tradizione del movimento operaio noi siamo convinti che un gruppo rivoluzionario si caratterizzi per l’insieme di posizioni politiche che difende e che costituiscono un insieme unitario al cui interno sono contenute anche le norme comportamentali sia interne all’organizzazione stessa (gli statuti) che nei confronti di altre organizzazioni proletarie e della classe. In altre parole un’organizzazione proletaria non si può comportare come un qualsiasi partito borghese o piccolo borghese, prendendo vantaggio contro un presunto avversario politico alleandosi con chicchessia. La politica di un gruppo rivoluzionario, fedele a quella che è la natura della classe operaia di cui è espressione, non può essere condotta seguendo dei mezzi qualsivoglia, ma deve necessariamente essere condotta utilizzando dei mezzi che siano coerenti con i fini e con la natura del gruppo stesso. Insomma, contrariamente al principio machiavellico della borghesia, il fine non giustifica i mezzi! Esiste invece un’etica proletaria da cui non si può prescindere. E’ proprio su questo piano che c’è stata recentemente una lacerazione tra noi e il BIPR: Battaglia e la CWO hanno non solo dato credito a delle campagne infamanti portate avanti da questi gruppi parassiti, rifiutandosi a lungo di ospitare una nostra smentita sul loro sito web, ma quando finalmente noi abbiamo prodotto la prova che era tutta una montatura da parte di questi parassiti, Battaglia ha semplicemente giocato a fare lo gnorri pubblicando un’ultima lettera rivolta alla nostra organizzazione in cui, schivando tutti i fatti e i motivi reali del problema, ha attribuito a noi la responsabilità completa del problema affermando che "da un po' di tempo siamo oggetto di attacchi violenti e volgari da parte della CCI" e concludendo che "per questa ragione d’ora innanzi non daremo riscontro né seguito a nessuno dei loro volgari attacchi".
Tutto questo per rispondere alla vostra richiesta di chiarimenti sul "livello di asprezza raggiunto tra voi e Battaglia".
Ci sembra importante inoltre precisare un altro punto: cosa è l’opportunismo. Voi parlate di "degenerare in una reciproca accusa di opportunismo" per poi aggiungere che "l’opportunismo è una resa VOLONTARIA alla collaborazione tra le classi e non certamente un errore teorico". Da quanto voi dite sembrerebbe di capire che voi identificate l’opportunismo con un tradimento cosciente della causa rivoluzionaria. In realtà non è questa l’accezione che il movimento operaio dà a questo termine (2), in quanto si è sempre riconosciuto al suo interno una sinistra, un centro e una destra sulla base dell’adesione più o meno rigorosa agli interessi della classe operaia. Infatti è noto che nel movimento operaio sono sorte molteplici organizzazioni che si sono proclamate espressione del proletariato, ma non tutte sono state capaci di difendere con la stessa coerenza questi interessi nella misura in cui, sotto l’influenza della ideologia dominante, alcune di queste sono state spinte a politiche compromissorie tra gli interessi del proletariato e quelli della borghesi. L’opportunismo è appunto l’espressione di questa influenza più o meno forte della ideologia borghese nel campo del proletariato. Si tratta dunque di una debolezza di organizzazioni che comunque appartengono al campo proletario e non di una caratterizzazione di organizzazioni che hanno tradito, anche se, naturalmente, questa influenza può comportare, sul lungo periodo, il tradimento. L’accezione che voi avete del termine opportunismo è in effetti l’espressione della identificazione del tradimento di vecchi partiti che sono stati un tempo dei partiti opportunisti (vedi i vari partiti comunisti degli anni ’20) con l’opportunismo stesso. Ma questi partiti hanno avuto tutti una storia, sono nati in linea di massima come dei partiti rivoluzionari in rottura con le vecchie socialdemocrazie, hanno successivamente subito una involuzione come conseguenza delle difficoltà della fase politica che attraversava la stessa classe operaia, involuzione che si è caratterizzata appunto con pratiche opportuniste, e hanno finito per tradire. Quindi dobbiamo comprendere l’opportunismo come elemento dinamico nella lotta tra posizioni rivoluzionarie e l’influenza dell’ideologia borghese nello stesso campo rivoluzionario, e non come una condanna a morte di un’organizzazione. Per cui accusare un’organizzazione di opportunismo non significa condannarla al fuoco eterno dell’infamia controrivoluzionaria ma piuttosto metterla in guardia da una debolezza che può finire per incancrenirla completamente. Ciò detto, noi restiamo completamente disponibili, come è nostro costume, a discutere con il BIPR per chiarificare tutte le questioni che sono rimaste sospese e su cui abbiamo più volte richiesto ai compagni del BIPR un chiarimento pubblico. (...).
E’ tutto per il momento. In attesa di una vostra risposta vi inviamo fraterni saluti,
CCI, 31 marzo 2005
1. Ricordiamo a tale proposito le nostre Tesi sul parassitismo, pubblicate nella Rivista Internazionale n. 22, febbraio 1999. E’ curioso come veniamo spesso accusati di aver inventato la nozione di parassitismo politico. In realtà, chi ci accusa mostra scarsa dimestichezza con la storia del movimento operaio. Basta infatti leggere quanto dice Marx a proposito di Bakunin e della sua Alleanza per ritrovare questo stesso termine di parassitismo con lo stesso significato.
2. Anche se la corrente bordighista chiama oggi opportunisti i partiti stalinisti traditori, la sinistra italiana dell’epoca (ovvero la sinistra bordighiana) considerava la politica portata avanti dalla direzione dell’Internazionale Comunista ancora ai tempi di Lenin, come una politica opportunista.
I recenti risultati delle elezioni regionali e, soprattutto la crisi del governo che le ha seguite, fanno pensare, e molti già lo dicono, che sarebbe finita l’epoca di Berlusconi, e che anche le prossime elezioni politiche (nel 2006 o addirittura anticipate) vedrebbero la sicura sconfitta di Berlusconi e del centrodestra. Prima di dire se è questa effettivamente la situazione, vediamo quali sono i criteri che spingono la borghesia a scegliere una compagine governativa invece di un’altra. E già, perché innanzitutto va ricordato che la democrazia borghese è una grande finzione e che se tutti i partiti politici ufficiali rappresentano gli interessi del capitale, non è sulla base della libera competizione tra di loro che viene fuori chi vince le elezioni, ma, al contrario, è il capitale nazionale che in base alle esigenze del momento decide chi deve rappresentarlo a livello di governo.
I criteri che guidano questa scelta sono essenzialmente tre:
1) lo stato dei rapporti tra borghesia e proletariato, ovverosia, lo stato della lotta di classe;
2) le inclinazioni imperialiste della borghesia nazionale;
3) la capacità di una certa compagine di difendere meglio gli interessi dell’economia nazionale
Il primo di questi punti ha portato spesso la borghesia a adottare addirittura a livello internazionale una strategia di utilizzo al governo di quelle forze che meglio potevano affrontare la situazione sociale. Per esempio negli anni ’70, di fronte alla forte crescita della lotta di classe, la borghesia adottò la strategia della "sinistra al governo" (1) per deviare le lotte dei lavoratori su questo falso obiettivo e sull’illusione che la sinistra al governo potesse dare risposta alle esigenze dei lavoratori; negli anni ‘80 invece, di fronte a una lotta di classe ancora molto vivace e per non bruciare le sinistre al governo (dove avrebbero dimostrato di non saper dare risposte alle esigenze dei lavoratori), la strategia diventò quella della "sinistra all’opposizione", dove la sinistra poteva fare la voce dura e, soprattutto, essere presente nelle lotte operaie per poterle sabotare dall’interno.
Alla fine degli anni ’90 la borghesia torna ad una politica di "sinistra al governo" (13 paese europei su 15) perché se questo periodo "è ancora marcato dal riflusso della combattività e della coscienza provocati dagli avvenimenti della fine degli anni ’80 (crollo del blocco dell’est) (...), anche se delle tendenze ad una ripresa della combattività si fanno sentire e si constata una fermentazione politica in profondità che resta ancora molto minoritaria" (2), la borghesia cercò di guadagnare tempo sfruttando le capacità di mistificazione della sinistra per bloccare lo sviluppo delle lotte e frenare la riflessione politica.
Negli ultimissimi anni però questa strategia non è più servita (questa carta non può comunque essere usata per troppo tempo, perché l’illusione su quello che può fare la sinistra al governo svanisce presto se questa, al governo, non prende misure a favore del proletariato), per cui la borghesia ha preferito più rilanciare la mistificazione democratica lasciando che ci fosse una certa "alternanza" al governo, o facendo le sue scelte sulla base di altre esigenze.
Un’altra di queste esigenze è l’inclinazione imperialista della borghesia di un paese. Infatti, se, come diceva Rosa Luxemburg, nell’epoca dell’imperialismo tutti i paesi sono imperialisti, quello che non è scontato e automatico è come una determinata borghesia nazionale vuole portare avanti i suoi interessi imperialisti e, soprattutto, con quali alleati. Addirittura su questo piano ci possono essere delle vere e proprie fratture interne alla borghesia, che porta a scontri anche violenti. È proprio il caso dell’Italia, dove il crollo del blocco sovietico, e il conseguente disfacimento di quello occidentale, diede l’occasione alle frazioni della borghesia più ostili all’alleanza con gli USA per scatenare un’offensiva volta a liberare il paese dalla pesante tutela americana: fu il ciclone Mani Pulite, che nel giro di tre o quattro anni distrusse la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, due partiti di forte fede atlantista, che di questa alleanza erano stati i garanti, in particolare la Democrazia Cristiana che fu messa al governo dagli USA nel dopoguerra proprio per rappresentare l’alleanza. La riorganizzazione delle forze filoamericane si concretizzò con l’entrata in campo di Berlusconi, e la sua vittoria alle elezioni del 2001 rappresentò la controffensiva di queste forze. E come Berlusconi abbia spinto l’imperialismo italiano a seguire quello USA lo si è visto bene soprattutto in occasione della guerra in Iraq.
Infine c’è la ovvia necessità della borghesia di mettere al governo delle forze capaci di difendere gli interessi del capitale nazionale da tutti i punti di vista, oltre quello relativo ai rapporti con la classe operaia e quello dello schieramento imperialista. Soprattutto in una situazione in cui la crisi economica è per il capitale una situazione permanente, al governo devono esserci forze capaci di far fronte a questa crisi, e alla concorrenza internazionale che la crisi acuisce, in maniera adeguata. Da quest’ultimo punto di vista la coalizione di Berlusconi non ha mai dato troppe garanzie, per la fretta e la particolarità della sua nascita: Berlusconi, espressione, come abbiamo detto della frazione della borghesia italiana filoamericana, ebbe anche il compito di ricostruire una coalizione di centrodestra che la disgregazione della Democrazia Cristiana aveva fatto scomparire, rendendo la borghesia italiana nell’immediato priva di questa ala per poter giocare all’alternanza di governo secondo le convenienze e le circostanze. Berlusconi poté farlo grazie alla formazione in poco tempo di un partito che utilizzò la struttura della sua azienda per organizzarsi e l’appoggio delle sue tre reti televisive nazionali che consentì alla nuova formazione di conquistare ben presto un certo credito tra la popolazione.
Ma la fretta della discesa in campo di Berlusconi aveva come controaltare il fatto che gli uomini su cui poteva contare non avevano esperienza di governo (tranne quelli provenienti dalla ex DC o dall’ex PSI), per cui la gestione dell’economia (e della vita del paese in generale) è stata abbastanza disastrosa: il capitale italiano, all’interno della crisi economica che affligge l’intero mondo capitalista, ha perso numerose posizioni rispetto ai suoi principali concorrenti europei, cosa che l’ha portato alla attuale situazione di vera e propria recessione e di perdita di competitività anche rispetto ad economie "emergenti" (3), che costituiscono le premesse per un vero e proprio crollo dell’economia (4).
Fatte tutte queste premesse si potrebbe concludere che effettivamente per Berlusconi, che per il suo eccessivo sbilanciamento filoamericano non ha mai goduto dell’appoggio convinto di tutta la borghesia italiana, sia arrivato il momento di fare le valigie, visto il risultato delle recenti elezioni che non sono un fatto accidentale, ma il preludio di quello che può accadere con le prossime elezioni politiche (che potrebbero anche essere anticipate proprio perché la situazione è così grave che un altro anno di pannicelli caldi berlusconiani può essere fatale per il capitale italiano). E il ritorno del centrodestra all’opposizione significherebbe anche la fine del berlusconismo, perché Berlusconi non potrebbe più pretendere di essere lui a comandare il centrodestra (peraltro l’età non gli consente di pensare che il centrodestra possa puntare sicuramente su di lui alle elezioni del 2011) e dovrebbe cedere il posto a qualcun altro per evitare che, con la sua crisi, si rinnovi la disgregazione del centrodestra, come fu agli inizi degli anni novanta, e ritornare ad una situazione in cui la borghesia italiana non potrebbe giocare all’alternanza al governo delle sue forze politiche, che è la fonte primaria della mistificazione democratica. Ma naturalmente tutto questo va commisurato alla luce di un fattore che è sorto a partire dagli anni ’70 e che incide sempre più fortemente sulla vita della società: l’entrata nella fase di decomposizione. Questo aspetto è importante perchè i giochi e le manovre della borghesia sono spesso essi stessi complicati da questo fenomeno: vedi ad esempio l’incapacità dei due schieramenti politici presenti in Italia di mantenere una vera coesione su qualunque problema, ivi compreso l’ultima sortita di Rutelli nei confronti di Prodi e dell’Ulivo come partito unico (5).
Per quanto ci riguarda, il nostro compito è sempre stato quello di denunciare tutte le forze politiche della borghesia, di destra o di sinistra che fossero, perché esse non difendono altro che gli interessi del capitale nazionale che sono incompatibili con quelli del proletariato. E la prospettiva di un ritorno del centrosinistra al governo potrebbe costituire un freno alle lotte proletarie per le aspettative che essa può creare nelle file dei lavoratori, portati a pensare quantomeno che "peggio di Berlusconi non possono fare". Invece possono fare molti più danni proprio alla lotta di classe, a causa della maggiore forza (e strumenti) di mistificazione che la sinistra possiede. Perciò fin da ora compito dei rivoluzionari è denunciare questa prospettiva e ricordare ai proletari cosa ha fatto la sinistra negli anni in cui è stata al governo: una sequenza di attacchi antioperai che hanno aumentato (più di quanto sia stato capace di fare Berlusconi) la miseria e la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato. Perché non esistono ricette per "uscire dalla crisi": la sola strada che ogni capitale nazionale conosce per reggere la competizione con i propri avversari è quello di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, e questo la sinistra lo sa fare ancora meglio della destra pasticciona di Berlusconi.
Helios
1. Che poi non significava sempre che la sinistra andasse al governo, ma che questo fosse l’obiettivo su cui si accentrava l’attenzione della popolazione.
2. Vedi "Perché la presenza di partiti di sinistra nella maggioranza dei governi europei attuali?" (Rivista Internazionale n.23).
3. Per noi questo termine non sta ad indicare che ci sarebbero delle parti del capitalismo mondiale che non sono in crisi, ma solo che ci sono parti del mondo dove le condizioni particolari locali, vedi ad esempio la possibilità di uno sfruttamento del proletariato molto più feroce di quello possibile nei paesi più avanzati, fanno sì che esse possano crescere più delle altre, senza che questo faccia uscire il capitalismo mondiale dalla sua crisi, o che questi paesi potrebbero costituire alla distanza i nuovi paesi economicamente dominanti.
4. In realtà, oltre alla incapacità di Berlusconi ci sono fattori di debolezza strutturali del capitale italiano che spiegano meglio l’attuale situazione; ma quello che la borghesia non può perdonare è la superficialità con cui vengono difesi i suoi interessi, e Berlusconi, con la sua arroganza, superficiale lo è stato abbastanza, non foss’altro che nel non voler guardare in faccia la gravità della situazione.
5. Vedi "La decomposizione fase ultima della decadenza del capitalismo" (Rivista Internazionale n.14).
È con profondo dolore che abbiamo saputo, tramite la stampa dell’organizzazione di cui faceva parte, della morte del compagno Livio, militante de Il Partito Comunista Internazionale (cosiddetto di Firenze) che pubblica in Italia il periodico Il Partito. Livio ci ha lasciato a 84 anni dopo una malattia che lo aveva progressivamente indebolito fisicamente ma, immaginiamo, non altrettanto nello spirito. Pur non essendo un nostro militante, conoscevamo Livio come compagno perché lo incontravamo nei luoghi e nelle situazioni politicamente significative, apprezzando sempre la sua dedizione militante alla causa del proletariato. Leggendo il necrologio che gli ha dedicato la sua organizzazione, riconosciamo in maniera precisa il compagno di cui si parla, in particolare quando si ricordano i suoi rapporti con i giovani, nei confronti dei quali "era come animato da una forza interna volta a trasmettere, attingendo alla sua lucida memoria, quanto più possibile delle esperienze e degli insegnamenti di una vita intera di studio severo", o ancora quando si ricorda la sua "ansia che nulla si disperdesse del ricordo, orale e scritto, del modo d’essere comunista (…); tanto si dava abbondante nelle conversazioni, travolgeva gli ascoltatori anche con due, tre, quattro lezioni dal vissuto personale e di partito…". Anche con noi militanti della CCI Livio non ha mai avuto atteggiamenti settari, ma sempre di stima profonda e di rispetto, così come noi ne avevamo per lui. Ed anche a noi della CCI Livio, nelle occasioni in cui ci incontravamo, non lesinava di raccontarci storie di vita vissuta, tornando spesso sulla figura di Bordiga, che lui aveva conosciuto e frequentato, mettendo in evidenza il carattere burbero che lui amava tanto perché capace di tenere assieme il partito con la disciplina. In particolare ci è rimasta impressa una sua testimonianza su Bordiga che, di fronte a compagni di partito che "ponevano problemi" perché in disaccordo su questo o quel punto, praticava la politica di riempire questi compagni di compiti pratici in modo da soffocare nel lavoro tutti i grilli che passavano loro per la testa. Anche se non abbiamo mai condiviso questa terapia politica, la sua fervida memoria e la maniera appassionata con cui Livio ci raccontava queste storie aveva una presa, se non altro sentimentale, anche su di noi della CCI. Va detto peraltro che la nostra reciproca conoscenza non era stata del tutto superficiale. Livio in origine era un compagno di Programma Comunista ed è stato di quelli che più ha sofferto per la crisi e l’implosione di questa organizzazione avvenuta agli inizi degli anni ’80. A quell’epoca Livio si ritrova praticamente in un’organizzazione nella quale non si riconosce più: in particolare vede che le redini del partito passano in mano a elementi nei quali lui ripone ben poca fiducia, tanto che comincia un percorso di ricerca di una nuova organizzazione politica in cui militare. E’ in questa fase che lui comincia a frequentare, assieme ad altri due compagni di Programma più o meno della sua stessa età, le riunioni pubbliche della CCI, senza tuttavia arrivare mai ad avvicinarsi alle sue posizioni perché in realtà, più che cercare delle risposte a dei problemi, Livio cercava un’organizzazione che difendesse in maniera autentica le posizioni bordighiste. E’ perciò che la sua ricerca approda, di lì a qualche tempo, al Partito di Firenze, al quale è rimasto fedele fino alla morte. Anche se le posizioni politiche difese da Livio e dal gruppo a cui apparteneva sono diverse e distanti da quelle che noi difendiamo, la CCI riconosce in lui la figura di un militante nobile e appassionato e rivolge ai compagni tutti de Il Partito un caloroso messaggio di solidarietà.
CCI, 1 giugno 2005
1. Alternativa di società (2)
Partiamo naturalmente dalla posizione maggioritaria di Bertinotti (59,2%) per poi passare alle varie minoranze. In aggiunta agli elementi già sviluppati nello scorso articolo, possiamo osservare che le posizioni della maggioranza sono caratterizzate dalla mancanza più assoluta di riferimenti di classe. Si parla di crisi, ma non si propone nessuna analisi dei motivi di questa crisi. Si propone una alternativa di società, ma il modello proposto è esplicitamente ritagliato per un’Italia più egualitaria che dovrebbe sorgere dalla buona volontà di tutti i cittadini e dalla vittoria di una consultazione elettorale. Per quanto riguarda la politica internazionale, si porta avanti un’ipotesi mistificatoria secondo cui "la guerra alimenta il terrorismo, che è figlio e fratello della guerra" (Mozione n.1, Tesi n.7), per cui si tratterebbe ancora una volta di convincere gli animi di buona volontà a rompere questa spirale perversa per raggiungere la pace. Di qui una conseguente esaltazione del pacifismo, della non violenza, dell’ecologismo, ecc. come parole d’ordine per cui battersi. Infine la Rifondazione maggioritaria è esplicitamente nazionalista e quindi difensore dell’imperialismo italiano, come abbiamo mostrato nello scorso numero attraverso le dichiarazioni di Bertinotti sul caso Calipari (3). D’altra parte, che Rifondazione abbia esplicitamente rinunciato a considerarsi partito operaio lo si evince anche dalle sue recenti dichiarazioni precongressuali: "Il movimento operaio è stato il grande protagonista del secolo ma è stato sconfitto in primo luogo per il fallimento laddove si è costituito in stato nelle società post-rivoluzionarie nelle quali le istanze di liberazione per cui era nato si sono anche rovesciate in forme di oppressione drammatica." (Mozione n.1, Tesi n.6) Così Rifondazione partecipa in prima persona alla grande mistificazione secondo cui i paesi dell’est europeo, e in primo luogo la stessa Unione Sovietica, sarebbero stati - fino al crollo del muro di Berlino del 1989 - dei paesi sotto il controllo di una classe operaia degenerata, una classe che sarebbe stata protagonista (e non vittima, come invece è stato!) di forme di oppressione drammatica. In conclusione si vede che, se Rifondazione dovesse basare la sua attrattiva solamente sulle posizioni maggioritarie, avrebbe a disposizione le carte di un partito democratico di sinistra, più o meno radicale, ma niente di più. In realtà quello che fa di Rifondazione un partito che attrae molti elementi in ricerca, giovani e meno giovani, è la presenza al suo interno di una costellazione di realtà, di minoranze e di attività che, pur criticando e contestando le posizioni di Bertinotti, finiscono per dargli forza e per ricevere esse stesse una cornice di partito all’interno della quale si sentono gratificate e riescono a meglio lavorare. E’ perciò importante prendere in considerazione una per una queste componenti per capire il ruolo specifico di ognuna di esse all’interno del partito.
2. Essere comunisti
Dopo quella di Bertinotti, la componente Essere comunisti capeggiata da Claudio Grassi è quella più importante all’interno del partito potendo contare su un seguito del 26,2% e su una rivista dal titolo significativo, l’Ernesto. Da questa mozione in poi il linguaggio si fa progressivamente più "radicale", "di sinistra", il che non corrisponde necessariamente a posizioni realmente più di sinistra e, soprattutto, al fatto che sussistano posizioni di classe, come cercheremo di mostrare via via in questa nostra analisi. Questa seconda mozione non esclude l’appoggio ad una alternativa governativa di sinistra, ma a condizione che ci sia un accordo preventivo nella coalizione. Sulla guerra c’è una posizione molto più dura rispetto a Bertinotti, con una denuncia della guerra in Iraq e un appoggio alla resistenza irachena (che manca del tutto nella prima mozione) e a quella palestinese, che rendono questa posizione "più di sinistra". Si critica la posizione maggioritaria pacifista e non violenta, ci si dichiara solidali con quelli che fanno resistenza all’oppressione. E quando si arriva al paese di appartenenza si dice: "L’Italia non dovrà mai più partecipare ad interventi militari (nemmeno sotto copertura ONU, né indirettamente tramite la concessione di basi militari, spazi aerei, strutture logistiche) se non in difesa del proprio territorio da un’invasione straniera" (Mozione n.2, Tesi n.5). Detto in altri termini, si è contro una guerra di aggressione, ma se la guerra è camuffata come difesa del territorio dei propri padroni, (che sia in Iraq, in Palestina o in Italia), allora sì che questi servi dei padroni sono pronti a chiamare i lavoratori al massimo sacrificio (4).
Sull’Europa la mozione dice che questa non è quella struttura omogenea che si vorrebbe far credere e mette in guardia contro il ruolo emergente di questo continente dal punto di vista imperialista. Per inciso va detto che tutte le mozioni minoritarie sono critiche nei confronti della costituzione del partito della sinistra europea (a cui Rifondazione Comunista ha garantito l’adesione) perché avrebbe raccolto a livello europeo solo i partiti più moderati.
C’è anche una critica alla maggioranza per i cedimenti al revisionismo storico: "E’ necessario porre un argine al revisionismo storico, che da tempo ha conquistato posizioni anche a sinistra, cancella o riduce le colpe della borghesia e del capitalismo e criminalizza la storia del movimento operaio e comunista". (…) La critica netta degli errori e dei processi degenerativi che hanno macchiato alcuni momenti della storia del movimento comunista e del "socialismo reale" fa irreversibilmente parte del nostro patrimonio culturale, politico e morale. Siamo consapevoli della loro portata e delle gravi conseguenze che ne sono derivate anche per chi non ha disertato la lotta nel nome del comunismo". (…) Rivendicando la storia del movimento operaio e comunista, riconoscendola come la nostra storia. L’Ottobre bolscevico e la costruzione dell’Urss, la rivoluzione cinese, quella vietnamita e quella cubana – per limitarci ad alcune tra le più importanti esperienze del movimento comunista – hanno consentito la liberazione di sterminate masse di donne e di uomini da condizioni di fame e di miseria e hanno rappresentato il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo" (Mozione n.2, Tesi n.18). Più in particolare si critica la recente ipotesi di accettare, per i combattenti della Repubblica di Salò - i cosiddetti "ragazzi di Salò" – lo stesso trattamento adottato per i partigiani.
Si rivendica ancora il vecchio PCI dispiacendosi per il fatto che sia stato sciolto, anche se si parla di errori nel vecchio PCI, ma non si capisce quali siano: "Dopo essere stato la colonna della liberazione del Paese dal fascismo e la fucina di una coscienza democratica di massa, il PCI ha saputo imporre la centralità dei diritti del lavoro e dei diritti sociali, impedendo che la rapida modernizzazione del Paese comportasse enormi costi sociali e integrando i più alti risultati della civiltà borghese. (…) Il processo di graduale mutazione in senso socialdemocratico che ha segnato l’ultima fase della storia del PCI, non cancella i meriti storici complessivi dell’esperienza del comunismo italiano. Per questo appaiono gravissime le responsabilità dei gruppi dirigenti che hanno favorito lo scioglimento del PCI" (Mozione n.1, Tesi n.19).
In realtà non si capisce dove si collocano gli errori e quali siano stati i processi degenerativi. E’ certo comodo fare riferimento a Marx, Engels e a Lenin e fermarsi a Gramsci per poi saltare a piè pari al femminismo e quanto altro di oggi. E tutti gli altri 70-80 anni di storia? E poi, per quanto riguarda il tanto glorificato PCI a cui si rimprovera solamente la graduale mutazione in senso socialdemocratico che (avrebbe) segnato l’ultima fase (sic!), è evidente che o non sanno di che parlano, o più probabilmente lo sanno benissimo e cercano in tutti i modi di nasconderlo. In effetti non è questo il luogo per ricordare il ruolo controrivoluzionario del PCI giocato dalla fine degli anni ’20 fino al suo scioglimento dopo il 1989. Ma tanto per rinfrescare la memoria vogliamo solo ricordare:
- tutte le calunnie e le denunce politiche mosse dal PCI contro la sinistra comunista a partire dagli anni ’20 per scalzarla dalla direzione, metterla in minoranza e ridurla a niente;
- il ruolo svolto da Togliatti all’interno della direzione dell’Internazionale Comunista - divenuta ormai strumento dello stato sovietico e dello stalinismo - contro tutte le minoranze a livello internazionale;
- l’assassinio degli internazionalisti Atti e Acquaviva ad opera degli stalinisti del PCI;
- la coscrizione obbligatoria voluta e portata avanti in prima persona dal PCI nel sud liberato dopo il ‘43 nei confronti di soldati già fortemente provati da 3 anni di guerra e di ritorno alle loro case dopo l’armistizio in nome della lotta antifascista;
- il ruolo svolto da Togliatti in qualità di ministro della giustizia all’interno dei primi governi del II dopoguerra contro i cosiddetti "sbandati", ex soldati rimasti disoccupati e privi di ogni risorsa, contro cui il neo-ministro stalinista si scaglia con una ferocia inaudita.
Di fatto questa corrente si caratterizza come una corrente cripto-stalinista, che svolge all’interno di Rifondazione la "benefica" funzione di offrire una sponda a tutti i nostalgici del vecchio periodo stalinista che male hanno digerito la svolta operata nei primi anni ’90 prima da Occhetto e poi da D’Alema.
Prima di chiudere una curiosità: questa mozione fa un fugace e strano riferimento alla questione sarda. Forse che questa componente ha dei debiti nei confronti di un consistente elettorato sardo a cui ha bisogno di promettere qualche cosa?
3: Per un progetto comunista
La terza mozione, il cui leader è il trotskista Marco Ferrando, è molto più caratterizzata a sinistra e vanta il 6,51% di consensi all’interno del partito. Come si sa le organizzazioni trotskiste hanno adottato, dai tempi della IV Internazionale, la politica dell’entrismo, che consiste nel confluire in massa nei ranghi di organizzazioni della sinistra borghese nel tentativo di acquisire un’influenza tra i suoi militanti fino a prenderne il controllo. Il problema è che, ammesso che l’organizzazione trotskista avesse le caratteristiche di una organizzazione proletaria - cosa che noi escludiamo del tutto dopo l’appoggio dato dalla corrente trotskista al fronte imperialista sovietico durante la II guerra mondiale – il dato di fatto è che è l’organizzazione borghese che finisce inevitabilmente per fagocitare i militanti proletari che hanno l’illusione - aderendovi - di avere una più ampia platea cui rivolgersi.
Sul piano interno questa corrente spara a zero contro il centro sinistra, contro il governo di unità nazionale e critica Rifondazione ricordando che un programma alternativo serio deve cancellare le riforme di Berlusconi, ma anche quelle di Dini e quelle fatte dalla sinistra (vedi nota n.1). Quindi c’è una presa di distanza dai governi di sinistra e da quello che la stessa RC ha fatto in questi governi. Sono per una posizione elettorale autonoma e di opposizione, anche se non resistono alla tentazione di raggiungere un accordo particolare in seconda istanza con le forze di sinistra per buttare giù Berlusconi. In particolare avvertono la necessità di una svolta sul terreno locale, dove sentono che ancora una volta il PRC è stato corresponsabile di politiche antiproletarie: "L’esperienza di oltre dieci anni ci dice che il coinvolgimento del PRC nelle Giunte dell’Ulivo ha corresponsabilizzato il partito nella gestione locale delle politiche nazionali (in una logica, nel migliore dei casi, di "limitazione del danno"): in parte rilevante del paese siamo compartecipi di scelte di privatizzazione, di tagli della spesa, di patti concertativi con le organizzazioni del padronato, alla coda di sindaci o governatori ulivisti" (Mozione n.3, pag. 22).
Sul piano internazionale si parla degli interessi imperialisti dell’Italia in Iraq e del ruolo criminale dell’esercito italiano: "Più in generale il PRC deve rivendicare il ritiro immediato e incondizionato delle truppe da ogni teatro coloniale, inclusi i Balcani e l’Afghanistan. E deve sviluppare una vera campagna di massa che denunci il ruolo criminale delle truppe italiane in Irak e gli affari dell’imperialismo italiano (vedi gli interessi dell’ENI a Nassiria, i lauti affari delle aziende italiane coinvolte nel business della ricostruzione). Parallelamente il nostro partito deve sostenere, senza ambiguità, il diritto incondizionato di resistenza e sollevazione del popolo irakeno contro l’occupazione coloniale (americana, inglese, italiana)" (Mozione n.3, pag.21). Anche se questa posizione si presenta in apparenza particolarmente tagliente e coraggiosa, di fatto non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia della difesa dell’imperialismo nostrano, cioè un’esaltazione del fronte della resistenza irakena dietro il quale si nascondono tutte le forze imperialiste che oggi hanno interesse a osteggiare se non a combattere apertamente i padroni del mondo e i loro alleati: Usa e potenze alleate. Oggi come oggi, non essendo ancora mature le condizioni perché scoppi un nuovo conflitto imperialista mondiale, le tensioni tra le grandi potenze si scaricano attraverso una serie di conflitti locali dove i paesi minori fanno da capro espiatorio delle stesse tensioni. La prima guerra del Golfo, quella contro la Serbia, e poi l’Afghanistan e ancora la seconda guerra del Golfo, per non citare che le più importanti degli ultimi 15 anni, sono state tante occasioni in cui gli Usa da una parte e le potenze europee dall’altra, in una cinica quanto falsa alleanza, si sono confrontati per definire la reciproca influenza sullo scacchiere mondiale. Battersi dunque per sostenere il diritto incondizionato di resistenza e sollevazione del popolo irakeno contro l’occupazione coloniale, significa fare il gioco di un fronte imperialista contro l’altro, mentre la posizione di classe consiste nel sostenere la componente proletaria all’interno del popolo irakeno (come di qualunque altro paese centrale o periferico che sia) contro la borghesia locale e internazionale.
E’ infine interessante il rammarico che la corrente di Ferrando prova per la chiusura negativa dei rapporti con il movimento alter-mondialista rispetto al quale si accusa la direzione di aver tirato i remi in barca perché, di fronte alle azioni forti di piazza, si sarebbe fatta indietro per non compromettere la scelta governista. In realtà è ancora una volta la corrente di Ferrando che mostra essa stessa la sua natura borghese facendo riferimento in particolare al settore dei Disobbedienti che, per quanto possano essere incazzati e combattivi, sono pur sempre uno strato sociale indistinto mosso da velleità piccolo-borghesi e pertanto disomogenei ad una collocazione autenticamente di classe. La cosiddetta "spesa proletaria" non è una pratica proletaria, ma una pagliacciata organizzata da Casarini e compagni per rilanciare un movimento momentaneamente in ribasso!
Chiudiamo qui questa seconda parte del nostro contributo su Rifondazione Comunista. Abbiamo visto finora che né le posizioni di maggioranza, né quelle di due mozioni di minoranza, sono espressione degli interessi degli operai. La prossima volta ci toccherà però analizzare le altre due posizioni, tra cui si esprimono posizioni particolarmente radicali. Troveremo forse qui le tanto agognate posizioni di classe? Lo scopriremo nella prossima puntata.
Ezechiele, 17 maggio 2005
1. Giusto per rinfrescare la memoria, riportiamo da capo una delle citazioni più significative: "In un contesto storico segnato dall’esaurimento dello spazio riformistico l’ingresso dei partiti comunisti nei governi borghesi significa il loro coinvolgimento nelle politiche di attacco ai lavoratori. Così è stato per il PCF nel governo Jospin nel 97-2001, e per il nostro partito nella maggioranza del primo governo Prodi del 96-98. (…) La cancellazione della controriforma pensionistica di Berlusconi è doverosa: ma va combinata con la cancellazione della riforma Dini voluta dall’Ulivo che ha abbattuto le pensioni future dei giovani per fare largo al capitale finanziario. La cancellazione della legge 30 è una necessità: ma va congiunta all’abolizione del pacchetto Treu, imposto dal governo Prodi col voto del PRC, che ha introdotto la piaga del lavoro interinale. La cancellazione della "Bossi-Fini" è drammaticamente urgente: ma non può risparmiare i campi di detenzione (CPT) imposti dall’Ulivo agli immigrati, col voto favorevole del PRC, e tutte le loro brutture." (mozione n. 3, pag. 20, sottolineature nostre).
2. Il titolo di questo paragrafo, come dei prossimi quattro, fa riferimento al titolo della mozione della corrispondente componente di Rifondazione.
3. "La politica chiede che questa uccisione sia assunta per quella che è: una questione nazionale. Le prime reazioni del presidente del Consiglio sembravano incoraggiare questa speranza. (…) C’è in discussione l’autonomia dello Stato nazionale. La possibilità di intraprendere iniziative politiche e diplomatiche, con l’obiettivo di salvare la vita a propri concittadini, può essere messa in discussione da una potenza che, peraltro, si dice nostra alleata. A Berlusconi chiedo uno scatto d’orgoglio nazionale, come avvenne a Sigonella. (Al governo c’era Craxi, ricorda il giornalista). Non l’ho mai avuto in simpatia, ma a Sigonella vi fu uno scatto di orgoglio del suo governo. In quell’atto si rilevò la dote di uno statista" (La Repubblica dell’8 marzo 2005).
4. Il carattere controrivoluzionario di questa posizione è stata già ampiamente sconfessata nella storia del movimento operaio e da noi ribadita nella brochure internazionale "Nazione o classe".
Nell’articolo pubblicato nello scorso numero del giornale abbiamo mostrato come Rifondazione Comunista, il partito che vorrebbe farsi passare come il difensore e il continuatore della tradizione comunista in Italia, non sia altro che un partito borghese, di sinistra borghese, cioè un partito che difende gli interessi del capitale e non quelli dei lavoratori. Per dimostrare questa semplice verità non c’è stato bisogno di ricorrere a ricerche particolari, di rovistare in archivi segreti, ma semplicemente di leggere quello che le stesse componenti minoritarie di Rifondazione dicono della maggioranza la quale esprime - a pieno titolo - il partito stesso (1). In questo secondo articolo – e in un terzo che seguirà - ci proponiamo di dimostrare che, fatta salva la buona fede di quanti si fanno delle illusioni al riguardo, le stesse minoranze sono del tutto funzionali alla politica controrivoluzionaria del partito a cui appartengono ed esprimono, ognuna per proprio conto, delle posizioni del tutto antioperaie. Per comodità passeremo in rassegna le varie componenti di Rifondazione facendo riferimento alle mozioni presentate all’ultimo congresso di marzo scorso.
Nella prima parte di questo articolo (vedi RI n.140) abbiamo sottolineato il contesto internazionale e ricordato il quadro generale della rivoluzione del 1905 in Russia. Abbiamo anche ricordato l’importanza delle lezioni tirate per la classe operaia.
Nella seconda parte di questo articolo, come abbiamo già annunciato, noi torniamo sulla natura proletaria di questi eventi e sulla dinamica dello sciopero di massa che ha condotto il proletariato a far sorgere dalla sua lotta dei nuovi organi di organizzazione e di potere: i soviet. Vedremo come tutta la creatività della classe operaia, all’alba del declino del capitalismo, si sia effettuato senza alcun ruolo significativo da parte dei sindacati o della lotta parlamentare. La capacità della classe operaia di prendere nelle proprie mani il suo avvenire, sulla base dell’esperienza accumulata e della solidarietà, prefigurava già nuove responsabilità per questa e per la sua avanguardia. Così, posizioni decisive per il movimento operaio nella fase di decadenza del capitalismo erano già inscritte e presenti nel 1905.
Una volta rievocati gli elementi essenziali di storia, occorre adesso cercare di recuperare tutte le lezioni che ci ha fornito l’esperienza del 1905. E la prima fra tutte è che la rivoluzione del 1905 ha un solo protagonista, il proletariato russo, e che tutta la sua dinamica segue una logica strettamente di classe. Su questo già lo stesso Lenin è abbastanza chiaro quando ricorda che, a parte il suo carattere democratico borghese dovuto al suo contenuto sociale, "la rivoluzione russa fu nello stesso tempo una rivoluzione proletaria; non soltanto perché il proletariato ne fu la forza dirigente e fu all’avanguardia del movimento, ma anche perché l’arme specifica del proletariato, e precisamente lo sciopero, costituiva il mezzo principale per scuotere le masse e il fenomeno più caratteristico nella ondata sempre più travolgente di avvenimenti decisivi" (1). Ma quando Lenin parla di sciopero, non dobbiamo intendere delle azioni di 4, 8 o 24 ore del tipo che ci propongono oggi i sindacati nei vari paesi del mondo. Infatti il 1905 introduce nella storia del movimento operaio, oltre ai soviet, quello che poi fu chiamato lo sciopero di massa, quell’oceano di fenomeni – come lo caratterizzò Rosa Luxemburg – cioè l’estensione e l’autorganizzazione spontanea della lotta del proletariato, che avrebbe caratterizzato tutti i grandi momenti della lotta del XX secolo (2). L’ala sinistra del movimento operaio - tra cui i Bolscevichi, Rosa Luxemburg, Pannekoek, vi vedrà la conferma delle sue posizioni (contro il revisionismo alla Bernstein (3) e il cretinismo parlamentare) ma dovrà accollarsi un lavoro teorico approfondito per comprendere pienamente il cambiamento delle condizioni di vita del capitalismo – la fase dell’imperialismo e della decadenza – che determinava il cambiamento negli obiettivi e nei mezzi della lotta di classe. Ma già la Luxemburg ne delineava le premesse: "Lo sciopero di massa si palesa dunque non come un prodotto specificamente russo, scaturito dall’assolutismo, bensì come una forma universale della lotta proletaria di classe, che risulta dall’attuale stadio dello sviluppo capitalistico e dei rapporti di classe. (…) l’attuale rivoluzione russa si trova in un punto dell’itinerario storico che è situato già oltre il valico, oltre la vetta, cioè dell’acme della società capitalista" (4).
Lo sciopero di massa non è un semplice movimento delle masse, un genere di rivolta popolare che ingloba "tutti gli oppressi" e che sarebbe, essenzialmente, positivo come le ideologie gauchiste ed anarchiche oggi vogliono farci credere. Nel 1905 Pannekoek scriveva: "Se si prende la massa nel suo senso del tutto generale, l’insieme del popolo, appare che, nella misura in cui le varie concezioni e volontà divergenti degli uni e degli altri si neutralizzano reciprocamente, apparentemente non resta altro che una massa senza volontà, lunatica, consacrata al disordine, volubile, passiva, oscillante di qua e di là tra stimoli diversi, tra movimenti incontrollati e una indifferenza apatica – in breve, come si sa, il quadro che gli scrittori liberali dipingono più volentieri del popolo (…). Essi non conoscono le classi. Al contrario, la forza della dottrina socialista è quella di aver apportato un principio d’ordine e un sistema d’interpretazione dell’infinita variété delle individualità umane, introducendo il principio della divisione della società in classi" (5).
Mentre la borghesia - e con essa gli opportunisti nel movimento operaio - prendevano le distanze con disgusto dal movimento "incomprensibile" del 1905 in Russia, la sinistra rivoluzionaria tirava le lezioni della nuova situazione: "… le azioni di massa sono una conseguenza naturale dello sviluppo del capitalismo moderno in imperialismo, sono sempre più la forma di lotta che si impone ad esso" (6).
Lo sciopero di massa non è neanche una ricetta pronta come lo "sciopero generale" propagandato dagli anarchici (7), ma un modo di esprimersi della classe operaia, un modo di raccogliere le sue forze per portare avanti la sua lotta rivoluzionaria. «In una parola: lo sciopero di massa, come dimostra la rivoluzione russa, non è un mezzo ingegnoso escogitato allo scopo di una più possente efficacia della lotta proletaria, ma è il modo stesso del movimento della massa proletaria, la forma fenomenica stessa in cui si presenta la lotta proletaria nella rivoluzione» (8). Lo sciopero di massa è qualcosa di cui oggi non abbiamo un’idea diretta e visibile se non, per le persone meno giovani, attraverso la testimonianza della lotta degli operai polacchi del 1980 (9). Facciamo dunque riferimento ancora alla Luxemburg che ce ne dà un quadro forte e lucido:
«... gli scioperi di massa, dalla prima grande lotta salariale messa in atto dai tessili di Pietroburgo nel 1896-97 fino all’ultimo grande sciopero di massa nel dicembre 1905, in modo affatto inavvertibile si sono trasformati da economici in politici, sì che è quasi impossibile tracciare una linea di demarcazione fra gli uni e gli altri. Ciascuno dei grandi scioperi di massa ripete anch’esso, diremmo quasi in miniatura, la storia generale degli scioperi di massa compiuti in Russia, cominciando da un conflitto di natura puramente economica o comunque sindacale e parziale, per percorrere poi tutta la scala che conduce alla manifestazione politica. (...) Lo sciopero di massa del gennaio 1905 si sviluppa da un conflitto interno delle officine Putilov, quello di ottobre dalla lotta dei ferrovieri per la cassa pensioni, quello di dicembre, infine, dalla lotta dei postelegrafici per il diritto di coalizione. Nel suo insieme, il progresso del movimento lo si vede non nel venir meno dello stadio economico iniziale, bensì nella rapidità con cui si percorre tutta la scala che sbocca nella manifestazione politica e nella posizione eccentrica che lo sciopero di massa riesce a raggiungere. (...) Ben lungi dal separarsi nettamente o addirittura d’escludersi a vicenda (...) il momento economico e il politico non sono altro che due aspetti interconnessi della lotta proletaria di massa» (10).
Qui Rosa Luxemburg tocca un aspetto centrale della lotta rivoluzionaria del proletariato: l’unità inseparabile della lotta economica e quella politica. A dispetto di quanti assumevano, all’epoca, che la lotta politica sia il superamento, la parte nobile, per così dire, della lotta del proletariato nei confronti della borghesia, la Luxemburg spiega chiaramente come invece la lotta si sviluppa dal livello economico a quello politico per poi tornare con forza accresciuta sul piano della lotta rivendicativa. Tutto ciò è particolarmente chiaro rileggendo i testi sulla rivoluzione del 1905 relativi alla primavera e all’estate. Si vede infatti come il proletariato, che era partito dalla domenica di sangue con una dimostrazione politica, anche se di un livello estremamente addomesticato, dopo la forte repressione non solo non demorde, ma addirittura ne esce fuori con un vigore di lotta rinnovato e rafforzato, andando all’attacco sul piano della difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. E’ così che nei mesi successivi è tutto un pullulare di lotte. Questo periodo ebbe una grande importanza anche perché, come sottolinea ancora Rosa Luxemburg, dette la possibilità al proletariato di interiorizzare, a posteriori, tutti gli insegnamenti del prologo di gennaio e di chiarirsi le idee per il futuro.
Un aspetto che è particolarmente importante nel processo rivoluzionario in Russia nel 1905 è il suo carattere fortemente spontaneo. Le lotte sorgono, si sviluppano e si rafforzano, producendo strumenti nuovi di lotta quali lo sciopero di massa e i soviet, senza che i partiti rivoluzionari dell’epoca riescano a stare al passo o finanche a capire subito fino in fondo le implicazioni di quello che stava succedendo. La forza del proletariato in movimento sui propri interessi di classe è formidabile e contiene in sé una creatività impensabile. E’ lo stesso Lenin che lo riconosce un anno dopo facendo il bilancio della rivoluzione del 1905:
«Dallo sciopero e dalle dimostrazioni alle barricate isolate, dalle barricate isolate alla costruzione in massa di barricate e alla lotta di strada contro le truppe. Senza l’intervento delle organizzazioni, la lotta proletaria di massa era passata dallo sciopero all’insurrezione. In ciò sta la più grande conquista storica della rivoluzione russa fatta nel dicembre 1905 e, al pari di tutte le conquiste precedenti, essa costò grandi sacrifici. Il movimento, sorto dallo sciopero generale politico, si era elevato a un grado superiore. Costrinse la reazione a spingere la sua resistenza sino in fondo e si avvicinò così, con un passo gigantesco, al momento in cui la rivoluzione andrà essa pure sino in fondo nell’uso dei mezzi offensivi. La reazione non può andare oltre l’impiego dell’artiglieria contro le barricate, contro le case e contro la folla. La rivoluzione può andare ancora più in là delle squadre di combattimento di Mosca; può ancora e ancora progredire ! (...) Il proletariato aveva avvertito prima dei suoi capi il mutamento delle condizioni oggettive della lotta, la quale esigeva il passaggio dallo sciopero all’insurrezione. Come sempre, la pratica aveva preceduto la teoria»
Questo passaggio di Lenin è particolarmente importante oggi nella misura in cui molti dei dubbi presenti tra elementi politicizzati e finanche in una certa misura all’interno di organizzazioni proletarie sono legati all’idea che il proletariato non riuscirà mai ad emergere dall’apatia nella quale a volte sembra immerso. Quello che avvenne nel 1905 ne è la smentita più eclatante e la meraviglia che proviamo nei confronti di questo carattere spontaneo della lotta di classe è solo l’espressione di una sottovalutazione dei processi che si muovono nel profondo della classe, di quella maturazione sotterranea della coscienza di cui parlava già Marx quando si riferiva alla "vecchia talpa".
La fiducia nella classe operaia, nella sua capacità di dare una risposta politica ai problemi che affliggono la società, è una questione di primo ordine nell’epoca attuale. Dopo il crollo del muro di Berlino e la campagna della borghesia che ne è seguita sul fallimento del comunismo identificato a torto con l’infame regime stalinista, è la stessa classe operaia ad avere difficoltà a riconoscersi come classe e ancora, e di conseguenza, a riconoscersi in un progetto, in una prospettiva, in un ideale per cui combattere. La mancanza di una prospettiva produce automaticamente una caduta della combattività, un indebolimento della convinzione della stessa necessità di combattere perché non si lotta a vuoto ma solo se c’è un obiettivo da raggiungere. E’ per questo che oggi la mancanza di chiarezza sulla prospettiva del futuro e la fiducia in se stessa della classe operaia sono così fortemente legate tra di loro. Ma questa catena non si spezza se non nella pratica, attraverso l’esperienza diretta della classe della possibilità e della necessità di lottare per una prospettiva. Così come si produsse appunto nella Russia del 1905 quando «nello spazio di pochi mesi il quadro si trasformò completamente. Le poche centinaia di socialdemocratici rivoluzionari divennero "improvvisamente" delle migliaia che a loro volta divennero i capi di due-tre milioni di proletari. La lotta proletaria provocò un grande fermento e, talvolta, un movimento rivoluzionario nel profondo della massa di cinquanta-cento milioni di contadini; il movimento contadino ebbe una ripercussione nell’esercito e portò a rivolte di soldati e a scontri rivoluzionari di una parte dell’esercito contro l’altra» (12). Ciò non costituiva una necessità soltanto per il proletariato in Russia, ma per lo stesso proletariato mondiale, ivi incluso la sua sezione più sviluppata, il proletariato tedesco:
«Nella rivoluzione, in cui è la massa medesima ad apparire sulla scena politica, la coscienza di classe diviene pratica, attiva. E’ per questo che al proletariato russo un anno di rivoluzione può dare quella "educazione" che al tedesco non sono riusciti a dare artificialmente trent’anni di lotte parlamentari e sindacali (...) Ma altrettanto certo è, viceversa, che in Germania, in un periodo di possenti azioni politiche, una viva, attiva sensibilità rivoluzionaria s’impadronirà dei più larghi e profondi strati del proletariato, e lo farà tanto più rapidamente e tanto più fortemente, quanto più larga e profonda sarà stata fino allora l’attività educativa svolta dalla socialdemocrazia» (13). Parafrasando Rosa Luxemburg possiamo dire che è altrettanto vero che oggi, nel mondo, in un momento di profonda crisi economica e di fronte all’incapacità conclamata della borghesia a far fronte al fallimento dell’intero sistema capitalista, una viva, attiva sensibilità rivoluzionaria s’impadronirà anche dei settori più maturi del proletariato mondiale e lo farà in particolare nei paesi del capitalismo avanzato dove più radicata e ricca è stata l’esperienza della classe e dove più presenti sono state le ancora deboli forze rivoluzionarie. Questa fiducia che noi esprimiamo oggi nella classe operaia non è un atto di fede, non risponde ad un atteggiamento di fiducia cieca, mistica, ma si basa appunto sulla storia di questa classe e sulla sua capacità di ripresa a volte sorprendente a partire da situazioni apparentemente di torpore perché, come abbiamo cercato di mostrare, se è vero che le dinamiche attraverso cui si producono i processi della maturazione della sua coscienza sono spesso oscuri e non facili da comprendere, è tuttavia certo che questa classe è storicamente costretta, per la sua collocazione nella società di classe sfruttata e di classe rivoluzionaria ad un tempo, a drizzarsi contro la classe che la opprime, la borghesia, e nell’esperienza di questa lotta ritroverà la fiducia in se stessa che le manca oggi:
"Prima, noi avevamo una massa impotente, docile, di una inerzia cadaverica di fronte alla forza dominante ben organizzata e che sa quello che vuole, che manipola la massa a suo piacimento; ed ecco che questa massa si trasforma in umanità organizzata, capace di determinare la propria sorte esercitando la sua volontà cosciente, capace di far fronte arditamente alla vecchia potenza dominante. Da che era passiva, diviene una massa attiva, un organismo dotato di una vita propria, cementato e strutturato da se stesso, dotato della sua propria coscienza e dei suoi propri organi" (14).
Come per lo sviluppo della fiducia della classe operaia in se stessa, esiste necessariamente un altro elemento cruciale della lotta del proletariato: la solidarietà al suo interno. La classe operaia è la sola classe che è veramente solidale per natura perché non esiste al suo interno alcun interesse economico divergente – contrariamente alla borghesia, classe della concorrenza la cui solidarietà non si esprime al più alto grado che nei limiti nazionali oppure contro il suo nemico storico, il proletariato. La concorrenza all’interno del proletariato gli è imposto dal capitalismo, ma la società che porta in grembo e nel suo essere è una società che mette fine a tutte le divisioni, una vera comunità umana. La solidarietà proletaria è un’arma fondamentale della lotta del proletariato; essa era all’origine del grandioso rovesciamento dell’anno 1905 in Russia:
«La scintilla che ha fatto divampare l’incendio è stato un comune conflitto fra lavoro e capitale: lo sciopero in una fabbrica. E’ interessante notare tuttavia che lo sciopero dei 12.000 operai della Putilov, scoppiato lunedì 3 gennaio, è stato innanzitutto uno sciopero proclamato in nome della solidarietà proletaria. La causa è stata il licenziamento di quattro operai. "Quando la richiesta di riassunzione è stata respinta – scrive un compagno da Pietroburgo il 7 gennaio – la fabbrica si è fermata di colpo, con totale unanimità"» (15).
Non è un caso se oggi la borghesia si sforza di svilire la nozione di solidarietà che essa presenta sotto una forma "umanitaria" o ancora sottoforma di "economia solidale", che è uno dei regali del nuovo "movimento" altermondialista che si sforza di deviare la presa di coscienza che si produce un po’ alla volta in profondità nella società di fronte all’impasse che rappresenta il capitalismo per l’umanità. Se la classe operaia nel suo insieme non è oggi ancora cosciente della potenza della sua solidarietà, la borghesia invece non ha dimenticato le lezioni che il proletariato le ha inflitto nella storia.
"Nella tempesta del periodo rivoluzionario avviene che sia proprio il proletario a trasformarsi da un padre di famiglia previdente e reclamante sussidi in un "romantico della rivoluzione" per il quale, a confronto dell’ideale di lotta, ha ben poco valore persino il bene supremo, cioè la vita, e meno che meno ne ha, quindi, il benessere materiale. Se è vero, dunque, che la guida dello sciopero in massa, intesa come potere di deciderne l’inizio, di calcolarne i costi e assicurarne la copertura, è faccenda del periodo rivoluzionario stesso, è altresì vero che, intesa in tutt’altro senso, la guida dello sciopero in massa spetta alla socialdemocrazia e ai suoi organi direttivi. (…) con il meccanismo degli scioperi di massa, la socialdemocrazia è chiamata ad assumerne anche la direzione politica, nel bel mezzo d’un periodo di rivoluzione. Lanciare la parola d’ordine, dare un indirizzo alla lotta, impostare la tattica della battaglia politica in modo tale che in ciascuna fase si realizzi nella sua intera portata il potenziale, disponibile e già mobilitato e attivo, del proletariato, e che ciò trovi espressione nelle posizioni di combattimento assunte dal partito, in modo tale che, quanto a fermezza e precisione, la tattica della socialdemocrazia non sia mai inferiore al livello dei reali rapporti di forza, ma piuttosto lo sopravanzi: questi sono i compiti più rilevanti della "direzione" nel periodo degli scioperi in massa" (16).
Durante l’anno 1905 spesso i rivoluzionari (chiamati all’epoca socialdemocratici) sono stati sorpresi, preceduti, superati dall’impetuosità del movimento, dalla sua originalità, la sua immaginazione creativa e non sempre hanno saputo dare le parole d’ordine di cui parla la Luxemburg, "in ogni fase, in ogni istante" e hanno anche commesso degli errori importanti. Tuttavia, il lavoro rivoluzionario di fondo che essi hanno condotto prima e durante il movimento, l’agitazione socialista, la partecipazione attiva alla lotta della loro classe sono stati dei fattori indispensabili nella rivoluzione del 1905; la loro capacità, in seguito, di tirare le lezioni di questi avvenimenti ha preparato il terreno della vittoria del 1917.
Ezechiele, 5 dicembre 2004
1. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 687-688
2. Vedi il nostro articolo "Le condizioni storiche della generalizzazione della lotta della classe operaia", nella Revue Internazionale n. 26, 1981.
3. Bernstein era, all’interno della socialdemocrazia tedesca, il promotore dell’idea di una transizione pacifica al socialismo. La sua corrente è conosciuta sotto il termine di revisionismo. Rosa Luxemburg, nella sua brochure Riforma sociale o rivoluzione, lo combatte come espressione di una pericolosa deviazione opportunista che affligge il partito.
4. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 94.
5. "Marxismo e teologia", pubblicato nella Neue Zeiten nel 1905 e citato in "Azione di massa e rivoluzione" (1912).
6. Pannekoek, "Azione di massa e rivoluzione", Neue Zeit del 1912.
7. D’altra parte gli anarchici non hanno giocato alcun ruolo nel 1905. L’articolo nella nostra Revue Internationale n. 120 sulla CGT in Francia sottolinea che il 1905 non trova nessuna eco presso gli anarco-sindacalisti. Come viene messo in luce da Rosa Luxemburg dall’inizio nella sua brochure Sciopero di massa, partito, sindacati: "nella rivoluzione russa gli anarchici non esistono assolutamente come corrente politica da prendersi sul serio; (…) la medesima rivoluzione che costituisce il primo banco di prova storico dello sciopero in massa, non significa affatto una riabilitazione dell’anarchismo, ma significa, esattamente al contrario, una sua liquidazione storica".
8. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 61-62.
9. Vedi la nostra brochure sull’agosto polacco del 1980.
10. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 65-66.
11. V. Lénine, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 687.
12. ibidem.
13. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 88.
14. Pannekoek, Azione di massa e rivoluzione, Neue Zeit del 1912.
15. Lenin, Sciopero economico e sciopero politico, Le Edizioni del Maquis, pag. 75
16. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 72-73.
(11).Carattere spontaneo della rivoluzione e fiducia nella classe operaia
Chi sono le prime vittime degli attentati terroristici nel centro di Londra il 7 luglio 2005? Come a New York nel 2001 ed a Madrid nel 2004, le bombe miravano deliberatamente agli operai, alle persone che si ammucchiano nelle metropolitane e negli autobus per andare al lavoro. Al Qaeda che rivendica la responsabilità di questi massacri, dice che ha voluto vendicare "i massacri perpetrati in Iraq dall'esercito britannico”. Ma il macello senza fine che subisce la popolazione irachena, non è colpa della classe lavoratrice della Gran Bretagna; sono le classi dominanti della Gran Bretagna, dell'America ad essere responsabili – senza parlare dei terroristi della sedicente ‘Resistenza’ che sono quotidianamente implicati nel massacro di operai e di civili innocenti a Baghdad e nelle altre città. Durante questo tempo, gli architetti della guerra in Iraq, i Bush ed i Blair restano sani e salvi; peggio ancora, le atrocità commesse dai terroristi forniscono loro il pretesto ideale per lanciare nuove avventure militari, così come hanno fatto in Afghanistan ed in Iraq dopo l’11 settembre.
Tutto ciò è nella logica della guerra imperialista: guerre condotte nell'interesse della classe capitalista, delle guerre per il dominio del pianeta. La grande maggioranza delle vittime di queste guerre è composta da sfruttati, da oppressi, schiavi salariati del capitale. La logica della guerra imperialistica eccita l'odio nazionale e razziale, fatto di popolazioni intere, ‘il nemico’ da insultare, da attaccare ed abbattere. Aizza gli operai gli uni contro gli altri e gli impedisce di difendere i loro interessi comuni. Peggio, chiama gli operai a radunarsi sotto la bandiera e lo stato nazionali, a partecipare con convinzione alla guerra in difesa di interessi che non sono i loro ma quelli dei loro sfruttatori.
Nella sua dichiarazione sugli attentati di Londra dalla riunione dei ricchi e dei potenti del gruppo del G8, Blair ha detto: “è importante che quelli che sono impegnati sulla via del terrorismo sappiano che la nostra determinazione a difendere i nostri valori ed il nostro stile di vita sono più grandi della loro determinazione a seminare la morte e la distruzione di una popolazione innocente.” La verità è che i valori di Blair e quelli di Bin Laden sono esattamente gli stessi. Sono così pronti sia l’uno che l'altro a seminare la morte e la distruzione presso una popolazione innocente per difendere i loro interessi sordidi. La sola differenza è che Blair è un grande gangster imperialistico e Bin Laden uno piccolo. Dobbiamo rigettare totalmente tutti quelli che ci chiedono di scegliere un campo contro un altro.
Tutte le dichiarazioni di solidarietà con le vittime degli attentati di Londra proclamate dai ‘dirigenti del mondo’ sono della pura ipocrisia. Il sistema sociale che dirigono dallo scorso secolo, ha annientato decine di milioni di esseri umani in due barbare guerre mondiali e innumerevoli conflitti, dalla Corea al Golfo, dal Vietnam alla Palestina. E contrariamente alle illusioni che seminano Geldof, Bono e gli altri, dirigono un sistema che, per sua stessa natura, non può “make poverty history”, gettare la povertà nelle pattumiere della storia, ma condanna al contrario le popolazioni a centinaia di milioni ad una miseria crescente ed avvelena tutti i giorni il pianeta per difendere i suoi profitti. La solidarietà che vogliono i dirigenti del mondo è una falsa solidarietà, l'unità nazionale tra le classi che permetterà loro di scatenare delle nuove guerre in futuro.
L'unica vera solidarietà è la solidarietà internazionale della classe operaia, fondata sugli interessi comuni degli sfruttati di tutti i paesi. Una solidarietà che supera tutte le divisioni razziali e religiose e che è la sola forza capace di opporsi alla logica capitalista del militarismo e della guerra.
La storia ha mostrato il potere di un tale solidarietà: nel 1917-18, quando gli ammutinamenti e le rivoluzioni in Russia e in Germania hanno messo fine alla carneficina della Prima Guerra mondiale. E la storia ha mostrato anche il prezzo terribile che la classe operaia ha dovuto pagare quando questa solidarietà è stata sostituita di nuovo dall'odio nazionale e la lealtà alla classe dominante: l'olocausto della Seconda Guerra mondiale. Oggi, il capitalismo sparge di nuovo la guerra sul pianeta. Se vogliamo fermarlo dall’inghiottirci nel caos e la distruzione, dobbiamo rigettare tutte le chiamate patriottiche dei nostri dirigenti, lottare per difendere i nostri interessi in quanto operai ed unirci contro questa società morente che non può offrirci nient’altro che l'orrore e la morte ad una scala sempre crescente.
Corrente comunista internazionale, 7 luglio 2005.
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[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/62/giappone
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/4/63/india
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/parassitismo
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/imperialismo-italiano
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/7/110/bordighismo
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/2/36/falsi-partiti-operai
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/gauchismo
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/trotzkismo
[18] https://it.internationalism.org/en/tag/4/91/russia-caucaso-asia-centrale
[19] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1905-rivoluzione-russia
[20] https://it.internationalism.org/en/tag/2/26/rivoluzione-proletaria
[21] https://it.internationalism.org/en/tag/4/72/gran-bretagna
[22] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[23] https://it.internationalism.org/en/tag/3/54/terrorismo
[24] https://it.internationalism.org/en/tag/6/105/119