Nel scorso mese di gennaio la CCI ha ricevuto una dichiarazione da parte di Battaglia Comunista relativa a degli attacchi comparsi sul sito Indymedia che accusano “la setta bordighista di Battaglia Comunista” di aver aggredito un gruppo di militanti alla manifestazione contro la repressione svoltasi a Parma lo scorso 21 dicembre e incitando a “portare una lotta contro tutti quelli che cercano una pacificazione coi fascisti, da Amadeo Bordiga al Campo Antimperialista, da Battaglia Comunista all’editrice bordighista Graphos”. Un altro intervento sullo stesso sito e firmato Antifa Block incitava a “buttare fuori dai cortei” BC ed altre organizzazioni accusate di “propagandare tesi negazioniste (dell’olocausto ebraico) e filofasciste”.
Questo tipo di attacchi contro gli internazionalisti non è purtroppo un incidente isolato: nel 1997 i gruppi della Sinistra Comunista dovettero difendersi contro una campagna che li accusava di “negazionismo di sinistra” (1) sviluppata nella stampa borghese in Francia attraverso testate di tutto rispetto quali Le Monde, Liberation e Figaro, articoli che furono ripubblicati dal settimanale italiano L’Internazionale.
Gli incidenti denunciati da Battaglia Comunista sono parte degli stessi attacchi volti a distorcere o a nascondere le reali posizioni della Sinistra Comunista e ad impedire che la sua voce venga ascoltata. E’ in particolare con l’uso degli ambienti di “militanza antifascista” presenti in tre centri sociali di Milano e attraverso il sito internet Indymedia.it che l’operazione è stata condotta. Al centro dell’attacco è stata individuata una piccola casa editrice, Graphos, che ha pubblicato sia dei libri di autori negazionisti che documenti della sinistra comunista. Graphos non fa parte per nessun motivo della tradizione della Sinistra Comunista, ma l’affermazione secondo cui essa sarebbe di “ispirazione bordighista” (dal documento firmato dai tre centri sociali milanesi: ORSo, Palestra Popolare, RASH), mostra che il reale obiettivo dell’attacco è proprio la tradizione della sinistra comunista. La campagna si pone l’obiettivo di impedire a quelli che sono alla ricerca di una spiegazione coerente della barbarie capitalista di venire in contatto con le reali posizioni della sinistra comunista, le quali soltanto possono fornire il quadro necessario di comprensione.
E’ per questo che noi vogliamo cominciare a rimettere a disposizione di tutte le persone interessate a conoscere le posizioni della sinistra comunista sull’olocausto la ripubblicazione di un articolo scritto all’epoca della campagna anti-negazionista nel 1997 (2). Il testo che dà la posizione bordighista di base su questa questione, “Auschwitz o il grande alibi” può essere scaricato dal sito internet Sinistra.net.
Una volta chiarite le posizioni della sinistra comunista, in un prossimo articolo mostreremo come i metodi che sono stati utilizzati in questo “dibattito”, quali intimidazione, minacce, bugie e distorsione delle posizioni, appartengano alla tradizione controrivoluzionaria dello stalinismo e sono state usate proprio per neutralizzare o eliminare militanti della sinistra comunista. Questi metodi sono invece del tutto estranei alla tradizione della Sinistra Comunista, la cui preoccupazione è quella dello sviluppo della coscienza attraverso un franco dibattito e un confronto politico delle posizioni divergenti.
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Innanzitutto, i gruppi della Sinistra Comunista non hanno mai negato la realtà dello sterminio degli ebrei durante la guerra, solo che non hanno per questo dimenticato di denunciare allo stesso tempo le complicità e la corresponsabilità degli Stati “democratici” nella barbarie della II guerra mondiale. E in effetti i pennivendoli della borghesia, definendo il testo “Auschwitz o il grande alibi” come il “testo fondatore del negazionismo di sinistra”, cercano proprio di discreditare il punto di vista marxista. Questo non solo situa la barbarie nazista nel quadro di quella del mostruoso bagno di sangue della seconda guerra imperialista mondiale, ma denuncia anche la maniera in cui i campi di sterminio nazisti sono serviti dopo il 1945 da alibi ai crimini dei grandi Stati democratici “civilizzati”.Le responsabilità degli “Alleati” nello sterminio degli ebrei
Se l’ideologia dominante si sforza tanto per fare dell’olocausto un crimine inesplicabile, o spiegabile solo con considerazioni metafisiche sul lato “diabolico” della natura umana a cui non potrebbe opporsi che la buona volontà degli uomini, è per meglio scaricare il capitalismo da ogni responsabilità nello sterminio organizzato di milioni di vite umane. E’ per meglio nascondere che lo scatenamento del razzismo, dell’odio per lo straniero o l’ebreo trova le sue radici nell’ideologia nazionalista che caratterizza per eccellenza la classe borghese, nella natura fondamentalmente nazionalista del capitale, quale che sia la veste, “democratica” o “totalitaria”, del suo Stato.
Per il capitale tedesco degli anni 30, per il quale il ricorso al nazismo è la sola strada per tirare la testa fuori dall’acqua, l’antisemitismo non è solo l’ideologia populista ideale, che fornirà a Hitler una base sociale e delle truppe d’assalto tra la piccola borghesia rovinata e portata alla disperazione dalla crisi. L’indicazione degli ebrei come responsabili della crisi e della sconfitta tedesca sancita dal trattato di Versailles, servirà innanzitutto, attraverso l’esproprio, a trovare dei fondi per lo sforzo bellico dell’imperialismo tedesco. La loro deportazione di massa nei campi di lavoro servirà ancora al capitale per sfruttare fino alla morte questa massa miserabile, sempre ai fini dello sforzo di guerra, e per eliminare un surplus di popolazione che non solo i nazisti non volevano, ma di cui nessuno degli stati belligeranti voleva farsi carico.
D’altra parte lo sterminio di massa per eliminare l’eccedenza di popolazione non si è limitato ai soli ebrei. La stessa sorte è stata riservata agli zigani e prima di loro alle migliaia di malati di mente degli ospedali psichiatrici. All’inizio si fucila, poi, per risparmiare munizioni, si passano nelle camere a gas i deportati più deboli o malati, non più in grado di lavorare.
Le prime difficoltà militari dell’imperialismo tedesco accelereranno la politica dello sterminio sistematico. Prima dei forni crematori saranno le popolazioni delle regioni invase dall’armata del Reich che saranno massacrate selvaggiamente. Nel 1941, in Ucraina, l’esercito tedesco ha bisogno di viveri: per evitare una rivolta della popolazione di fronte alla confisca delle derrate alimentari, lo stato maggiore decide di decimare gli abitanti con il mezzo più economico: chiudere i prigionieri nei camion, con il tubo di scappamento rivolto verso l’interno. Sono le prime “camere” a gas.
La loro generalizzazione a partire dalla fine del 1941 è legata all’impossibilità per il nazismo di liberarsi delle popolazioni indesiderate. La chiusura delle frontiere a causa della guerra, il rifiuto di tutti i paesi belligeranti di farsi carico dei rifugiati, condannerà questa popolazione miserabile allo sterminio organizzato nei campi della morte.
Le dichiarazioni d’orrore sulla bestialità del nazismo profuse dai “democratici” vincitori della guerra, non possono cancellare la loro complicità e la loro corresponsabilità nel massacro organizzato.
Più volte, nel corso della guerra, la Germania cerca di sbarazzarsi degli ebrei vendendoli agli Alleati. E’ quanto è rivelato, tra l’altro, dall’avventura di Joel Brandt citata nel testo “Auschwitz o il grande alibi”. Brandt fu incaricato dai nazisti di proporre uno scambio agli alleati: un milione di ebrei dei campi contro 10.000 camion. Si scontrerà con il rifiuto dello Stato britannico che non voleva farsi carico di questa massa di rifugiati, il cui “trasporto avrebbe nuociuto allo sforzo bellico”. Ed anche quando i nazisti propongono di inviare 100.000 ebrei in cambio di niente, fu il rifiuto più assoluto.
Anche il governo americano rifiuta di inviare delle navi a caricare gli ebrei in Europa per “non indebolire lo sforzo di guerra”.
Infine, mentre al momento della “liberazione” le rivelazioni sulla barbarie nazista sono servite da grande alibi per i crimini del campo democratico (3), la propaganda alleata durante la guerra aveva accuratamente evitato di lasciar filtrare le numerose testimonianze sulla sorte riservata agli ebrei nei campi della morte.
La Sinistra Comunista di fronte al fascismo e all’antifascismo
Per chi conosce anche solo un poco le posizioni di Bordiga e della Sinistra Comunista sia sulla natura del fascismo che sulla seconda guerra mondiale, l’accusa di “genitori del negazionismo” e di “collusione discreta” con l’estrema destra (in nome della teoria degli “opposti estremismi”) risulta immediatamente una calunnia. Ma dietro di essa si cela un attacco perfettamente organizzato e concertato contro la classe operaia, la sua tradizione storica e le organizzazioni dell’attuale ambiente politico proletario.
Quando i propagandisti della borghesia accusano la Sinistra Comunista di “collusione discreta” con il fascismo, quello che in realtà vogliono attaccare e discreditare è la comprensione marxista della natura e delle cause del fascismo, quale fu difesa in seno all’Internazionale Comunista da Amadeo Bordiga già negli anni venti.
L’interpretazione ufficiale, condivisa dalla destra all’estrema sinistra, fa del fascismo una specie di aberrazione della storia, l’espressione di forze oscurantiste che avrebbero preso il potere malgrado e contro la volontà della borghesia o dei settori più “progressisti” di questa. A questa interpretazione, grazie alla quale la classe dominante oppone capitalismo e fascismo e fa della “lotta” tra democrazia e fascismo la pietra angolare della storia del ventesimo secolo, Bordiga, e dopo di lui la tradizione della Sinistra Comunista, hanno opposto l’analisi marxista che vede nel fascismo una forma caratteristica del dominio del capitalismo nella sua fase di decadenza.
La Sinistra Comunista ha mostrato come, in Italia e in Germania, la grande borghesia industriale favorì lo sviluppo e poi la presa del potere da parte delle correnti fasciste, prima perché il metodo di dominazione fascista era in grado di favorire rapidamente la concentrazione e la centralizzazione del capitale nelle mani dello Stato, di accelerare la messa in piedi dell’economia di guerra e di mettere a tacere i conflitti interni alla borghesia. In secondo luogo perché la sconfitta della classe operaia, abbattuta dopo il fallimento dell’ondata rivoluzionaria degli anni 17-23, rendeva superfluo il mantenimento dell’armamentario democratico e parlamentare, ormai definitivamente svuotato di contenuto nell’epoca della decadenza del capitalismo.
Niente a che vedere dunque con il “revisionismo storico” che difende il fascismo e non lo condanna certo come forma di dominazione della borghesia al pari della forma democratica.
Piuttosto, è la borghesia “democratica” e di “sinistra” che cerca di far dimenticare che i fronti unici “antifascisti”, dietro cui sono stati invitati a schierarsi i proletari abbandonando ogni difesa dei loro interessi di classe, non hanno mai impedito la vittoria del fascismo. E non è toccato a questo far fronte al pericolo proletario, questo era stato già sventato dalle forze democratiche e socialdemocratiche.
La borghesia tedesca non affidò il potere a Hitler prima di essere certa di aver concluso lo schiacciamento del proletariato grazie ai massacri dei “socialisti” Noske e Scheidemann.
In Italia sono le forze legali della democrazia parlamentare che repressero la fiammata operaia del 1920, mentre i sindacati si occupavano di rinchiudere i proletari nelle loro fabbriche. Le milizie di Mussolini non arrivarono che in seguito per completare la sconfitta (con l’appoggio d’altra parte delle forze legali parlamentari).
Infine, in Spagna è ancora il “Fronte popolare” che disarmò gli operai, che gli farà abbandonare il loro terreno di classe per arruolarli nella difesa della Repubblica (4). E’ la denuncia di questa realtà che la borghesia rimprovera ai militanti di “Bilan”.
Di fronte alla guerra imperialista, l’intransigenza internazionalista della Sinistra Comunista
Ma l’attuale campagna di calunnie contro la Sinistra Comunista ha come obiettivo di fondo il suo principio essenziale, quello che ne fa la sola erede di Marx e Lenin contro i tradimenti successivi dei partiti Socialisti, Comunisti e dei gruppi trotzkisti: il mantenimento di una posizione risolutamente internazionalista di fronte alla seconda guerra mondiale, la denuncia della guerra mondiale in quanto guerra imperialista, la denuncia dell’ideologia antifascista come alibi per irreggimentare il proletariato nel macello mondiale, il rifiuto dell’unione nazionale, la difesa della prospettiva rivoluzionaria del proletariato contro il capitalismo e la sua logica guerriera.
PE / H
1. Negazionismo, o revisionismo storico è stato denominata quella corrente di pensiero, rappresentata per lo più da storici di destra, che tende a negare l’esistenza dell’olocausto degli ebrei da parte dei nazisti.
2. Rivoluzione Internazionale n° 99, “Campagna del capitale sul “negazionismo”. Un attacco alla Sinistra Comunista”.
3. In particolare, la denuncia della borghesia democratica degli orrori del nazismo è servita a giustificare i massacri su grande scala perpetrati dagli alleati, come i bombardamenti di Dresda, Amburgo, Hiroshima e Nagasaki (vedi “I massacri e i crimini delle grandi democrazie”, su Rivista Internazionale n. 16.
4. Sull’avvento del fascismo in Italia, vedi Rivoluzione Internazionale n. 4 e 5. Sul significato del nazismo, vedi Rivista Internazionale n. 18. Sulla guerra di Spagna, vedi testi di Bilan in Rivista Internazionale n. 1, e Rivoluzione Internazionale n. 97.
La natura umana
Questa “natura umana” è un po’ come la pietra filosofale che gli alchimisti hanno ricercato per secoli. Fino ad ora tutti gli studi sulle “invariabili sociali” (come dicono i sociologi), cioè sulle caratteristiche del comportamento umano valido in tutti i tipi di società, hanno messo in evidenza fino a che punto la psicologia e gli atteggiamenti umani sono stati variabili e legati al quadro sociale nel quale si è sviluppato ogni individuo considerato. In effetti se c’è una caratteristica fondamentale di questa famosa “natura umana” che la distingue da quella degli altri animali, è proprio l’enorme importanza dell’”acquisizione” rispetto all’”innato”, è proprio il ruolo decisivo che gioca l’educazione, e dunque l’ambiente sociale nel quale si trova l’uomo adulto.
Marx sottolineava che “l’ape oscura l’abilità di più di un architetto per la struttura delle sue celle di cera; ma ciò che distingue dagli albori il peggior architetto dall’ape più esperta, è il fatto che questo ha costruito la cella nella sua testa prima di costruirla nell’arnia”. E’ in maniera geneticamente programmata che l’ape possiede l’attitudine a costruire degli esagoni perfetti, come il piccione viaggiatore ha la capacità di ritrovare il suo nido a 1000 km di distanza o lo scoiattolo immagazzina le nocciole che non potrebbe trovare dopo. Invece, la forma finale dell’edificio che progetta il nostro architetto sarà determinata non da una qualche eredità genetica ma da tutta una serie di elementi che gli saranno forniti dalla società nella quale vive. Che si tratti del tipo di edificio che gli è stato commissionato, dei materiali o degli attrezzi utilizzabili, delle tecniche produttive dei diversi corpi di mestiere che possono partecipare al prodotto, delle conoscenze scientifiche alle quali si rifà, tutto è determinato dall’ambiente sociale.
Accanto a questo, la parte di ciò che viene da un qualcosa di “innato” trasmesso geneticamente dai genitori dell’architetto si riassume essenzialmente nel fatto che il frutto del loro accoppiamento non è stato un’ape, o un piccione, ma un uomo, cioè un individuo appartenente come loro alla specie umana nella quale, appunto, la parte delle acquisizioni che entrano nella formazione dell’individuo adulto è di gran lunga la più importante.
Lo stesso vale per quello che riguarda la natura dei comportamenti. Ad esempio, il furto è un crimine, cioè una perturbazione del funzionamento della società che, se generalizzato, diventa per essa catastrofico. Chi ruba, o peggio minaccia, aggredisce o uccide delle persone è un criminale, un essere considerato quasi da tutti come un malfidato, un asociale al quale bisogna “impedire di nuocere” (a meno che non lo faccia nel quadro delle leggi esistenti, nel qual caso la sua abilità ad estorcere il plusvalore ai proletari sarà lodata e riccamente ricompensata e la sua efficacia nel massacro di questi gli varrà galloni e medaglie). Ma il comportamento “furto” ed i criminali “ladri”, “rapitori” o “assassini”, così come tutto quello in connessione con questo: leggi, giustizia, polizia, prigioni, film polizieschi, romanzi “gialli” e “neri” potrebbero esistere se non ci fosse niente da rubare perché tutti i beni materiali, per l’abbondanza permessa dallo sviluppo delle forze produttive, sarebbero a libera disposizione di tutti i membri della società? Evidentemente no! E si potrebbero moltiplicare gli esempi che mostrano fino a che punto i comportamenti, le attitudini, i sentimenti, le relazioni fra gli uomini sono determinati dall’ambiente sociale.
Qualcuno potrebbe obiettare che se esistono dei comportamenti antisociali, quale che sia la forma che assumono in funzione delle forme della società, è perché esiste nel profondo della “natura umana” una parte di atteggiamento asociale, di aggressività verso gli altri, di “criminalità potenziale”. Si sente dire: “Spesso il volere non è per necessità materiale”, “il crimine gratuito esiste”, o ancora “se i nazisti hanno potuto commettere tali orrori è perché l’uomo porta in se il male che emerge appena le condizioni sono favorevoli”. Ma cosa significano queste obiezioni se non il fatto che non esiste una “natura umana” in se “buona” o “cattiva”, se non un uomo sociale le cui molteplici potenzialità si esprimono in maniera diversa a seconda delle condizioni in cui egli vive? A tale riguardo le statistiche sono eloquenti: è la “natura umana” che diventa peggiore nei periodi di crisi della società quando si assiste ad un aumento della criminalità e di tutti i comportamenti morbosi? Lo sviluppo di atteggiamenti asociali in un numero crescente di individui non è al contrario l’espressione di una non adeguata crescita della società esistente rispetto ai bisogni umani i quali, eminentemente sociali, non riescono più a trovare soddisfazione all’interno di quella che, appunto, diventa sempre meno una società, una comunità?
Altri basano il loro rigetto della possibilità del comunismo sulla seguente argomentazione: “Voi parlate di una società che soddisferà veramente i bisogni umani, ma la proprietà, il potere sugli altri sono appunto dei bisogni umani essenziali ed il comunismo, che li esclude, è mal posto per una tale soddisfazione. Il comunismo è impossibile perché l’uomo è egoista”.
Il bisogno di proprietà
Nella “Introduzione a l’economia politica” Rosa Luxemburg descrive lo sgomento dei borghesi inglesi quando, all’epoca della conquista dell’India, scoprirono dei popoli che non conoscevano la proprietà privata. Essi si consolavano dicendo che si trattava di “selvaggi”, ma anche a chi era stato insegnato dalla società che la proprietà privata è “naturale”, creava un certo imbarazzo constatare che erano proprio dei “selvaggi” ad avere il modo di vita più “artificiale”. Nei fatti l’umanità aveva un tale “bisogno naturale di proprietà privata” da farne a meno per più di un milione di anni. Ed in molte occasioni è stato a colpi di massacri che si è fatto scoprire agli uomini questo “bisogno naturale”, come appunto è stato il caso degli Indiani citati da Rosa Luxerburg. Lo stesso vale per il commercio, forma “naturale ed unica” di circolazione dei beni e la cui ignoranza da parte degli autoctoni scandalizzava i colonizzatori: indissociabile dalla proprietà privata, il commercio appare e scomparirà con essa.
Un’altra idea corrente è che se non ci fosse il profitto come stimolatore della produzione e del suo progresso, se il salario individuale non fosse la contropartita degli sforzi fatti dal lavoratore, nessuno più produrrebbe. Effettivamente, nessuno più produrrebbe in modo capitalista, cioè in un sistema basato sul profitto ed il salario, in cui la più piccola scoperta scientifica deve essere “redditizia”, in cui il lavoro, per la sua durata, la sua intensità, la sua forma inumana, è diventato una maledizione per la stragrande maggioranza dei proletari. Al contrario, lo scienziato che attraverso le sue ricerche partecipa al progresso della tecnica, ha bisogno di uno “stimolante materiale” per lavorare? In genere egli è pagato meno di un quadro di fabbrica che, lui, non fa fare nessun progresso alla conoscenza. Il lavoro manuale è per forza di cose sgradevole? A cosa farebbe riferimento l’espressione “amore del mestiere” o il gusto per il bricolage ed ogni sorta di attività manuale che spesso sentiamo? In effetti il lavoro, quando non è alienato, assurdo, sfiancante, quando i suoi prodotti non diventano delle forze ostili ai lavoratori, ma dei mezzi per soddisfare realmente dei bisogni della collettività, diventa il primo bisogno umano, una delle forme essenziali di sviluppo delle facoltà umane. Nel comunismo gli uomini produrranno per il loro piacere.
Il bisogno di potere
Dall’esistenza oggi generalizzata di capi, di rappresentanti dell’autorità, si deduce che nessuna società può fare a meno di capi, che gli uomini non potranno mai fare a meno di subire un’autorità o di esercitarla sugli altri. Non possiamo ritornare qui su quello che il marxismo ha da tempo detto sul ruolo delle istituzioni politiche, sulla natura del potere statale e che si riassume nell’idea che l’esistenza di una autorità politica, di un potere di alcuni uomini sugli altri è il risultato dell’esistenza nella società di opposizioni e di scontri tra gruppi di individui (le classi sociali) dagli interessi antagonisti.
Una società in cui gli uomini si fanno concorrenza tra loro, dove gli interessi si contrappongono, dove il lavoro produttivo è una maledizione, dove la coercizione è permanente, dove i bisogni umani più elementari sono calpestati per la grande maggioranza, una tale società ha “bisogno” di capi (come ha bisogno di polizia o della religione). Ma che si sopprimano tutte queste aberrazioni e si vedrà se i capi ed il potere sono sempre necessari. “Si (dirà sempre quel qualcuno), l’uomo ha bisogno di dominare gli altri o di essere dominato. Quale che sia la società, esisterà sempre il potere di alcuni sugli altri”. E’ vero che lo schiavo che ha sempre portato le catene ai piedi ha l’impressione che lui non potrà mai farne a meno per camminare. Per gli uomini il bisogno di esercitare un potere sugli altri è il complemento di quello che si potrebbe chiamare “la mentalità dello schiavo”: l’esempio dell’esercito dove il maggiore stupido e disciplinato è allo stesso tempo quello che abbaia in permanenza contro i suoi uomini, è significativo. Nei fatti se gli uomini hanno bisogno di esercitare un potere sugli altri è perché esercitano ben poco potere sulla propria vita e sull’insieme dell’andamento della società. La volontà di potenza di ogni uomo è in misura della sua impotenza reale. In una società dove gli uomini non sono schiavi impotenti né delle leggi della natura, né delle leggi dell’economia, dove si liberano delle seconde ed utilizzano in modo cosciente le prime, dove sono “padroni senza schiavi”, non hanno più bisogno di questo surrogato della potenza che è il dominio sugli altri.
Ciò che vale per la “sete di potere” vale anche per l’aggressività. Di fronte all’aggressione permanente di una società che marcia sottosopra, che gli impone un’agonia perpetua ed una rinuncia costante dei propri desideri, l’individuo è necessariamente aggressivo: si tratta della semplice manifestazione, ben nota in tutti gli animali, dell’istinto di conservazione. Dotti psicologi affermano che l’aggressività sarebbe un impulso inerente a tutte le specie del regno animale, che avrebbe bisogno di manifestarsi in ogni caso, in ogni circostanza: ma anche se fosse così, che gli uomini abbiano la possibilità di impiegarla per combattere gli ostacoli materiali che intralciano un rifiorire ogni giorno più grande, e vedremo se hanno ancora bisogno di esercitarla contro altri uomini!
L’egoismo degli uomini
Il “ciascuno per sé” sarebbe una caratteristica degli uomini. Senza dubbio è una caratteristica dell’uomo borghese, di quello che “si è fatto da solo”, ma questa non è che l’espressione ideologica della realtà economica del capitalismo e non ha niente a che vedere con la natura umana. Altrimenti bisognerebbe considerare che questa “natura umana” si è trasformata radicalmente dal comunismo primitivo in poi, o anche dal feudalesimo con la sua comunità di villaggio. Nei fatti l’individualismo fa la sua entrata trionfale nel mondo delle idee quando i piccoli proprietari indipendenti appaiono nelle campagne (abolizione del servaggio) e nelle città. Piccolo proprietario “riuscito”, in particolare rovinando i suoi vicini, il borghese aderisce con fanatismo a questa ideologia attribuendole il titolo di “naturale”. Per esempio, non si fa scrupolo a fare della teoria di Darwin una giustificazione della “lotta per la sopravvivenza”, della “lotta di tutti contro tutti”.
Ma con la comparsa del proletariato, classe associata per eccellenza, si apre una falla nel dominio assoluto dell’individualismo. Per la classe operaia la solidarietà è innanzitutto un mezzo elementare per assicurare una difesa elementare dei suoi interessi materiali. A questo punto si potrebbe già obiettare a quelli che dicono che “l’uomo è naturalmente egoista” che se l’uomo è egoista è però anche intelligente e la sola volontà di difendere i suoi interessi lo spinge all’associazione ed alla solidarietà appena le condizioni materiali lo permettono. Ma non è tutto: in questo essere sociale per eccellenza, la solidarietà e l’altruismo sono, tanto in senso che nell’altro, dei bisogni essenziali. L’uomo ha bisogno della solidarietà degli altri, ma ha anche bisogno di manifestare la sua solidarietà agli altri. Ed è qualcosa che si manifesta frequentemente nella nostra società, per quanto alienata sia, e che è riconosciuta in maniera semplice e corrente attraverso l’idea che “ognuno ha bisogno di sentirsi utile agli altri”. Qualcuno dirà che l’altruismo è anch’esso una forma di egoismo poiché chi lo pratica lo fa innanzitutto per compiacere se stesso. Sia! Ma questa sarebbe un altro modo per esprimere l’idea difesa dai comunisti che non c’è opposizione tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo. Una contrapposizione tra l’individuo e la società si manifesta nelle società di sfruttamento, nelle società che conoscono la proprietà privata (cioè privata agli altri) e questo è perfettamente logico: come potrebbe esserci armonia tra, da una parte, degli uomini che subiscono l’oppressione e, dall’altra, le istituzioni che garantiscono e perpetuano questa oppressione. In una tale società l’altruismo può manifestarsi essenzialmente sotto forma di carità o sotto forma di sacrificio, cioè di negazione di se stessi e non come affermazione, crescita comune e complementare di se e degli altri.
Contrariamente a quanto vuol farci credere la borghesia, il comunismo non è affatto negazione dell’individualità: è il capitalismo, dove i proletari diventano un’appendice della macchina produttiva, che opera una tale negazione e che la spinge all’estremo in quella sua espressione specifica di imputridimento che è il capitalismo di Stato. Nel comunismo, in questa società che si è sbarazzata del nemico per eccellenza che è lo Stato la cui esistenza non ha più ragion d’essere, è il regno della libertà che si instaura per ogni membro della società. Dato che l’uomo realizza le sue molteplici potenzialità in modo sociale e dato che scompare l’antagonismo tra interesse individuale e interesse collettivo, si apre un campo nuovo per il rifiorire di ogni individuo.
Inoltre, lungi dall’accentuare l’uniformità generalizzata sviluppatasi con il capitalismo, il comunismo, permettendo di rompere con una divisione del lavoro che fissa ogni individuo in un ruolo che gli viene incollato alla pelle per tutta la vita, è per eccellenza la società della diversità. Ormai ogni nuovo progresso della conoscenza o della tecnica non determina una specializzazione ancora più spinta, ma al contrario allarga ogni volta di più il campo delle molteplici attività attraverso le quali ogni uomo può esprimersi. Come scrivevano Marx ed Engels: “…appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico” (L’ideologia tedesca).
Si, e non se ne dispiacciano i borghesi e tutti gli spiriti scettici o afflitti, il comunismo è fatto per l’uomo, l’uomo può vivere nel comunismo e farlo vivere! (da Révolution Internationale n. 62)
Tutti i giorni ci sono scontri mortali in ogni città irakena. I massacri della popolazione civile si ripetono, come nel villaggio di Makredid dove una festa di matrimonio è stata bombardata facendo almeno 40 morti, per lo più donne e bambini. Le esecuzioni sommarie di ostaggi all’arma bianca da parte di gruppuscoli fanatici e armati sempre più numerosi diventano un’abitudine. Ma quello che c’è veramente di nuovo è l’apparizione, sugli schermi televisivi, della storia delle torture inflitte ai prigionieri irakeni nel carcere di Abu-Graib. E c’è da credere che le torture non riguardano solo questa prigione, e che non sono cominciate nel mese di maggio.
Di fronte a questo immenso “scandalo” che scuote tutto l’esercito americano ma anche l’insieme del governo degli Stati Uniti, la loro difesa è ridicola. Essa consiste nell’affermare che non si tratta che di casi isolati e prodotto di iniziative personali di qualche soldato perverso. Questa difesa immediata è ben presto saltata. Oggi è tutta la catena di comando americana che è sotto accusa, arrivando fino allo stesso Donald Rumsfeld, segretario di Stato per la Difesa.
L’evidente realtà della barbarie delle grandi democrazie capitaliste
Lo Stato americano è entrato per la seconda volta in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein in nome della lotta contro il terrorismo, gli Stati “canaglia” e in difesa della civilizzazione e della democrazia. Le torture inflitte ai prigionieri irakeni mettono chiaramente in luce la vera natura della democrazia. In materia di barbarie essa non ha niente da invidiare a qualsiasi altra forma di dittatura del capitale. Gli Stati Uniti non sono il primo Stato democratico ad utilizzare su larga scala la tortura. Senza dover tornare troppo indietro nel tempo, basta ricordare il ruolo giocato dalla democrazia francese in Ruanda nel 1994, con l’organizzazione cinica di genocidi e di torture che hanno portato al selvaggio massacro di un milione di persone. Ma più chiaramente ancora, durante la guerra in Indocina, poco dopo la fine della seconda Guerra Mondiale condotta in nome della lotta contro il mostro fascista, l’esercito francese non si è fatto scrupolo di fare largo uso della tortura. Tra le innumerevoli testimonianze, quella del giovane tenente colonnello Jules Roy colpisce per la sua drammatica somiglianza con quelle che ci giungono oggi dall’Iraq:
“Su tutte le basi aeree, ai lati delle piste, c’erano delle baracche che venivano evitate e da cui, la notte, uscivano delle urla che facevano paura a sentirsi… Chiesi all’ufficiale che mi accompagnava di cosa si trattasse: ‘Niente, dei sospetti’. Chiesi che la si finisse. Andai alla pagoda. Entrai: c’erano file di prigionieri che passavano davanti a dei tavoli dove degli specialisti bruciavano loro i testicoli con l’elettricità” (Memorie barbare, ed. Albin Michel, 1989).
Da questo punto di vista, le torture inflitte sempre dall’esercito francese durante la guerra d’Algeria alla fine degli anni ’50 non hanno niente da invidiare a quelle praticate in Indovina. In Algeria la tortura è stata voluta dai capi dell’esercito francese, Massu, Bigeard, Graziani, che l’hanno resa un fenomeno di massa. In ogni luogo del territorio algerino c’era un ufficiale di riferimento con la funzione di torturatore, coadiuvato dalla sua squadra di parà “specializzati”. Contrariamente a quello che affermano tutti gli ideologi e gli altri difensori dell’ordine borghese, la democrazia, durante tutta la sua storia, come ogni altra forma di organizzazione del capitale, non ha mai cessato di utilizzare i mezzi più barbari per raggiungere i suoi fini. Le lacrime di coccodrillo versate dal governo francese sugli orrori perpetrati in Iraq appaiono qui chiaramente per quelle che sono: pura ipocrisia! E’ innegabile che la rivelazione delle torture compiute in Iraq implica un nuovo indebolimento della leadership americana. E’ evidente che le principali potenze rivali degli Stati Uniti avrebbero utilizzato questo indebolimento nel senso della difesa dei loro sordidi interessi nazionali. E’ a questa logica che obbedisce il rafforzamento senza precedenti della cooperazione strategica e militare tra la Francia e la Russia. La messa in atto di contatti regolari tra i loro ministri della difesa e i loro Capi di Stato maggiore, così come lo svolgimento di grosse manovre navali, sono l’espressione diretta di questa nuova politica imperialista. Ma più direttamente ancora: “La Francia ha fatto sapere la settimana scorsa, attraverso la voce del suo ministro degli Esteri, Barnier, che non avrebbe mandato soldati in Iraq, ‘né ora, né mai’” (Inserto internet di Le Monde datato 20/05/04). Finora i dirigenti francesi si erano mantenuti su tutt’altra posizione. Finora avevano affermato che per prospettare una partecipazione militare della Francia in Iraq, non poteva esserci altra strada che un ritorno dell’ONU alla testa delle operazioni. Questa soluzione è d’ora in avanti esclusa. L’imperialismo francese ha anche appena rifiutato l’invito di Colin Powell, capo della diplomazia americana, a inviare dei soldati in Iraq con l’incarico limitato di proteggere il personale dell’ONU. Quale che sia l’ampiezza dei massacri e delle torture inflitte alla popolazione irakena, le potenze rivali degli Stati Uniti non possono che gioire segretamente dell’indebolimento della leadership americana in Iraq. E, peggio ancora, esse spingeranno gli USA, a dispetto di ogni preoccupazione per la vita umana, in un logoramento sempre più profondo nel caos irakeno.
In Iraq, un caos e una barbarie senza limiti
E’ un fatto evidente, ormai visibile dovunque, che l’Iraq è un paese in pieno caos. La guerra è ormai permanente e copre tutto il paese. L’esercito americano e i suoi alleati della coalizione affondano sempre più nel pantano, manifestando una crescente perdita di controllo della situazione. Dalla caduta del regime di Saddam Hussein, del 9 aprile 2003, gli Stati Uniti precipitano sempre più, giorno dopo giorno, in una violenza che ormai riescono a controllare sempre di meno. Attentati, cattura di ostaggi e combattimenti di strada si moltiplicano. La rivolta sciita condotta dal leader Moqtadta Al Sadr continua ad estendersi malgrado gli appelli alla calma lanciati dall’ayatollah Al Sistani. L’attentato commesso il 17 maggio, che ha ucciso il presidente del governo provvisorio iracheno, è un nuovo importante rovescio per l’imperialismo americano. Esso esprime il rifiuto da parte delle diverse frazioni etniche irachene di recepire l’indirizzo politico americano, consistente nel mettere in piedi di un governo democratico iracheno agli ordini di Washington. In poco più di un anno di guerra, l’imperialismo americano si ritrova davanti un fronte del rifiuto, ieri ancora impensabile, composto dalle diverse frazioni etniche e religiose: Kurdi, Sciiti, Sunniti. Tutti oggi si oppongono alla presenza americana sul suolo iracheno. Per gli Stati Uniti non c’è più via d’uscita. G. W. Bush non può tuttavia che riaffermare che il trasferimento della sovranità sarà malgrado tutto assicurata il 30 giugno. Un presidente americano provvisorio, un primo ministro e altri ministri dovrebbero essere designati prossimamente, secondo l’amministrazione americana. L’inquietudine di fronte all’evoluzione della situazione in Iraq si manifesta attraverso la richiesta di dare più spazio agli Iracheni, in materia di sicurezza e di installazioni militari, da parte dei principali alleati di Washington. Silvio Berlusconi, recentemente in visita negli Stati Uniti, ha anche fatto sapere che aveva come progetto: “il trasferimento completo di sovranità ad un governo provvisorio iracheno per il 30 giugno, nel quadro di una nuova risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU”. Tutti questi tentativi di nominare un governo provvisorio in Iraq, mentre il paese resta militarmente occupato dagli americani, sono votati al fallimento. Questo governo non potrà avere alcuna legittimità agli occhi dell’insieme degli Iracheni, indipendentemente dalla loro etnia o religione. Questo governo apparirebbe necessariamente come una creazione americana e sarebbe senza dubbio combattuto in quanto tale. L’indebolimento accelerato della leadership americana si manifesta ugualmente attraverso un processo di sgretolamento della coalizione. Dopo la ritirata iniziata dalle truppe spagnole, paesi come l’Honduras, la Tailandia e, in Europa, la Polonia, la Danimarca e l’Olanda hanno espresso la loro crescente inquietudine e il loro eventuale progetto di ritirata pura e semplice della loro partecipazione alle forze della coalizione. J. P. Balkemende, capo di stato dei Paesi Bassi, l’11 maggio scorso, in seguito alla morte del primo soldato olandese in Iraq, ha dichiarato: “che la presenza futura e la legittimità dei 1300 soldati sul posto dipenderanno dal ruolo futuro delle Nazioni Unite in Iraq”. La situazione di caos è tale in questo paese che la borghesia americana, poco importa che si tratti di repubblicani o di democratici, è oggi nell’incapacità di tracciare una reale prospettiva per la politica americana sul terreno. In effetti, tanto la ritirata pura e semplice delle truppe, quanto il loro mantenimento sul posto, o anche un loro rafforzamento, non offre alcuna prospettiva di stabilizzazione della situazione.
La decomposizione della società capitalista, che si esprime con violenza in Medio Oriente, non può che accelerarsi nel periodo prossimo, con scontri militari e attentati suicidi sempre più irrazionali. C’è da temere in particolare, dopo l’eventuale nomina di fine giugno di un governo provvisorio filo americano in Iraq, una forte crescita della violenza che non risparmierà più nessun settore della popolazione irachena. Questo mondo capitalista in fallimento, che sprofonda così irrimediabilmente, mette in pericolo di morte non soltanto la popolazione irachena o del Medio Oriente, ma ben presto quella dell’intera umanità.
Tim (20 maggio)
Ma questi tempi migliori non sono mai venuti, anzi negli ultimi anni i sacrifici chiesti a tutti i lavoratori non hanno fatto che appesantire la situazione di chi già partiva da condizioni peggiori e quindi a questi lavoratori non è restato che la via della lotta per cercare di migliorare la propria situazione.
A pochi mesi dalla lotta degli autoferrotranviari, questo nuovo focolaio di lotta va a confermare una tendenza alla ripresa della lotta di classe che comincia a preoccupare la borghesia. Non c’è solo la volontà di difendere le proprie condizioni di vita a preoccupare (visto che il disastro dell’economia capitalista impone di chiedere nuovi sacrifici e non certo di annullare quelli vecchi), ma il fatto che in questo caso erano le nuove regole che il sindacato aveva fatto accettare ai lavoratori che mostravano tutte le loro pesanti conseguenze, ed il fatto che sono ancora una volta i lavoratori giovani ad essere protagonisti della lotta. Quei giovani su cui più aveva pesato il ricatto della disoccupazione e la campagna propagandistica secondo cui non bisogna più sognare il posto fisso, ma essere disponibili a cambiare lavoro spesso. Certo, non sarebbe male, se esistessero veramente diverse e nuove opportunità di lavoro, visto che il lavoro alienato in fabbrica è una schiavitù, per cui se almeno si potesse ogni tanto cambiare aria ogni lavoratore ne sarebbe contento. Ma la realtà è che se hai un posto te lo devi tenere ben stretto, il che però non vuol dire che ti devi tenere per forza ogni cosa.
Per evitare che si potesse ripetere la situazione degli autoferrotranvieri, e cioè che i lavoratori partissero in lotta da soli, senza rispetto di regole e compatibilità, i sindacati questa volta si sono mossi subito, imponendo la loro direzione alla lotta, in maniera da condurla in vicoli ciechi e poterla chiudere senza troppe difficoltà. La tattica è stata la solita: divisione tra sindacati “duri” e quelli “morbidi”, radicalizzazione formale della lotta per dare l’impressione di una forza apparente e facilitando in questa maniera l’isolamento degli operai di Melfi. Così le RSU di fabbrica hanno preso l’iniziativa della lotta, in modo da poter sostenere che la lotta era in mano alla base, mentre CISL e UIL si sono dissociate e la CGIL ha “criticato” le iniziative prese. E per far vedere che le RSU erano decise ad andare fino in fondo sono stati organizzati i picchetti “duri” (blocco merci in entrata e uscita e ingresso impedito ai crumiri).
Questa apparente radicalità è servita in realtà ad isolare i lavoratori, tenendoli impegnati a presidiare la fabbrica invece che spingerli ad andare a cercare gli altri lavoratori per allargare la lotta. E onde evitare che questa esigenza dell’allargamento fosse portata avanti direttamente dai lavoratori i sindacati nazionali hanno proclamato un giorno di sciopero nazionale di tutto il settore FIAT in “solidarietà” con gli operai di Melfi. Uno sciopero simbolico che non solo non cambiava niente nei rapporti di forza con il padronato, ma che in realtà non ha niente a che vedere con la vera solidarietà di classe: questa infatti non sta nel semplice e isolato sciopero di “appoggio” ad un settore in lotta, ma nell’entrata in lotta di altri settori di lavoratori sulla base della coscienza che la lotta è una sola e che solo lottando uniti si può stabilire un rapporto di forza più favorevole.
Ingabbiati in questa maniera i lavoratori, i sindacati hanno potuto mettere in piedi la solita finzione della trattativa con la controparte, arrivando ad un accordo che raccoglie ben poco di quello che gli operai chiedevano: se il turno notturno di due settimane consecutive è stato abolito, sul piano del recupero salariale i 105 euro ottenuti (e comunque raggiungibili solo nel 2006) sono ben lontani dall’equiparazione ai salari degli altri operai FIAT (ed anche pieno questo salario ormai riesce sempre meno a soddisfare anche i bisogni più elementari dei lavoratori, come ormai sono costretti a riconoscere anche i giornali borghesi). Che i risultati raggiunti fossero ben miseri era abbastanza chiaro a molti lavoratori, ma la stanchezza di una lotta di più settimane, con i presidi davanti alla fabbrica, gli scontri con la “democratica” polizia dello Stato italiano e, soprattutto l’isolamento in cui erano rimasti gli operai di Melfi ha avuto facilmente la meglio sul malcontento restante.
Ma se questa volontà di lotta è stata bruciata in questa maniera, c’è un risultato più importante che i lavoratori tutti possono ottenere da questo episodio, e sono le lezioni che da esso si possono trarre: innanzitutto che non ci si può basare sui sindacati per portare avanti una lotta; i sindacati sono gli agenti sabotatori delle lotte, sostenuti dallo Stato borghese proprio per fare questo lavoro ed evitare così il più possibile il ricorso alla repressione vera e propria (che in questo caso comunque si è affacciata con le cariche della polizia fuori alla fabbrica). Poco alla volta nella lotta dei lavoratori deve tornare la coscienza di questa vera natura dei sindacati, che già durante gli anni ottanta aveva spinto i lavoratori a cercare di organizzarsi in maniera autonoma (vedi comitati di base della scuola nel 1987). Ed un’altra lezione importante, in questo momento in cui la classe mostra una ripresa della combattività, è che la volontà di lotta non basta, come non basta la decisione e la radicalità formale delle forme di lotta: la vera forza di una lotta sta nella sua conduzione autonoma da parte della classe (evitando così anche i sabotaggi sindacali) e nella ricerca dell’unità con gli altri lavoratori, sulla base dell’unicità della condizioni di sfruttamento e dell’unicità del proprio nemico di classe, al di là del settore e della fabbrica in cui si lavora.
Helios
Che in Iraq ci sia una guerra è evidente a tutti. Ogni giorno arrivano notizie di attentati, di scontri a fuoco, di morti e di feriti. Ma, ci dicono i politici italiani, i nostri soldati sono là per una missione di pace. Una volta si diceva che per fare la guerra, come per fare l’amore, bisogna essere in due. Invece in Iraq c’è questa bizzarra situazione per cui le milizie irachene farebbero la guerra contro chi sta lì solo con intenzioni di pace. E, bizzarria nella bizzarria, i guerrafondai sarebbero solo quelli che abitano laggiù e non anche quelli che ci sono andati di propria iniziativa senza nessun invito (una volta si sarebbe detto invasori). Così questi guerrafondai iracheni sparano addosso ai soldati italiani, che rispondono al fuoco, ma evidentemente sulle loro pallottole c’è scritto pace. Chissà se gli iracheni caduti sotto il fuoco italiano saranno morti contenti sapendo di essere morti per la pace.
Quanta vergognosa ipocrisia! Adesso le cose non si giudicano più per quelle che sono, ma per come le chiamano quelli che le fanno. Tu ammazzi, ma basta che dici che lo hai fatto nell’interesse del morto e diventi anche un eroe!
E questa ipocrisia non è solo del governo e della sua maggioranza che hanno votato la spedizione in Iraq e che, contro ogni evidenza, continuano a dire che i soldati italiani devono rimanere là per continuare questa missione di pace. No, ipocriti sono anche quelli delle cosiddette formazioni di sinistra che hanno votato contro la spedizione ma non certo perché si tratta di una missione di guerra, non certo perché sono contro le “guerre preventive”, le “spedizioni umanitarie” e tutte le spregevoli denominazioni con cui le borghesie del mondo intero stanno chiamando i loro interventi di guerra. No, questi signori si oppongono alle decisioni di Berlusconi solo perché questo è troppo ossequioso nei confronti dei piani di Bush, ed infatti continuano a dire che ci vuole una decisione dell’ONU, che loro diventerebbero favorevoli all’occupazione dell’Iraq se questa fosse fatta in nome dell’ONU. Insomma il problema non è che i soldati italiani stanno facendo una guerra ma che lo fanno appoggiando i piani americani. Come se bastasse ancora una volta cambiare un po’ la facciata (in questo caso la bandiera a stelle e strisce con quella dell’ONU) per far sì che una guerra non sia più una guerra, anche se continuano scontri, morti, uccisioni.
E del resto questa stessa sinistra non si è opposta all’invasione dell’Afghanistan, quando ha ritenuto valida la scusa della lotta al terrorismo per i bombardamenti delle popolazioni afgane, anche se ancora una volta ha criticato l’unilateralità della decisione americana. Ed essa stessa non ha esitato, quando era al governo, a mandare i soldati italiani in Kossovo, dove ancora una volta sono state bombardate e massacrate le popolazioni civili, con la scusa di avere per questo un mandato dell’ONU. Questa sinistra non può denunciare la guerra in Iraq perché essa stessa è favorevole a che l’imperialismo italiano si faccia sentire sullo scacchiere internazionale, quello che la distingue dalla destra sono le alleanze e le bandiere con cui portare avanti questo obiettivo: gli USA per Berlusconi e i suoi alleati, l’ONU o meglio ancora l’Unione Europea per Bertinotti e compagni.
Ed infatti questi signori, che pure si infiltrano nelle manifestazioni “per la pace”, anzi le favoriscono, visto che il pacifismo dei benpensanti non è altro che un modo per disarmare la classe operaia, si guardano bene dal denunciare puramente e semplicemente la spedizione italiana come una spedizione di guerra; la loro critica è che, con tutte le buone intenzioni, i soldati italiani non dovrebbero stare là perché “gli altri”, si comportano male, per cui si rischia di essere complici involontari degli assassini. Insomma anche loro contribuiscono alla mistificazione degli italiani “brava gente”, che possono solo fare missioni di pace, mentre sono gli altri a fare le guerre e le torture. Peccato che anche i soldati italiani furono beccati, in Somalia, dove ci fu un altro intervento “umanitario”, a torturare i prigionieri somali, esattamente come hanno fatto i soldati americani in questi mesi in Iraq.
Non saranno certo questi a dire che i soldati italiani stanno in Iraq (come in Afghanistan, in Kossovo, ecc.) per difendere gli interessi dell’imperialismo italiano, per impedire che questo sia tenuto fuori dalla divisione del mondo in sfere di influenza, base strategica per una eventuale guerra generalizzata e per la difesa degli interessi economici immediati. Se l’Italia in tutte queste spedizioni mantiene un basso profilo, è perché questo si addice di più a un imperialismo di basso livello, come quello italiano: per fare un esempio, se gli USA possono, sulla base della loro schiacciante supremazia militare ed economica, sostenere che tocca loro la missione storica di mantenere l’ordine nel mondo (1), un paese come l’Italia non può giustificare il suo intenso impegno militare che presentandolo sotto le bandiere della “pace”, dell’intervento “umanitario”, e così via.
In questa mistificazione il ruolo della sinistra è fondamentale: sono proprio questi partiti che hanno maggiori possibilità di far credere ai proletari che le ragioni dell’interventismo italiano sono tutte benevoli. Essa è quindi complice piena delle malefatte dell’imperialismo italiano nel mondo.
Tutti i paesi e tutte le forze capitaliste portano avanti gli interessi imperialisti del capitale nazionale, quello che cambia è la strategia del momento, è la maniera in cui pensano sia meglio difendere i loro interessi, cosa che spiega non solo la posizione della sinistra in Italia, ma anche quello della destra al governo in Francia, o la stessa sinistra in Germania, che si sono opposti all’intervento americano in Iraq solo perché vedevano giustamente in questo l’affermazione della supremazia americana, mentre in un intervento sotto l’egida dell’ONU potevano sperare di ricavarci qualcosa anche loro.
Helios
1. Anche se quello della “pax americana”, cioè di un ordine che significhi controllo incontrastato degli USA su ogni zona del mondo, resta ormai un sogno impossibile ed ogni intervento americano sia ormai destinato a contribuire ad aumentare il caos e il disordine, come è avvenuto in questi mesi in Iraq.
Il 28 dicembre 2003, all’età di 90 anni, è morto il compagno Robert. Per più di 28 anni Robert, da vero compagno di strada, ha seguito da vicino la nostra organizzazione. Ha partecipato come osservatore, fin dalla costituzione della CCI, a parecchie sue conferenze e congressi ed in modo regolare alle nostre attività pubbliche in Belgio. Malgrado certe posizioni divergenti, si è tuttavia sempre riconosciuto nell’orientamento generale della nostra organizzazione dandole tutto il sostegno possibile. Oggi vogliamo rendere omaggio non solo a Robert come compagno - per avere conservato la sua fedeltà, la sua devozione e la sua passione alla causa rivoluzionaria anche nei momenti peggiori della storia del proletariato - ma anche a tutta una generazione di militanti della classe operaia che sparisce con lui in Belgio. In effetti, Robert è stato l’ultimo comunista rivoluzionario superstite in Belgio appartenente a quella generazione di militanti che ha tenuto alta la bandiera dell’internazionalismo proletario dopo la sconfitta della classe operaia. Apparteneva ad una piccola minoranza di militanti comunisti che è sopravvissuta e ha resistito al periodo turbolento e cupo della terribile controrivoluzione che si abbatté sulla classe operaia tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60.
Fu nei quartieri popolari di Bruxelles che Robert, nella sua gioventù, scoprì tutte le contraddizioni della società capitalista confrontandosi con la dura realtà della lotta di classe. Bruxelles, centro politico del Belgio, concentrava anche le espressioni ed i dibattiti più cruciali di quell’epoca che nutrirono la formazione rivoluzionaria di Robert: discussioni per sapere se occorreva un nuovo partito comunista o fare un lavoro di frazione, per analizzare il significato della guerra in Spagna, riflettere sulla validità della fondazione della 4a Internazionale trotskista, comprendere la natura di classe dell’URSS, l’ascesa del fascismo e difendere l’internazionalismo di fronte all’imminenza della guerra generalizzata, ecc. Tutti questi dibattiti, che si sviluppavano nel campo politicizzato dell’epoca, erano animati dai gruppi ‘trotskysti’ dell’Opposizione Internazionale di Sinistra (PSR, Contre le Courant, ecc.) e della Sinistra Comunista Internazionale (italiana con la rivista Bilan e belga con la rivista Communisme). Robert decise di raggiungere, come militante, le file dell’opposizione trotskysta di Vereecken e Renery (Contre le Courant) che si opponeva alla fondazione della 4a Internazionale, ritenendola prematura, ritenendo che “Trotsky ha contribuito allo scoraggiamento ed alla dispersione delle rare forze rivoluzionarie”. Questo gruppo denuncerà il tradimento socialpatriota dei trotskysti ufficiali durante la Seconda Guerra mondiale e praticherà una politica di disfattismo rivoluzionario al riguardo di tutti gli imperialismi senza distinzione nessuna.
Allo scoppio della guerra il 1° settembre 1939 e di fronte alla repressione ed agli arresti, un certo numero di militanti scelse l’esodo per continuare il lavoro politico. Così Robert fuggì prima a Parigi e poi a Marsiglia, città di asilo provvisorio per molti rivoluzionari. Ma, nei momenti più critici, numerosi erano quelli che persero la convinzione. Robert, invece, conservò tutta la fiducia rivoluzionaria nella classe operaia ed una posizione internazionalista a riguardo dei campi belligeranti.
Mediante le sue relazioni politiche con l’ambiente degli internazionalisti, Robert entrò in contatto con il circolo animato dal nostro vecchio compagno Marc. Quest’ultimo, a partire dall’estate 1940, era particolarmente attivo per rianimare l’attività politica delle Frazioni della Sinistra Comunista Internazionale entrate in letargo alla vigilia della dichiarazione di guerra. Fin dal 1941, le discussioni ed i contatti si svilupparono di nuovo. Nel maggio 1942 si costituì il Nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale con la partecipazione di parecchi nuovi elementi, tra cui Robert. Fu attraverso quest’ultimo che fu realizzato un lavoro comune con gli RKD (ex trotskysti austriaci) ed i CR (Comunisti Rivoluzionari). Infatti, gli RKD, per i loro contatti col gruppo di Vereecken, incontrarono Robert. Questi suscitò l’interesse degli RKD con le posizioni politiche sviluppate dal Nucleo francese della Sinistra Comunista. La caratterizzazione dell’URSS come un’espressione della tendenza universale al capitalismo di Stato, l’internazionalismo proletario rispetto alla guerra, la critica della 4a Internazionale trotskysta, ecc., ed altrettanti punti comuni che andarono a forgiare i legami politici. Un’azione ed una propaganda diretta contro la guerra imperialista indirizzata agli operai ed ai soldati di tutte le nazionalità, ivi compresi i proletari tedeschi in uniforme, saranno condotte in comune.
Il Nucleo francese in cui Robert militò si trasformò, nel dicembre 1944, in gruppo politico e chiese di aderire all’Ufficio Internazionale delle Frazioni in quanto Frazione francese della Sinistra Comunista Internazionale. Tuttavia, la Conferenza di maggio 1945 della Frazione, in seguito all’annuncio della ricostituzione del Partito Comunista Internazionale in Italia ed alla voce della riapparizione politica di Bordiga, decise di sciogliere la Frazione italiana e invitò i suoi membri ad aderire individualmente a questo nuovo partito. Il nostro compagno Marc si oppose fermamente a questo ritorno irresponsabile senza discussione preliminare, né bilancio politico, così come all’integrazione in un partito di cui la Frazione non conosceva neanche le posizioni politiche! Per la stessa occasione, il nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale si vide rifiutare la sua adesione e fu così costretto a cambiare il suo nome per diventare la GCF (Sinistra comunista di Francia). Invece, la Frazione belga, ricostituita dopo la guerra intorno a Vercesi, si congiungerà al PCInt di Damen, Maffi e Bordiga.
Dopo la guerra, Robert tornò in Belgio e non volle restare solo. Decise di raggiungere la Frazione belga senza abbandonare per ciò tutte le sue convinzioni acquisite nel periodo precedente al Nucleo francese della Sinistra Comunista Internazionale. Mantenne il contatto con la Sinistra Comunista di Francia ed in particolare con Marc. Del resto il gruppo in Belgio restava fedele all’essenza delle posizioni di Bilan dell’anteguerra e si ritrovava di fatto in divergenza con il PCInt. La Frazione belga resterà, proprio come aveva fatto prima della guerra, molto più aperta alle discussioni internazionali. Alla fine del 1945, inizio 1946, con un certo imbarazzo, la Frazione belga chiederà delle spiegazioni supplementari al PCInt sui motivi della non adesione della Sinistra Comunista francese. Evidentemente Robert sostenne con molta forza tale richiesta. Così, essa propose un giornale teorico in collaborazione con i trotskysti belgi intorno a Vereecken prima che questo gruppo finisse per perdersi integrandosi definitivamente nella 4a Internazionale. Questa proposta sarà rifiutata dal PCInt. Allo stesso modo, nel maggio del 1947, parteciperà alla conferenza internazionale di contatti convocata dal Communistenbond Spartaco dei Paesi Bassi, che raggruppava, per il Belgio, gruppi imparentati allo Spartacusbond, la Frazione belga della GCI, per la Francia, la Sinistra Comunista di Francia, il 'Prolétaire' dei CR, gli RKD, il gruppo ‘Lotta di classe’ (Svizzera) e la Frazione autonoma di Torino del PCI.
Nel 1950-52 il periodo non dava più speranze di ripresa di lotte rivoluzionarie come all’epoca della fine della Prima Guerra mondiale. Numerose organizzazioni rivoluzionarie si disgregarono. Anche la Sinistra Comunista di Francia (Internationalisme) si disperse. Robert manterrà contatti epistolari regolari con Marc che si ritrovava in Venezuela e contribuì a dargli notizie politiche sulla vita dei gruppi del campo rivoluzionario del continente europeo.
Dopo la morte di Vercesi nel 1957, il gruppo in Belgio rifiutò di sottomettersi alle posizioni del PCInt, ma in seguito si disgregò poco a poco. Successivamente, Robert continua a partecipare alle diverse espressioni organizzate che si ricollegavano alle posizioni della Sinistra Comunista, in particolare al circolo di studio e alla sua rivista Le Fil du Temps (Il Filo del Tempo) di Roger Dangeville (scissione del PCInt che aveva fatto parte, per un certo tempo, del circolo di discussione animato da Maximilien Rubel proveniente dalla Sinistra Comunista di Francia). Finalmente, attraverso Marc, si mise in contatto col gruppo Révolution Internationale in Francia fin dal 1968. Malgrado certe divergenze riguardanti il corso storico ed il partito, Robert era cosciente del valore politico delle organizzazioni rivoluzionarie e della necessità di salvaguardarne il patrimonio. E’ per questo che è rimasto saldamente fedele alla CCI. Così, in tutti i periodi difficili, ci ha sempre sostenuto, partecipando anche alla nostra difesa con le sue prese di posizione.
I militanti della CCI che continuano la lotta rivoluzionaria per la quale Robert ha vissuto e combattuto, lo salutano un’ultima volta conservandone vivo il ricordo. CCI
All’inizio di quest’anno il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) ha iniziato una serie di riunioni pubbliche a Berlino, iniziativa che salutiamo. La prima riunione, che trattava della lotta di classe, ha avuto luogo a metà febbraio; la seconda, a metà maggio, aveva come tema le cause della guerra imperialista. In questo articolo parleremo della prima delle due riunioni, mentre nel prossimo numero ci sarà un articolo sul dibattito sviluppato nella seconda riunione.
Le introduzioni
Un simpatizzante del BIPR ha introdotto la riunione con una presentazione sui punti programmatici e sulla storia di questa organizzazione spiegando che il BIPR è costituito oggi da Battaglia Comunista (Italia), dalla Communist Workers Organisation (Gran Bretagna), da Internationalist Notes (Canada) e da Bilan et Perspectives (Francia); esso si rifà alla tradizione della Sinistra comunista italiana intorno a Bilan degli anni ‘30, ma ci sono anche dei punti di contatto con il Partito Comunista dei Lavoratori della Germania (KAPD). A partire dall’inizio degli anni ‘50 la Sinistra comunista consisterebbe essenzialmente di tre correnti:
- Battaglia Comunista
- i Bordighisti
- la CCI (e le sue organizzazioni antecedenti).
Il compagno ha poi sintetizzato le posizioni programmatiche del BIPR rispetto all’imperialismo, la questione dei sindacati e la relazione tra il partito rivoluzionario e la classe operaia. Su queste si rimanda alle pubblicazioni del BIPR in merito.
E’ seguita una relazione del compagno del BIPR sul tema della riunione: “Le tensioni imperialiste e gli scioperi dell’inverno scorso nelle aziende di trasporto locale in varie città italiane”.
Qui di seguito ci soffermeremo su alcune questioni emerse nella discussione e riassumeremo le posizioni presenti nella relazione introduttiva del compagno del BIPR, nella misura in cui sarà necessario per la comprensione della discussione.
Formazione dei blocchi e cause della guerra
Come già accennato nel volantino d’invito, il BIPR parte dall’idea di una “ricostituzione dei blocchi imperialisti dopo la caduta dei vecchi blocchi”. Vede l’Europa come un polo opposto agli USA e che tende a costituirsi come blocco imperialista. L’Euro, come valuta, è un progetto che si oppone al dominio dei dollari-USA. Il compagno del BIPR ha inoltre sottolineato che gli USA hanno fatto la guerra in Iraq essenzialmente per la difesa delle risorse e delle vie di trasporto del petrolio, in breve: il motivo sarebbe stato (e sarebbe ancora) la tutela della rendita petrolifera.
Lotta di classe
Nella seconda parte della relazione il compagno del BIPR è partito dall’esempio degli scioperi in Italia per parlare dei sindacati di base e del loro ruolo negli scioperi. Ha sottolineato che i sindacati di base, in linea di principio, non hanno un carattere diverso da quello dei sindacati ufficiali e che la classe operaia non può aspettarsi niente da queste organizzazioni. Ha anche ricordato che negli anni ‘80, quando si formarono i Cobas come comitati di lotta, Battaglia Comunista e CCI hanno difeso insieme questi organismi contro la loro trasformazione in sindacati.
Benché la posizione del BIPR non sia stata sempre così lineare, l’esposizione del compagno di Battaglia Comunista non necessitava alcuna replica. La nostra organizzazione ha invece criticato, nel corso della discussione, l’opinione del BIPR sulla cosiddetta ricomposizione della classe operaia. Il BIPR, come molti autonomi, dà molto peso al fatto che fin dagli anni ‘70 la gran parte dell’industria tradizionale è scomparsa e che i posti di lavoro si sono trasferiti nel settore terziario e nel campo informatico, per spiegare la debole combattività del proletariato. Questo sviluppo avrebbe portato a una composizione diversa della classe operaia e sarebbe, assieme alla caduta del blocco dell’est, la causa dell’attuale debolezza di questa, che si difenderebbe solo con esitazione contro gli attacchi della borghesia.
La CCI ha criticato questa analisi come sociologica e, alla fine, fatalistica. Il processo di produzione capitalistico ha cambiato continuamente la composizione della classe operaia a partire dal suo inizio. La classe operaia non può fare niente contro questi cambiamenti. Ai tempi di Marx il proletariato era composto in gran parte da operai di piccole aziende a conduzione familiare, e non da proletariato industriale, ma il grande rivoluzionario non trasse la conclusione che le condizioni per lo sviluppo della coscienza di classe sarebbero state più difficili. La cosa più importante per la classe operaia è generare un adeguato rapporto di forze nei confronti della borghesia. È proprio questa analisi del rapporto di forze tra la borghesia e il proletariato che il BIPR tralascia, sostenendo addirittura che non è proprio possibile fare. Il BIPR non sa, e non può quindi affermare o smentire, se il proletariato è sconfitto o no e se la borghesia può scatenare una guerra mondiale oppure no. La valutazione del corso storico è invece centrale per i marxisti. Solo a partire dalla definizione di questo quadro si può valutare correttamente lo sviluppo della coscienza di classe. La CCI non nega le difficoltà attuali del proletariato, in particolare per quanto riguarda la combattività e la coscienza di classe. Il corso storico (fin dal 1968) va però ancora essenzialmente verso un aumento di scontri tra le classi, anche se lo sviluppo non è rettilineo ed ha subito, nel 1989, un pesante colpo. Per questo, da allora in poi, dagli anni ‘90 ad oggi, bisogna tenere d’occhio soprattutto la maturazione sotterranea della coscienza, che si esprime in maniera più evidente nella comparsa di gruppi e singoli individui che difendono le posizioni internazionaliste e sono interessate alla sinistra comunista.
Il campo politico proletario
La delegazione della CCI presente alla riunione ha espresso un certo stupore rispetto al fatto che, da una parte, sull’invito alla riunione, si sintetizzavano “Alcuni punti sull’allineamento del BIPR”, che la nostra organizzazione può approvare senza eccezioni, dall’altra parte che il BIPR rifiuta di fare insieme una presa di posizione contro la guerra capitalista e il pacifismo con la giustificazione che le nostre posizioni sarebbero troppo diverse. Pur non negando le divergenze che ci sono tra le nostre organizzazioni, abbiamo però messo l’accento su quello che ci accomuna nella sinistra comunista sulla questione della guerra imperialista. C’è un campo politico proletario che consiste di organizzazioni che difendono già da decenni le posizioni internazionaliste e che si richiamano all’eredità delle frazioni di sinistra del Comintern. Queste organizzazioni non hanno mai sostenuto nessuno dei fronti che si sono combattuti nella guerra imperialista, contrariamente ai socialdemocratici, gli stalinisti e i trotzkisti, ma hanno sempre difeso le posizioni di Lenin e della Luxemburg: “Contro la guerra imperialista! – Contro ogni borghesia nazionale! – Per la rivoluzione mondiale del proletariato” A maggior ragione nella fase attuale, nella quale il capitalismo sprofonda sempre di più in guerre e massacri, sarebbe importante che le organizzazioni rivoluzionarie prendano insieme la parola come l’hanno fatto durante la Prima Guerra Mondiale a Zimmerwald e a Kienthal.
Il compagno di BC ha ribattuto che il BIPR già da tempo considera la CCI come la frazione idealista del campo rivoluzionario. Fin dalle conferenze internazionali di 25 anni fa si sarebbero affermati i contrasti tra la sua organizzazione e la nostra. Il BIPR si è separato dal campo politico proletario perché ritiene le altre organizzazioni incapaci di dare un contributo alla creazione del futuro partito. Certo la CCI si trova ancora dalla parte giusta della barricata, ma con i problemi interni degli ultimi anni avrebbe dimostrato che non può dare un simile contributo, anzi, si troverebbe in un processo di frammentazione. Anche la frazione bordighista dell’ex-campo proletario si troverebbe in un processo simile e oggi sarebbe politicamente morta.
A parte il fatto che non condividiamo questa valutazione, è interessante che il compagno di BC non abbia osato applicare questa analisi “della morte politica” anche alla CCI. Troppo evidente è la presenza politica della nostra organizzazione non solo in Germania ma anche a livello internazionale. D’altra parte non è serio parlare di una frammentazione della CCI. Poco convincenti sono anche gli argomenti del BIPR sul fatto che non esisterebbe più un campo politico proletario, perché le posizioni programmatiche della CCI non sono affatto cambiate dalle conferenze internazionali ad oggi. All’epoca era ancora possibile per BC e la CWO sedersi con noi e altri gruppi ad un medesimo tavolo. La vera ragione del settarismo attuale sembra essere il sentimento di concorrenza del BIPR verso la CCI, di fronte all’emergere di una nuova generazione di elementi che si interessano alle posizioni internazionaliste. La concorrenza è però il modo di lavorare dei commercianti nel mercato capitalista, dove ognuno cerca di portare via i clienti all’altro. Per i rivoluzionari non si tratta di trovare velocemente e facilmente dei nuovi membri, ma di lavorare per lo sviluppo della coscienza sulla base della chiarezza politica nella classe operaia e in particolare verso gli elementi più avanzati per permetterne ed accelerarne il processo di maturazione, perché in caso di adesione ad una delle esistenti organizzazioni rivoluzionari questa avvenga sulla base della massima chiarezza sulle posizioni programmatiche. Noi come CCI non abbiamo nessun interesse che il partito nasca solo dalla nostra organizzazione e che gli altri gruppi scompaiano. Vedremmo questo piuttosto come debolezza perché partiamo dall’idea che la creazione del futuro partito sia il risultato di un processo di raggruppamento nel campo rivoluzionario come è avvenuto per il raggruppamento nelle fasi storiche precedenti, ad esempio tra i bolscevichi di Lenin e l’organizzazione di Trotsky nel 1917 o tra la Lega di Spartaco e i Comunisti Internazionali di Germania tra il 1918/19 (però sempre a condizioni che il futuro partito rivoluzionario sia dagli inizi un partito internazionalista).
Un bilancio positivo
Come si è visto nella discussione sono state difese a volte delle posizioni molto diverse. Ma la discussione si è svolta in un’atmosfera di rispetto reciproco e nello sforzo di un’argomentazione chiara. Ciò va salutato, e ci fa piacere constatare come il comportamento di BC verso la CCI sia in piacevole contrasto con il comportamento ufficialmente settario del BIPR verso altre organizzazioni dell’ambito rivoluzionario.
Questo tipo di dibattito deve continuare, a Berlino, a Milano, a Parigi, a Nuova York o in altre città. L’importante è che si eviti ogni opportunismo in questioni programmatiche o organizzative (lo spirito mercantile) e che le diverse posizioni siano affrontate apertamente e discusse. Prima chiarimento, poi raggruppamento.
T/C,
8/5/04
L’autocelebrazione della borghesia non deve illuderci. Quando i borghesi si intendono tra di loro, è sulle spalle degli operai che lo fanno, altrimenti pensano solo ad azzuffarsi.
Il perseguimento dell’integrazione europea, dettato dall’interesse comune delle potenze europee occidentali a creare una fascia protettiva di stati di relativa stabilità per arginare il caos sociale ed economico generato dall’implosione del blocco dell’Est nel 1989, è lungi dal significare “unità”. Campo di scontro privilegiato delle due guerre mondiali, l’Europa costituisce l’epicentro delle tensioni imperialiste e non c’è mai stata reale possibilità di costituzione di una vera unità che permetterebbe di superare gli interessi contrastanti delle differenti borghesie nazionali. In effetti, “a causa del suo ruolo storico come culla del capitalismo e della sua situazione geografica, (...) l'Europa nel ventesimo secolo è diventata la chiave della lotta imperialista per il dominio mondiale” (3).
L'UE, un’espressione delle tensioni imperialistiche del dopo Seconda Guerra mondiale...
Per un certo periodo, la divisione del mondo in due blocchi imperialisti gli ha conferito una certa stabilità; nel momento in cui la CEE (Comunità Economica Europea) era lo strumento degli Stati Uniti e del blocco occidentale contro il suo rivale russo, l’Europa poteva avere una certa realtà. Infatti, dopo la Seconda Guerra mondiale, la costruzione della comunità europea è stata sostenuta dagli Stati Uniti per formare un bastione contro le velleità di avanzamento dell’URSS in Europa e concepita per rafforzare la coesione del blocco occidentale. Tuttavia, per quanto contenute e disciplinate dalla “leadership” americana di fronte alla necessità di far fronte al nemico comune, importanti divisioni si sono sempre manifestate tra le principali potenze europee.
Quando si è avuto il crollo del muro di Berlino nel 1989, l’implosione del blocco dell’Est ha prodotto di riflesso anche lo sgretolamento del blocco avversario e la riunificazione della Germania che accedeva così ad un rango superiore di potenza imperialista: di qui la decisione di mettere a profitto questa opportunità di fare da capofila di un nuovo blocco imperialista opposto agli Stati Uniti. Le ragioni che costringevano gli Stati d’Europa occidentale a “marciare insieme” si sono volatilizzate ed il fenomeno si è brutalmente aggravato da quindici anni a questa parte. Così, contrariamente a tutta la propaganda sulla inesorabile marcia in avanti verso l’unità di una grande Europa, è piuttosto verso l’aggravarsi delle tensioni al suo interno e delle divergenze di interessi che quest’ultima si dirige.
Questo sconvolgimento storico ha rilanciato la lotta per l’egemonia mondiale ed il rimescolamento delle carte sul continente europeo. La lotta accanita tra tutti questi campioni della pace e della democrazia per la divisione delle spoglie dell’ex-blocco russo ha prodotto, per la prima volta dal 1945, il ritorno della guerra in Europa all’inizio degli anni ‘90 nella ex-Jugoslavia (ed al bombardamento da parte delle forze NATO di una capitale europea, Belgrado, nel 1999), dove Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, rivali tra loro, si oppongono, per alleati interposti, all’espansione tedesca verso il Mediterraneo, attraverso la Croazia. La guerra in Iraq ha anch’essa ugualmente mostrato l’assenza fondamentale di unità e i profondi dissensi e le rivalità tra le nazioni europee.
... che si aggravano ancora dopo la Guerra fredda
A partire dal 1989 la Germania non ha smesso un solo momento di manifestare con chiarezza le proprie pretese imperialiste nella sua area tradizionale di espansione “Mitteleuropea”, con la scusa della costruzione dell’Europa. Essa spera di utilizzare il suo peso economico senza pari nei principali paesi dell’Est europeo, così come la prossimità istituzionale creata dall’allargamento dell’Europa per sottomettere questi paesi alla sua sfera di influenza. La borghesia tedesca non può tuttavia che scontrarsi da un lato contro il ciascuno per sé di queste differenti nazioni e dell’altro con la determinazione degli Stati Uniti di sviluppare la loro influenza, in particolare attraverso la NATO.
“Cinque dei nuovi membri – l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Slovacchia e la Slovenia - sono stati accolti in pompa magna, il 29 marzo, a Washington, nei ranghi della NATO, un mese prima della loro integrazione nell’UE. L’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca fanno parte dell’alleanza dal 1999. Gli Stati Uniti già fanno propaganda affinché la Bulgaria e la Romania, gli altri due nuovi partner della NATO, siano ammessi, a loro volta, nell’UE”(4).
Gli Stati Uniti contano sui paesi della “nuova Europa” per paralizzare il suo rivale più pericoloso e fanno i calcoli che “più l’UE si estende, meno si rafforza, e che ciò complica la formazione di un contrappeso politico al potere americano” (4), come lo mostrano le lacerazioni che si sono prodotte per approvare la Costituzione dell’UE.
Così, mentre ad Est, a dispetto del ciascuno per sé, la Germania rafforza le potenzialità di accrescere in tempi brevi la sua influenza imperialista, ad occidente essa si scontra con la Francia e la Gran Bretagna che non possono accettare il potenziale sviluppo dell’imperialismo tedesco.
La Gran Bretagna, che aveva rifiutato a suo tempo gli accordi di Maastricht, gioca da allora e più che mai il ruolo di sostegno degli Stati Uniti, utilizzando ogni pretesto per alimentare la discordia tra le potenze europee. Principale sostenitore dell’intervento militare americano in Iraq, essa subisce non solo il discredito dell’insuccesso americano, ma si ritrova sempre più isolata in Europa. L’impatto del pantano iracheno ha mandato in pezzi la coalizione “filo-americana” formata da Londra, Madrid e Varsavia contro le ambizioni franco-tedesche di opposizione agli Stati Uniti. L’adozione di un orientamento filo-europeo del nuovo governo Zapatero che annuncia il suo ritiro dell’Iraq la priva del suo principale alleato in Europa. Questa defezione ha avuto per effetto di gettare la Polonia, scossa e divisa sulla scelta dei suoi orientamenti imperialisti, in una crisi politica che ha portato alle dimissioni del suo primo ministro e all’implosione del partito al potere. A dispetto delle difficoltà che incontra, la Gran Bretagna sarà costretta a continuare il suo lavoro di sabotaggio di ogni alleanza continentale duratura in Europa.
La Francia, che sognava di staccarsi dalla tutela americana dagli anni ‘50, non può lasciare che la Germania edifichi su misura un’Europa sotto la propria influenza, né soprattutto accettare il ruolo subalterno che lo Stato tedesco vuole riservarle nel quadro dell’allargamento europeo. E’ per tale motivo che essa spera di trovare, nel rafforzamento e nell’allargamento dell’UE, i mezzi per garantirsi un controllo “comunitario” capace di imbrigliare le ambizioni della Germania. Ed è ancora per questo che la si vede riattivare i suoi legami “storici” con la Polonia e la Romania e, più recentemente, sviluppare trame con la Russia per opporsi all’intervento americano in Iraq. A tale proposito, bisogna sottolineare che questa ultima è essa stessa fortemente interessata a questa “alleanza” con la Francia, a causa della sua inquietudine a vedersi privata della sua ex-zona di influenza nell’Europa dell’est e a constatare che i limiti dell’UE e della NATO avanzano fino alle sue frontiere. Ciò permette evidentemente di prendere la Germania nella morsa. D’altra parte, all’interno dell’UE, la Francia si mobilita per riprendere influenza sui paesi del Sud Europa, in particolare la Spagna, contro la posizione egemonica della Germania, e se risponde alle sollecitazioni della Gran Bretagna di sviluppare la difesa europea e costruire una portaerei in comune, è per giocarsi così di fronte alla Germania la carta vincente costituita dal potere militare di cui questa ultima è priva.
A che serve in queste condizioni tutta questa campagna sulla mitica “unità europea”? Come propaganda ideologica che possa mantenere le nostre illusioni su un mondo capitalista che suda morte e miseria da tutti i pori.
La tendenza al caos ed il regno del “ciascuno per sé” non sono affatto appannaggio dei soli paesi dell’ex-blocco dell’Est o del “Terzo Mondo”. La scomparsa della divisione del pianeta in due blocchi, dando il segnale dello scatenamento della guerra di tutti contro tutti, pone la stessa Europa al centro degli antagonismi imperialisti e già rende totalmente illusoria ogni idea di un’unità dell’insieme dei capitali nazionali che la compongono. Inoltre, tra la determinazione degli Stati Uniti - con al seguito la Gran Bretagna che difende qui i suoi propri interessi - a mantenere ad ogni costo la loro supremazia sul mondo, e l’ascesa al potere della Germania, che tende a porsi sempre più come il vero rivale degli Stati Uniti, l’Europa non può che diventare lo sbocco ultimo di questo scontro.
Scott
Le Monde del 2 e 3 maggio 2004.
(2) Le Monde del 4 maggio 2004
(3) Vedere Revue Internationale n°112, “L'Europa: alleanza economica e campo di manovra delle rivalità imperialiste”
(4) Le Monde del 29 aprile 2004
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/7/109/sinistra-comunista
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/4/85/iraq
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/6/107/iraq
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/imperialismo-italiano
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/71/germania
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/4/82/unione-europea