L’articolo che segue è un documento in discussione nella CCI, scritto a giugno di quest’anno, alcune settimane prima del referendum “Brexit” nel Regno Unito. L’articolo Certi malrovesci per la borghesia che non presagiscono niente di buono per il proletariato[1] pubblicato nello stesso numero della nostra Rivista Internazionale è un tentativo di applicare le idee presentate in quest’articolo alle situazioni concrete poste dal risultato del referendum e dalla candidatura di Trump negli Stati Uniti.
Attualmente, nelle vecchie roccaforti del capitalismo, noi siamo testimoni di un’ondata di populismo politico. Negli Stati dove questo fenomeno si è sviluppato da più tempo, come in Francia o in Svizzera, i populisti di destra sono diventati il più importante partito politico a livello elettorale. Ma ciò che oggi sorprende di più è l’attecchire del populismo in paesi che, finora, erano conosciuti per la loro stabilità politica e l’efficienza della classe dominante come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania. In questi paesi, è solo di recente che il populismo è riuscito ad avere un impatto diretto e serio.
Negli Stati Uniti, l’apparato politico ha inizialmente fortemente sottovalutato la candidatura alle elezioni presidenziali di Donald Trump per il Partito repubblicano. Inizialmente, la sua candidatura ha incontrato un'opposizione più o meno aperta sia da parte della gerarchia dell’apparato del partito che dalla destra religiosa. Ma tutti sono stati presi di sorpresa dal sostegno popolare che questi ha ricevuto sia nella Bible Belt (zona degli Stati Uniti e del Canada in cui il fondamentalismo protestante è largamente esteso) che nei vecchi centri industriali urbani, in particolare da parte di alcune parti della classe operaia “bianca”. La campagna mediatica che è seguita, condotta tra altri dal Wall Street Journal e dalle oligarchie mediatiche e finanziarie della costa orientale e che aveva l’obiettivo di ridurre il successo di Trump, non ha fatto che aumentare la sua popolarità. La rovina parziale d’importanti strati delle classi medie ma anche di classe operaia, di cui molti membri hanno perso i loro risparmi ed anche le loro case all'epoca del crac finanziario e immobiliare del 2007-2008, ha provocato l’indignazione contro il vecchio apparato politico che è intervenuto velocemente per salvare il settore bancario, mentre ha abbandonando al loro destino i piccoli risparmiatori che avevano cercato di diventare proprietari del loro alloggio.
Le promesse fatte da Trump di sostenere i piccoli risparmiatori, di mantenere i servizi sanitari, di tassare la borsa e le grandi imprese finanziarie e di tenere fuori le frontiere i migranti, temuti come potenziali concorrenti da una parte della popolazione povera, hanno trovato un’eco sia tra i fondamentalisti cristiani che, più a sinistra, tra gli elettori tradizionalmente democratici che, appena qualche anno prima, non avrebbero mai immaginato di votare per un tale personaggio politico.
Quasi mezzo secolo di “riformismo” politico borghese, durante il quale candidati di sinistra - a livello nazionale, municipale o locale, nei partiti o nei sindacati - sono stati eletti con la pretesa di difendere gli interessi dei lavoratori mentre invece hanno sempre difeso quelli del capitale, ha preparato il campo perché il tipico “uomo della strada” potesse prendere in considerazione di sostenere un plurimilionario come Trump, con la sensazione che, almeno lui, “non può essere comprato£ dalla classe dominante.
In Grande Bretagna, la principale espressione del populismo non sembra al momento incarnarsi in un particolare candidato o un partito politico - sebbene l’UKIP[2] di Nigel Farage abbia assunto un ruolo importante sulla scena politica - ma nella popolarità della proposta di lasciare l’Unione Europea e di decidere ciò attraverso il referendum. Il fatto che questa opzione sia stata avversata dalla maggior parte della corrente dominante del mondo delle finanze (City of London) e dell’industria britannica ha, anche in questo caso, teso ad aumentare la popolarità del “Brexit” in parti importanti della popolazione. Uno dei motori di questa corrente d’opposizione, oltre al fatto che rappresenta gli interessi particolari di certe parti di classe dominante più strettamente legate alle vecchie colonie (il Commonwealth) che all’Europa continentale, sembra essere la spinta che viene da nuovi movimenti populisti di destra. Può darsi che persone come Boris Johnson ed altri difensori del “Brexit” nel Partito conservatore saranno, nel caso di un exit, quelli che dovranno salvare il salvabile cercando di negoziare un tipo di statuto di associazione stretta con l’Unione Europea, probabilmente del tipo di quello della Svizzera (che in generale adotta il regolamento dell’UE senza avere diritto di interloquire nella sua formulazione).
Ma è anche possibile che i politici del partito conservatore siano stati stessi infestati dallo stato d’animo populista che, anche in Gran Bretagna, ha guadagnato rapidamente terreno dopo la crisi finanziaria e quella delle abitazioni, che hanno interessato negativamente parti rilevanti di popolazione.
In Germania dove, dopo la Seconda Guerra mondiale, la borghesia è sempre riuscita a tenere fuori del Parlamento partiti a destra della Democrazia Cristiana, è apparso sulla scena un nuovo movimento populista, sia per le strade (Pegida) che a livello elettorale (Alternative für Deutschland), in risposta non alla crisi “finanziaria” del 2007/08 (da cui la Germania è uscita relativamente indenne), ma in seguito alla “crisi dell’Euro”, avvertito da una parte della popolazione come una minaccia diretta alla stabilità della moneta comune europea e dunque per i risparmi di milioni di persone.
Ma appena questa crisi è stata, almeno momentaneamente, fermata, ha avuto luogo un arrivo massiccio di rifugiati, provocato in particolare dalla guerra civile ed imperialista in Siria e dal conflitto con lo stato Islamico a nord dell’Iraq. Questa situazione ha ridato slancio a un movimento populista che cominciava ad indebolirsi. Sebbene una maggioranza importante della popolazione sostenga ancora il Wilkommenskultur (“cultura dell’accoglienza”) della cancelliera Merkel e di molti leader dell’economia tedesca, gli attacchi contro gli asili per rifugiati si sono moltiplicati in molte parti del paese, mentre in alcune zone della vecchia RDT[3], si è sviluppato un vero spirito di pogrom.
La misura in cui l’ascesa del populismo è legata al discredito del sistema politico dei partiti istituzionali è illustrata dalle recenti elezioni presidenziali in Austria, dove al secondo turno si sono trovati a competere un candidato dei Verdi ed uno della destra populista, mentre i principali partiti, i socialdemocratici ed i democratico-cristiani, che dalla fine della Seconda Guerra mondiale hanno retto assieme il paese, hanno subito entrambi un tracollo elettorale senza precedenti.
In seguito alle elezioni in Austria, gli osservatori politici in Germania hanno concluso che proseguire con l’attuale coalizione tra democratico-cristiani e socialdemocratici a Berlino dopo le prossime elezioni generali favorirebbe probabilmente ancor più l’ascesa del populismo. Ad ogni modo, che sia attraverso la Grande Coalizione tra destra e sinistra, (o “coabitazioni” come in Francia), o attraverso l’alternanza tra governi di sinistra e di destra, dopo quasi mezzo secolo di crisi economica cronica e circa 30 anni di decomposizione del capitalismo, parti importanti di popolazione non credono più che ci sia una differenza significativa tra i vecchi partiti di sinistra e di destra. Al contrario, questi partiti sono visti come una sorte di cartello che difende i propri interessi e quelli dei grandi ricchi, a spese di quelli dell’insieme della popolazione e di quelli dello Stato. Poiché la classe operaia, dopo il 1968, non è riuscita a politicizzare le sue lotte e a fare dei passi avanti significativi nello sviluppo della propria prospettiva rivoluzionaria, oggi questa disillusione alimenta soprattutto le fiamme del populismo.
Nei paesi industrializzati occidentali, in particolare dopo l’11 settembre negli Stati Uniti, il terrorismo islamico è diventato un altro fattore di accelerazione del populismo. Attualmente ciò pone un problema alla borghesia, particolarmente in Francia che è diventata, ancora una volta, un bersaglio di questi attacchi. Uno dei motivi dello Stato di emergenza e del linguaggio guerriero tenuto da François Hollande è la necessità di bloccare l’ascesa continua del Front national dopo i recenti attacchi terroristici, presentandosi come il leader di una presunta coalizione internazionale contro lo Stato islamico. La perdita di fiducia della popolazione nella determinazione e capacità della classe dominante di proteggere i suoi cittadini sul piano della sicurezza (e non solo economica) è una delle cause dell’attuale ondata di populismo.
Le radici del populismo di destra contemporaneo sono dunque molteplici e variano da paese a paese. Nei vecchi paesi stalinisti dell’Europa dell’Est sembrano legate all’arretratezza e a uno spirito campanilista della vita politica ed economica sotto i regimi precedenti, così come alla traumatizzante brutalità del passaggio ad uno stile di vita capitalista occidentale più efficace dopo il 1989.
In un paese importante come la Polonia, la destra populista partecipa già al governo, mentre in Ungheria, uno dei centri della prima ondata rivoluzionaria del proletariato del 1917-23, il regime di Viktor Orbán promuove e protegge più o meno apertamente degli attacchi pogromisti.
Più in generale, le reazioni contro la “globalizzazione” hanno costituito un fattore molto importante nell’ascesa del populismo. Nell’Europa occidentale, il malumore “contro Bruxelles” e l’Unione Europea costituisce da tempo l’alimento di base di questi movimenti. Ma oggi, la stessa atmosfera si respira negli Stati Uniti, dove Trump non è il solo politico che minaccia di abbandonare gli accordi commerciali di libero scambio TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) negoziati tra l’Europa ed il Nordamerica.
Questa reazione contro la “globalizzazione” non deve essere confusa con ciò che propongono certi rappresentanti di sinistra come ATTAC, che chiedono un tipo di correttivo neo-keynesiano agli eccessi, reali, del neoliberismo. Mentre questi ultimi avanzano una politica economica alternativa, coerente e responsabile per il capitale nazionale, la critica dei populisti rappresenta più una sorta di vandalismo politico ed economico, come già in parte manifestato all’epoca del rigetto del Trattato di Maastricht nei referendum in Francia, nei Paesi Bassi e in Irlanda.
I partiti populisti sono delle fazioni borghesi, parte dell’apparato capitalista dello Stato totalitario. Ciò che propagandano è l’ideologia e il comportamento borghesi e piccolo-borghesi: il nazionalismo, il razzismo, la xenofobia, l'autoritarismo, il conservatorismo culturale. Come tali, essi rappresentano un rafforzamento del dominio della classe dominante e del suo Stato sulla società. Allargano il campo del sistema dei partiti democratici e aumentano la sua potenza di fuoco ideologico. Rivitalizzano la mistificazione elettorale e l’attrattiva del voto, sia attraverso gli elettori che attraggono che attraverso quelli che si mobilitano per votare contro di loro. Sebbene siano in parte il prodotto della disillusione crescente verso i partiti tradizionali, possono contribuire anche a rafforzare l’immagine di questi ultimi che, a differenza dei populisti, possono presentarsi come più umanitari e più democratici. Nella misura in cui il loro discorso somiglia a quello dei fascisti degli anni ‘30, la loro apparizione tende a dare nuova vita all’antifascismo. Questo è particolarmente il caso della Germania, dove l'arrivo al potere del partito “fascista” ha condotto alla più grande catastrofe nella storia della nazione, con la perdita di quasi la metà del suo territorio e del suo statuto come potenza militare maggiore, la distruzione delle sue città e un danno quasi irreparabile al suo prestigio internazionale attraverso la perpetrazione di crimini che sono stati i peggiori nella storia dell'umanità.
Tuttavia, e come abbiamo visto finora, soprattutto nei vecchi paesi centrali del capitalismo, le frazioni dirigenti della borghesia hanno fatto del loro meglio per limitare l’ascesa del populismo e, in particolare, per prevenire se possibile la sua partecipazione al governo. Dopo anni di lotte difensive sul loro terreno di classe, per la maggior parte senza successo, anche dei settori della classe operaia sembrano oggi credere di poter esercitare una pressione e fare paura alla classe dominante più votando per il populismo di destra che con le lotte operaie. La base di questa impressione è che “l’establishment”, la classe dirigente, reagisce realmente in modo allarmato al successo elettorale dei populisti. Perché questa reticenza di fronte “a uno di loro”?
Finora abbiamo teso a supporre che la situazione fosse determinata soprattutto dal corso storico, cioè dal fatto che l’attuale generazione del proletariato non ha subito alcuna sconfitta. Oggi, è necessario riesaminare questo quadro criticamente di fronte allo sviluppo della realtà sociale.
È vero che l’affermazione di governi populisti in Polonia e in Ungheria è relativamente insignificante rispetto a ciò che accade nei vecchi paesi occidentali del cuore del capitalismo. Più indicativo è invece il fatto che questo sviluppo non ha condotto, per il momento, uno scontro maggiore tra Polonia e Ungheria da un lato e NATO ed UE dall’altro. Al contrario l’Austria, che ha un cancelliere socialdemocratico, dopo avere imitato inizialmente la “welcoming culture” di Angela Merkel durante l'estate 2015, ha seguito presto l’esempio dell’Ungheria, erigendo barriere alle sue frontiere. Ed il primo ministro ungherese è diventato un partner favorito di discussione per la CSU bavarese, che fa parte del governo Merkel. Possiamo parlare di un processo di adattamento reciproco tra i governi populisti e le maggiori istituzioni statali. Nonostante la loro demagogia anti-europea, non c'è segno, per il momento, che questi governi populisti vogliano fare uscire la Polonia o l’Ungheria dall’UE. Al contrario, ciò che ora propagano, è la diffusione del populismo all’interno dell’UE. Ciò significa, in termini d’interessi concreti, che “Bruxelles” dovrebbe interferire di meno negli affari nazionali, pur continuando a trasferire le stesse sovvenzioni, o anche di più, a Varsavia e Budapest. Da parte sua, l’UE si sta adattando a questi governi populisti che talvolta sono anche lodati per il loro “contributo costruttivo” durante vertici complessi dell’UE. E, pur insistendo sul mantenimento di un minimo di “condizioni democratiche”, Bruxelles si è astenuta per il momento dall’applicare a questi paesi qualunque sanzione, come invece aveva minacciato in precedenza.
Per quanto riguarda l'Europa dell’ovest, l’Austria, dobbiamo ricordarlo, è stata una pioniera, avendo già incluso una volta in un governo di coalizione il partito di Jörg Haider come partner minoritario. Lo scopo perseguito - screditare il partito populista facendogli assumere la responsabilità di assicurare il funzionamento dello Stato - fu temporaneamente in parte raggiunto. Oggi a livello elettorale, il FPÖ[4] è più forte che mai e ha quasi vinto le ultime elezioni presidenziali. Naturalmente in Austria, il presidente gioca un ruolo principalmente simbolico. Ma non è così per la Francia, la seconda potenza economica e la seconda concentrazione del proletariato nell’Europa occidentale. La borghesia mondiale aspetta con ansia le prossime elezioni presidenziali in questo paese dove il FN è il partito elettoralmente dominante.
Molti esperti borghesi hanno già concluso, dall’apparente incapacità del Partito repubblicano americano ad impedire la candidatura di Trump, che prima o poi la partecipazione dei populisti ai governi occidentali sarà inevitabile e che sarebbe meglio cominciare a prepararsi ad una tale eventualità. Questo dibattito è una prima reazione al riconoscimento del fatto che i tentativi fatti finora per escludere o limitare il populismo non solo hanno raggiunto i loro limiti ma che hanno anche cominciato a produrre l’effetto opposto.
La democrazia è la migliore arma ideologica per le società capitaliste sviluppate e la più importante contro la coscienza di classe del proletariato. Ma oggi la borghesia è di fronte al paradosso per cui, continuando a tenere a distanza dei partiti che non rispettano le sue regole democratiche del “politicamente corretto”, rischia seriamente di danneggiare la sua immagine democratica. Come giustificare il mantenimento indefinito all’opposizione di partiti votati da una parte significativa di popolazione, eventualmente anche maggioritaria, senza screditarsi e cadere in contraddizioni inestricabili? Inoltre, la democrazia non è solo un’ideologia ma anche un mezzo molto efficace del dominio di classe – in particolare perché è capace di riconoscere e di adattarsi ai nuovi slanci che vengono dalla società nel suo insieme.
È in questo quadro che la classe dominante pone oggi la prospettiva del possibile coinvolgimento populista nel governo, in relazione all’attuale bilancio di forze tra borghesia e proletariato. Le tendenze attuali indicano che l’alta borghesia non pensa che una tale opzione sia esclusa per il fatto che la classe operaia non è sconfitta.
Per cominciare, una tale eventualità non significherebbe l’abolizione della democrazia parlamentare borghese, come avvenne in Italia, Germania o Spagna negli anni 1920-30 dopo la sconfitta del proletariato. Anche nell’Europa dell’Est, i governi populisti di destra esistenti non hanno cercato di mettere gli altri partiti fuori legge, né di allestire dei campi di concentramento. Tali misure non sarebbero accettate dall’attuale generazione di lavoratori, in particolare nei paesi occidentali, e forse neanche in Polonia o in Ungheria.
In più, tuttavia, e d’altra parte, la classe operaia, sebbene non sconfitta definitivamente e storicamente, al momento è indebolita a livello della sua coscienza di classe, della sua combattività e della sua identità di classe. Il contesto storico di questa situazione è innanzitutto la sconfitta della prima ondata rivoluzionaria alla fine della Prima Guerra mondiale, e la profondità e la lunghezza della controrivoluzione che l'ha seguita.
In questo contesto, la prima causa di questo indebolimento è, per il momento, l’incapacità della classe a trovare una risposta adeguata, nelle sue lotte difensive, alla fase attuale di gestione capitalista di Stato, quello della “globalizzazione”. Nelle loro lotte difensive, gli operai sentono giustamente di confrontarsi immediatamente con l’insieme del capitalismo mondiale. Infatti oggi non solo il commercio e gli affari ma anche, per la prima volta, la produzione è globalizzata, così che la borghesia può rispondere velocemente ad ogni resistenza proletaria a scala nazionale o locale trasferendo altrove la produzione. Questo strumento apparentemente onnipotente per disciplinare il lavoro può effettivamente essere combattuto solo dalla lotta di classe internazionale, un livello di lotta che la classe è ancora incapace di raggiungere in un futuro prevedibile.
La seconda causa di questo indebolimento è l’incapacità della classe a continuare a politicizzare le sue lotte dopo lo slancio iniziale del 1968/69. Ciò che ne è risultato, è l'assenza di sviluppo di ogni prospettiva di vita migliore o di società migliore: la fase attuale di decomposizione. Ed in particolare il crollo dei regimi stalinisti in Europa dell’Est è sembrato confermare l’impossibilità di un’alternativa al capitalismo.
Durante un breve periodo, forse dal 2003 al 2008, ci sono stati dei primi segni, tenui, appena visibili, di un inizio di processo necessariamente lungo e difficile di recupero da parte del proletariato dei colpi subiti. In particolare, la questione della solidarietà di classe, principalmente tra generazioni, ha cominciato a essere messa avanti. Il movimento anti-CPE[5] del 2006 è stato il punto culminante di questa fase, perché è riuscito a fare arretrare la borghesia francese e perché l’esempio di questo movimento e dei suoi successi ha ispirato settori giovanili in altri paesi europei, ivi comprese Germania e Gran Bretagna. Tuttavia, questi primi fragili germi di una possibile ripresa proletaria si sono presto dissipati a causa di una terza serie di avvenimenti negativi d’importanza storica nel periodo post 1968, e che hanno rappresentato un terzo colpo importante per il proletariato: la calamità economica del 2007/2008, seguita dall'attuale ondata di rifugiati di guerra e di altra tipo - la più grande dalla fine della Seconda Guerra mondiale.
La specificità della crisi del 2007/08 è che è cominciata come una crisi finanziaria dalle proporzioni enormi. Il risultato per milioni di operai, uno dei peggiori effetti, in certi casi anche il principale, non è stato la diminuzione dei salari, l’aumento di tasse, né dei licenziamenti massicci imposti dai datori di lavoro o dallo Stato, ma la perdita delle loro case, dei loro risparmi, delle loro assicurazioni, ecc. Queste perdite, a livello finanziario, appaiono come quelle di cittadini della società borghese, non sono specifiche della classe operaia. Le loro cause restano poco chiare, favorendo la personalizzazione e la teoria del complotto.
La specificità della crisi dei rifugiati è che essa ha luogo nel contesto della “Fortezza Europa” (e della Fortezza nordamericana). A differenza degli anni ‘930, dal 1968 la crisi mondiale del capitalismo è stata accompagnata da una gestione capitalista di Stato internazionale sotto la direzione della borghesia dei vecchi paesi capitalisti. Per conseguenza, dopo quasi mezzo secolo di crisi cronica, l’Europa occidentale e il Nord America appaiono ancora come oasi di pace, prosperità e stabilità, almeno rispetto al “mondo esterno”. In una tale situazione, non è solo la paura della concorrenza degli immigranti che preoccupa parti della popolazione, ma anche la paura che il caos e l’anarchia, percepiti come provenienti dall’esterno, guadagnino, con i rifugiati, il mondo “civilizzato”. Al livello attuale di estensione della coscienza di classe, è troppo difficile per la maggior parte dei lavoratori comprendere che sia la barbarie caotica alla periferia del capitalismo che la sua crescente intrusione nei paesi centrali, siano il risultato del capitalismo mondiale e delle stesse politiche dei paesi capitalisti dirigenti.
Questo contesto di crisi “finanziaria”, di “crisi dell’Euro”, poi di crisi dei rifugiati ha, per il momento, soffocato sul nascere i primi passi embrionali verso una rinascita della solidarietà di classe. È forse almeno in parte per tale motivo che la lotta degli Indignados, sebbene sia durata più a lungo e sia sembrata, sotto certi aspetti, svilupparsi più in profondità rispetto al movimento anti-CPE, non è riuscita a fermare gli attacchi in Spagna ed è stata quindi sfruttata facilmente dalla borghesia per creare un nuovo partito politico di sinistra, Podemos.
Il principale risultato, a livello politico, di questa nuova spinta alla perdita di solidarietà, dal 2008 fino ad ora, è stato il rafforzamento del populismo. Quest'ultimo non è solo un sintomo di un ulteriore indebolimento della coscienza e della combattività di classe, ma costituisce in sé un ulteriore fattore attivo di questo indebolimento. Non solo perché il populismo si fa strada nei ranghi del proletariato. In effetti, i settori centrali della classe resistono ancora fortemente a questa influenza, come lo dimostra l’esempio tedesco. Ma anche perché la borghesia profitta di questa eterogeneità della classe per dividere ulteriormente e confondere il proletariato. Oggi, sembra che ci avviciniamo ad una situazione che, a prima vista, ha delle similitudini con gli anni 1930. Certo, il proletariato non è stato sconfitto politicamente e fisicamente in un paese centrale, come avvenne in Germania all’epoca. Per cui l'anti-populismo non può giocare esattamente lo stesso ruolo di quello dell’antifascismo negli anni 1930. Sembra anche essere una caratteristica del periodo di decomposizione queste stesse false alternative appaiano con contorni meno incisivi rispetto a prima. Tuttavia, in un paese come la Germania, dove otto anni fa i primi passi nella politicizzazione di una piccola minoranza di giovani alla ricerca furono fatti sotto l’influenza dello slogan “Abbasso il capitalismo, la nazione e lo Stato”, oggi questa politicizzazione si fa alla luce della difesa dei rifugiati e del Wilkommenskultur contro i neonazisti e la destra populista.
Nell’intero periodo post 1968, il peso dell’antifascismo fu in parte attenuato dal fatto che la concretizzazione del pericolo fascista risiedeva nel passato, o era rappresentato da estremisti di destra più o meno marginalizzati. Oggi il sorgere di un populismo come fenomeno potenzialmente di massa fornisce all’ideologia di difesa della democrazia un nuovo obiettivo, molto più tangibile ed importante, contro cui mobilitarsi.
Terminiamo questa parte dicendo che la crescita attuale del populismo e della sua influenza sulla politica borghese nel suo insieme è resa possibile anche dall’attuale debolezza del proletariato.
Sebbene il dibattito all’interno della borghesia su come trattare il riemergere del populismo sia appena cominciato, possiamo già menzionare alcuni dei criteri messi avanti. Se guardiamo il dibattito che si sviluppa in Germania - il paese dove la borghesia è forse più consapevole e vigile su tali questioni - possiamo identificare tre aspetti.
Il primo, che è un errore per i “democratici” cercare di combattere il populismo adottando il suo linguaggio e le sue proposte. Secondo questa tesi, è stato proprio questo tentativo di “copiare” i populisti a spiegare in parte il fiasco dei partiti di governo nelle ultime elezioni in Austria, e che aiuta a spiegare il fallimento dei partiti tradizionali in Francia a fermare l’avanzata del FN. Gli elettori populisti, si dice ancora, preferiscono l’originale alla copia. Al posto di fare delle concessioni, è necessario mettere l’accento sulle differenze tra “patriottismo costituzionale” e “sciovinismo nazionalista”, tra apertura cosmopolita e xenofobia, tra tolleranza e autoritarismo, tra modernità e conservatorismo, tra umanesimo e barbarie. Secondo questa linea di pensiero, le democrazie occidentali oggi sono abbastanza “mature” per accordarsi col populismo moderno mantenendo una maggioranza per la “democrazia”, se mettono avanti le loro posizioni in maniera decisa. Questa è per esempio è la posizione dell’attuale cancelliera tedesca Angela Merkel.
Il secondo insiste sul fatto che l’elettorato dovrebbe poter di nuovo fare la differenza tra destra e sinistra, correggendo l’impressione attuale di un cartello di partiti stabiliti. Noi supponiamo che questa idea fosse già il motivo per la preparazione, negli ultimi due anni e da parte dell’alleanza CDU-SPD[6], di una possibile futura coalizione cristiano democratica con i Verdi dopo le prossime elezioni generali. L’abbandono del nucleare dopo la catastrofe di Fukushima, annunciata non in Giappone ma in Germania, e il recente sostegno euforico dei Verdi alla Wilkommenskultur nei confronti dei rifugiati associato non al SPD ma ad Angela Merkel, sono stati finora i principali passi di questa strategia. Tuttavia, l’ascesa elettorale rapida e inattesa dell’AfD minaccia oggi la realizzazione di una tale strategia (il recente tentativo di far tornare il liberale FDP[7] in parlamento potrebbe essere una risposta a questo problema, poiché questo partito potrebbe all’occorrenza aggiungersi ad una coalizione “Nero-verde”). Nell’opposizione, l’SPD, il partito che ha condotto in Germania “la rivoluzione neoliberale” con la sua agenda 2010 sotto Shröder, potrebbe quindi adottare una posizione più a “sinistra”. Contrariamente ai paesi anglosassoni, dove la destra conservatrice di Thatcher e Reagan hanno imposto le necessarie misure “neoliberiste”, in molti paesi europei continentali sono i partiti di sinistra (essendo i più politici, responsabili e disciplinati) che hanno dovuto partecipare o anche assumersi il compito di attuarle.
Oggi, tuttavia, è diventato chiaro che la necessaria tappa di mondializzazione neoliberale è stata accompagnata da eccessi che alla fine dovranno essere corretti. In particolare ciò è capitato dopo il 1989, quando il crollo dei regimi stalinisti è sembrato confermare in modo schiacciante tutte le tesi ordo-liberali[8] sull’inadeguatezza della burocrazia capitalista di Stato a fare girare l’economia. Tali eccessi sono sempre più evidenziati da rappresentanti seri della classe borghese. Per esempio, non è assolutamente indispensabile per la sopravvivenza del capitalismo che una minuscola frazione della società possegga quasi tutta la ricchezza. Ciò può essere dannoso non solo socialmente e politicamente, ma anche economicamente poiché i più ricchi, anziché mettere in movimento le loro ricchezze, sono innanzitutto preoccupati di come preservare il loro valore, aumentando così la speculazione e frenando il potere di acquisto solvibile. Non è neanche assolutamente necessario per il capitalismo che la concorrenza tra Stati nazionali prenda, in questo momento, la forma di riduzione delle tasse e dei bilanci statali, al punto che lo Stato non può più assicurare gli investimenti necessari. In altri termini, l’idea è che, grazie a un eventuale ritorno a un tipo di correzione neo-keynesiana, la sinistra, nella sua forma tradizionale o attraverso nuovi partiti come Syriza in Grecia o Podemos in Spagna, possa riguadagnare una certa base materiale per presentarsi come alternativa alla destra ordo-liberale conservatrice.
E’ importante notare tuttavia che le attuali riflessioni nella classe dominante sul possibile ruolo futuro della sinistra non sono in prima istanza ispirate dalla paura (nell’immediato) della classe operaia. Al contrario, molti elementi della situazione attuale nei principali centri capitalisti indicano che il primo aspetto che determina la politica della classe dominante è ora il problema del populismo.
Il terzo aspetto è che, analogamente ai conservatori inglesi intorno a Boris Johnson, il CSU[9], partito “fratello” del CDU della Merkel, pensa che parti dell’apparato tradizionale di partito dovrebbero esse stesse applicare elementi di politica populista. E’ da notare che la CSU non è più l’espressione dell’arretratezza tradizionale bavarese piccolo-borghese. Al contrario, assieme alla provincia confinante a sud del Baden-Württemberg, la Baviera è oggi economicamente la parte più moderna della Germania, con la colonna vertebrale delle sue industrie high-tech e di esportazione e la base produttiva di compagnie come Siemens, BMW o Audi.
Questa terza opzione, propagata da Monaco, collide naturalmente con la prima propugnata da Angela Merkel e gli attuali scontri tra i due partiti non sono una semplice manovra elettorale né il prodotto di (reali) differenze tra particolari interessi economici, ma anche differenze di approccio. Vista la decisione attuale della cancelliera a non cambiare orientamento, alcuni esponenti del CSU hanno cominciato anche a “pensare ad alta voce” di presentare dei loro candidati in altre parti della Germania contro la CDU alle nuove elezioni generali.
L’idea della CSU, come quella di parti dei Conservatori inglesi, è che se è inevitabile, in un certo modo, che siano prese delle misure populiste, è meglio se queste siano applicate da un partito esperto e responsabile. In questo modo tali misure, spesso irresponsabili, possono almeno essere limitate da una parte e, dall’altra, essere compensate da misure collaterali.
Malgrado le frizioni reali tra la Merkel e Seehofer, come tra Cameron e Johnson, non dobbiamo trascurare l’elemento di divisione del lavoro tra di loro (una parte che difende i valori democratici “in modo offensivo”, l’altra che riconosce la validità de “l’espressione democratica dei cittadini in collera”).
In ogni modo, quello che dimostra questo discorso nel suo insieme è che le frazioni dirigenti della borghesia cominciano a riconciliarsi con l’idea di politiche governative populiste di un certo tipo e in una certa misura, come già messo parzialmente in pratica dai conservatori del Brexit o dalla CSU.
Come abbiamo visto, c’è stata e rimane una grande reticenza nei confronti del populismo da parte delle principali frazioni della borghesia in Europa occidentale e in Nordamerica. Quali sono le cause? Dopotutto, questi movimenti non mettono assolutamente in questione il capitalismo; niente di quello che propagandano è estraneo al mondo borghese. A differenza dello stalinismo, il populismo non rimette neanche in questione le attuali forme di proprietà capitalista. È certamente un movimento d’opposizione. Ma, in un certo senso, lo stalinismo e la socialdemocrazia lo sono stati anch’essi, senza che questo impedisse loro di essere membri responsabili di governi di Stati capitalisti leader.
Per comprendere questa reticenza, è necessario riconoscere la differenza fondamentale tra il populismo attuale e la sinistra del capitale. La sinistra, anche quando non proviene dalle vecchie organizzazioni del movimento operaio (i Verdi, ad esempio), sebbene possa essere la migliore rappresentante del nazionalismo e quella che può meglio mobilitare il proletariato per la guerra, fonda il suo potere attrattivo sulla propaganda di vecchi ideali distorti del movimento operaio, o almeno della rivoluzione borghese. In altri termini, per quanto sciovinista e finanche antisemita possa essere, non rinnega per principio la “fratellanza dell’umanità” né la possibilità di migliorare le condizioni del mondo nel suo insieme. In effetti, anche i radicali neo-liberisti più apertamente reazionari affermano di perseguire tale scopo. Ed è necessariamente così. Fin dall’origine, la pretesa della borghesia di essere la degna rappresentante di tutta la società si è sempre fondata su questa prospettiva. Ciò non significa che la sinistra del capitale, in quanto parte di questa società putrescente, non diffonda essa stessa un veleno razzista, antisemita del tutto simile a quello dei populisti di destra!
In compenso, il populismo personifica la rinuncia ad un tale “ideale”. Ciò che esso propaganda è la sopravvivenza di alcuni a spese di altri. Tutta la sua arroganza gira intorno a questo “realismo” di cui esso è così fiero. Come tale, esso è il prodotto del mondo borghese e della sua visione del mondo – ma soprattutto della sua decomposizione.
In secondo luogo, la sinistra del capitale propone un programma economico, politico e sociale più o meno coerente e realista per il capitale nazionale. Per contro, il problema con il populismo politico non è che non fa proposte concrete, ma che propone una cosa ed il suo contrario, una politica oggi, un’altra domani. Piuttosto che essere un’alternativa politica, esso rappresenta la decomposizione della politica borghese.
È per questo motivo che, almeno col significato che gli viene attribuito in questo testo, ha poco senso parlare dell’esistenza di un populismo di sinistra come una sorta di “contrapposizione” al populismo di destra.
Malgrado similitudini e paralleli, la storia non si ripete mai. Il populismo di oggi non è la stessa cosa del fascismo degli anni 1920 e 1930. Tuttavia, il fascismo di allora e il populismo di oggi hanno, in un certo modo, cause simili. In particolare, entrambi sono l’espressione della decomposizione del mondo borghese. Con l’esperienza storica del fascismo e soprattutto del nazismo che lo ha seguito, la borghesia delle vecchie metropoli capitaliste ha oggi una consapevolezza elevata di queste similitudini e del pericolo potenziale che esse rappresentano per la stabilità dell’ordine capitalista.
Il fascismo in Italia e in Germania hanno avuto in comune il trionfo della controrivoluzione e l’insana fantasia dello scioglimento delle classi in una comunità mistica dopo la precedente sconfitta dell’ondata rivoluzionaria, dovuta principalmente alle armi della democrazia e della sinistra del capitale. In comune hanno anche avuto la loro contestazione aperta della spartizione imperialista del mondo e l’irrazionalità di molti dei loro obiettivi di guerra. Ma nonostante queste similitudini (sulla base delle quali Bilan fu capace di riconoscere la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria e il cambiamento di corso storico, con l’apertura della possibilità per la borghesia di mobilitare il proletariato nella guerra mondiale), è utile - per comprendere meglio il populismo contemporaneo - studiare più da vicino certe specificità degli sviluppi storici in Germania all’epoca, ivi compreso là dove differivano molto dal molto meno irrazionale fascismo italiano.
Innanzitutto, lo sbandamento dell’autorità stabilita delle classi dominanti e la perdita di fiducia della popolazione nella sua tradizionale leadership politica, economica, militare, ideologica e morale erano molto più profonde che altrove (eccetto che in Russia), poiché la Germania fu la principale perdente della Prima Guerra mondiale e ne è uscì fuori in uno stato di sfinimento economico, finanziario ed anche fisico.
In secondo luogo, in Germania molto più che in Italia aveva avuto luogo una reale situazione rivoluzionaria. Il modo in cui la borghesia è stata capace di soffocare sul nascere questo potenziale non deve portarci a sottovalutare la profondità di questo processo rivoluzionario, né l’intensità delle speranze e delle attese che esso aveva destato e che l’avevano accompagnato. Furono necessari quasi sei anni, fino al 1923, alla borghesia tedesca e mondiale per liquidare tutte le tracce di questa effervescenza. Oggi è difficile immaginare il grado di delusione causato da questa sconfitta e l’amarezza che essa ha lasciato. La perdita di fiducia della popolazione nella sua classe dominante fu così velocemente seguita dalla disillusione, ancora più crudele, della classe operaia nei riguardi delle sue (vecchie) organizzazioni, (socialdemocrazia e sindacati), e per la delusione nei confronti del giovane KPD[10] e dell’Internazionale comunista.
Terzo, le calamità economiche giocarono un ruolo molto più centrale nell’ascesa del nazional-socialismo di quanto non fosse il caso per il fascismo in Italia. L’iperinflazione del 1923 in Germania (e altrove in Europa centrale) fece perdere fiducia nella moneta come equivalente universale. La Grande Depressione che ebbe inizio nel 1929 avvenne dunque solo 6 anni dopo il trauma dell’iperinflazione. Non solo la Grande Depressione colpì in Germania una classe operaia la cui coscienza di classe e la cui combattività erano già state schiacciate, ma il modo con cui le masse, intellettualmente e emotivamente, subirono l’esperienza di questo nuovo episodio di crisi economica fu, in una certa misura, modellato, pre-formattato potremmo dire, dagli avvenimenti del 1923.
Le crisi del capitalismo decadente in particolare colpiscono ogni aspetto della vita economica (e sociale). Sono crisi di (sovrap)-produzione - di capitale, di merci, di forza lavoro - e di appropriazione e di “distribuzione” - speculazioni finanziarie e monetarie, crac inclusi. Ma, diversamente dalle manifestazioni di crisi più centrate sul settore di produzione, come licenziamenti e riduzioni di salario, gli effetti negativi sulla popolazione delle crisi finanziarie e monetarie sono molto più astratti e oscuri. Tuttavia, i loro effetti possono essere ugualmente devastanti per parti della popolazione, così come le loro ripercussioni possono essere anche più ampie ed estendersi ancora più rapidamente di quelle che si manifestano più direttamente sul luogo di produzione. In altri termini, mentre queste ultime manifestazioni di crisi tendono a favorire lo sviluppo della coscienza di classe, quelle che provengono piuttosto dalle sfere finanziarie e monetarie tendono a fare il contrario. Senza l’aiuto del marxismo non è facile afferrare i legami reali tra, per esempio, un crac finanziario a Manhattan e il deficit di pagamento che ne risulta di una compagnia di assicurazioni o anche di uno Stato in un altro continente. Tali spettacolari sistemi d’interdipendenza, creati ciecamente tra paesi, popolazioni, classi sociali, che funzionano alle spalle dei protagonisti, conducono facilmente alla personalizzazione e alla paranoia sociale. Il fatto che l’accentuazione recente della crisi del capitalismo sia stata anche una crisi finanziaria e delle banche, legata alle bolle speculative e alla loro esplosione, non è soltanto propaganda borghese. Il fatto che una falsa manovra speculativa a Tokio o a New York possa scatenare il fallimento di una banca in Islanda, o scuotere il mercato immobiliare in Irlanda, non è una finzione ma una realtà. Solo il capitalismo crea una tale interdipendenza di vita e di morte tra persone che sono completamente estranee le une alle altre, tra protagonisti che non sono nemmeno coscienti della loro reciproca esistenza. È veramente difficile per gli esseri umani far fronte a tali livelli di astrazione, siano essi intellettuali o emotivi. Questa incapacità a capire il reale meccanismo del capitalismo porta dunque alla personalizzazione, che attribuisce tutta la colpa alle forze del male che pianificano deliberatamente come nuocerci. È tanto più importante comprendere oggi questa distinzione tra i diversi tipi di attacchi, in quanto non è più principalmente la piccola borghesia o le cosiddette classi medie a perdere i loro risparmi, come avvenne nel 1923, ma milioni di lavoratori che possiedono o tentano di possedere un proprio alloggio, dei risparmi, un’assicurazione, ecc..
Nel 1923 la borghesia tedesca, che già pianificava di fare guerra alla Russia, si è dovuta confrontare con il nazismo che era divenuto un vero movimento di massa. In una certa misura, la borghesia era intrappolata, prigioniera di una situazione che aveva largamente contribuito a creare. Avrebbe potuto optare di andare in guerra sotto un governo socialdemocratico, col sostegno dei sindacati, in una possibile coalizione con la Francia o anche con la Grande Bretagna, anche se inizialmente come partner secondario. Ma ciò avrebbe richiesto uno scontro, o almeno una neutralizzazione, del movimento nazista, che era diventato non solo troppo grande da manipolare ma raggruppava anche quella parte di popolazione che voleva la guerra. In questa situazione, la borghesia tedesca fece l’errore di credere di poter strumentalizzare il movimento nazista a suo piacimento.
Il nazismo non fu semplicemente un regime di terrore di massa esercitato da una piccola minoranza sul resto della popolazione. Esso aveva una propria base di massa. Esso non era solo uno strumento del capitale imposto alla popolazione. Era anche il suo contrario: uno strumento cieco delle masse atomizzate, schiacciate e paranoiche che volevano imporsi al capitale.
Il nazismo fu dunque in gran parte preparato dalla profonda perdita di fiducia di grandi parti di popolazione nell’autorità della classe dominante e nella sua capacità di fare funzionare efficacemente la società e di fornire un minimo di sicurezza fisica ed economica ai suoi cittadini. Questo scuotimento della società fino alle sue fondamenta era stato inaugurato dalla Prima Guerra mondiale ed era stato inasprito dalle catastrofi economiche che ne seguirono: l’iperinflazione che era il risultato della guerra mondiale (dal lato dei perdenti), e la Grande Depressione degli anni 1930. L’epicentro di questa crisi fu costituito dai tre imperi, il tedesco, l’austroungarico e il russo, che sprofondarono tutti sotto i colpi della guerra (persa) e dell’ondata rivoluzionaria.
Mentre la rivoluzione fu vittoriosa in Russia, essa fallì in Germania e nel vecchio impero austroungarico. In assenza di un’alternativa proletaria alla crisi della società borghese si aprì un vuoto profondo il cui centro fu la Germania e, diciamo, l’Europa continentale a nord del bacino mediterraneo, ma con ramificazioni a scala mondiale, generando un parossismo di violenza e di pogromizzazione centrato sui temi dell’antisemitismo e dell’anti-bolscevismo, culminante con “l’olocausto” e lo sterminio di massa di intere popolazioni, in particolare nei territori dell’URSS occupati dalle forze tedesche.
La forma presa dalla controrivoluzione in Unione Sovietica giocò un ruolo importante nello sviluppo di questa situazione. Sebbene non vi fosse più niente di proletario nella Russia stalinista, la violenta espropriazione dei contadini (la “collettivizzazione dell’agricoltura” e la “liquidazione dei kulaki”) terrificò non solo i piccoli proprietari ed i piccoli risparmiatori nel resto del mondo, ma anche molti grandi proprietari. Fu questo particolarmente il caso dell’Europa continentale dove questi proprietari, (compresi i modesti proprietari dei propri alloggi), lasciati senza protezione rispetto al “bolscevismo” da cui non erano divisi dal mare o dall’oceano (a differenza dei loro omologhi inglesi o americani), avevano poca fiducia che gli instabili regimi europei, “democratici” o “autoritari”, esistenti all’inizio degli anni 1930, potessero proteggerli dall’espropriazione, dalla crisi o dal “bolscevismo giudaico”.
Da questa esperienza storica possiamo concludere che se il proletariato è incapace di portare avanti la sua alternativa rivoluzionaria al capitalismo, la perdita di fiducia nella capacità della classe dominante di “fare il suo lavoro” può condurre ad una rivolta, una protesta, un’esplosione di tutt’altro tipo, qualcosa che non è cosciente ma cieca, diretta non verso il futuro ma verso il passato, basata non sulla fiducia ma sulla paura, non sulla creatività ma sulla distruzione e l’odio.
Il processo appena descritto era già espressione della decomposizione del capitalismo. Ed è più che comprensibile che molti marxisti ed altri astuti osservatori della società negli anni 1930 si aspettassero che questa tendenza avrebbe velocemente sommerso il mondo intero. Ma come si è verificato, quella era soltanto la prima fase di questa decomposizione, non ancora la sua fase terminale.
Innanzitutto, tre fattori d’importanza storica mondiale hanno fatto arretrare questa tendenza alla decomposizione.
Questi due fattori erano in realtà attribuibili alla borghesia. Il terzo invece è opera della classe operaia: la fine della controrivoluzione, il ritorno della lotta di classe al centro della scena della storia, e con essa, il riapparire, sebbene confuso ed effimero, di una prospettiva rivoluzionaria. La borghesia, da parte sua, ha risposto a questo cambiamento di situazione non solo con l’ideologia del riformismo, ma anche attraverso concessioni e miglioramenti materiali reali, anche se temporanei. Tutto ciò ha rafforzato, tra i lavoratori, l’illusione che la vita potesse migliorare.
Come sappiamo, ciò che ha condotto alla fase attuale di decomposizione è stato essenzialmente il blocco tra le due classi principali, l’una incapace di scatenare una guerra generalizzata, l’altra incapace di dirigersi verso una soluzione rivoluzionaria. Con l’insuccesso della generazione del 1968 a politicizzare ulteriormente le sue lotte, gli avvenimenti del 1989 hanno inaugurato allora, a scala mondiale, la fase attuale di decomposizione. Ma è molto importante comprendere questa fase non come qualche cosa di stagnante, ma come un processo. Il 1989 ha segnato innanzitutto l’insuccesso del primo tentativo del proletariato di risviluppare la sua alternativa rivoluzionaria. Dopo 20 anni di crisi cronica e di deterioramento delle condizioni di vita della classe operaia e della popolazione mondiale nel suo insieme, il prestigio e l’autorità della classe dominante si sono abbastanza degradati, ma non allo stesso grado. Alla svolta del millennio, c’erano ancora importanti contro-tendenze che risollevavano la reputazione delle élite borghesi dirigenti. Qui ne menzioneremo tre.
La prima è che il crollo del blocco dell’Est stalinista non ha danneggiato l’immagine della borghesia dell’ex blocco occidentale. Al contrario, esso è sembrato mostrare l’impossibilità di un’alternativa al “capitalismo democratico occidentale”. Naturalmente, parte dell’euforia del 1989 si è rapidamente dissipata sotto l’effetto della realtà, come l’illusione di un mondo più pacifico. Ma è rimasto vero che il 1989 ha almeno allontanato la spada di Damocle come minaccia permanente di annientamento reciproco in una terza guerra mondiale. Inoltre, dopo il 1989, è stato possibile presentare retrospettivamente in modo credibile sia la Seconda Guerra mondiale che la Guerra fredda che ne è seguita tra Est e Ovest come prodotto della “ideologia” e del “totalitarismo” (dunque colpa del fascismo e del “comunismo”). A livello ideologico, è una grande fortuna per la borghesia occidentale che il nuovo ed attuale rivale imperialista - più o meno aperto - degli Stati Uniti non sia più la Germania (oramai essa stessa “democratica”) ma la Cina “totalitaria” e che molte delle guerre regionali contemporanee e degli attacchi terroristici possano essere attribuiti al “fondamentalismo religioso”.
La seconda è che la tappa attuale di “globalizzazione” del capitalismo di Stato, già introdotta precedentemente, ha reso possibile, nel contesto del post 1989, un reale sviluppo delle forze produttive in quelli che fino ad allora erano stati paesi periferici del capitalismo. Naturalmente i BRICS[11], per esempio, non costituiscono per niente un modello di vita per gli operai dei vecchi paesi capitalisti. Ma allo stesso tempo essi creano l’impressione di un capitalismo mondiale dinamico. Bisogna notare, data l’importanza della questione dell’immigrazione per il populismo di oggi, che questi paesi sono visti come apportatori di stabilità della situazione poiché assorbono milioni di migranti che diversamente si sarebbero spostati verso l’Europa o il Nordamerica.
La terza è lo sviluppo realmente sbalorditivo a livello tecnologico che ha rivoluzionato la comunicazione, l’educazione, la medicina, la vita quotidiana nel suo insieme, che ha dato l’impressione di una società di nuovo piena di energia (giustificando, en passant, la nostra comprensione che la decadenza del capitalismo non significa arresto delle forze produttive o stagnazione tecnologica).
Questi fattori (e ce ne sono probabilmente altri), sebbene incapaci di impedire la fase attuale di decomposizione (e con essa già, un primo sviluppo del populismo) sono riusciti comunque ad attenuare alcuni dei suoi effetti. Per contro, il contemporaneo rafforzamento di questo stesso populismo indica che oggi siamo probabilmente vicini ai limiti di questi effetti moderatori, aprendo quello che potremmo chiamare una seconda tappa nella fase di decomposizione. Questa seconda tappa, possiamo dire, è caratterizzata da una crescente perdita di fiducia, in grossi settori di popolazione, nella volontà o capacità della classe dominante di proteggerli. Un processo di disillusione che, almeno per il momento, non è proletario, ma profondamente antiproletario. Dietro le crisi della finanza, dell’Euro e dei rifugiati, che sono più dei fattori scatenanti che delle cause profonde, questa nuova tappa è certamente il risultato di effetti cumulati da decenni di fattori soggiacenti più profondi. Innanzitutto, l’assenza di una prospettiva rivoluzionaria proletaria da un lato. Dall’altro lato (quello del capitale), c’è la sua crisi economica cronica, ma anche gli effetti del carattere sempre più astratto del modo di funzionamento della società borghese. Questo processo, inerente al capitalismo, ha conosciuto una grave accelerazione negli ultimi tre decenni, con la drastica riduzione, nei vecchi paesi capitalisti, della forza lavoro industriale e manuale, e dell’attività fisica in generale, a causa della meccanizzazione e dei nuovi media come i personal computer ed Internet. Parallelamente a ciò, il mezzo di scambio universale è stato trasformato largamente da metallo e carta a moneta elettronica, che è parte di un processo più ampio che porta ad una radicale separazione tra il corpo e la sua realtà sensuale.
Alla base del modo di produzione capitalista vi è una combinazione molto specifica di due fattori: i meccanismi economici o “leggi” (il mercato) e la violenza. Da un lato, la precondizione per uno scambio di equivalenti è la rinuncia alla violenza: lo scambio al posto del furto. In più, il lavoro salariato è la prima forma di sfruttamento dove l’obbligo a lavorare e la motivazione dello stesso processo lavorativo sono essenzialmente di tipo economico e non imposti con la forza fisica diretta.
Dall’altro lato, nel capitalismo tutto il sistema di scambi equivalenti è basato su uno scambio “originario” non equivalente - la violenta separazione dei produttori dai mezzi di produzione (“accumulazione primitiva”) che è la precondizione del sistema salariato e che è un processo permanente nel capitalismo poiché la stessa accumulazione è un processo più o meno violento (vedi L’accumulazione del Capitale, Rosa Luxemburg). Questa presenza permanente dei due poli di questa contraddizione, violenza e rinuncia alla violenza, così come l’ambivalenza che quest’ultima crea, impregna l’insieme della vita della società borghese. Essa accompagna ogni atto di scambio in cui l’opzione alternativa del furto è sempre presente. D’altra parte, una società fondata radicalmente sullo scambio, e dunque sulla rinuncia alla violenza, deve rafforzare questa rinuncia attraverso la minaccia della violenza, e non solamente la minaccia – vedi le sue leggi, il suo apparato di giustizia, la sua polizia, le sue prigioni, ecc. Quest’ambiguità è sempre presente, particolarmente nello scambio tra lavoro salariato e capitale, in cui la coercizione economica è completata dalla forza fisica. Essa è specificamente presente tutte le volte che è implicato lo strumento di violenza per eccellenza nella società borghese: lo Stato. Nelle sue relazioni con i suoi cittadini, (coercizione ed estorsione), e con gli altri Stati (guerra), lo strumento della classe dominante per sopprimere il furto e la violenza caotica è esso stesso, allo stesso tempo, il furto generalizzato e santificato.
Uno dei punti focali di questa contraddizione e ambiguità tra violenza e rinuncia al suo uso nella società borghese risiede in ciascuno dei singoli soggetti. Vivere una vita normale, funzionale, nel mondo attuale richiede la rinuncia ad una pletora di bisogni corporali, emozionali, intellettuali, morali, artistici e creativi a tutti. Dal momento che il capitalismo maturo è passato dello stadio del dominio formale a quello del dominio reale, questa rinuncia non è stata più in prima istanza imposta principalmente attraverso una violenza esterna. Infatti, ogni individuo è più o meno coscientemente confrontato con la scelta o di adattarsi al funzionamento astratto di questa società, o di essere un “perdente” che rischia di finire su un marciapiede. La disciplina diventa l’autodisciplina, al punto tale che ogni individuo diventa il repressore dei suoi stessi bisogni vitali. Naturalmente questo processo di autodisciplina contiene anche un potenziale di emancipazione, per l’individuo e soprattutto per il proletariato nel suo insieme (in quanto classe autodisciplinata per eccellenza) per diventare padrone del suo destino. Ma per il momento, nel funzionamento “normale” della società borghese, questa autodisciplina è essenzialmente l’internalizzazione della violenza capitalista. Perché, oltre all’opzione proletaria di trasformazione di questa autodisciplina in mezzo di realizzazione, di rivitalizzazione dei bisogni umani e di creatività, c’è anche un’altra opzione, quella del riorientamento cieco della violenza internalizzata verso l’esterno. La società borghese ha sempre bisogno di offrire un “estraneo” per mantenere l’auto-disciplina di quelli che dicono di appartenerle. E per questo che la cieca ri-esternalizzazione della violenza da parte dei soggetti della società borghese si orienta “spontaneamente” (cioè è predisposta o “formattata” in questo senso) contro tali estranei (pogromizzazione).[12]
Quando la crisi aperta della società capitalista raggiunge una certa intensità, quando l’autorità della classe dominante si è deteriorata, quando gli argomenti della società borghese cominciano a dubitare della capacità e della determinazione delle autorità a fare il loro lavoro e, in particolare, a proteggerli contro un mondo di pericoli, e quando un’alternativa - che può essere solo quella del proletariato - manca, parti della popolazione cominciano a protestare ed anche a rivoltarsi contro l’élite dominante, ma non allo scopo di mettere in causa le sue regole, ma per obbligarli a proteggere i suoi cittadini “rispettosi delle leggi” contro gli “esterni”. Questi strati di società subiscono la crisi del capitalismo come un conflitto tra i suoi due principi sottostanti: tra mercato e violenza. Il populismo è l’opzione per risolvere con la violenza i problemi che il mercato non può risolvere, e anche per risolvere i problemi dello stesso mercato. Per esempio, se il mercato mondiale della forza lavoro minaccia di inghiottire il mercato del lavoro dei vecchi paesi capitalisti con l’onda di chi non ha niente, la soluzione è di erigere delle barriere e di posizionare alle frontiere una polizia che possa tirare su chiunque provi a superarle senza permesso.
Dietro la politica populista di oggi, si nasconde la sete di omicidio. Il pogrom è il segreto della sua esistenza.
Steinklopfer, 8 giugno 2016
[1] Brexit, Trump: Setbacks for the ruling class, nothing good for the proletariat [1], International Review n°157.
[2] United Kingdom Independence Party.
[3] La Repubblica Democratica Tedesca, la vecchia Germania dell’est dal regime stalinista.
[4] Freiheitliche Partei Österreichs (Partito della Libertà Austriaco)
[5] Contratto di primo impiego. Vedi il nostro articolo: Tesi sul movimento degli studenti nella primavera 2006 in Francia [2], in Rivista Internazionale n° 28 [3] (2006).
[6] La CDU, Partito Democratico-cristiano, attualmente al potere in Germania in una “grande coalizione” con il partito “socialista” SPD Partito Socialdemocratico di Germania.
[7] Freie Demokratische Partei, un partito “liberal-democratico” che in passato ha svolto un ruolo di bilancino tra SPD e CDU.
[8] Equivalente tedesco del neoliberismo, sottolineando il libero mercato, ma anche il ruolo dello Stato nella protezione del libero mercato.
[9] Unione Cristiano Sociale.
[10] Kommunistische Partei Deutschlands, Partito Comunista di Germania, sezione tedesca della Terza Internazionale.
[11] Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa.
[12] Vedi gli scritti del ricercatore tedesco in antisemitismo Detlev Claussen.
Pubblichiamo quest’articolo apparso sulla nostra stampa internazionale nel novembre 1991, quando il fenomeno dell’immigrazione non aveva raggiunto ancora l’intensità e la drammaticità di oggi. Eppure possiamo ritrovare nell’articolo importanti chiavi di lettura per capire la situazione di oggi, e particolarmente il diverso atteggiamento mostrato dalle borghesie dei diversi paesi nell’accogliere o nel respingere le ondate di migranti. Come spiega bene l’articolo, la classe operaia è dalle sue origini una classe di migranti e la gestione oculata dei flussi migratori ha fatto la fortuna dei vari capitalismi nazionali. Il problema dell’oggi è che una società senza futuro tende sempre più ad escludere una parte di umanità finanche dalle briciole con cui sfamarsi, per cui assistiamo alle tragedie del mare che i mass-media ci presentano come l’espressione della cattiveria di questo o quello scafista piuttosto che come la logica conseguenza del funzionamento di un sistema senz’anima, dove la legge del profitto ha completamente disumanizzato le relazioni tra gli uomini trasformandoli in merci e/o compratori di merci.
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Con il crollo del blocco dell'Est, si sono prodotte ondate gigantesche di migranti che scappano dalla miseria, dalla carestia, dai massacri e che inondano gli Stati dell'Europa occidentale, come già stiamo assistendo in Germania ed in Italia. Di fronte a questa minaccia di destabilizzazione e di estensione del caos nella vecchia Europa industrializzata, tutta la borghesia dell'Europa occidentale si sforza non solo di arginare questa “invasione” d’immigrati attraverso misure forti come la chiusura delle frontiere, ma anche di far aderire la classe operaia alla sua sinistra politica in difesa del capitale nazionale. Scatenando una gigantesca campagna anti-immigrati, che alimenta le peggiori ideologie borghesi come il razzismo, la xenofobia, il nazionalismo, il "ciascuno per sé", la classe dominante mira a un solo obiettivo: impedire al proletariato di affermare la sua solidarietà e la sua unità di classe internazionale, cercando di dividerlo tra operai immigrati ed operai autoctoni. Seminando l'illusione che questi ultimi avrebbero qualche cosa da salvaguardare, da difendere contro tutti questi miserabili venuti dell'Est o da altre parti, tutto questo martellamento ideologico si sforza di far dimenticare al proletariato che la sua condizione di immigrati fa parte dello stesso essere classe operaia, della miseria della sua condizione di classe sfruttata.
L’esodo massiccio dalle loro terre di origine di centinaia di migliaia di esseri umani che fuggono la fame e la miseria non è un fenomeno nuovo. Non è neanche un flagello specifico dei paesi sottosviluppati. L'immigrazione appartiene allo stesso sistema capitalista e risale alle origini di questo modo di produzione fondato sullo sfruttamento del lavoro salariato.
Fin dall'alba del capitalismo, la nuova classe di produttori, il proletariato, si è costituita come una classe d’immigrati. È grazie all’immigrazione che la borghesia ha potuto sviluppare il suo sistema di sfruttamento distruggendo in primis i rapporti di produzione feudali diventati obsoleti. Così, a partire dalla fine del XV secolo, particolarmente in Gran Bretagna, “l’accumulazione primitiva” del capitale si costituisce grazie all’espropriazione dei contadini, cacciati selvaggiamente dalle loro campagne ed arruolati con la forza nelle prime manifatture.
Spossessati delle loro terre dallo sviluppo del capitalismo, costretti con il ferro e con il sangue a emigrare verso le città per vendere la loro forza-lavoro al capitale, i contadini e i piccoli artigiani, trasformandosi in proletari, diventano, da questa epoca, i primi lavoratori immigrati. Questo esodo rurale massiccio imposto dallo sviluppo selvaggio del capitale, è stato accompagnato ancora, in tutta l'Europa, da misure di repressione di una ferocia inaudita contro tutti coloro che il capitalismo nascente ha affamato deliberatamente, ridotti all'indigenza per obbligarli a sottoporsi alla schiavitù salariata. È così che Marx descriveva il terrore che il capitalismo aveva scatenato contro tutti i fuggitivi che, dopo essere stati ridotti allo stato di vagabondi erranti, venivano marchiati a fuoco, mutilati, inviati nelle galere, o semplicemente appesi per il collo per insubordinazione alle regole della dittatura capitalista:
"Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege[1], fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano ritrovarsi con altrettanta rapidità nella disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono piniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti “volontari” e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.”[2]
È grazie a questa espropriazione brutale dei contadini e alla loro trasformazione in schiavi salariati che il capitalismo ha potuto trovare la sua prima fonte di mano d'opera. Durante tutto il periodo della sua ascesa e fino al suo apogeo alla fine del XIX secolo, questo sistema di sfruttamento si svilupperà continuamente grazie ai flussi migratori della forza lavoro. Nel più vecchio paese capitalista, la Gran Bretagna, la nuova classe dominante si è potuta affermare grazie allo sfruttamento feroce di masse di affamati venuti dalle regioni agricole, in particolare dall'Irlanda.
Di fatto, “il rapido sviluppo dell’industria britannica non avrebbe potuto effettuarsi se nella numerosa e povera popolazione dell’Irlanda l’Inghilterra non avesse avuto una riserva di cui disporre”[3]. Questo “esercito di riserva”, costituito dall’immigrazione irlandese, ha permesso al capitale britannico di introdurre nella classe operaia la concorrenza per fare abbassare i salari e aggravare ulteriormente le insopportabili condizioni di sfruttamento dei proletari.
Così, è già nel quadro dello sviluppo di ogni capitale nazionale che il fenomeno dell’immigrazione fa parte integrante, fin dall’inizio del capitalismo, della natura stessa della classe operaia. Il proletariato è, per essenza una classe di immigrati, di transfughi generati dalla sanguinosa distruzione dei rapporti di produzione feudale.
Questa immigrazione si estenderà al di là delle frontiere nazionali quando, verso la metà del XVIII secolo, il capitalismo comincerà a fare i conti con il problema della sovrapproduzione di merci nelle grandi concentrazioni industriali dell’Europa occidentale. Come affermava Marx, nel 1857 “con lo sviluppo del plus-lavoro, che costituisce la base dello sfruttamento capitalista, si sviluppa anche la sovrappopolazione, in altri termini una massa di proletari che non può continuare a vivere sullo stesso territorio ad un dato stadio dello sviluppo delle forze produttive” (“Principi di una critica dell’economia politica”).
Le crisi cicliche di sovrapproduzione che colpiscono l’Europa capitalista intorno dalla metà del XIX secolo costringeranno milioni di proletari a sfuggire alla disoccupazione e alla carestia andando in esilio verso i “nuovi mondi”. Tra il 1848 e il 1914, 50 milioni di lavoratori europei lasciano il vecchio continente per andare a vendere la loro forza di lavoro in quelle regioni, principalmente in America.
Nella stessa maniera in cui l’Inghilterra del XVI secolo ha potuto permettere lo sviluppo del capitalismo grazie all’immigrazione interna, la prima potenza capitalista mondiale attuale, gli USA, si costituirono grazie all’afflusso di decine di milioni d’immigrati venuti dall’Europa, particolarmente dall’Irlanda, dalla Gran Bretagna, dalla Germania e dai paesi dell’Europa del nord.
Fino verso il 1890, è grazie allo sfruttamento feroce dei proletari immigrati, razionalizzato dal “taylorismo”[4] del lavoro nelle fabbriche, che il capitale americano riuscirà ad affermarsi progressivamente sulla scena mondiale. Dopo il 1890, le terre e gli impieghi si ridurranno e i nuovi emigranti mediterranei e slavi senza qualifica professionale si ammucchieranno nei ghetti delle grandi città e saranno costretti ad accettare dei salari sempre più miseri per potere sopravvivere. Con l’apogeo del capitalismo, il mito dell’America dove tutti possono essere accolti finirà. Dal momento in cui il capitale americano non ha più bisogno di importare massicciamente mano d’opera per sviluppare la sua industria, la borghesia di questo paese comincia ad adottare misure discriminatorie destinate a selezionare i richiedenti asilo.
Dopo la grande ondata migratoria di proletari italiani e slavi che affluiscono negli USA alla fine del XIX secolo, la borghesia americana comincia, dal 1898, a chiudere le sue frontiere, soprattutto agli immigranti asiatici. Da allora, non sarà più possibile accogliere qualsiasi “straccione”. Occorreva che i nuovi aspiranti migranti fossero capaci di fare fruttare il capitale, mentre gli altri, gli indesiderabili, saranno respinti spietatamente e condannati a ritornare a crepare “nel loro paese d'origine”. Come riferito da un articolo del “Figaro” del 1903, “Ogni emigrante mostra i 150 franchi fissati come minimo e, se versa i due dollari dovuti al governo americano, l'uomo è ammesso... Senza denaro, niente relazioni in America e... vecchio o malato, viene rinviato da dove viene. Ma un uomo giovane, prestante, deciso, con una professione, non viene mai rifiutato, anche se privo di risorse. Questa folla brulicante di miserabili operai, operaie, contadini, domestici, commessi... questi maledetti esuli per la sfortuna della loro ingrata patria, è l'America!... Sono i loro fratelli di miseria, emigrati come loro dagli stessi paesi dopo 60 anni, che hanno fatto l'America di oggi”.
Così, è grazie all'immigrazione verso gli altri continenti di questo surplus di mano d'opera risultante dalle crisi di sovrapproduzione in Europa Occidentale che il capitalismo ha potuto estendere il suo dominio a tutto il pianeta.
Durante tutto il XX secolo, il rallentamento dei flussi migratori diventerà un segno sempre più evidente dello sprofondamento del capitalismo nel suo periodo di decadenza segnata, quest’ultima, dallo scoppio della prima guerra mondiale. Con la prima carneficina imperialista del 1914-18, le migrazioni massicce di proletari che avevano accompagnato e permesso l'ascesa del capitalismo, cominciano a declinare.
Questo declino non è l’espressione della capacità del capitalismo di offrire una stabilità ai proletari, ma è, al contrario, l’espressione di un rallentamento crescente dello sviluppo delle forze produttive. Durante gli anni antecedenti alla guerra e durante lo stesso conflitto mondiale, i sacrifici imposti ai proletari furono sufficienti a far funzionare l’economia di guerra di ogni Stato belligerante. Dopo la guerra, è grazie allo sfruttamento feroce di un proletariato esangue e battuto dalla sconfitta della prima ondata rivoluzionaria del 1917-23 che la borghesia dei paesi dell’Europa occidentale, in particolarmente quella della Germania, ha potuto ricostruire la sua economia nazionale senza fare ricorso massicciamente alla mano d’opera immigrata.
E quando negli anni 30, la crisi di sovrapproduzione generalizzata esplode brutalmente in tutti i paesi industrializzati, dall'Europa agli USA, quando si profila una nuova ed inevitabile guerra mondiale, è ancora lo sviluppo della produzione di armi che permetterà al capitalismo di soffocare l’esplosione di una disoccupazione di massa in tutti i paesi.
Con il periodo di ricostruzione del secondo dopoguerra, in particolare dagli anni ‘50, si assiste a una nuova ondata migratoria, essenzialmente nei paesi dell’Europa occidentale, accentuata anche dalla decolonizzazione. La Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Svizzera, i paesi del Benelux spalancano le loro porte agli operai degli Stati più sottosviluppati. Spagnoli, portoghesi, turchi, iugoslavi, magrebini costituiranno per questi paesi una mano d'opera a buon mercato per i bisogni della ricostruzione, permettendo al tempo di compensare l’emorragia brutale che la seconda macelleria mondiale aveva provocato nelle fila del proletariato dei paesi belligeranti. Così milioni gli operai immigrati saranno chiamati dalle grandi democrazie dell’Europa occidentale per farsi sfruttarli massicciamente fino all’eccesso, sottomettendosi ai lavori più faticosi e con salari da miseria.
Quest’ondata migratoria che torna, negli anni ‘50, nel cuore del capitalismo, non è per niente comparabile a quella che aveva interessato gli USA un secolo prima, in un’epoca in cui il capitalismo era ancora un sistema in crescita, capace di migliorare in modo duraturo le condizioni di esistenza del proletariato. Così, mentre nel XIX secolo, gli operai immigrati lasciavano la loro terra di origine con le loro famiglie nella speranza di poter trovare, grazie all’espansione capitalista nei nuovi mondi, un asilo e una certa stabilità, l’apertura delle frontiere dell’Europa occidentale ai lavoratori stranieri dopo la seconda guerra mondiale, non è stato mai altro che un mezzo di sopravvivenza transitoria per milioni di lavoratori dei paesi sottosviluppati.
La maggior parte di loro (e soprattutto gli operai magrebini o asiatici che si sono esiliati in Francia e in Gran Bretagna dopo la decolonizzazione) sono stati costretti a lasciare la loro famiglia per trovare un lavoro miserabile e precario in questi paesi “d’accoglienza”. Senza alcuna prospettiva per l’avvenire e al solo scopo di nutrire le loro donne ed i loro bambini rimasti “al paese”, essi sono stati costretti ad accettare le peggiori condizioni di lavoro e di esistenza. Senza alloggio, ammucchiati come bestiame in bidonville insalubri o dati in pasto a rapaci affittacamere, ai controlli polizieschi ed alle spedizioni punitive razziste che hanno accompagnato la guerra dell'Algeria, questa mano d'opera a buon mercato che il capitalismo occidentale ha importato dai paesi sottosviluppati per i bisogni della sua ricostruzione del dopoguerra ci riporta senza alcun dubbio alla spaventosa barbarie dell'accumulazione primitiva.
Infatti, è proprio la miseria degli operai immigrati che riassume la miseria del proletariato in quanto classe che non possiede nient’altro che la sua forza lavoro. È nella condizione disumana dell’operaio immigrato che questa forza lavoro appare chiaramente per ciò che è: una semplice merce che i negrieri borghesi hanno sempre acquistato al più basso prezzo per fare fruttare il loro capitale.
Una volta terminata la ricostruzione del secondo dopoguerra alla fine degli anni 60, i “paesi dell’accoglienza” dell'Europa occidentale segnalano “il completo” e cominciano ovunque a chiudere le loro frontiere. Dal 1963, delle misure restrittive sono adottate in Svizzera, poi in Gran Bretagna, Germania, Francia, paesi che, con il riemergere della crisi economica mondiale e della disoccupazione, decidono di bloccare totalmente l'immigrazione all'inizio degli anni 70. Ma queste misure non si fermeranno lì.
Più il capitalismo affonda nella crisi, più il proletariato nel suo insieme va a farne le spese. Nello stesso momento in cui, con le prime ondate di licenziamenti, il capitalismo va a gettare sul lastrico decine di migliaia di operai, i proletari immigrati saranno espulsi, cacciati fuori dalle frontiere dell'Europa occidentale. Davanti all'inefficacia dei "metodi dolci" di "aiuti al ritorno", è sotto il pretesto di caccia ai clandestini che ora migliaia dei lavoratori immigrati sono rinviati a forza presso i loro paesi d'origine anche con aerei o semplicemente repressi manu militari al di là delle frontiere nazionali.
Oggi che non sono loro più indispensabili, è in nome del "diritto alla terra" che tutti i governi "democratici", di destra come sinistra, li rinviano a crepare "a casa loro" dopo averli utilizzati come bestie da soma per più di due decenni. Ed è ancora con un cinismo senza pari che questa classe dominante correda le sue infami pratiche di un’immonda propaganda anti-immigrati, al solo scopo di dividere la classe operaia. Ed è così che, nel 1984, il rapporto Dalle accusava l'immigrazione di avere rallentato il ritmo del progresso tecnico nella costruzione automobile. In altre parole, i lavoratori immigrati non si sarebbero accontentati solamente di venire a mangiare il "pane dei francesi", di prendere i loro impieghi, ma sarebbero anche responsabili della perdita di competitività del capitale nazionale, dunque dell'aggravamento della crisi e della disoccupazione!
In realtà, le campagne contro l'immigrazione che si scatenano oggi non mirano solo a dividere la classe operaia tra proletari indigeni e immigrati. Si tratta invece di un attacco diretto contro la coscienza della classe proletaria. Attraverso la sua nauseante propaganda, la borghesia cerca soprattutto di ricoprire di un velo ideologico ciò che la crescente miseria del proletariato pone sempre più apertamente a nudo: ovvero il fallimento storico, irrimediabile del modo di produzione capitalistico. Ciò che la classe dominante cerca di nascondere oggi è la sua incapacità di offrire una qualunque prospettiva all’insieme della classe operaia. L’esclusione dei lavoratori immigrati che il capitalismo condanna a morire di fame “altrove” è già il destino che questo sistema moribondo riserva a milioni di proletari autoctoni disoccupati abbandonati definitivamente alla disoccupazione. Nessuna legge “anti-immigrati” potrà mai risolvere la crisi insormontabile che sta scuotendo questo sistema in agonia. I licenziamenti di massa continueranno inesorabilmente a colpire i lavoratori, qualunque sia la loro origine. Il “diritto alla terra”, di cui ci riempiono le orecchie oggi, non è altro che il diritto dei lavoratori a morire di fame e di freddo “a casa loro”, come già testimoniato dalla massa crescente di “senza tetto” che vagano nelle grandi città. Non è l’immigrazione che è responsabili della crisi e la disoccupazione. E’ viceversa la crisi e la disoccupazione risultanti dal crollo irreversibile dell’economia mondiale che, cercando di livellare verso il basso le condizioni di esistenza del proletariato, trasformano sempre più la classe sfruttata in una classe di esclusi, di disoccupati, di senza tetto, di immigrati.
Estendendo il suo dominio a tutto il pianeta, il capitalismo ha creato una classe operaia mondiale. Finché ne ha avuto bisogno, ha ampiamente fatto ricorso alla forza lavoro degli immigrati. Oggi, il fatto che li cacci via brutalmente dalle sue frontiere, che trasformi il pianeta in una “terra di nessuno” per delle masse crescenti di lavoratori, è un'indicazione del fallimento totale di questo sistema.
Se la minaccia di “invasione” delle masse d’immigrati in fuga dallo scatenarsi del caos nei paesi dell’Est, per precipitarsi alle frontiere dell’Europa occidentale, è un incubo per la borghesia dei paesi più industrializzati, è proprio perché il capitalismo mondiale è ormai un sistema decadente. Le convulsioni che accompagnano la sua agonia possono che tradursi in un tuffo nella disoccupazione, la povertà e la fame per milioni di proletari che, da nessuna parte, troveranno una terra che li accolga per dare loro i mezzi per sopravvivere.
Così, mentre per il passato, l’immigrazione è un fenomeno perfettamente controllato da un capitalismo in piena prosperità, oggi, il panico che provoca l’afflusso di enormi ondate d’immigrati che sfuggono al suo controllo all’interno della classe dominante è solo una delle manifestazioni del decadimento di questo sistema, dell’incapacità della borghesia decadente di governare.
Se, con l'entrata del capitalismo nella sua fase finale, quella della decomposizione, l’immigrazione appare come un cancrena per la classe dominante, è proprio perché è il capitalismo stesso che è diventato un flagello per tutta l’umanità.
Di fronte alla miseria e alla barbarie di questo mondo in piena putrefazione, c’è una sola prospettiva per la classe operaia: rigettare fermamente la logica della competizione e del “ciascuno per sé” dei propri sfruttatori. Qualunque sia la sua origine, la sua lingua, il colore della pelle, il proletariato non ha alcun interesse in comune con il capitale nazionale. Non potrà difendere i suoi interessi se non sviluppando dappertutto la sua solidarietà di classe internazionale, rifiutando di lasciarsi dividere tra immigrati e lavoratori “autoctoni”. Questa solidarietà va affermata rifiutando ovunque di aderire alle campagne borghesi, che siano xenofoba o anti-razziste, sviluppando massicciamente le lotte sul suo terreno di classe, contro tutti gli attacchi che subisce ogni giorno.
Solo l'affermazione dei suoi interessi comuni, nella lotta, permetterà al proletariato di raccogliere tutte le sue forze, di affermarsi come classe mondiale solidare e unita, per abbattere il mostro del sistema capitalista prima che questo distrugga tutto il pianeta.
Avril, 1 Novembre 1991
Tradotto da Révolution Internationale, organo della CCI in Francia.
[1] Eslège agg. [dal lat. exlex -egis, comp. di ex- e lex legis «legge»] (pl. -i; talora usato come invar.). – Fuori legge, che non è sottoposto o non si assoggetta a nessuna legge sociale: popolo, società e.; sono individui eslegi; vissero lungo tempo nomadi ed eslegi. Per estens. e con sign. attenuato, di persona o comportamento che è fuori da una norma, da una consuetudine, da una tradizione. Con l’uno e con l’altro sign., anche come s. m. e f.: è un e., sono degli eslegi (o degli eslege), (https://www.treccani.it/vocabolario/eslege/ [5]).
[2] Marx, Il Capitale, Libro primo, Cap. XXIV, La cosiddetta accumulazione originaria, Editori Riuniti, pagg. 192-193.
[3] Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, “L’immigrazione irlandese”, Editori Riuniti, pag. 136.
[4] Taylorismo: organizzazione scientifica del lavoro, ideata dall'ingegnere americano F.W. Taylor (1856-1915), basata sulla razionalizzazione del ciclo produttivo secondo criteri di ottimalità economica, raggiunta attraverso la scomposizione e parcellizzazione dei processi di lavorazione nei singoli movimenti costitutivi, cui sono assegnati tempi standard di esecuzione. (https://www.treccani.it/enciclopedia/taylorismo/ [6]).
La lista dei crimini contro l’umanità dell’ultimo secolo porta spesso il nome di una città: Guernica, Coventry, Dresda, Hiroshima, Sarajevo. Oggi si è aggiunta alla lista la storica città di Aleppo in Siria, una delle più antiche città del mondo.
Nel 1915, la rivoluzionaria Rosa Luxemburg, sfidando l’onda del nazionalismo che aveva attraversato la Germania allo scoppio della guerra, riconobbe che quel conflitto Europeo aveva aperto una nuova epoca nella storia del capitalismo, un’epoca in cui la spietata competizione sviluppatasi nel sistema stava ora ponendo l’umanità di fronte alla scelta tra socialismo e barbarie. Quella guerra, scriveva Luxemburg, col suo massacro di esseri umani su scala industriale, era una definizione precisa di cosa significasse “barbarie”.
Ma la Prima Guerra Mondiale era solo l’inizio e la barbarie del capitalismo raggiunse presto nuovi livelli. La guerra era finita con la resistenza della classe dei lavoratori in Russia, Germania e altrove, con gli ammutinamenti, gli scioperi e le insurrezioni che, per un breve periodo, minacciarono l’esistenza stessa del sistema capitalistico mondiale. Ma questi movimenti erano isolati e furono schiacciati; e con la sconfitta della classe dei lavoratori, il solo vero ostacolo alla tendenza del capitalismo alla guerra, l’orrore del conflitto imperialista assunse una nuova qualità.
La prima guerra imperialista, al pari delle guerre del XIX secolo, fu combattuta ancora soprattutto sui campi di battaglia. La dimensione del massacro, proporzionata al vertiginoso sviluppo della tecnologia nei decenni precedenti alla guerra, fu uno shock persino per i politici e i generali che avevano scommesso su un conflitto acuto ma breve: “non oltre Natale”. Ma nel conflitto successivo, le vittime principali della guerra non sarebbero più state i soldati in uniforme, bensì la popolazione civile. I bombardamenti degli aerei tedeschi e italiani su Guernica in Spagna, evento immortalato dalle figure straziate di donne e bambini di Picasso, diedero il là. All’inizio il prendere deliberatamente di mira i civili dal cielo fu un nuovo shock, qualcosa di mai visto prima, e che sicuramente solo i regimi fascisti di Hitler e Mussolini potevano contemplare. Ma la guerra in Spagna fu un test per una seconda guerra mondiale che triplicò gli strumenti di morte della Prima e durante la quale la stragrande maggioranza delle vittime sarebbero state civili. Entrambe le parti usarono la tattica del bombardamento a tappeto per radere al suolo città, distruggere infrastrutture, demoralizzare la popolazione, e – poiché la borghesia temeva ancora la possibilità di una rivolta della classe dei lavoratori contro la guerra – schiacciare il pericolo proletario. Via via queste tattiche furono non più denunciate come crimini bensì difese come il miglior mezzo per chiudere il conflitto e prevenire un ulteriore massacro - soprattutto entro il campo “democratico”. L’incenerimento di Hiroshima e Nagasaki con la bomba atomica appena inventata fu giustificato esattamente in questi termini.
Quando oggi i leader del mondo “democratico” condannano il regime di Assad in Siria e i suoi protettori russi per il loro implacabile, sistematico massacro della popolazione civile di Aleppo e di altre città, non dobbiamo dimenticare che questi stanno portando avanti quella che oramai è una tradizione consolidata della guerra capitalistica. La distruzione deliberata di ospedali e altre infrastrutture chiave come le forniture d’acqua, il blocco e persino il bombardamento dei convogli di aiuti: questa è la moderna guerra d’assedio, tattiche militari apprese non solo dalle generazioni precedenti dei “dittatori”, ma anche dai democratici militaristi come Harris il Bombardiere e Winston Churchill.
Il che non significa dire che non c’è nulla di eccezionale in ciò che sta succedendo ad Aleppo. La “guerra civile” in Siria iniziò nel 2011 come parte della “Primavera Araba” – con una rivolta di una popolazione esasperata dalla brutalità del regime di Assad. Ma Assad aveva appreso la lezione dalla caduta dei suoi colleghi dittatori in Egitto e Tunisia, e rispose col fuoco alle manifestazioni. La determinazione del regime di sopravvivere e perpetuare i suoi privilegi si è rivelata illimitata. Assad è pronto a devastare intere città, uccidere o espellere milioni dei suoi stessi cittadini pur di rimanere al potere. C’è qui un elemento di vendetta del tiranno contro coloro che osano rifiutare il suo ruolo, una caduta dentro una spirale di distruzione che lascerà i governanti con poco o nulla da governare. In tal senso il freddo calcolo razionale dietro i bombardamenti terroristici delle città “ribelli” della Siria è diventato un nuovo simbolo della crescente irrazionalità della guerra capitalistica.
Ma la follia di questa guerra non si limita alla Siria. Le successive sparatorie di massa sui dimostranti disarmati, le spaccature nell’esercito siriano, diedero origine a un’opposizione borghese armata, e questo trasformò rapidamente la rivolta iniziale in un conflitto militare tra campi capitalistici; a sua volta, ciò ha dato l’opportunità a un gran numero di poteri imperialisti locali e globali di intervenire per le proprie squallide ragioni. Le divisioni etniche e religiose che aggravavano il conflitto in Siria furono sfruttate dai poteri regionali come loro programma politico. L’Iran, che pretende di essere il leader del mondo sciita, sostiene il regime alawita di Assad e l’intervento diretto delle milizie di Hezbollah dal Libano. Gli Stati sunniti come l’Arabia Saudita e il Qatar hanno armato numerosi gruppi islamici, compreso lo stesso Stato Islamico, che mirano a soppiantare i ribelli “moderati”. La Turchia, spesso col pretesto di combattere contro lo SI, ha usato la guerra per aumentare i propri attacchi sulle forze curde che hanno ottenuto considerevoli guadagni nel nord della Siria.
Ma in queste tre, quattro, persino cinque parti in conflitto, anche le maggiori potenze mondiali stanno giocando la loro parte. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno pubblicamente richiesto ad Assad di ritirarsi e hanno sostenuto indirettamente l’opposizione armata, sia i “moderati” sia, attraverso l’Arabia Saudita e il Qatar, gli Islamisti. Quando lo SI, come Al Qaeda nel precedente decennio, ha cominciato a mordere la mano che lo nutre e si è posto come un potere nuovo e incontrollato in Siria e in Iraq, diversi politici occidentali hanno rivisto la loro posizione, argomentando che Assad è in effetti un “male minore” comparato allo SI All’inizio del conflitto, Obama minacciò il regime di Assad di un intervento militare, dichiarando che l’uso di armi chimiche contro i civili era una linea che non poteva essere oltrepassata. Ma questa minaccia si è dimostrata vuota e sostanzialmente il dibattito a Washington e a Westminster è stato su come intervenire contro l’ISIS e quindi incentivando indirettamente Assad.
L’indecisa risposta degli Stati Uniti alla situazione in Siria è il prodotto di un lungo processo di declino della sua egemonia mondiale, sintetizzato soprattutto dai suoi interventi disastrosi in Afghanistan e Iraq sulla scia degli attacchi terroristici del settembre 2001 a New York e Washington.
La “Guerra al Terrorismo” scatenata dall’amministrazione Bush è servita solo a fomentare il caos in Medio Oriente e ha reso il terrorismo islamico una forza persino più grande di quella che era prima che le Torri Gemelle cadessero. La guerra in Iraq si è rivelata particolarmente impopolare negli Stati Uniti e persino il guerrafondaio Trump ora annuncia che è stata un disastro. Gli USA sono quindi estremamente riluttanti a lasciarsi trascinare in un nuovo pantano in Medio Oriente.
L’horror vacui dell’imperialismo, e le esitazioni degli Stati Uniti forniscono alla risorgente Russia la possibilità di riaffermarsi in una regione dalla quale era stata quasi del tutto espulsa alla fine della Guerra Fredda. La Siria è l’ultima postazione in Medio Oriente in cui la Russia conserva le sue basi militari, e il suo sostegno al regime di Assad è stato costante. Ma dopo essersi imbarcata – attraverso la guerra in Georgia e Ucraina – in una politica di restaurazione del suo ex-impero nell’area della precedente Unione Sovietica, la Russia di Putin si sta ora giocando il suo crescente status di potenza mondiale con un intervento diretto nel conflitto siriano. Il pretesto iniziale era il bisogno di respingere l’IS che stava guadagnando terreno in Iraq e Siria, minacciando anche l’ultimo sbocco russo sul Mediterraneo, la base navale di Tartus. Finché era posto come una risposta all’IS, l’intervento russo è stato silenziosamente sostenuto dagli Stati Uniti. Con le successive atrocità dell’IS a Parigi, anche la Francia ha condotto alcune operazioni congiunte con le forze russe in Siria. Ma l’imperialismo russo ha mostrato scarso interesse nell’attaccare le basi ISIS e tutto l’interesse nel puntellare un regime di Assad che stava mostrando seri segnali di cedimento. Dalla semplice strategia di tacciare l’intera opposizione ad Assad come “terroristi”, la Russia è diventata la maggior forza nell’assalto di Assad alle roccaforti ribelli, cambiando effettivamente il corso della guerra in favore di Assad. La risposta dell’imperialismo russo al conflitto in Siria è semplice, interamente in linea con i metodi di Assad, e già applicata senza pietà a Groznyj tra il 1990 e il 2000 in risposta al movimento nazionalista ceceno: ridurre la città a macerie e il problema della ribellione è risolto.
L’imperialismo russo non nasconde le sue ambizioni in Medio Oriente. “Durante il fine settimana, in occasione dell’anniversario dell’intervento russo in Siria, i media di stato erano pieni di dichiarazioni in grassetto del tipo ‘La Russia ha dimostrato che oramai è una superpotenza’; ‘La Russia è diventata il maggior protagonista in questa regione’; ‘Gli Stati Uniti, dall’altro lato, hanno perduto il loro status di prim’attore’”[1]
L’assedio di Aleppo, salito a nuovi livelli in seguito al rapido fallimento dell’ultimo cessate il fuoco negoziato dagli Stati Uniti, ha acutizzato visibilmente le tensioni tra Russia e USA. Reagendo all’accusa di stare compiendo crimini di guerra in Siria – il che è indubitabilmente vero – la Russia si è ritirata dai negoziati di pace sulla Siria e da un processo mirato alla riduzione delle riserve di plutonio statunitensi e russe, con Putin che pone condizioni per una ripresa delle trattative di ben più vasta portata, inclusa la riduzione delle sanzioni contro la Russia e una sostanziale riduzione delle truppe NATO nell’Est Europa.
Posti dinanzi alla politica sempre più brutale del regime di Putin in patria e all’estero, alla sua retrograda ideologia nazionalista e alla sua grossolana e menzognera propaganda, i poteri “democratici” occidentali non hanno alcuna difficoltà ad addossarsi una superiorità morale. Ma abbiamo già visto come l’uso da parte della Russia di bombardamenti terroristici ha un lungo pedigree in Occidente. E l’ipocrisia degli stati democratici si applica allo stesso modo ai loro recenti e attuali comportamenti. La condanna dell’America alla Russia per la distruzione di Aleppo e altre città, non può far dimenticare i bombardamenti di Baghdad nel 2003 o l’assedio di Fallujah nel 2004, che pure causarono migliaia di vittime tra i civili iracheni, sebbene le bombe e i missili statunitensi sono apparentemente più intelligenti dei loro equivalenti russi e quindi più focalizzati su obiettivi puramente militari. Né dovrebbero oscurare ciò che la Gran Bretagna ha cominciato a fare in sordina in Yemen – rifornendo di armi i Sauditi nel loro intervento in una sanguinaria “guerra civile”. Una recente inchiesta del The Guardian ha rivelato che oltre un milione di bambini in Yemen soffrono la fame proprio a causa dei blocchi e dei bombardamenti sauditi dell’area controllata dai ribelli Houthi[2].
Ma l’ipocrisia occidentale raggiunge il suo apice quando si passa ai milioni di siriani che sono stati costretti a scappare per salvarsi e che ora soffrono una grave malnutrizione nei campi per rifugiati mal equipaggiati della Turchia, della Giordania o del Libano; o, se provano a raggiungere il paradiso dell’Europa occidentale, finiscono nelle mani di spietati trafficanti di uomini che li costringono a un drammatico viaggio attraverso il Mediterraneo in precari barconi. L’Unione Europea si è mostrata incapace di avere a che fare con ciò che Cameron una volta definì uno “sciame” di rifugiati dalla Siria e dagli altri conflitti in Medio Oriente e Africa. Mentre alcuni governi, come quello tedesco, brandiscono la loro politica dell’“accoglienza” per quelli di cui hanno bisogno di sfruttare al forza lavoro, i muri e i fili spinati hanno preso piede in tutta Europa. Sempre più i governi e i partiti europei si stanno adattando o stanno sposando apertamente la politica delle esclusioni e del capro espiatorio propugnata dalle correnti populiste. Siamo testimoni di sinistri echi del massacro degli ebrei negli anni ’30 e ’40, quando le democrazie ostentavano sdegno per gli omicidi e le persecuzioni naziste, ma facevano di tutto pur di chiudere i loro confini alle vittime, accettando solo un numero simbolico di rifugiati ebrei[3].
La doppiezza e l’ipocrisia sulla Siria non si limita ai partiti governativi. La maggioranza dei partiti della sinistra che hanno una lunga storia di sostegno alla Russia, all’Iran, agli Hezbollah e al regime Baathista in Siria, sostenendo che tutti questi, anche con tutti i loro errori, stanno “combattendo l’imperialismo”, intendendo l’imperialismo degli USA, di Israele e altri stati occidentali. Ad esempio, la coalizione “Stop the War” in Gran Bretagna (in cui Jeremy Corbyn ha rivestito un ruolo guida per molti anni) organizzerà una manifestazione di massa contro le incursioni militari israeliane in Libano e a Gaza con slogan del tipo “Siamo tutti Hezbollah”. Non vedremo mai organizzare una manifestazione simile contro le azioni di Assad e dei russi in Siria, che non solo sono lo specchio del militarismo israeliano, ma lo hanno anche superato di molto nel livello di morte e distruzione.
Altre organizzazioni di attivisti optano per il sostegno ad una azione militare degli USA e dell’Occidente. Il gruppo “Avaaz”, specializzato in campagne e petizioni di massa online, e che si oppose all’invasione statunitense dell’Iraq, afferma ora che l’unica via per proteggere i bambini di Aleppo è chiedere a Obama, Erdogan, Holland, e May di rafforzare la no-fly zone nel nord della Siria[4].
In entrambi i casi ci chiedono di sostenere uno o l’altro schieramento di quello che è diventato un conflitto imperialistico globale.
Per i rivoluzionari è fondamentale difendere il principio dell’internazionalismo contro ogni caso di carneficina imperialista. Il che significa mantenere l’indipendenza politica da tutte le forze statali e proto-statali, e sostenere la lotta degli sfruttati in tutti i paesi contro le loro borghesie. Questo principio non dipende da se o meno gli sfruttati sono impegnati in una lotta aperta. È un’indicazione per il futuro che non deve mai essere dimenticata. Nel 1914, gli internazionalisti che si opponevano alla guerra erano una ristretta minoranza, ma il loro mantenersi ostinatamente entro le posizioni di classe mentre così tanti ex-compagni si stavano unendo agli sforzi bellici delle proprie borghesie, fu assolutamente decisivo per l’emergere della lotta proletaria di massa contro la guerra due o tre anni dopo.
Non c’è dubbio che in Siria il proletariato sia assente dallo scenario. Questo è un riflesso della debolezza politica e numerica della classe dei lavoratori siriani, che è stata incapace di sollevarsi contro il regime di Assad e le sue variegate opposizioni borghesi. Ma possiamo dire che il destino della Siria e delle “Primavere arabe” riassume nel complesso la situazione storica che sta affrontando la classe dei lavoratori nel mondo. Il capitalismo è in uno stato avanzato di decadenza e non ha futuro da offrire all’umanità se non repressione e guerra. Questa è stata la risposta delle classi dominanti alle varie rivolte che hanno attraversato il Nord Africa e il Medio Oriente nel 2011. Ma questo è stato possibile unicamente perché la classe dei lavoratori è stata incapace di assumere la guida di queste rivolte, incapace di proporre un obiettivo e una prospettiva diversa dall’illusione democratica che dominava i movimenti sociali. E questo è stato un fallimento non solo della classe operaia del Nord Africa e del Medio Oriente, ma della classe operaia dei paesi centrali del capitalismo, che è più profondamente radicata in tradizioni rivoluzionarie e ha una lunga esperienza nel confrontato con l’ostacolo della democrazia borghese.
È in questi battaglioni della classe che sono nella posizione migliore per far rivivere la prospettiva di una rivoluzione proletaria, che risiede l’unica speranza per un futuro dell’umanità. Non si tratta solo di sperare per il meglio. La Primavera araba servì anche come fonte di ispirazione per le lotte nei paesi centrali, soprattutto per la rivolta degli Indignados in Spagna, che sopravanzò tutti i movimenti del 2011 nel porre domande serie circa il futuro del mondo capitalistico e nello sviluppo dei mezzi per combatterlo. Ma questa fu solo uno scorcio del possibile, una piccola indicazione del fatto che, nonostante lo stadio avanzato della barbarie del capitalismo, l’alternativa proletaria è ancora viva.
Amos, 8-9-2016
[1] https://www.theguardian.com/world/2016/oct/03/russia-media-coverage-syria-war-selective-defensive-kremlin [7]
[2] https://www.theguardian.com/world/2016/oct/04/yemen-famine-feared-as-starving-children-fight-for-lives-in-hospital [8].
[3] Ciò non significa denigrare gli sforzi sinceri di migliaia di volontari in Europa che hanno provato ad offrire aiuto ai rifugiati, o il lavoro veramente eroico di dottori, infermieri e soccorritori per salvare vite nelle situazioni più terribili ad Aleppo e in altre città assediate. Molto spesso questi sforzi cominciano come iniziative spontanee che i governi e altre forze ufficiali poi provano a mettere sotto il proprio controllo.
[4]https://secure.avaaz.org/campaign/en/protect_syrian_civilians_loc/?slideshow [9].
Giugno e luglio 2016 rimarranno nella nostra memoria come mesi sanguinosi, per aver fatto precipitare l’Occidente nella paura. Il 12 giugno, 49 persone sono state uccise in un locale gay a Orlando, in Florida. Il giorno successivo, il 13, un poliziotto e la sua ragazza sono stati assassinati nei pressi di Parigi da un uomo che aveva promesso fedeltà allo Stato Islamico (ISIS, Daesh). Il 14 luglio un uomo si lancia alla guida di un camion in mezzo alla folla a Nizza, uccidendo 84 persone, tra cui diversi bambini e causando più di 330 feriti. L'attentato viene rivendicato dall'ISIS. Il 18 luglio, in Germania, un 17enne ferisce cinque persone, due gravemente, in un treno locale attaccando con un'ascia e un coltello. L'ISIS rivendica l'attacco. Il 22 luglio esplode una sparatoria in un centro commerciale di Monaco di Baviera: 10 persone muoiono. Anche in questo caso il tiratore è molto giovane (18 anni). Il 24 luglio un altro attacco a colpi di machete in Germania: a 21 anni uccide una donna in un ristorante Reutlingen e corre via, ferendo altre persone nel suo percorso. Il 24 luglio un rifugiato siriano di 27 anni si fa esplodere nel centro di Ansbach, nei pressi di un festival di musica all'aperto. Il 26 luglio, vicino a Rouen, un prete viene ucciso nel corso di una presa di ostaggi realizzata in una chiesa in nome del Daesh.
Nel centro delle principali nazioni capitaliste la barbarie assume ormai un’ampiezza incredibile. In un mondo deliquescente, in cui parti sempre più grandi di esso precipitano nei traffici, nella guerra e nel terrorismo[1], l'Europa si presentava come un'oasi di pace dal 1945. Si trattava così di proteggere al meglio la fortezza, a colpi di muri e filo spinato, dalla barbarie “straniera”, cioè in realtà, dagli effetti di scontri sanguinosi in cui eserciti e bombe delle grandi potenze democratiche sono particolarmente attivi. Ma ora l'orrore ritorna come un boomerang per colpire il cuore storico del capitalismo. Non solo i conflitti globali oltrepassano il muro di Schengen, ma la violenza accumulata e interiorizzata da una parte della popolazione “locale” ora esplode. Così quest’estate, in particolare in Germania, simbolo di stabilità e prosperità, l'atmosfera è diventata soffocante. La descrizione del politologo tedesco Joachim Krause è edificante[2]: “Venerdì [durante il massacro di Monaco] si è potuto osservare come ci sia un clima di paura. Quando le persone hanno saputo che era avvenuto un attacco in un centro commerciale nel nord-ovest di Monaco, si sono verificate scene di panico nelle piazze del centro città, cioè a diversi chilometri dalla la scena del crimine. A Karlsplatz, la gente è fuggita in massa a causa di una presunta sparatoria. Nella birreria Hofbräuhaus, le persone sono fuggite attraverso le finestre quando è corsa la voce che un terrorista islamista era entrato nello stabile”.
Questo clima di panico è chiaramente il risultato della politica deliberata dello stato maggiore di Daesh, assetato di vendetta.[3] L'ISIS mira a destabilizzare i suoi nemici imperialisti terrorizzando le popolazioni. Ma l'elenco degli atti violenti di giugno e luglio rivela un problema ancora più ampio e profondo. Nessuno di questi omicidi è stato commesso da un soldato addestrato da Daesh, anzi, ben lontano da lì. Ragazzi appena usciti dall’infanzia che si sentivano esclusi. Un padre di famiglia violento che stava vivendo molto male il divorzio. Un rifugiato il cui governo ha rifiutato la regolarizzazione. Le loro traiettorie e origini sono diverse: alcuni sono nati e cresciuti in Europa, altri in Medio Oriente o in Oriente. Quasi tutti si sono “radicalizzati” dopo un po’ e senza un legame diretto con l’ISIS, a parte qualche video su internet; addirittura in qualche caso i crimini non hanno avuto alcun legame con lo jihadismo, come la fucilata a Monaco di Baviera, effettuata da un fanatico di estrema destra affascinato da Hitler o l'attacco con un machete al ristorante di Reutlingen, rivelatosi alla fine come delitto passionale. L’odiosa propaganda Jihadista pertanto non spiega tutto; al contrario, il successo della sua influenza è essa stessa il prodotto di una situazione nauseabonda molto più grave e storica. Quale forza distruttiva e mortale spinge questi individui dalle motivazioni così diverse ad agire? E perché ora? Ci spiega tutto l’imbarbarimento della società su scala globale?
Questi giovani assassini non sono mostri. Sono esseri umani che commettono atti mostruosi. Sono nati da una società malata, morente a livello mondiale. Il loro odio e la loro furia omicida sono stati prima coltivati sotto il terrore costante determinato dai rapporti sociali capitalistici, poi si sono liberati sotto la pressione dello stesso sistema esploso, generando una serie di atti spregevoli. In effetti il capitalismo è intrinsecamente basato sul terrore. Lo sfruttamento è inconcepibile senza violenza, organicamente inseparabili fra loro. Come la violenza non può concepirsi al di fuori dello sfruttamento, così quest’ultimo non si può avere senza violenza. Ma il capitalismo da oltre un secolo è un sistema decadente [4]. Non potendo più offrire un vero futuro per l'umanità, mantiene la sua esistenza attraverso l'uso della violenza più sistematica e diretta sia ideologicamente che psicologicamente e fisicamente. Lo scoppio della prima guerra mondiale e la sua carneficina, nell'agosto 1914, ne sono un esempio eloquente. Così la violenza, legata allo sfruttamento, acquista nuove caratteristiche. E non è qualcosa di accidentale o secondario, ma diventa una condizione permanente a tutti i livelli della vita sociale. “Permea tutti i rapporti, penetra tutti i pori della società, sia in generale che a livello personale. A partire dallo sfruttamento e dalla necessità di sottomettere la classe operaia, la violenza s’impone in maniera massiccia in tutti i rapporti tra le diverse classi e strati della società, tra i paesi sviluppati e sottosviluppati, tra gli stessi paesi industrializzati, tra l'uomo e la donna, tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra gli individui, tra governanti e governati; si specializza, è strutturato, si concentra come corpo separato: lo Stato, con il suo esercito permanente, la sua polizia, le prigioni, le sue leggi, i suoi funzionari e torturatori, tende a elevarsi di sopra della società dominandola. Al fine di garantire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la violenza diventa la prima attività della società, per la quale essa spende una parte sempre più grande delle proprie risorse economiche e culturali. La violenza diventa cultura, come l’arte o la scienza. Una scienza applicata, non solo a livello militare, alla tecnica delle armi, ma in tutti i settori, a tutti i livelli, dall'organizzazione dei campi di concentramento, alle camere a gas, all'arte dello sterminio rapido e massiccio di intere popolazioni, alla creazione di vere e proprie università reali della tortura scientifica, psicologica, dove si qualificano una serie di laureati e di torturatori diplomati e patentati. Una società che non solo “gronda di fango e di sangue da tutti i pori”, come notava Marx, ma non può vivere o respirare per un attimo fuori da un ambiente avvelenato e cadaveri puzzolenti, morte, distruzione, uccisione, sofferenza e tortura. In una tale società la violenza, essendo giunta all'ennesima potenza, diventa terrore.”[5]
In altre parole, il capitalismo porta il terrore come la nuvola porta la tempesta[6].
Tutti questi atti di barbarie commessi nelle ultime settimane sono la negazione della vita, degli altri come della propria. Ma l'ideologia del Daesh, come quella dell’estrema destra, in nome della quale sono stati commessi questi attacchi, rappresenta una caricatura sanguinosa della mancanza di valore attribuito alla vita dall'intero capitalismo. Le guerre scatenate da tutti i maggiori Stati ne sono la prova più evidente. Come il contrasto tra la ricchezza opulenta accumulata in poche mani e la miseria che porta alla fame e alla morte milioni di persone. Come i farmaci ottenuti con la più alta conoscenza umana che non possono essere distribuiti a causa del profitto. Come quelle merci ricercate, illuminate, riscaldate o raffreddate, a seconda del bisogno, mentre milioni di persone vivono nella privazione più semplice. Nel film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, c'è questa scena mitica in cui Charlot è maltrattato da un robot impazzito programmato per lavare, vestire e dargli da mangiare, preparandolo nel modo più efficiente e rapido possibile per andare a lavorare in fabbrica. Si tratta di una critica umoristica ma feroce del mondo capitalista nel suo complesso, non solo delle sue fabbriche, perché è nella vita di tutti i giorni, in ogni aspetto della vita, che l'uomo viene trattato come un oggetto. Non viviamo più secondo i nostri bisogni fisici, psicologici e sociali. Tutto è ritmato, organizzato, progettato in base alle esigenze del capitale. Lo sfruttamento capitalista chiede sempre più all'umanità di negare se stessa per essere incorporata nella macchina. Questa automazione dell’uomo porta all'esclusione di coloro che non possono adattarsi a questo ritmo infernale e umiliante. Con le conseguenti emarginazione, umiliazione, sentimento d’inferiorità e molte altre grandi sofferenze, rafforzate dalla stigmatizzazione di questi “disadattati”, da parte dello Stato, dalla repressione delle forze di polizia o dei pretesi organismi “sociali”. In questo risiedono alcune delle più profonde radici dell’odio e dello spirito di vendetta suicida.
Il terrore e la negazione del valore della vita, questo è il terreno capitalista su cui crescono questi individui che diventano terroristi. Talvolta schiacciati materialmente, senza alcun futuro, vegetando in un ambiente senza orizzonti, muovendosi in una mediocrità quotidiana, questi individui sono nella loro disperazione facile preda di tutte le mistificazioni più sanguinose (Daesh, pogromisti, razzisti, Ku Klux Klan, bande fasciste, gangster e mercenari di ogni genere, etc.). In questa violenza, trovano “il compenso di una dignità illusoria al loro reale declino, che il capitalismo accresce di giorno in giorno. Questo è l'eroismo della codardia, il coraggio dei vigliacchi, la gloria della mediocrità sordida. È in questi ranghi che il capitalismo, dopo averli portati a privazioni estreme, recluta i propri eroi del terrore”[7].
L'attacco del 14 luglio a Nizza rivela cosa si nasconde dietro a tutti gli altri: l'odio e la sete di omicidio di individui repressi. Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, l'uomo che ha ucciso con un camion decine di persone a Nizza, è descritto dalla sua famiglia come ultra-violento, sofferente di “crisi” in cui “ha distrutto tutto”. La sua ex-moglie lo ha lasciato proprio per questa aggressività. Ma per colpire così deliberatamente per diversi minuti uomini, donne e bambini serve molto di più: una vera e propria disintegrazione psichica. In un atto del genere, tutti i divieti fondamentali della società umana vengono frantumati. Quest'uomo ha interiorizzato tutta la violenza del capitalismo subendola prima, esternandola poi in un'esplosione distruttiva. Tali assassini di massa esistono da decenni negli Stati Uniti. La strage in college e università americane sono regolarmente di attualità; ogni volta i tiratori sono giovani che si sentono esclusi ed emarginati dal sistema scolastico, stigmatizzati dai loro coetanei e insegnanti. L'ideologia Daesh non è quindi la causa principale di questi atti barbarici. E' perché il sistema aveva prodotto già prima queste persone frustrate e assetate di vendetta che essi sono attratti dalle idee di odio e irrazionali dell'ISIS e affascinati dalle armi. Ed è proprio in questa fase che l'ISIS assume un ruolo importante: permette a questi individui di legittimare la loro barbarie. Fa credere loro di poter vendicare le proprie vite fallite e resuscitare i propri morti. Consente di liberare i peggiori impulsi omicidi generati dalla società.
Questa successione di atti barbarici è ancora più traumatizzante per la popolazione, nella quale sempre più numerose sono le vittime, fra rifugiati ed ex-combattenti (dai soldati di eserciti democratici, ai mercenari al servizio di aziende private, sino a tanti giovani partiti per Daesh, Al Qaeda, Aqmil) che ritornano indietro segnati da sindrome da stress post-traumatico. Questa parte della popolazione, affetta da danni psicologici e bloccata nei peggiori incubi, subisce la violenza degli attacchi come orribile riproposizione dei propri ricordi. La spirale qui diventa un inferno: perché queste persone vittime della paura e dell'odio generano comportamenti irrazionali che a loro volta producono ulteriori sofferenze e traumi.
La proliferazione di tali attacchi, il fatto che un paese come la Germania è a sua volta interessato e che i terroristi provengono spesso dall’Europa, la dice lunga sul notevole peggioramento della situazione sociale a livello internazionale. Le ragioni sono molteplici:
● I conflitti imperialisti del post settembre 2001, dall'Afghanistan all'Iraq, hanno destabilizzato tutto il mondo, in particolare il Medio Oriente. Queste guerre hanno alimentato l'odio e la vendetta[8].
● La crisi economica globale del 2007/2008 non ha prodotto solo povertà: ha causato una grande ondata di ansia per il futuro; ha reso il mondo apparentemente ancora più incomprensibile con fallimenti bancari e crolli del mercato azionario. Ha rovinato milioni di risparmiatori che hanno perso fiducia nella moneta che, nel capitalismo, rappresenta uno dei più forti legami sociali. In breve, questa crisi economica ha reso il mondo sempre più incerto del suo futuro, causando la più grande paura degli uni con gli altri.
● Le “primavere arabe”, presentate come un’ondata rivoluzionaria nel 2010 e 2011, sono state seguite, in alcuni casi, da un considerevole aumento delle tensioni sociali, dei regimi di tortura e dall'orrore della guerra civile. L'impressione è quindi che una massiccia lotta sociale non può che portare a più caos e che il futuro non può che peggiorare per tutti.
● I gruppi terroristici sono aumentati, a causa delle guerre e tenuti in piedi dai sordidi giochi di alleanze, sostegno e utilizzazione da parte delle grandi potenze[9].
● In fuga da questa barbarie dal Mali all’Afghanistan, passando per il Sudan e persino per il sud della Turchia, milioni di persone cercano di fuggire, mese dopo mese, per sopravvivere. Diventano “rifugiati” che si vedono parcheggiati e spesso respinti. Questi arrivi si verificano contemporaneamente al peggioramento della crisi economica e all'aumento del terrorismo, accrescendo anche la xenofobia.
● E più di ogni altra cosa, mentre aumenta la decadenza del capitalismo e si decompongono i legami sociali, la classe operaia non è in grado per il momento di offrire all'umanità un’altra prospettiva. Incapace di sviluppare la propria combattività e coscienza, la propria solidarietà e fraternità internazionale, essa è la grande assente dalla scena mondiale.
Questa convergenza di fattori e probabilmente anche altri, spiega l'aggravarsi della situazione sociale globale.
La paura, l'odio e la violenza si diffondono oggi come una cancrena. E ogni nuova esplosione, ogni nuovo attacco, a sua volta, alimenta questa dinamica suicida. Lo spirito di vendetta cresce ovunque. Il razzismo, il musulmano che diventa capro espiatorio, fanno parte di questo infernale circolo vizioso. Questa è anche la strategia di Daesh: se la popolazione musulmana è perseguitata, i candidati per la jihad saranno ancora più numerosi. Il pericolo di questa putrefazione della società non è da sottovalutare: spinta fino in fondo, spingerebbe l'umanità alla distruzione.
La borghesia non ha alcuna reale soluzione da offrire per questa drammatica situazione. È vero che le sue frazioni più intelligenti assumono una posizione di tolleranza ed accoglienza, per limitare la diffusione dell’odio ed evitare che la situazione sfugga di mano, come è il caso della Germania, con Angela Merkel in testa. Più numerose sono le frazioni che strumentalizzano paure e odi, giocando all'apprendista stregone, come fa la destra e gran parte della sinistra in Francia. In particolare, le risposte più comuni sono quelle di condurre una guerra feroce e mortale nei confronti del Medio Oriente, di alzare filo spinato sempre più spesso e alto in tutta l’Europa ed il Nord America e militarizzando (pardon: “rendere sicura”) tutta la società, monitorando l'intera popolazione in modo permanente e armando sempre più la polizia. In altre parole, più terrore e odio ancora, ovunque, in ogni momento. Ma fondamentalmente la borghesia non ha nulla da offrire perché il suo obiettivo è di mantenere il proprio sistema, il capitalismo, mentre è esso stesso, nel suo complesso, ad essere obsoleto, decadente e causa di tutti questi mali. Il suo mondo è diviso in nazioni in conflitto fra loro, in classi sfruttate e sfruttatrici, l'operosità si mette in moto solo nell'interesse dell'economia e del profitto e non per la soddisfazione dei bisogni umani, tutti ostacoli che creano oggi decadenza e putrefazione della società. E questo nessun governo al mondo, democratico o dittatoriale, di destra o sinistra, potrà fermare. Piuttosto tutti difenderanno questo sistema così com'è, fino a far agonizzare l'umanità con sofferenze atroci.
L'unico antidoto a questa deriva barbarica sta nello sviluppo massiccio e consapevole della lotta proletaria, che sola può offrire agli individui sfruttati una vera identità, l’identità di classe, una vera comunità, quella degli sfruttati e non quella dei “credenti”, un vera solidarietà, quella che si sviluppa nella lotta contro lo sfruttamento tra lavoratori e disoccupati di tutte le razze, le nazionalità e religioni, contro un vero e proprio nemico da combattere e sconfiggere, non il sacerdote o il Rom ebreo o cattolico o musulmano o disoccupato o rifugiato e nemmeno il banchiere, ma il sistema capitalista. Le lotte operaie che si svilupperanno in tutti i paesi, dovranno sempre più comprendere e sostenere l'unica prospettiva che può salvare l'umanità dalla barbarie: il rovesciamento del capitalismo e l'instaurazione della società comunista.
Camille, 3 agosto 2016
[1] Solo due esempi. Il 28 giugno, 47 persone vengono uccise in un triplice attentato suicida all’aeroporto Internazionale Ataturk di Istanbul. Il 23 luglio, a Kabul, in Afghanistan, un attentato-suicida di 80 morti e 231 feriti.
[2] Professore di politica internazionale presso la Christian Albrecht Università di Kiel e direttore del Policy Istituto politico della sicurezza.
[3] Gran parte del personale di questo stato maggiore è composto per esempio di ex generali del regime di Saddam Hussein messi da parte dall' Armata americana nel 2003. Vedere il nostro articolo sugli attentati di novembre 2015: “Gli attentati a Parigi: abbasso il terrorismo! abbasso la guerra! abbasso il capitalismo!”
[4] Leggere l’articolo “Che cos’è la decadenza?” sul nostro sito francese.
[5] Dal nostro articolo: “Terrore, terrorismo e violenza di classe”.
[6] Ispirato da Jaurès che di fronte alla prima guerra mondiale scriveva: “Il capitalismo porta con sé la guerra come le nuvole portano tempesta.”
[7] In “Terrore, terrorismo e violenza di classe”
[8] “Conducendo queste guerre, seminando morte e distruzione, imponendo il terrore delle bombe e alimentando l'odio in nome della “legittima difesa”, sostenendo questo o quel regime assassino, a seconda delle circostanze, proponendo nessun altro futuro che sempre più conflitti, e tutto questo solo per difendere i loro sordidi interessi imperialisti, le grandi potenze sono le principali responsabili della barbarie mondiale, tra cui quella del Daesh. In tutto questo, quando il cosiddetto “Stato islamico” ha come Santissima Trinità lo stupro, il furto e la sanguinosa repressione, quando ha distrutto ogni cultura (lo stesso odio per la cultura del regime nazista), quando vende delle donne bambine, a volte per i loro organi, non è nient’altro che una forma particolarmente caricaturale, senza artifici o cosmetici, della barbarie capitalista di cui sono capaci tutti gli Stati del mondo, tutte le nazioni, grandi o piccole.” (Da “Attentati a Parigi: abbasso il terrorismo! Abbasso la guerra! Abbasso il capitalismo!”).
[9] “L'ISIS è composto dalle fazioni più radicali sunnite e quindi nemico principale della grande nazione dello sciismo: l'Iran. Ecco perché tutti i nemici dell'Iran (Arabia Saudita, Stati Uniti, Israele, Qatar, Kuwait ...) hanno talvolta sostenuto politicamente, finanziariamente e militarmente Daesh. Anche la Turchia ha supportato lo stato islamico, utilizzandolo contro i curdi. Questa alleanza di circostanza ed eclettica dimostra che non sono le differenze religiose i reali motivi del conflitto, ma le questioni imperialiste e gli interessi nazionali capitalistici che determinano principalmente le fratture, trasformando le ferite del passato in odio moderno.” (Ibid [11]em).
L’articolo che segue, apparso su Welt Revolution, organo di stampa della CCI in Germania, rappresenta un contributo sulla questione dei rifugiati come si pone in questo paese. Alcuni aspetti dell’analisi non sono applicabili agli altri paesi europei. Ad esempio il problema demografico, affrontato nell’articolo, si presenta in modo diverso in Spagna o in Italia, dove esiste un forte tasso di disoccupazione, malgrado il basso tasso di natalità. In considerazione dell’importanza economica e politica della Germania nell’Unione Europea e nel mondo, questo articolo riveste un’importanza al di là delle frontiere nazionali.
Quando, ai primi di settembre, la cancelliera Merkel ha aperto largamente e in modo clamoroso ed improvviso le porte della Terra promessa tedesca (più o meno spalancate, poi) alle migliaia di profughi accampati in condizioni vergognose nella stazione centrale di Budapest e nei suoi paraggi, quando ha difeso con parole piene di emozione l’apertura delle frontiere per i profughi siriani di fronte alle critiche provenienti dal suo stesso campo e ha detto, nonostante le proteste sempre più aperte da parte dei comuni letteralmente sommersi, che non c'era limite massimo all’accoglienza di rifugiati politici, il mondo si è chiesto perché la Merkel, conosciuta come una che “pensa in termini di conseguenze” e che valuta tutti gli effetti prima di agire, si sia impegnata in questa “avventura”.
Perché in realtà quella che si pone alla coalizione di governo (la Grande Coalizione) è una equazione con molte incognite.
Si pone innanzitutto la questione di come fermare il flusso di rifugiati; ancora un poco e quest'anno dovrebbero arrivare in Germania circa 800 000 rifugiati; stime attendibili sostengono invece che si tratterebbe di almeno un milione e mezzo. Sembra che Merkel, cosa insolita per lei, abbia calcolato male l'effetto della politica della mano tesa sulla popolazione locale; per la prima volta, dopo tanto tempo, secondo i sondaggi presso gli elettori, ella è arretrata, facendosi superare da un socialdemocratico (il Ministro degli affari esteri, Steinmeier). E questo a favore del populismo di destra; il flusso senza fine di rifugiati, per lo più musulmani, porta acqua al mulino di Alternative für Deutschland (AFD)[1], che ha superato nei sondaggi, almeno in Turingia, la terza forza politica, la SPD. Perché il governo di coalizione guidato da Merkel e Gabriel[2] si è impegnato in un gioco così pericoloso? Si tratta di una risposta alla Merkel-bashing[3] nel contesto della crisi greca per migliorare la propria immagine o di sentimentalismo puro? Forse l'emozione della Merkel durante il suo ultimo “Meeting Municipiale” per la sorte di quella piccola bambina palestinese, minacciata di espulsione o quella straripante di Gabriel per la sorte altrettanto crudele di una famiglia siriana in un campo profughi visitato in Giordania, erano sinceri. Anche i politici borghesi, si sa, hanno una vita emotiva ... A nostro avviso la politica della porta aperta possiede, in prevalenza, motivi di gran lunga più bassamente materiali. Motivi che non sono altrettanto altruistici e disinteressati come l'impegno di molti volontari nella popolazione, senza il quale il caos nei centri di accoglienza per richiedenti asilo sarebbe ancora più grande. I suoi obiettivi hanno un'importanza che supera di gran lunga i rischi e gli effetti collaterali di una tale politica.
Esaminiamo in dettaglio questi obiettivi segretamente perseguiti dalla “politica delle frontiere aperte.”
Da anni, il “problema demografico” ossessiona i mezzi di comunicazione. Secondo l'Istituto federale di statistica, la Repubblica federale è minacciata da un invecchiamento e la popolazione nazionale dovrebbe diminuire da sette milioni per giungere a 75 milioni entro il 2050. Già dopo la riunificazione nel 1989, la popolazione di tutta la Germania è diminuita di tre milioni, soprattutto a causa della drammatica caduta del tasso di natalità in Germania orientale. Come mostrato dalla numerosa letteratura negli ultimi anni, è chiaro alla borghesia tedesca che se questo processo dovesse continuare a lungo porterebbe ad una notevole perdita di influenza e prestigio del capitalismo tedesco, sul piano economico, militare e politico. Già oggi, la mancanza di forza lavoro altamente qualificata costituisce un freno per l'economia tedesca. In circa un sesto delle professioni vi è una carenza di personale qualificato che assume un’importanza tale da minare la competitività di molte aziende, secondo le dichiarazioni dei dirigenti.
Uno studio condotto da Prognos AG (“Arbeitslandschaft 2030”) afferma: “nel 2015, manca più di un milione di laureati - più di 180.000 rispetto al numero che gli economisti avevano previsto per quell'anno, prima dell'arrivo dei rifugiati. Per quanto riguarda la forza lavoro professionalmente qualificata, il buco è stimato in 1,3 milioni. E le aziende allo stesso modo perderanno circa 550.000 lavoratori non qualificati nel 2015.”[4] In Germania orientale, la mancanza di personale qualificato genera il seguente circolo vizioso: il flusso della mano d’opera giovanile verso la Germania Ovest, ad un tasso costantemente superiore a quello degli arrivi, provoca la chiusura di piccole e medie imprese, il che a sua volta accelera gli spostamenti.
In questa situazione, il flusso di tanti rifugiati di guerra in queste ultime settimane rappresenta una vera manna per l'economia tedesca, che di conseguenza si sta mostrando ampiamente riconoscente: Telekom sta fornendo assistenza per l'alloggio, aiuti ai rifugiati e il sostegno personalizzato rispetto agli organismi ufficiali; Audi ha speso già un milione di euro in iniziative per i rifugiati; Daimler e Porsche prevedono di creare apprendistato per i giovani rifugiati, la Bayer sta sostenendo le iniziative dei suoi dipendenti a favore dei rifugiati. Va da sé che la “responsabilità sociale”, di cui si vantano le aziende, serve in realtà ai loro interessi. Si tratta semplicemente di sfruttare il potenziale rappresentato dai rifugiati. In particolare, i rifugiati siriani sono una fonte interessante di capitale umano di cui le aziende qui hanno un bisogno urgente. In primo luogo, essi sono prevalentemente giovani e potrebbero quindi contribuire a ringiovanire le piramidi nelle imprese e - in generale - abbassare l'età media della società. In secondo luogo, i profughi siriani sono chiaramente meglio addestrati di altri rifugiati, come dimostrano le indagini dell'Ufficio federale della migrazione e dei rifugiati.[5]
Più di un quarto di loro ha un più alto livello di formazione e rappresenta una fonte particolarmente redditizia di mano d'opera, le cui qualifiche di ingegneri, tecnici, medici, personale infermieristico, tra gli altri, sono qui molto richieste. Le aziende tedesche approfittano anche di questi rifugiati da due punti di vista: in primo luogo, permette loro di colmare le lacune nella forza lavoro; poi il capitale tedesco sfrutta l'effetto (individuato negli anni '70 con il termine “fuga dei cervelli”) di accoglienza di manodopera altamente qualificata del terzo mondo per risparmiare su una considerevole quantità di costi di produzione (cioè, i costi di formazione, scuola, università, etc.) a scapito del paese di origine. Il terzo vantaggio che rende interessante per l'economia tedesca i rifugiati siriani, è la loro straordinaria motivazione che affascina i leader dell'economia, come il presidente di Daimler, Dieter Zetsche.
La loro mentalità di esseri umani completamente indifesi, esposti per anni alle bombe incendiarie ed al terrore di Assad e all'orrore dello Stato Islamico, l’aver perso la loro vita precedente e l’aver vissuto la terribile esperienza della fuga verso l'Europa, ne fanno una preda riconoscente per il sistema di sfruttamento capitalistico. Fuggiti dall’inferno, sono pronti a lavorare duramente per piccoli salari, pensando che per loro tutto può solo migliorare.
E’ esattamente con la stessa mentalità che le Trümmerfrauen (“donne delle macerie”)[6], piuttosto che sottomettersi al destino e rimanere a braccia conserte, hanno eliminato e liberato a mani nude dalle macerie le città tedesche in rovina, ricoprendo un ruolo decisivo nella ricostruzione e nel “miracolo economico” tedesco del dopoguerra (Wirtschaftswunder)[7] come dimenticano, di buon grado, gli economisti borghesi. Questa energia e lo spirito di iniziativa incredibile che posseggono i rifugiati siriani rappresentano per la borghesia tedesca una promettente fonte di capitale umano, per realizzare notevoli profitti. Inoltre, come gli immigrati degli anni 1960 e 1970, rischiano a breve termine di servire come massa di manovra a disposizione del capitale per mantenere o addirittura aumentare la pressione sui salari.
Ma i rifugiati siriani formano anche una massa di manovra per l'imperialismo tedesco, come dimostrato nei giorni e nelle settimane passate, nel contesto del peggioramento della guerra civile da vari punti di vista. Così, il governo federale ha strumentalizzato il problema dei rifugiati sul piano morale e politico, criticando altri paesi, persino paesi tradizionalmente aperti all’immigrazione, tra cui gli Stati Uniti, per la loro riluttanza ad accettare i rifugiati. Nei giorni scorsi abbiamo visto chiari segni del fatto che la Germania ha dato una nuova direzione alla sua politica nei confronti della Siria. Affidando abilmente la situazione dei rifugiati ad una presunta soluzione del conflitto siriano, importanti rappresentanti della politica estera tedesca (Steinmeier e Genscher e altri) hanno sottolineato la necessità di includere la Russia, l'Iran e persino (temporaneamente) l'assassino Assad al processo di pace in Siria. Inoltre Berlino e il Cremlino sono concordi per far arretrare la guerra in Ucraina, in modo che tutte le forze si concentrino sulla gestione della situazione in Siria. Anche l’atto di forza di Putin che ha insediato forze militari supplementari nella città siriana di Latakia, non ha irritato particolarmente il governo federale. Lo stesso ministro dell'Economia Gabriel, rivendicando la fine delle sanzioni economiche contro la Russia, ha affermato che “si potrebbero mantenere in primo luogo le sanzioni a lungo termine e, in secondo luogo, pretendere (...) la collaborazione “.
Con questo cambiamento, la politica tedesca si sta muovendo, per la prima volta dalla guerra in Iraq, in un confronto aperto con gli Stati Uniti. Questi ultimi, attraverso il Dipartimento di Stato (Ministero degli Esteri) hanno, in tempi recenti, alzato la voce contro Assad e si sono dimostrati irritati dall’ultima offensiva diplomatica di Putin all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il loro atteggiamento verso lo stato islamico è d’altronde per lo meno ambiguo; il loro ruolo nel contrastare lo Stato Islamico come un movimento di massa era estremamente dubbioso e la debolezza con cui gli Stati Uniti lo hanno affrontato, pone una serie di domande circa le reali intenzioni dell’imperialismo USA nei confronti di quest’organizzazione terroristica. Il cambiamento del corso nella politica estera tedesca sembra essere in parte il risultato di interventi e pressioni da parte dell'industria tedesca. All'interno delle critiche verso le sanzioni contro la Russia si percepisce chiaramente che è l'economia tedesca che subisce il danno maggiore, mentre le grandi aziende americane come Bell o Boeing continuano a fare ottimi affari con la Russia, nonostante le sanzioni.
Mentre il volume delle transazioni commerciali dell'economia tedesca con la Russia è crollato del 30%, nello stesso periodo il commercio tra gli Stati Uniti e la Russia è aumentato del 6%. Oltre a queste ragioni economiche, per il capitalismo tedesco, contro il mantenimento del blocco economico sulla Russia entrano in gioco anche argomenti politici. Non avendo un potenziale di minaccia militare e una deterrenza paragonabile a quella degli Stati Uniti, l'imperialismo tedesco deve ricorrere ad altri mezzi per far valere la sua influenza a livello globale. Uno di questi è la sua potenza economica e industriale che la politica tedesca usa per forzare e costringere lo sviluppo delle relazioni commerciali. Un aspetto che mostra l’insieme di politica e affari con la manipolazione politica dei progetti economici, sono le visite di Stato ufficiali in paesi come Cina, India, Brasile e Russia, dove il Cancelliere (o la Cancelliera) è sempre accompagnato da un seguito di alti dirigenti di grandi aziende tedesche e anche rappresentanti della piccola e media industria di costruzione di macchine utensili. In questo senso, la politica di sanzioni priva la borghesia tedesca di più di un contratto e va contro i suoi interessi imperialisti.
La massa di profughi siriani ospitati dalla Germania dovrebbe anche essere visto come un modo per compensare la sua debolezza militare, e qui il cerchio si chiude. In questo contesto non bisogna sottovalutare l'impatto politico a lungo termine dell'impulso fortemente umano di gratitudine e di riconoscenza sulle relazioni tra i paesi. La simpatia evidente mostrata da rifugiati profondamente colpiti dal sostegno di gran parte della popolazione locale, è un aspetto che la borghesia tedesca può far prevalere. Questo debito di riconoscenza verso la Germania da parte di molti rifugiati, può ritornare utile a lungo termine per gli interessi dell'imperialismo tedesco nel Vicino e Medio Oriente; potranno così aumentare le frazioni pro-tedesche finalizzate a realizzare profitti a favore degli interessi tedeschi nei loro paesi di origine.
Quello che salta immediatamente agli occhi è il cambiamento dell’immagine del nazionalismo tedesco. Fino a poco tempo fa (durante la crisi greca), qualificato all'estero come “Quarto Reich” e con i suoi rappresentanti spesso caricaturati e ricoperti con simboli nazisti, presentati come senza cuore e poco educati, la Germania ora si crogiola nella popolarità appena acquisita come salvatrice dei dannati della terra. Ora i tedeschi passano dovunque come “buoni”. Dalla sua fondazione la reputazione della Repubblica Federale Tedesca non è mai stata buona come oggi. Ma oltre al suo effetto all’estero, questo lifting esercita la sua influenza all'interno, sotto forma di democraticismo. Il governo tedesco si pone ora come pietra di paragone in materia di vicinanza al cittadino, apertura al mondo e tolleranza, attuando in tal modo un processo disastroso per la classe operaia – la dissoluzione delle classi sociali nell’unità nazionale. E la cancelliera Merkel, la fredda fisica, a quanto pare ha trovato un piacere crescente nel suo nuovo ruolo di Santa Madre, patrona dei richiedenti asilo. Come disse a suo tempo? “Se ora non cominciamo a dimostrare un volto amico in situazioni di emergenza, questo non sarà più il mio paese.”
Non sarebbe stato possibile dirlo meglio. Ma ciò è solo per mostrare una faccia amichevole; dietro questa facciata, si continua tranquillamente a perseguitare e dividere. Così, parallelamente alla "cultura dell'accoglienza", si compie una divisione cinica tra i rifugiati di guerra e gli “pseudo-richiedenti asilo”, una selezione senza rispetto per i “rifugiati economici”, per lo più giovani dei Balcani senza prospettive, se non la povertà. Velocemente il governo federale e dei Länder hanno deciso di dichiarare deliberatamente Kosovo, Serbia e Montenegro paesi sicuri e quindi rimuovere qualsiasi motivo di asilo per i profughi originari di queste regioni. Tuttavia, anche i “veri” i richiedenti asilo non sono esenti da attacchi velenosi da parte del mondo politico e dei media, come quelli del ministro dell'Interno federale de Maiziere nei confronti dei profughi che protestano.
Inoltre, alcuni media, nonostante tutta l’irriducibile linea retorica dal Cancelliere (“Facciamolo!”) non smettono di suscitare panico e ansia tra la popolazione nazionale. Una volta si parla di interi popoli che vorrebbero iniziare un viaggio verso l'Europa, un'altra si denuncia il pericolo di attacchi terroristici alimentati da “talpe” islamiste, arrivate con l'esercito di profughi e ci si chiede se l'atmosfera all'interno della popolazione non possa “cambiare”. Ma soprattutto è in crescita il coro di chi mette istericamente in guardia contro lo “straripamento” della Germania da parte delle masse di profughi e grida che la barca è piena.
Non è molto difficile valutare quale delle due voci, l'apertura o la chiusura delle frontiere, alla fine prevarrà.
La politica delle “frontiere aperte” può partire solo dal principio di rappresentare una parentesi eccezionale ed unica nel tempo; il prossimo futuro sarà segnato da un nuovo blocco delle frontiere, sia a livello nazionale che della UE. In futuro, secondo i piani previsti, la selezione dei richiedenti asilo “utile” per la Germania dovrebbe aver luogo sul posto, nel paese d’origine. La campagna contro i trafficanti è particolarmente insidiosa; non solo riguardo alle cosche mafiose, ma anche verso tutti coloro che professionalmente aiutano i rifugiati a scappare senza profitto. “L'Unione Europea, che vuole essere uno spazio di libertà, di sicurezza e di diritto così come i suoi Stati membri, ha creato un sistema che rende quasi impossibile per le persone perseguitate, torturate e oppresse che hanno urgente bisogno di assistenza, di trovare protezione in Europa senza l'utilizzo di contrabbandieri professionali. Portarle in tribunale e metterle in galera, è ipocrita, contraddittorio e profondamente disumano”. Scritto su le Republikanische Anwältinnen und Anwälteverein (RAV) nel suo bollettino “Elogio dei contrabbandieri”.
E’ innegabile che il mondo viva con l'attuale ondata di profughi un dramma di una dimensione che non aveva mai conosciuto. Nel 2013 ci sono stati 51,2 milioni di sfollati, alla fine del 2014 il loro numero ha raggiunto 59,5 milioni, che rappresenta il più grande aumento nel giro di un anno e un livello record mai raggiunto al mondo tra quelli registrati dall'UNHCR. E' innegabile che a poco a poco la situazione sia andata fuori controllo. Dopo la Siria, la Libia rischia di scivolare in una guerra civile, con tutte le conseguenze identiche alla Siria.
Nei campi profughi in Libano, Giordania e Turchia, dove la stragrande maggioranza dei profughi di guerra siriani ha trovato asilo, vi è la minaccia di una imminente migrazione di massa verso l'Europa.
Dopo le drastiche riduzioni dei suoi aiuti da parte delle Nazioni Unite, la fame si sta ora aggiungendo alla disperata mancanza di qualsiasi prospettiva. Tuttavia i media tendono a drammatizzare le condizioni già spaventose, aggiungendone altre. Così, da qualche tempo, lo spettro delle migrazioni di interi popoli ossessiona l’opinione pubblica, la televisione trasmette il terribile scenario di milioni di africani che nel frattempo, con tutti i bagagli pronti, sono in attesa di cogliere l’occasione di andar via e tentare la fortuna in Europa. Tali dichiarazioni servono solo a seminare ansia e paura nella popolazione europea e non rispondono ai fatti. Se esaminiamo più da vicino i movimenti dei rifugiati, possiamo vedere che la maggior parte dei rifugiati di tutto il mondo cercano rifugio nei paesi vicini a quello d’origine; è solo quando ogni speranza scompare, che coloro che hanno i mezzi finanziari per permetterselo prendono la strada lunga e pericolosa per l'Europa, il Nord America o l’Australia.
La voce di un esodo di massa dall'Africa è di gran lunga infondato; la migrazione sul continente è molto meno caotica di quanto non dicano gli spaventosi annunci dei media. Spesso intere comunità di villaggio vendono tutte le attività e beni personali per finanziare il viaggio in Europa di un giovane uomo scelto da tutta la comunità, che è investito della responsabilità di sostenere in seguito il paese. Questo è il modello di migrazione del lavoro comprovato da decenni. Tuttavia, allarmato dal crescente numero di rifugiati, il governo federale ha l'obbligo di agire sulle cause della difficile situazione dei rifugiati, come si dice.
Ma la montagna ha partorito un topolino. Tutto ciò che viene in mente a Merkel & Co come soluzione di fondo a questo problema globale sono solo parole e qualche centinaio di milioni per il finanziamento di campi profughi in Turchia e Libano. Nessuna parola sulla responsabilità dei Paesi industriali nella distruzione delle basi dell'esistenza di umanità nel Terzo Mondo.
Diamo ancora una volta la parola a Republikanische Anwältinnen- und Anwälteverein (RAV), che indica le vere cause della miseria dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, anche se con qualche inesattezza (cosa si intende con “europei” chi è questo “noi”?): “l'Europa ha, per molti di questi motivi, creato le cause e continua a determinarle ancora oggi. Le relazioni politiche che le potenze coloniali europee si sono lasciate alle spalle, dopo essere andate via, tra cui la definizione di confini arbitrari, ne sono una parte. Dal XVI al XVIII secolo, gli europei invasero il Sud America, immergendosi nel sangue, derubando intere navi cariche di oro e argento per trasformarli in capitale necessario a sviluppare la propria economia.
Gli europei hanno ridotto circa 20 milioni di africani in schiavi per essere venduti in tutto il mondo. Attraverso una vampirizzazione delle loro materie prime, lo sfruttamento eccessivo dei loro mari, della loro mano d’opera per una produzione a costi minimi e l'esportazione di prodotti alimentari ampiamente sovvenzionati, hanno distrutto l'agricoltura in questi paesi, noi siamo ancor oggi sulle spalle della popolazione della maggior parte dei paesi di emigrazione “. (Ibid)
La formazione degli Stati nazionali nei Paesi industrializzati nel XIX secolo si basava su due fondamenti.
Il primo di essi, la centralizzazione economica, era molto razionale; l'altro era del tutto irrazionale.
La costituzione della Nazione nei secoli XVIII e XIX è avvenuta sulla base di miti che possono contenere tante altre storie, unite da un’idea di base, un mito comune artefatto: l’idea di una grande comunità nazionale, di una stessa famiglia, definita da un'origine comune (la “parentela di sangue”), dalla cultura e dalla lingua.
Questa caratteristica della Nazione borghese di guardare al suo interno, di rinchiudersi in se stessa da una parte e la tendenza verso l'esterno di ogni capitalista che aspira a conquistare il mondo dall'altra, rappresenta una delle principali contraddizioni che indissolubilmente attanaglia il Capitalismo. L'attuale crisi dei rifugiati mostra come sia difficile conciliare questi due principi. Se dipendesse solo dai leader dell'economia, il flusso di profughi nella miglior età lavorativa non dovrebbe mai fermarsi. Non ci sarebbero problemi se un milione di rifugiati arrivasse ogni anno. Tuttavia, ciò che ha senso economicamente, politicamente può avere conseguenze fatali. Perché nel Capitalismo, i rifugiati non sono solo dei poveri a piedi nudi, ma anche concorrenti nella lotta per l'alloggio, l’assistenza sociale, posti di lavoro. Quello che non è un motivo di apprensione per il capitalista, lo è per i beneficiari della Hartz IV[8], lavoratori a basso salario, esiliati locali.
Questa però non è la prima un'ondata di rifugiati che investe la Germania. Nei cinque anni del dopoguerra (1945-1950), più di dodici milioni di espulsi dalla ex province orientali della Boemia e della Moravia si diressero verso la Germania in rovina, la cui popolazione soffrì enormi privazioni. E' ovvio che in quel momento non ci poteva essere questione di “cultura dell'accoglienza”. I deportati invece dovevano affrontare il rancore, l'odio e un massiccio rigetto da parte della popolazione locale. Ma l'integrazione sociale e non solo professionale degli espulsi si realizzò con meno difficoltà di quanto si temesse, per due motivi: in primo luogo, il fatto che i deportati appartenevano alla stessa area linguistico-culturale e l’altro al contesto che accompagnò la ricostruzione (almeno in Germania occidentale) con la creazione dell'unione monetaria che assorbì tutta la manodopera disponibile al punto che i padroni si ritrovarono in competizione per procacciarsi una mano d’opera divenuta scarsa.
Oggi invece, le masse di profughi provengono senza eccezione da un'area culturale e linguistica straniera e di fronte a una società che da molti anni è in una crisi generale in costante aggravamento, dove la guerra per il lavoro, l'alloggio, l'istruzione ha assunto una dimensione insospettabile, catapultando frazioni crescenti della popolazione in condizioni di povertà. Quando alla crisi generale si aggiunge la mancanza di prospettiva, l'assenza di un progetto sociale contro la miseria del Capitalismo, il populismo politico si fa strada, alimentando un fenomeno che Marx chiamava “la religione della vita quotidiana”. Questa è la mentalità del “piccolo popolo” che rifiuta di riconoscere che il Capitalismo, a differenza delle forme sociali del passato, è un sistema spersonalizzato, oggettivato, in cui il singolo capitalista non è un attore sovrano sul mercato, ma è guidato da quest’ultimo o, come dice Engels, è dominato da un proprio prodotto e in cui la classe politica è guidata dalle “necessità” e non dalle proprie inclinazioni. E' la mentalità del filisteo piccolo-borghese che, indignato, protesta contro la classe dirigente e si scaglia contro “i loro” rappresentanti, ma finisce per gettarsi nelle braccia di chi aveva definito poco tempo prima “traditori del popolo”, nella speranza di trovare protezione contro gli “stranieri”. È una mentalità completamente reazionaria che eleva il conformismo a più alto ideale ed è disposta a scatenare pogrom contro chi la pensa diversamente, ha un altro colore, contro tutto ciò che è diverso. Il movimento Pegida[9], sviluppatosi principalmente nella Germania orientale è un esempio totalmente abietto di questa mentalità totalmente ristretta, intollerante e ipocrita. Il suo grido di battaglia “Noi siamo il popolo” ignora completamente la classe operaia; il “popolo” (per usare questo termine), in Germania e altrove non ha mai (e oggi anche meno) avuto una composizione omogenea come questo movimento fantastica. Il boicottaggio della “stampa della menzogna”, così come le urla furiose verso i partiti istituzionali (fino a minacce di morte contro i politici) illustrano solo la sua delusione per il “tradimento” della politica e dei media, come se lo scopo di queste istituzioni profondamente borghesi fosse quello di ripristinare o rappresentare la “volontà del popolo”. In realtà il loro odio sfrenato non è diretto contro la classe dominante, ma contro i più deboli della società, come dimostrano giorno dopo giorno le loro manifestazioni dinanzi alle case dei rifugiati, i loro attacchi vili contro gli alloggi di rifugiati e stranieri. Ciò che è completamente tipico del pogromismo, è che proprio le parti più indifese della popolazione rappresentano il loro capro espiatorio e debbono sopportare le conseguenze della loro vita di delinquenti (Volendosi riferire anche solo al passato di piccolo criminale di Lutz Bachmann!).[10]
Il problema del populismo e del pogromismo ha costretto i partiti tradizionali, in particolare i partiti di governo a giocare con il fuoco. Assomigliano, nella loro azione, al famoso apprendista stregone che ha lasciato fuori dalla sua bottiglia il (cattivo) genio del panico e dell'odio degli stranieri, rischiando così di perderne il controllo. Fino ad oggi, a differenza di molti altri Stati europei, la borghesia tedesca è riuscita a impedire l'emergere di un partito populista, a destra e a sinistra, che, a causa del suo passato disastroso (il nazismo), è una preoccupazione particolarmente importante. Se la situazione rimarrà questa dipenderà anche da come sarà affrontata la crisi dei rifugiati. Tutto fa pensare che sono in particolare i settori populisti di destra che traggono beneficio dalla politica di Merkel. Oltre a AFD che, come abbiamo accennato nell'introduzione, sta progredendo nei sondaggi di opinione, il movimento Pegida citato sopra sembra avere il vento in poppa.
Le “manifestazioni del lunedì”[11] a Dresda vedono ancora una volta la partecipazione di una folla di oltre 10.000 persone, la cui aggressività è chiaramente aumentata, sia con le parole che con i fatti. Come affronta la borghesia tedesca questo problema? Innanzitutto, va rilevato che la classe politica non si oppone più a questi attacchi da parte dell’estrema destra, banalizzandoli e minimizzandone la gravità come è stato fatto fino a poco tempo fa, ma passa ora a denunciarli come “terroristi”. Questo è importante in quanto, in Germania, il termine “terrorismo” riporta ai ricordi della seconda guerra mondiale, quando si verificarono massicce esecuzioni di presunti sabotatori, o, ancora, ridesta la memoria di quell’ “autunno tedesco” del 1977, quando i terroristi della RAF si elessero a rango di “nemico pubblico n. 1” dello Stato[12]. Inoltre, utilizzando l'accusa di terrorismo, lo Stato impiega di tutto per evitare che le molestie non vadano oltre i limiti. Allo stesso tempo l’AFD è stato diviso e prende il suo posto nei media. Infine bisogna considerare come i politici e i media hanno tentato di collocare il movimento Pegida nell’area del neonazismo, che è sempre stato un modo sicuro per isolare socialmente in Germania le proteste, a prescindere dal colore politico. D'altra parte, i partiti istituzionali compiono ogni sforzo per dare l'impressione che capiscono le preoccupazioni e le ansie della popolazione. Così, il governo federale cerca a colpi di promesse finanziarie e pressione morale, di decidere con altri paesi dell'UE di sollevare la Germania di una parte di rifugiati siriani - per ora senza successo. La Grande coalizione ha messo a punto in tutta fretta una legge che permette l'ordine di espulsione immediata (“beschleunigtes Abschiebeverfahren”) e ha cercato di dar inizio ad applicarla prima che entri in vigore, allo scopo di convincere l'elettorato che lo sta proteggendo dalla “supercolonizzazione straniera" (Überfremdung)[13] All'interno del governo, già si parla di un tasso di riconduzione alle frontiere del 50% dei rifugiati che arrivano in Germania. Sono fondamentalmente il presidente CSU Seehofer e il segretario generale Söder che, nel gioco della divisione del lavoro, assumono il ruolo di “cattivi” e chiedono con veemenza la chiusura delle frontiere e la restrizione del diritto l'asilo scritto nella Costituzione.
In un certo senso, queste diverse concezioni all'interno della Coalizione riflettono lo stato d'animo diffuso esistente nella popolazione, vale a dire tra i dipendenti e i disoccupati di questo paese. Vi è una minoranza in crescita e altamente rumorosa all'interno della popolazione in generale e della classe operaia, in particolare formata da una sua componente poco qualificata, spesso inserita nel contesto della ex DDR o a carico dei sussidi statali, che formano un terreno sensibile per le campagne anti-islamiche di alcuni rappresentanti del mondo della politica e della cultura (Sarrazin, Broder, Pirinçci, Buschkowsky, ecc) e i cui portavoce sono CSU e alcuni settori della CDU[14] E c’è la maggioranza silenziosa, che fino ad allora aveva lasciato ai giovani attivisti, la maggior parte proveniente dall'ambiente antifascista, il compito di far fronte alle molestie razziste con blocchi stradali e contromanifestazioni e che si è poi sentita in dovere, alla luce delle immagini dei Balcani in miseria, di esprimere fortemente la sua protesta contro l'inerzia degli Stati europei e l'indignazione di fronte ad abusi ed angherie verso gli stranieri a Dresda, Heidenau e Freital, applaudendo apertamente i rifugiati e rendendo loro gli onori al loro arrivo nelle stazioni di Monaco di Baviera, Francoforte o altrove, o impegnandosi a migliaia come volontari per gestire le masse di profughi o inondando i centri di accoglienza di doni di ogni genere. La solidarietà spontanea di gran parte della popolazione, per la sua forza, ha stupito la classe dirigente, prendendola in contropiede; quest'ultima non è disposta a promuovere la simpatia per i profughi di guerra, ma piuttosto a creare un clima di panico e di isolamento.
Tuttavia la Merkel ha dimostrato ancora una volta il suo talento infallibile nell’interpretare l'atmosfera e gli stati d'animo nella società. Esattamente come nel grave incidente nucleare (Grösster anzunehmender Unfall - GAU) dell'impianto di Fukushima, quando, da un giorno all'altro, si è sbarazzata delle regole d'oro dei conservatori in materia di energia atomica, la Merkel ha dato una brusca svolta in materia di politica di asilo superando l'accordo di Dublino che aveva fino ad allora permesso alla borghesia tedesca di scartare elegantemente qualsiasi responsabilità in relazione ai rifugiati venutisi ad incagliare in Italia e in altri paesi dell'UE alle “frontiere esterne”. Abbiamo già menzionato alcuni dei motivi che hanno spinto la Merkel ad adottare la sua “politica di frontiere aperte”. E' possibile che un altro motivo abbia avuto un ruolo in questa politica rischiosa.
Dopo l'elezione del Bundestag del 2005, quando la vittoria che sembrava acquisita le sfuggì di mano perché il cancelliere in carica Schröder riuscì a strumentalizzare contro di lei la svolta liberale, inaugurata al congresso di Lipsia della CDU nel 2003, Merkel ha capito quali conseguenze può avere la tendenza dei politici di ignorare lo stato d'animo “della base”. Immaginate l'impatto che potrebbero avere le immagini di centinaia di migliaia di profughi abbandonati al confine ungherese e i titoli dei giornali che in questo caso, si sarebbero diffusi per mesi, sul destino elettorale di chi vuole oggi dare il benvenuto ai profughi di guerra Siria.
Con ogni evidenza, due gruppi di popolazione sono particolarmente coinvolti nel legame con i rifugiati. Da un lato i giovani che in altri tempi e in altri luoghi avrebbero partecipato al movimento anti-CPE o agli Indignados. Dall’altro, quegli anziani che o per la loro propria esperienza o per la tradizione tramandata dai propri genitori per quanto riguarda gli espulsi alla fine della seconda guerra mondiale, sanno qual è il destino dei rifugiati e non possono rimanere indifferente a campi, filo spinato e deportazioni. Essendo cresciuti nei decenni bui del XX secolo, questa generazione è spontaneamente spinta ad agire oggi in modo diverso.
La partecipazione significativa di pensionati indica qualcosa di nuovo: il desiderio profondo di ringiovanimento della società, di presenza di bambini e adolescenti presso molti anziani. Questo desiderio di ringiovanimento ha un significato diverso dalla domanda di forza lavoro giovane da parte dell'economia tedesca. L'invecchiamento della popolazione è un tema fondamentale non solo per il Capitalismo ma per l'umanità, perché la mancanza di giovani non significa solo la privazione di una fonte di gioia di vivere e di rivitalizzazione per i vecchi, ma ancor più minare una delle funzioni più importanti della evoluzione dell'umanità: la trasmissione del patrimonio di esperienza alla giovani generazioni.
Infine, bisogna porsi la questione se questa ondata di solidarietà possa formare un movimento di classe. Crediamo che non ne possegga nessuna delle caratteristiche. Ciò che è evidente è il suo carattere completamente apolitico e, viceversa, la solidarietà che si manifesta possiede un carattere completamente caritatevole. Non c'è quasi nessuna discussione, nessun scambio di esperienze tra nativi e rifugiati giovani e vecchi (in ultima istanza anche per le difficoltà linguistiche).
Qualsiasi tentativo per un’autorganizzazione, per strutture autonome, extra statali è carente; al loro posto le centinaia di migliaia di volontari sono uomini di valore di uno Stato che, a dispetto all'atteggiamento spettacolare di Merkel, manca di tutto e i cui rappresentanti, dopo aver condotto i volontari ad esaurimento a causa della propria inerzia, ora modificano i loro discorsi sul “limite di capacità”.
Anche in questo caso l'ondata di solidarietà che ha attraversato la Germania nelle scorse settimane non si è mossa su un campo di classe. La popolazione attiva, soggetto principale della solidarietà, si è dissolta, quasi senza lasciare traccia, nel “popolo”. Questo è stato anche il caso del movimento di solidarietà mondiale per le vittime dello tsunami del 2004. Allora, come ora, la solidarietà era priva di qualsiasi carattere di classe e si esprimeva attraverso una campagna interclassista.
Tuttavia, a differenza dello tsunami avvenuto nella lontana Asia, la miseria dei rifugiati sta aumentando sotto i nostri occhi, in modo che la solidarietà e tutto ciò che le riguarda assumono una dimensione diversa. In effetti, la crisi dei rifugiati è solo all'inizio e potrà diventare un problema decisivo per la classe operaia.
Non è ancora definito come la classe operaia o meglio i suoi settori più avanzati a livello nazionale ed internazionale, reagiranno di fronte a questa sfida: lo sviluppo della solidarietà o la demarcazione e l'esclusione. Se la nostra classe riuscirà a ritrovare la sua identità, la solidarietà potrà costituire un importante strumento di aggregazione nella sua lotta. Se al contrario, si vedessero i rifugiati come concorrenti e come una minaccia, se non si riuscisse a formulare un'alternativa alla miseria del Capitalismo, consentendo ad ogni individuo di non essere costretto a fuggire sotto la minaccia di guerra o la fame, allora saremmo sotto la minaccia di una massiccia espansione della mentalità del pogrom, dalla quale il proletariato nel suo cuore non potrà essere risparmiato.
FT, 07/11/2015
[1] Alternative pour l'Allemagne è un partito euroscettico nato nel 2013, in seguito alle politiche presentate come senza alternativa, portate avanti durante la crisi del debito nella zona euro; è stato soprannominato “partito dei professori”, annoverando fra le sue fila, come fondatori, parecchi professori di economia, finanza pubblica e diritto. Presentandosi come anti-euro ma non anti-Europa, il suo principale obiettivo è la distruzione della zona euro. I membri del partito (che affermano di essere né di destra né di sinistra) sono uniti dalla convinzione che la Germania ha pagato troppo per gli altri, soprattutto con i Fondi di soccorso per la zona euro e rivendicano il ritorno al marco. Non chiedono che la Germania abbandoni la zona euro, ma che coloro che non rispettino la disciplina di bilancio possano farlo (tratto da Wikipedia). (NdT)
[2] Ministro dell'Economia (NdT)
[3] Essendo Angela Merkel il bersaglio di tutte le critiche. (NdT)
[4] Handelsblatt, 9 ottobre 2015.
[5] Bundesamt für Migration und Flüchtlinge – BAMF
[6] Le donne delle macerie sono quelle donne tedesche e austriache, spesso vedove o con i mariti assenti (soldati prigionieri, dispersi o invalidi), che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, riprendono nelle mani le città, e cominciano a ricostruirle (tratto da Wikipedia). (NdT)
[7] Il Wirtschaftswunder (il “miracolo economico”) indica nella storia economica della Germania la rapida crescita economica in Gemania Ovest (RFA) ed in Austria dopo la Seconda Guerra mondiale (tratto da Wikipedia). (NdT)
[8] Le riforme Hartz (dal nome del suo ispiratore) sono le riforme del mercato del lavoro presunte “di lotta alla disoccupazione per favorire il ritorno all’attività dei beneficiari di assegni di disoccupazione» adottate tra il 2003 e 2005, dietro mandato del cancelliere socialista G. Schröder e realizzate sotto forma di quattro leggi di cui la più importante delle quali è la legge Hartz IV. (NdT)
[9] Abbreviazione di «Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes » (Patrioti Europei contro l'Islamizzazione dell’Occidente) , movimento di estrema destra contro l’immigrazione islamica in Germania. Il movimento è stato creato il 20 ottobre 2014 da Lutz Bachmann ed una dozzina di altri. (Tratto da Wikipedia) (NdT)
[10] Organizzatore del movimento anti-islamizzazione Pegida dal 2014 sino al 2015. Ex- ladro, è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per sedici furti nel 1990. Fuggì in Sud Africa e prese una falsa identità prima di essere estradato. E' stato poi condannato per traffico di droga (tratto da Wikipédia). (NdT)
[11] Dopo l'ottobre 2014, il movimento Pegida manifesta ogni lunedi alle 18,30 in un parco nella città di Dresda, contro la politica di asilo del governo e di “l’islamizzazione della Germania” (NdT)
[12] L'autunno tedesco fu un insieme di eventi a partire dalla fine del 1977 associati con il rapimento da parte del gruppo terroristico Rote Armee Fraktion (RAF) dell’industriale e “capo dei datori di lavoro tedeschi” Hanns-Martin Schleyer e il dirottamento del Boeing Lufthansa “Landshut” da parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). L'autunno tedesco si concluse il 18 ottobre con l’assalto da parte di un commando delle forze speciali del "Landshut" all’aeroporto di Mogadiscio, la morte di Schleyer e delle figure di spicco della prima generazione della RAF nella loro prigione di Stammheim. Il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt disse che “i rapitori [erano] l’equivalente dei nazisti.” (NdT)
[13] Questo termine tedesco difficile da tradurre è spesso riportato dalla stampa così com’è senza traduzione. Nel linguaggio politico borghese ha preso dopo gli anni ‘70 tutta una serie di sfumature. Attualmente, assume il significato di “proporzione eccessiva” di stranieri “e una netta accezione xenofoba. (NdT)
[14] Si chiama CDU/CSU la forza politica costituitasi in Germania a livello federale dai due “partiti fratelli” della destra democristiana e conservatrice, l'Unione Cristiano-Democratica (CDU), presente in tutti gli stati ad eccezione di Baviera e l’Unione cristiano-sociale (CSU), presente solo in Baviera.
“Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno.” (Il Manifesto del Partito Comunista, 1848).
Il capitalismo, il sistema di sfruttamento che domina l'intero pianeta, non può mantenersi solo con la forza e la violenza. Non può fare a meno del potere dell'ideologia - la produzione infinita di idee che mistificano il rapporto con la realtà – facendo credere agli sfruttati che essi avrebbero tutto l'interesse a sostenere quelli che li sfruttano. Sono esattamente cento anni che centinaia di migliaia di lavoratori in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia … hanno pagato con la propria vita l’aver creduto a questa grande menzogna della classe dominante: cioè che i lavoratori devono “combattere per il loro paese”, che significa semplicemente combattere e morire per gli interessi della classe dominante.
I massacri orribili della prima guerra mondiale hanno dimostrato una volta per tutte che il nazionalismo è il nemico ideologico mortale della classe operaia.
Oggi, dopo decenni di attacchi contro le condizioni di vita, lo smantellamento di interi settori dell'industria e l'esodo di massa di intere popolazioni, dopo decenni di crisi economica e di programmi di austerità, e anche dopo tutta una serie di sconfitte, la classe operaia è sottoposta alla subdola arma del veleno nazionalista attraverso le campagne populiste di Trump negli Stati Uniti, di le Pen in Francia, dei “pro-Brexit” in Gran Bretagna e di vari altri politici in molti altri paesi. Queste campagne si basano chiaramente su una collera e un disorientamento reali all'interno della classe operaia, su una frustrazione crescente a causa della mancanza di occupazione, di alloggi, di assistenza e su un sentimento molto diffuso di impotenza di fronte alla globalizzazione e al potere impersonale del capitale. Queste campagne mirano soprattutto a impedire ai lavoratori di cominciare a riflettere in modo critico sulle vere origini di tutti questi problemi. Al contrario, la funzione del populismo è quella di contrastare ogni tentativo di comprendere un sistema sociale complesso e apparentemente misterioso che governa le nostre vite, di proporre una soluzione molto più semplice: trovare qualcuno su cui riversare la colpa di tutto.
E’ colpa delle “caste”, gridano: avidi banchieri, politici corrotti, burocrati che gestiscono l'Unione europea nell’ombra e che ci soffocano con i regolamenti e le pratiche burocratiche. Tutti questi personaggi fanno certamente parte della classe dominante e giocano il loro ruolo nell’aumento dello sfruttamento e nella distruzione dei posti di lavoro. Ma l'idea secondo la quale "è colpa delle caste" non proviene dalla coscienza di classe, ma ne rappresenta invece un completo sovvertimento. Si può dimostrare l'inganno ponendosi la domanda: chi sono quelli che si battono contro le caste? Basta vedere Donald Trump, i leader della campagna per il Brexit o i media che li sostengono, per constatare che questa specie di anti-elitismo è opera di un’altra parte della stessa casta. Negli anni ‘930, i nazisti si sono serviti di una truffa simile, prendendo come capro espiatorio una presunta "élite internazionale di finanzieri ebrei", su cui essi rigettarono ogni responsabilità per gli effetti devastanti della crisi economica mondiale, allo scopo di attirare i lavoratori dietro una parte della classe dirigente che pretendeva difendere i "veri interessi dell'economia nazionale”. Josef Goebbels, il ministro della propaganda nazista, una volta ha detto che “più una menzogna è grossa, più è probabile che sia creduta”. E quando dei politici della taglia del miliardario Trump pretendono di difendere “il piccolo popolo” contro la casta, si tratta di una bugia degna della propaganda dello stesso Goebbels.
Ma questa nuova campagna nazionalista non è destinata solo ad una frazione di ricchi, ma si rivolge soprattutto agli strati più oppressi della stessa classe operaia, le vittime più immediate della crisi economica capitalistica, della barbarie imperialista e della distruzione dell'ambiente. Essa mira a colpire, in particolare, la massa di migranti economici e di rifugiati, spinti verso i paesi capitalisti centrali alla ricerca di un rifugio dalla povertà e dai massacri. Un’altra soluzione “semplice” viene proposta dai populisti: se si potesse impedire loro di venire, se si potessero “mettere fuori”, i lavoratori “autoctoni” avrebbero maggiori possibilità di trovare lavoro e alloggio. Ma questo apparente buon senso comune nasconde il fatto che la disoccupazione e la mancanza di alloggi sono il prodotto del funzionamento del sistema capitalistico mondiale, delle “forze del mercato”, che non possono essere bloccati da muri o da guardie di frontiera. In realtà, i migranti e i rifugiati sono le vittime del capitalismo allo stesso titolo dei proletari delle vecchie regioni industriali ridotti alla disoccupazione per la chiusura di fabbriche o per le delocalizzazioni che trasferiscono la produzione dall’altra parte del mondo in cui la mano d’opera è meno cara.
Di fronte a un sistema di sfruttamento che è per natura planetario, gli sfruttati non possono difendersi che unendosi al di là e contro tutte le divisioni nazionali, creando una forza internazionale contro il potere internazionale del capitale. La tattica del divide et impera, usato da tutti i partiti e da tutte le fazioni capitaliste, spinta all'estremo dai populisti, va direttamente contro questo bisogno. Quando una parte della classe operaia si lascia convincere ad addossare la responsabilità dei suoi problemi su altri lavoratori, quando arriva a pensare che i suoi interessi possano essere difesi da partiti che esigono delle misure forti contro l'immigrazione, questa ha perduto ogni possibilità di difendersi e, così facendo, indebolisce la capacità di resistenza della classe operaia nel suo complesso.
Dietro la retorica populista anti-immigrati esiste una reale minaccia di violenza e di pogrom. In paesi come la Grecia o l’Ungheria, l’odio assoluto per gli “stranieri”, il montare dell’islamofobia e dell’antisemitismo hanno prodotto dei raggruppamenti apertamente fascisti pronti a terrorizzare, fino ad assassinare, migranti e rifugiati: Alba Dorata in Grecia, Jobbik in Ungheria, ecc., la lista non finisce qui. A partire dalla vittoria del Brexit in Gran Bretagna, abbiamo assistito ad una recrudescenza di attacchi, di minacce e di insulti razzisti e xenofobi, per esempio contro i Polacchi e altri immigrati dell’UE, così come contro dei negri e degli asiatici. Le correnti più apertamente razziste sentono che è giunto il momento per insistere con la loro propaganda nauseante.
Ma l’esempio della Gran Bretagna mostra che c’è anche una falsa alternativa al populismo che resta prigioniera dell’ideologia capitalista. La situazione politica caotica creata dalla vittoria del Brexit, la minaccia crescente contro i lavoratori immigrati, ha portato molte persone ben intenzionate a votare per “restare” e a partecipare, dopo il referendum, a delle manifestazioni importanti a favore dell’UE. Abbiamo anche visto degli anarchici presi dal panico di fronte alle espressioni aperte di razzismo incoraggiate dalla campagna per il Brexit, dimenticare la loro opposizione alle elezioni capitaliste per andare alla fine a votare contro il Brexit.
Votare o manifestare a favore dell’UE è un altro modo per rimanere vincolati alla classe dominante. L’UE non è un’opera caritatevole, ma un’alleanza capitalista che impone l’austerità senza sconti alla classe operaia, come si può vedere chiaramente attraverso i requisiti imposti ai lavoratori greci (come contropartita dei fondi dati dall’UE all’economia greca in fallimento). L’UE non è certo un gentile protettore di migranti e rifugiati. Essa è a favore della libera circolazione della mano d’opera quando ciò le fa comodo, ma è ugualmente in grado di costruire muri con filo spinato quando i rifugiati ed i migranti sono troppo numerosi per le sue esigenze, negoziando accordi sordidi per respingere questi rifugiati di cui non può servirsi verso le terre da cui questi cercano di scappare - come ha fatto con il recente accordo con la Turchia.
La divisione tra pro e anti-UE va oltre la tradizionale divisione politica borghese tra destra e sinistra. La campagna per restare nell’UE è stata condotta da una frazione del partito conservatore e ufficialmente sostenuta da una maggioranza dei Laburisti e dal SNP[1] di Scozia. La sinistra era ugualmente divisa tra pro e anti-UE. Corbyn[2] era per “rimanere”, ma il suo punto di vista ideologico ha le sue origini nella corrente dei Laburisti tradizionali partigiani di una “Gran Bretagna socialista”, vale a dire un’isola di capitalismo di Stato autarchico. E’ ovvio che abbia sostenuto la campagna contro il Brexit senza entusiasmo. I suoi sostenitori nel Socialist Workers’ Party[3] e gruppi simili hanno sostenuto l’“uscita a sinistra”, un’espressione grottesca del campo Brexit. Questa torre di Babele di nazionalismi, che siano per o contro l’UE, crea una nebbia ideologica in modo che emergano solo gli interessi della Gran Bretagna e quelli del sistema esistente.
E tutti i gruppi ed i partiti capitalisti rendono questa nebbia ancora più fitta diffondendo le loro menzogne sulla “democrazia”, sull’idea che le elezioni capitaliste possano veramente esprimere “la volontà del popolo”. Un elemento chiave nella campagna per il Brexit era l’idea di “riprendere il controllo del nostro paese” dalle mani dei burocrati stranieri - un paese che per la stragrande maggioranza non è mai stato “loro”, perché appartiene ed è controllato da una piccola minoranza che utilizza le istituzioni democratiche per garantire il suo dominio. Infine, a prescindere dal vincitore delle elezioni, la classe operaia sarà sempre esclusa dal potere e sfruttata. La cabina elettorale democratica non è - come la “sinistra” ha spesso sostenuto - un modo con cui la classe operaia possa esprimere la propria coscienza, anche solo in maniera difensiva. I referendum, in particolare, sono sempre stati un modo per mobilitare le forze più reazionarie della società, cosa che era già evidente sotto il regime dittatoriale di Luigi Napoleone Bonaparte in Francia nel XIX secolo. Per tutti questi motivi e nonostante gli sconvolgimenti politici creati dal voto a favore del Brexit, il referendum è un “successo” per la democrazia borghese, presentata come l'unico modello possibile di dibattito politico.
Di fronte ad un sistema mondiale che sembra determinato a trasformare ogni paese in un bunker dove solo i patrioti sono degni di sopravvivere, alcuni gruppi hanno difeso lo slogan: “Abbasso le frontiere!” (“No Borders”). Questo è un obiettivo lodevole, ma per sbarazzarsi delle frontiere, bisogna liberarsi degli Stati nazionali. E per sbarazzarsi dello Stato, bisogna sbarazzarsi dei rapporti sociali capitalistici che esso protegge. Tutto ciò richiede una rivoluzione mondiale degli sfruttati, che stabilirà una nuova forma di potere politico che smantellerà lo Stato borghese e sostituirà la produzione capitalistica, sottoposta alla legge del profitto, con la produzione comunista, che mira a soddisfare le esigenze universali dell'umanità.
Questo obiettivo sembra infinitamente lontano oggi; la progressiva decomposizione della società capitalista - in particolare la sua tendenza a trascinare la classe operaia nella sua caduta materiale e nel suo degrado morale - contiene il pericolo che questa prospettiva venga definitivamente perduta. Tuttavia questa rimane la sola speranza per il futuro dell'umanità, e non si tratta di attendere passivamente, come se si aspettasse il Giudizio Universale. I semi della rivoluzione si trovano nella ripresa della lotta di classe, nel riprendere il cammino della resistenza contro gli attacchi provenienti da destra e sinistra, nei movimenti sociali contro l'austerità, la repressione e la guerra; nella lotta per la solidarietà con tutti gli sfruttati e gli esclusi, per la difesa dei lavoratori “stranieri” contro i commando xenofobi ed i pogrom. Questa è l'unica lotta che possa rilanciare la prospettiva di una comunità globale.
Allora, che dobbiamo fare noi comunisti, come minoranza della classe operaia che resta convinta che la prospettiva di una comunità mondiale umana è possibile? Dobbiamo riconoscere che, nella situazione attuale, navighiamo del tutto contro corrente. Come hanno fatto le frazioni rivoluzionarie del passato che hanno resistito di fronte alla marea della reazione e della contro-rivoluzione, dobbiamo rigettare tutto ciò che compromette i nostri principi rivoluzionari basati su decenni di esperienza della classe operaia. Dobbiamo insistere sul fatto che non possiamo dare alcun sostegno ad uno Stato capitalista o ad un’alleanza di Stati, nessuna concessione alla ideologia nazionalista, nessuna illusione sul fatto che la democrazia capitalista ci offrirebbe i mezzi per difenderci contro il capitalismo. Ci rifiutiamo di partecipare alle campagne capitaliste, di una parte o dell’altra, proprio perché abbiamo la responsabilità di partecipare alla lotta di classe. Tanto più che la lotta della classe operaia deve essere indipendente da tutte le forze del capitalismo che cercano di deviarla o di imbrigliarla. Di fronte all’enorme confusione e allo scompiglio che regna attualmente nella nostra classe, dobbiamo impegnarci in uno sforzo teorico serio per capire un mondo che sta diventando sempre più complicato e imprevedibile. Il lavoro teorico non significa astrarsi dalla lotta di classe: infatti esso aiuta a preparare il momento in cui, come diceva Marx, la teoria diventa una forza materiale dal momento in cui si impadronisce delle masse.
Amos, 9 luglio 2016
[1] Partito nazionalista scozzese.
[2] Jeremy Corbyn, dirigente del Partito laburista.
[3] Il più importante raggruppamento trotskista in Gran Bretagna, che gioca un ruolo nella politica borghese simile a quello di Lutte ouvrière in Francia.
Quando il 52% degli elettori del referendum in Gran Bretagna sul mantenimento del paese nell’Unione europea ha scelto di uscirne, questo non è stato un evento isolato, ma un ulteriore esempio del peso crescente del populismo. Questo si vede egualmente negli Stati Uniti nel sostegno a Donald Trump nella battaglia per la presidenza del paese, in Germania con l'emergere di forze politiche a destra dei Democratici cristiani (Pegida e Alternative für Deutschland), nelle ultime elezioni presidenziali in Austria, dove i socialdemocratici così come i Democratico Cristiani sono stati superati dalla concorrenza tra i Verdi e la destra populista, in Francia, con la continua ascesa del Fronte nazionale, in Italia, con il movimento Cinque Stelle o ancora attraverso gli attuali governi in Polonia e Ungheria.
Il populismo non è un elemento in più nel gioco politico tra i partiti di destra e di sinistra, ma nasce da un diffuso malcontento che non riesce ad esprimersi altrimenti. Esso si colloca interamente sul terreno borghese e si basa su un rigetto della classe dirigente e dell'immigrazione, ma anche su una sfiducia verso le promesse e l’austerità della sinistra e della destra, esprimendo così una perdita di fiducia verso le istituzioni della società e un’incapacità a riconoscere l'alternativa rivoluzionaria della classe operaia.
Nelle nostre “Tesi sulla decomposizione”, pubblicate nel 1990, parlavamo già di “... questa tendenza generale alla perdita di controllo da parte della borghesia per la conduzione della sua politica”, e de “la perdita di controllo sulla propria strategia politica”. Benché l’uso della democrazia sia stato uno strumento e una ideologia molto efficaci per la classe capitalista, permettendo a questa di mantenere il controllo sulla situazione politica, il crescere del populismo riflette la tendenza latente all’emergere di difficoltà crescenti per la classe capitalista.
In un certo senso, il montare del populismo rafforza la democrazia: degli scontenti si dirigono versi i partiti populisti, mentre altri vi si oppongono ferocemente. Tuttavia, il voto in Gran Bretagna per “uscire” dall’Unione europea ci ricorda le difficoltà che il populismo può portare al controllo politico della borghesia. La classe dominante usa la democrazia per cercare di legittimare il suo dominio, ma il populismo mina i tentativi di mantenere tale legittimità. Il populismo pone problemi all’insieme della borghesia perché il suo sviluppo provoca sconvolgimenti imprevedibili al “buon funzionamento della democrazia.”
Noi abbiamo spesso sottolineato, a giusto titolo, che la borghesia britannica è la più sperimentata al mondo, con una tale capacità di manovrare sul piano diplomatico, politico ed elettorale da suscitare l’invidia degli altri Stati capitalisti del pianeta. Ma il voto per il Brexit rimette in questione tali capacità.
Benché il capitalismo nel Regno Unito abbia una lunga tradizione nell’uso delle elezioni, solo raramente ha fatto ricorso a un referendum. Dopo quello sull’adesione alla CEE (il predecessore dell’odierna Unione Europea) nel 1975 e fatta eccezione per dei referendum locali nell’Irlanda del Nord, nel Galles e in Scozia, prima di quest'anno si era avuto solo il referendum sulla modifica del sistema del voto parlamentare nel 2011. Evitare i referendum è una politica saggia per la borghesia, poiché vi è sempre il pericolo che il voto possa essere usato come mezzo di protesta per qualcosa. Infatti, la promozione di questo referendum su Brexit da parte di David Cameron è stato un grande errore di calcolo, tenuto conto della crescita del populismo. Lungi dal limitarsi a una battaglia con l’UKIP[1] e con i conservatori euroscettici, di fatto persone di tutte le convinzioni politiche sono state tirate nella mischia. Questo spiega anche la debolezza della campagna per “restare” nell’UE che ha presentato degli argomenti di buon senso e delle considerazioni razionali (dal punto di vista capitalistico), mentre la campagna “Uscire” ha fatto appello, con maggiore successo, a delle emozioni irrazionali.
I “Brexisti” hanno personalizzato il dibattito prendendo di mira i ricchi Cameron ed Osborne[2], accusati di non capire le preoccupazioni della gente comune; dicendo che la gente era stufa degli esperti e che avrebbe dovuto fidarsi del suo istinto, presentando l’immigrazione come un problema, aggravato inoltre dall’appartenenza all’UE. Hanno anche promesso 350 milioni di sterline supplementari a settimana per il NHS[3], dicendo in seguito che si trattava di un “errore”. In risposta, la campagna per “restare” ha sostenuto le sue argomentazioni sulla necessità di continuare a godere dell’appartenenza all’Unione europea, mostrando le analisi di un esercito di economisti e la testimonianza di molti uomini d’affari che riconoscevano l’importanza dell’UE. Quando la campagna per “restare” parlava dell’immigrazione, di fatto raggiungeva i fautori del Brexit dicendo che questo era un vero problema, ma insistendo sul fatto che il quadro dell’UE offriva la migliore garanzia per limitare l’arrivo di gente alla ricerca di un posto di lavoro o semplicemente di un luogo dove salvare la propria pelle.
Dopo il referendum, non ci sarà alcun “ritorno alla normalità”. Nessun partito aveva previsto di pianificare il proprio futuro in funzione di una vittoria del Brexit. Qualunque cosa accadrà, saranno quelli che soffrono già che soffriranno ancora di più. Quando Osborne ha annunciato in tutta fretta una riduzione dell’imposta sulle imprese per attirare gli investitori nel Regno Unito, è chiaro che è la classe operaia che subirà i peggiori attacchi. Sul piano economico, ci sono state molte speculazioni su ciò che accadrà ora. Come può il capitalismo difendere al meglio i propri interessi? Come possono i paesi dell’UE difendersi al meglio contro i danni collaterali del risultato del referendum? Le ripercussioni sono ovviamente internazionale. Naturalmente, ci saranno tentativi volti a limitare l’impatto sull’UE. I pericoli di contagio del Brexit su altri paesi sono reali. Un’uscita completa della Gran Bretagna potrebbe rafforzare queste forze centrifughe.
Un’altra possibile prospettiva è il rafforzamento delle tendenze separatiste. Dopo il voto scozzese, largamente a favore per “rimanere”, e le elezioni parlamentari nel 2015 dopo le quali quasi tutti i parlamentari scozzesi appartenevano all’SNP[4], esiste la possibilità di una perdita di controllo ancora maggiore al punto da minacciare la stessa unità del Regno Unito. Diversa è la situazione in Irlanda del Nord, ma ancora una volta la maggioranza era per “restare”, il che potrebbe creare ulteriori difficoltà per il Regno Unito.
Sul piano politico vi saranno nuove alleanze e non vi è alcuna garanzia che vedremo un ritorno alla classica divisione tra destra e sinistra. Le cose non si calmeranno così facilmente dopo tutte le lotte intestine all’interno del partito conservatore. Il governo conservatore era profondamente diviso sulla campagna e dopo il referendum la bagarre tra Gove[5] e Johnson[6] ha mostrato ancor più le divisioni nel campo del Brexit. Dei due candidati per la leadership conservatrice, Theresa May[7] era del fronte del “restare”, ma adesso dice che “Brexit significa Brexit”, mentre Andrea Leadsom, che nel nel 2013 dichiarava che un’uscita dall’Europa “sarebbe stata una catastrofe per la nostra economia”, ha aderito alla campagna di Brexit nel 2016[8].
La situazione all’interno del partito laburista riflette bene le difficoltà politiche incontrate dalla borghesia. Questo partito non è al governo, ma il suo ruolo all’opposizione è importante e ha bisogno di prepararsi per il futuro, quando la classe operaia comincerà a muoversi. C’è un divario tra i parlamentari laburisti che non sostengono Corbyn come leader, e i militanti del partito che l’hanno eletto[9]. I sindacati, dal canto loro, non sono uniti, ma giocheranno un ruolo nella situazione e non necessariamente nel senso della stabilità.
Il risultato del referendum in Gran Bretagna è un fatto importante che preoccupa la borghesia degli altri paesi. Se la borghesia inglese, sia di destra che di sinistra, ha difficoltà a gestire il populismo, cosa succederà negli altri paesi? Se la democrazia è uno degli strumenti principali per contenere e deviare la spinta della classe operaia e di altri strati sociali, la forza del populismo mostra che il controllo del processo democratico da parte della borghesia ha i suoi limiti e non segue sempre la volontà delle sue frazioni più illuminate.
Uno dei motivi della crescita del populismo è la debolezza della classe operaia sul piano delle sue lotte, della sua coscienza e della comprensione della sua identità. Se la classe operaia si riconoscesse capace di presentare un’alternativa al capitalismo, ciò sarebbe un fattore determinante nella prospettiva di costruire una vera comunità umana. Ma questo non è il caso oggi.
Inoltre, molti lavoratori si sono lasciati ingannare dal populismo, ingannare dall’idea che “il popolo” si deve contrapporre alle “élite”. È significativo che i lavoratori siano stati più propensi a votare “Brexit” nelle vecchie regioni industriali, che sono quelle più fortemente impoverite e trascurate. Il partito laburista aveva ritenuto che il sostegno dei lavoratori in queste regioni fosse già acquisito, ma benché la maggioranza dell’elettorato laburista abbia votato per “rimanere”, una significativa minoranza ha votato nel senso inverso. Sono questi i settori della classe operaia che hanno sofferto di più le politiche “neo-liberali” che hanno smantellato settori interi dell’industria nei vecchi paesi centrali del capitalismo, che hanno trasformato il mercato immobiliare in un’arena di sfrenate speculazioni[10], per poi proporre l’austerità come solo rimedio per evitare una disintegrazione del sistema finanziario internazionale.
Di fronte a questi attacchi, spesso presentati come le azioni d’una sorta di “Internazionale” capitalista, non è sorprendente che ampi settori della classe operaia avvertano una vera collera contro le élite, che di per sé non porta ad uno sviluppo della coscienza di classe. L'attrazione esercitata da demagoghi populisti è dovuta al fatto che questi propongono concretamente dei facili bersagli su cui rigettare la colpa di tutto: l’UE, l’élite della metropoli londinese, gli immigrati, gli stranieri, ecc. Il capitalismo genera una percezione astratta e distorta della realtà, cosa che spiega come i populisti possano cambiare gli obiettivi come se cambiassero la camicia: i regolamenti dell'Unione Europea, il terrorismo islamico, la globalizzazione, i ricchi parassiti ... Il populismo rappresenta un pericolo per la classe operaia perché non ha bisogno di essere coerente per essere efficace. Analizzare il significato di tutto questo fenomeno è una sfida importante per i rivoluzionari e noi cominciamo solo adesso a intraprendere questo lavoro.
Il referendum in Gran Bretagna, sia la sua campagna che il suo esito, è l’espressione di una situazione che cambia, direttamente influenzata dalla crescita del populismo. Questo è un problema che può solo peggiorare finché il proletariato non capirà il suo ruolo storico di classe sfruttata che ha la capacità di abbattere il capitalismo e di stabilire una comunità umana globale.
Car, 9 luglio 2016
[1] United Kingdom Independence Party, un partito della destra britannica fondato essenzialmente su un programma di uscita dall’UE.
[2] Ministro delle Finanze del governo Cameron.
[3] National Health Service (servizio pubblico di Sanità).
[4] Scottish National Party (Partito nazionalista scozzese).
[5] Michael Gove, ministro della Giustizia nel governo Cameron.
[6] Boris Johnson, vecchio sindaco di Londra fino alle ultime elezioni municipali.
[7] Segretario di Stato all’interno del governo Cameron.
[8] Depuis que cet article a été écrit, Gove et Leadsom se sont retirés de la course, laissant Theresa May comme nouveau dirigeant du Parti conservateur. Selon la constitution britannique elle devient donc automatiquement Premier ministre.
[9] I dirigenti del Partito Laburista sono eletti secondo un sistema che include i voti dei membri dei sindacati affiliati al Partito così come quelli dei militanti che hanno raggiunto il Partito individualmente. Jeremy Corbyn è stato eletto dopo la sconfitta del suo predecessore Ed Miliband nelle elezioni parlamentari del 2015. Fortemente influenzato a sinistra, è stato sostenuto, in particolare, da un gran numero di giovani che si erano appena iscritti al partito.
[10] Ci si riferisce in particolare alla politica introdotta dalla Thatcher, che ha dato agli inquilini delle case popolari di proprietà del Comune l’opportunità di poterla acquistare.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le disastrose distruzioni causate dai conflitti imperialisti generarono un mondo di rovine e di desolazione. Nel maggio del 1945, 40 milioni di persone erano profughi o rifugiati in Europa. A questi, bisognava aggiungere gli 11,3 milioni di lavoratori che erano stati arruolati di forza dalla Germania durante la guerra. Nelle altre grandi regioni del mondo, l’indebolimento delle potenze coloniali portava all’instabilità e a nuovi conflitti, specialmente in Asia e Africa, causando nel corso del tempo milioni di migranti. Tutti questi spostamenti di popolazioni provocarono terribili sofferenze e numerosi morti.
Sulle rovine ancora fumanti di questo conflitto mondiale, in seguito alle conferenze di Yalta (febbraio 1945) e di Potsdam (luglio 1945), la “cortina di ferro” che si abbatté tra gli ex alleati (le grandi potenze occidentali dietro gli Stati Uniti da un lato e l’URSS dall’altro) spinse milioni di persone a fuggire dagli odi e dalla vendetta. Con la divisione del mondo in zone di influenza dominate dai vincitori e dai loro alleati, Stati Uniti e Gran Bretagna da un lato, URSS dall’altro, veniva tracciata la nuova linea degli scontri inter-imperialisti. Era appena terminata la guerra che già si avviava il confronto tra il blocco dell’Ovest guidato dagli Stati Uniti e il blocco dell’Est sotto la guida dell’URSS. I mesi che seguirono la fine della guerra furono segnati dalle espulsioni di 13 milioni di tedeschi dei paesi dell’Est e dall’esilio di più di un milione di russi, ucraini, bielorussi, polacchi e baltici, tutti in fuga dai regimi stalinisti: “Tra 9 e 13 milioni morirono come risultato della politica dell’imperialismo alleato tra il 1945 e il 1950. Questo mostruoso genocidio ebbe tre principali focus:
- primo, nei 13,3 milioni di tedeschi etnici espulsi dalla Germania orientale, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, ecc., come permesso dall'accordo di Potsdam. Questa pulizia etnica fu così inumana che solamente 7,3 milioni di questi arrivarono alla loro destinazione all'interno delle nuove frontiere tedesche del dopoguerra; il resto “scomparve” nelle circostanze più orribili;
- secondo, nei prigionieri di guerra tedeschi che morirono a causa delle condizioni di fame e di malattia nei campi alleati - tra 1,5 e 2 milioni;
- infine, nella popolazione in generale che aveva razioni di 1000 calorie al giorno che garantivano solo un lento affamamento e malattie – ne morirono 5,7 milioni”[1]
Un gran numero di superstiti ebrei non sapeva dove andare di fronte alla recrudescenza dell’antisemitismo, specialmente in Polonia (dove scoppiarono nuovi pogrom, come quello di Kielce nel 1946) e in Europa centrale. Le frontiere dei paesi democratici dell’Occidente erano state loro chiuse. Gli Ebrei furono spesso accolti solo nei campi. Nel 1947 alcuni cercarono di raggiungere la Palestina per trovare una via di fuga dall’ostilità dell’Est e al rifiuto dell’Ovest. Costretti a farlo come clandestini furono fermati dagli Inglesi e subito internati a Cipro. Lo scopo era dissuadere e controllare queste popolazioni per mantenere l’ordine capitalista. Nello stesso periodo il numero di detenuti nei campi dei Gulag nell’URSS saliva alle stelle. Tra il 1946 e il 1950 il loro numero raddoppiò arrivando a più di due milioni di prigionieri. Moltissimi rifugiati e migranti, o profughi, finivano in questi campi per morirvi.
Questo nuovo mondo della Guerra fredda forgiato dai “vincitori della libertà” aveva generato nuove fratture, brutali divisioni che isolavano tragicamente le popolazioni le une dalle altre, provocando esili forzati.
La Germania era stata divisa sul piano imperialista. E per evitare la migrazione e il flusso delle sue popolazioni verso l’Ovest, la DDR costruì nel 1961 il “muro della vergogna”. Anche altri Stati, come la Corea e il Vietnam, furono divisi in due dalla “cortina di ferro”. La guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, divise una popolazione ormai prigioniera di due nuovi campi nemici. Questa guerra fece scomparire circa 2 milioni di civili e provocò una migrazione di 5 milioni di rifugiati. Durante tutto il periodo fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989, molte popolazioni furono costrette a fuggire dagli incessanti conflitti locali della Guerra fredda. All’interno di ogni blocco, i molteplici spostamenti sono stati spesso la diretta conseguenza di giochi politici tra le due grandi potenze americana e russa. A partire dalla repressione delle insurrezioni di Berlino-Est nel 1953 e di Budapest nel 1956 da parte dell’armata rossa, una forte propaganda alimentò i discorsi ideologici dei due campi rivali a proposito dei 200.000 rifugiati che erano arrivati in Austria e in Germania. Tutte le guerre alimentate in seguito dai due grandi blocchi militari Est-Ovest hanno continuato a generare un numero ingente di vittime che sono state sistematicamente sfruttate dalla propaganda di ogni campo opposto.
Le brutali divisioni della Guerra fredda, sono proseguite negli anni ‘50 con i movimenti di decolonizzazione che hanno alimentato la migrazione e la divisione del proletariato. Dopo gli inizi del periodo di decolonizzazione e soprattutto negli anni ‘80, in cui i conflitti della Guerra fredda si sono intensificati e esacerbati, le cosiddette “lotte di liberazione nazionale” (in Africa, Asia, America latina e Medio Oriente) sono state particolarmente cruente. Relegati alla periferia geografica delle grandi potenze capitaliste, questi conflitti hanno potuto dare l’illusione di una “era di pace” in Europa mentre le ferite profonde che si aprivano e gli spostamenti forzati di masse di migranti erano tragedie che apparivano “lontane” (tranne che naturalmente per i vecchi coloni venuti da queste regioni e dalle nazioni direttamente coinvolte). In Africa, dopo la fine dell’era coloniale, ci sono state molte guerre e tra le più cruente al mondo.
In tutti questi conflitti le grandi potenze, come la Gran Bretagna o la Francia (che fungeva allora da “gendarme dell’Africa” per conto del blocco occidentale contro l’URSS), erano pienamente coinvolte militarmente sul terreno dove prevaleva la logica dei blocchi Est-Ovest. Ad esempio, il Sudan aveva appena ottenuto la sua indipendenza nel 1956 che una terribile guerra civile coinvolse le potenze coloniali e questo fu sfruttato dai blocchi, facendo almeno 2 milioni di morti e più di 500.000 rifugiati (obbligati a trovare asilo nei paesi vicini). L’instabilità e la guerra diventarono permanenti. La terribile guerra del Biafra che generò carestie ed epidemie con almeno 2 milioni di morti e altrettanti rifugiati. Tra il 1960 e il 1965 la guerra civile nell’ex Congo belga e la presenza di mercenari fecero numerose vittime e numerosi profughi. Si potrebbero moltiplicare gli esempi, come quello dell’Angola devastata dalla guerra dopo le prime insurrezioni popolari a Luanda nel 1961. Dopo la sua indipendenza nel 1975, seguirono molti anni di guerre che videro contrapposte le forze del MPLA al potere (Movimento di Liberazione dell’Angola sostenuto da Mosca) ai ribelli dell’UNITA (sostenuti dall’Africa del sud e dagli Stati Uniti): non meno di un milione di morti e 4 milioni di profughi di cui mezzo milione di rifugiati finirono nei campi.
Gli innumerevoli conflitti su questo continente hanno destabilizzato regioni intere, come l’Africa occidentale e la regione strategica dei Grandi Laghi. Si potrebbero prendere esempi anche in America centrale o in Asia, con i tanti momenti di cruenta guerriglia. L’intervento sovietico in Afghanistan nel 1979 ha segnato un’accelerazione di questa spirale infernale, portando all’esodo di 6 milioni di persone, la più grande popolazione di rifugiati al mondo.
I nuovi Stati o nazioni che emergevano in seguito ai grandi spostamenti erano il prodotto diretto delle divisioni imperialiste e della miseria, il frutto del nazionalismo, delle espulsioni e delle esclusioni. In breve, un puro prodotto del clima di guerra e di crisi permanente generato dal capitalismo decadente. La formazione di questi nuovi Stati era un vicolo cieco che poteva solo alimentare tensioni devastanti. La divisione dell’India del 1947, poi la creazione del Bangladesh in seguito, costrinsero più di 15 milioni di persone a spostarsi sul sub-continente indiano. Un altro esempio significativo fu la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, una vera fortezza assediata. Questo nuovo Stato, passato da 750.000 abitanti a 1,9 milioni nel 1960, divenne il centro di una spirale infernale di guerre interminabili che portò all’aumento di campi di rifugiati palestinesi un po’ dappertutto. Nel 1948, furono deportati 800.000 palestinesi e la striscia di Gaza divenne poco a poco un immenso campo a cielo aperto. I campi di rifugiati palestinesi a Beirut, Damasco, Amman, si trasformarono poco a poco in quartieri di periferia di queste capitali.
Problemi simili, di migrazione e deportazione, si manifestarono ampiamente in tutto il pianeta. In Cina, milioni di persone vennero sfollate, vittime anch’esse dei massacri della feroce oppressione giapponese durante la guerra. Dopo la vittoria delle truppe maoiste nel 1949, circa 2,2 milioni di cinesi scapparono a Taiwan e 1 milione a Hong-Kong. In seguito la Cina si chiuse in una relativa autarchia per cercare di colmare il suo ritardo economico. All’inizio degli anni ‘60 intraprese allora un’industrializzazione forzata e lanciò la politica del “Gran balzo in avanti” che imprigionò la sua popolazione in una sorta di campo di lavoro nazionale prevenendo ogni tentativo di migrazione. Questa brutale politica di sradicamento e di repressione praticata a partire dall’era di Mao portò ad un aumento dei campi di concentramento (laogai). Le carestie e la repressione provocarono in totale non meno di 30 milioni di morti. Più recentemente, negli anni ‘90, la massiccia urbanizzazione del paese ha strappato alla terra non meno di 90 milioni di contadini. Altre crisi hanno colpito l’Asia, come la guerra civile in Pakistan e la fuga dei Bengalesi nel 1971. Allo stesso modo, la presa di Saigon nel 1975 (da un regime di tipo stalinista) provocò l’esodo di milioni di rifugiati, le “boat-people”. Morirono più di 200.000 persone[2]. Seguiva il terribile genocidio dei Khmer rossi in Cambogia che fece 2 milioni di morti: i rifugiati erano dei rari superstiti.
I rifugiati sono sempre stati moneta di scambio per i peggiori ricatti politici, usati come giustificazione per interventi militari tramite potenze interposte, a volte sono stati usati come “scudi umani”. E’ difficile valutare il numero di vittime che hanno pagato i costi dei conflitti della Guerra fredda e darne una cifra precisa, ma “Alla Word Bank Conference del 1991, Robert Mc Namara, vecchio Segretario di Stato alla Difesa sotto Kennedy e Johnson, ha fornito un quadro delle perdite registrate su ogni teatro di operazioni il cui totale supera i 40 milioni”[3]. Il nuovo dopoguerra ha tuttavia solo aperto un nuovo periodo di barbarie, che accresce ulteriormente le divisioni in seno alle popolazioni e alla classe operaia, semina la morte e la desolazione. Militarizzando ancora di più le frontiere, gli Stati hanno esercitato un controllo globalmente superiore e più violento su delle popolazioni già dissanguate dalla Seconda Guerra mondiale.
Agli inizi di questa guerra fredda, le migrazioni non furono solo provocate dai conflitti di guerra o da fattori di natura politica. I paesi d’Europa che erano stati in gran parte devastati dalla guerra avevano bisogno di una rapida ricostruzione. Ma questa ricostruzione doveva anche colmare un calo della crescita demografica (dal 10 al 30% degli uomini erano stati uccisi o feriti durante la guerra). Il fattore economico e demografico giocava dunque un ruolo importante nel fenomeno delle migrazioni. Dovunque c’era bisogno di manodopera disponibile e a basso costo.
E’ per questo che la Germania Est fu costretta a costruire un muro per fermare la fuga della sua popolazione (3,8 milioni avevano già varcato la frontiera verso l’Ovest). Le ex potenze coloniali favorivano l’immigrazione, in primo luogo dai paesi dell’Europa del sud (Portogallo, Spagna, Italia, Grecia…). All’inizio, un buon numero di questi migranti arrivava legalmente, ma anche clandestinamente grazie a procacciatori e scafisti spesso organizzati. Il bisogno di manodopera permetteva alle autorità dell’epoca di chiudere un occhio favorendo queste migrazioni irregolari. In questo modo, tra il 1945 e il 1974, un buon numero di lavoratori portoghesi e spagnoli lasciarono i regimi di Salazar e di Franco. Fino all’inizio degli anni ‘60 gli italiani venivano reclutati in Francia, prima dal nord Italia e poi dal sud, fino alla Sicilia. Poi un poco più tardi toccò alle ex colonie dell’Asia e dell’Africa fornire nuovi contingenti per una manodopera docile e a basso costo. In Francia, ad esempio, tra il 1950 e il 1960, il numero di Magrebini è passato da 50.000 a 500.000.
Lo Stato costruì delle case apposite per i lavoratori migranti per tenerli lintani dalla popolazione. Questa manodopera straniera era in effetti ritenuta “a rischio”, cosa che permetteva di giustificare la sua marginalizzazione. Ma ciò non impediva di assumerli a basso costo per lavori pesanti, sapendo che li si poteva espellere dall’oggi al domani. L’alto turnover di questi lavoratori di recente arrivo permise uno sfruttamento frenetico e privo di scrupoli, in particolare nelle industrie chimiche e metallurgiche. Per rispondere alle necessità industriali, tra il 1950 e il 1973, circa 10 milioni di persone emigrarono verso l’Europa occidentale[4].
Questa situazione fu naturalmente sfruttata dalla borghesia per dividere gli operai e aizzarli gli uni contro gli altri, per generare la concorrenza e la diffidenza da ambo le parti. Con la ripresa delle lotte operaie nel 1968 e le ondate di lotte che seguirono, questi fattori di divisione andarono ad alimentare le numerose manovre di divisione dei sindacati e le campagne ideologiche della borghesia. Da un lato venivano incoraggiati i pregiudizi razziali e xenofobi; dall’altro, la lotta di classe era in parte sviata dall’antirazzismo, utilizzato spesso come diversivo alle rivendicazioni operaie. Man mano il veleno si era insediato e gli stranieri diventavano “indesiderabili”, o erano presentati come “assistiti” e “profittatori”, quasi dei “privilegiati”. Tutto alimenterà le ideologie populiste facilitando le espulsioni a vagonate dopo gli anni ‘80.
WH (aprile 2016)
Nel prossimo e ultimo articolo di questa serie, affronteremo il tema dei migranti dagli anni ‘80 al periodo attuale caratterizzato dalla fase ultima di decomposizione del sistema capitalista.
[1] Vedi:, Berlin 1948: The Berlin Airlift hides the crimes of allied imperialism [17], o Berlin 1948 : en 1948, le pont aérien de Berlin cache les crimes de l'impérialisme allié [18]
[2] Fonte : HCR (Haut-commissariat aux Réfugiés)
[3] André Fontaine, The Red Spot. The Romance of the Cold War, Editions La Martinière, 2004
[4] Fonte: www.coe.int/t/dg4/education/historyteaching/Source/Projects/DocumentsTwentyCentury/Population_fr.pdf [19]
All'inizio degli anni ‘30, la sconfitta del proletariato si era era ormai realizzata e la rivoluzione mondiale era stata completamente schiacciata. I bagni di sangue successivi in Russia e Germania, dopo la disfatta del proletariato a Berlino nel 1919, la ricerca di capri espiatori, l'umiliazione causata dal Trattato di Versailles e la necessità di vendetta, rappresentarono un nuovo passo in avanti nella spirale di orrori del capitalismo del XX secolo.
Nel proclamare il "socialismo in un solo paese", il nuovo regime stalinista in Russia si preparò ad una corsa all'industrializzazione per cercare di recuperare il proprio ritardo. La pianificazione per l'industria pesante e la fabbricazione di armi portarono ad uno sfruttamento estremo. Fino alla terribile depressione del 1930, anche i paesi “vincitori" ebbero però bisogno di una manodopera occidentale a basso costo che bisognava dividere e controllare. Ma con la crisi economica e la disoccupazione di massa, i migranti e i rifugiati divennero sempre più apertamente “indesiderabili”. Pertanto il movimento migratorio cominciò ad essere frenato sempre più brutalmente a cominciare dal 1929, specialmente negli Stati Uniti[1]. Questi ultimi, che avevano stabilito delle quote, “filtravano” i migranti dividendoli e separandoli dagli altri proletari. In un tale contesto, gli spostamenti di popolazioni, quelli dei deportati e dei rifugiati, che si formarono forzatamente (durante e dopo la guerra) avvennero in condizioni terribili: spesso finendo nei campi di concentramento che cominciavano a diffondersi un po’ ovunque. Mentre la crisi e le tensioni imperialiste si stavano estendendo sempre più, la classe operaia sconfitta non riusci ad opporsi. Ciò si sarebbe tradotto in Spagna nel 1936, con l'inizio dell’inquadramento del proletariato nella guerra, in nome de “l’antifascismo”. Questa nuova guerra totale avrebbe mobilitato molto più brutalmente e massicciamente le popolazioni civili (donne, giovani, anziani) rispetto alla prima. Sarebbe stata molto più distruttiva e barbara. Lo Stato, intervenendo più direttamente su tutta la vita sociale, avrebbe aperto un'epoca da campo di concentramento, generando deportazioni, "pulizia etnica", carestie e stermini.
La violenza stalinista tanto brutale quanto imprevedibile, ne fu un primo esempio. Lo Stato non esitò durante le purghe ad arrestare i veri comunisti, a dare la morte al 95% dei dirigenti di una regione, a deportare intere popolazioni per il monitoraggio e il controllo del suo territorio. Negli anni 1931-1932 Stalin utilizzò con freddezza “l'arma della fame” nel tentativo di spezzare la resistenza degli Ucraini alla collettivizzazione forzata. La terribile carestia, provocata consapevolmente, fece 6 milioni di morti! In Siberia e altrove, milioni di uomini e donne vennero condannati ai lavori forzati. Nel 1935, ad esempio, 200.000 detenuti furono costretti a scavare il canale Mosca-Volga-Don e altri 150.000 il secondo percorso della Transiberiana. La collettivizzazione brutale delle campagne, dove milioni di kulaki furono deportati in zone di insediamento inospitali, i piani per l'industria pesante e lo sfruttamento a marce forzate, dove gli operai si ammazzavano di lavoro (in senso letterale), permisero di alimentare l'ossessione di Stalin di “recuperare il ritardo con i paesi capitalisti”[2]. Anche prima della sua entrata in guerra, nel 1941, lo Stato stalinista stava conducendo una vera e propria “pulizia etnica” ai suoi confini, al fine di garantire la propria sicurezza. Diverse popolazioni erano sospettate di “collaborare” con il nemico tedesco e venivano pertanto assoggettate di forza a grandi spostamenti di massa. Nel 1937 la deportazione in Asia Centrale di 170.000 coreani sulla base di soli motivi etnici, che portò a pesanti perdite, costituì la premessa di quanto sarebbe accaduto. Tra tutti gli spostamenti che seguirono, 60.000 polacchi vennero spediti nel Kazakhstan nel 1941. Diverse ondate di deportazioni ebbero luogo in seguito dopo la rottura del patto germano-sovietico, in particolare per le popolazioni di origine tedesca, soprattutto nelle repubbliche baltiche diventate apertamente “nemici del popolo”: 1,2 milioni di persone vennero esiliate da un giorno all’altro in Siberia e in Asia centrale. Tra il 1943 e il 1944 toccò alle popolazioni del Caucaso del nord (Ceceni, Ingusci, ...) e della Crimea (Tartari) essere brutalmente deportate. Molte di queste vittime affamate, criminalizzate e bandite dallo Stato “socialista” morirono durante il trasporto in carri bestiame (per mancanza di acqua, cibo e malattie come il tifo). Se la popolazione locale in generale mostrò grande solidarietà verso quei sfortunati proscritti, la propaganda ufficiale manteneva intorno a questi nuovi schiavi un clima di odio. Durante il trasporto venivano spesso colpiti da lanci di pietre accompagnati dai peggiori insulti. All'arrivo, secondo un rapporto di Beria del luglio 1944, “alcuni presidenti di kolchoz (fattorie collettive) organizzavano pestaggi allo scopo di giustificare il loro rifiuto ad assumere deportati fisicamente degradati”[3]. In queste condizioni estreme, “da dieci a quindici milioni di sovietici” vennero inviati in “campi di rieducazione attraverso il lavoro”, ufficialmente creati dal regime dagli anni ‘30[4].
In Germania, quando i nazisti salirono al potere molto tempo prima della loro attività di sterminio, i campi di concentramento moltiplicatisi sul territorio, in particolare in Polonia, erano innanzitutto dei campi di lavoro. Questa tendenza allo sviluppo di campi un po’ dappertutto (anche negli Stati democratici come la Francia e gli Stati Uniti) per i prigionieri o i rifugiati, avevano come scopo, oltre al controllo sulla popolazione, lo sfruttamento quasi gratuito di forza lavoro. Vendendo tradizionalmente la sua forza-lavoro, il proletario permette al capitalista di estrarre plusvalore, vale a dire il profitto. I termini di questo “contratto” assicurano uno sfruttamento che spinge alla massima produttività, garantendo la semplice riproduzione della forza lavoro attraverso il basso livello dei salari. Nei campi di concentramento la forza lavoro veniva sfruttata in modo quasi assoluto. In Germania, i deportati lavoravano oltre 12 ore al giorno, con qualsiasi tempo, sotto il comando dei “kapò”. Fabbriche di armi segrete o filiali di grandi aziende tedesche si trovavano nei campi di concentramento o nelle vicinanze. Queste industrie di guerra godettero del lavoro quasi gratis, abbondante e facilmente rinnovabile. La riproduzione della forza lavoro era ridotta a mera sopravvivenza del lavoratore/prigioniero, la bassissima produttività di questa forza lavoro era parzialmente compensata dai costi di manutenzione molto bassi. Il cibo era limitato al minimo vitale, così come il trasporto, spesso ridotto all’unico spostamento in una zona remota e isolata, quella del campo. Negli Stati democratici, i campi venivano utilizzati anche nell’ottica di un rafforzamento del controllo sociale da parte dello Stato nei confronti delle popolazioni prigioniere e/o lo sfruttamento della loro forza lavoro. Così, ad esempio, si comportò il governo francese di fronte all'afflusso dei rifugiati spagnoli (120.000 tra giugno e ottobre 1937, 440.000 nel 1939), questi “indesiderabili” dai “comportamenti rivoluzionari”[5]. In Nord Africa, 30.000 di essi vennero utilizzati per i lavori forzati. I rifugiati spagnoli furono ammassati sul suolo francese nei campi di internamento (le stesse autorità parlavano di “campi di concentramento”) montati frettolosamente nel sud (in particolare sulle spiagge di Roussillon). Questi rifugiati raggiunsero, ad esempio, il numero di 87.000 a Argelès, sfruttati come schiavi in condizioni spaventose, dormendo sulla sabbia, sorvegliati dai “kapò” della Guardia Repubblicana e dai fucilieri senegalesi. Tra febbraio e luglio 1939, circa 15.000 rifugiati spagnoli morirono nei campi, la maggior parte per esaurimento e per la dissenteria.
Più tardi, durante la guerra, tra i molti esempi, si potrebbero citare gli Stati Uniti che internarono dal marzo 1942 al marzo 1946 più di 120.000 persone. Si trattava di una popolazione giapponese-americana rinchiusa nei campi di concentramento al nord e ad est della California. Questi uomini vennero trattati in un modo terribile come i peggiori criminali e quelli che subiscono la xenofobia di Stato[6].
Abbiamo detto che i campi di concentramento in Germania erano innanzitutto campi di lavoro. I maggiori spostamenti di popolazione vennero fatti in direzione della Germania con la forza, attraverso misure quali il STO (servizio di lavoro obbligatorio) in Francia, saccheggi, deportazioni di massa di ebrei e raid un po’ ovunque, soprattutto in Europa. Nelle fabbriche, nell'agricoltura e l'industria mineraria, un quarto della forza lavoro era rappresentato dal lavoro forzato, in particolare nel quadro del “Generalplan Ost”. Tra 15 e 20 milioni di persone furono deportate dalla Germania nazista per far girare la sua macchina da guerra! Tale politica aumentò il numero di rifugiati in fuga dal regime e la conseguente caccia all'uomo. Negli anni ‘30, si ebbero circa 350.000 rifugiati provenienti dalla Germania nazista, 150.000 dall’Austria (dopo l'Anschluss) e dalla regione dei Sudeti (dopo l'annessione alla Germania nazista).
Dal 1942, con il progetto di “soluzione finale”, i campi di concentramento come Auschwitz-Birkenau, Chelmno, Treblinka, Belzec, Sobibor, Maidaneck ... si trasformeranno in campi di sterminio. In condizioni atroci, tra le tantissime vittime, sei milioni di ebrei arrivarono ammassati nei convogli e massacrati, la maggior parte asfissiati e bruciati in forni crematori. Il più grande contingente sinistro di vittime fu fornito dalla Polonia (3.000.000) e l’URSS (1.000.000). I campi di sterminio come quello di Auschwitz (1,2 milioni) e Treblinka (800.000) funzionavano a pieno regime. Questa barbarie è ben nota perché, dopo la guerra, è stata ampiamente esposta e sfruttata ideologicamente fino alla nausea da parte degli Alleati e utilizzata come alibi per giustificare o nascondere i propri crimini.
In realtà, una mentalità pogromista si era installata già negli anni ‘20 sancendo la sanguinosa sconfitta del proletariato e delle sue principali figure rivoluzionarie assimilate a “giudei”: “anche se molti rivoluzionari ebrei come Trotskij e Rosa Luxemburg si considerano non ebrei (...) l'Israelita appare come il foriere della sovversione, come un agente distruttivo dei valori fondamentali: patria, famiglia, proprietà, religione. L’entusiasmo di molti Ebrei verso tutte le forme dell’arte moderna o dei nuovi mezzi di espressione come il cinema, giustifica ulteriormente questa reputazione di spirito corrosivo”[7]. La sconfitta della rivoluzione permise alle grandi democrazie di vedere in Hitler né più né meno che un “baluardo” efficace “contro il bolscevismo”. Per tutti gli Stati dell’epoca l'amalgama ebreo-comunista era molto comune. Churchill stesso accusava gli ebrei di essere responsabili della rivoluzione russa: “Non c'è bisogno di esagerare il ruolo svolto nella creazione del bolscevismo e l'arrivo della Rivoluzione russa da questi ebrei internazionalisti ed in gran parte atei”[8]. L'idea di un complotto “giudaico-marxista”, inizialmente veicolato dalle “armate bianche”, maturò sulla base di un diffuso antisemitismo “è necessario sottolineare che Hitler non è all’origine di questo antisemitismo (...) dopo la Prima guerra mondiale, questo antisemitismo è presente nella maggior parte dei paesi europei”[9].
Gli ebrei finirono dunque per poter essere sistematicamente stigmatizzati, emarginati, diventare capro-espiatorio senza che ciò turbasse i dirigenti democratici, di cui alcuni, come Roosevelt, avevano già apertamente inclinazioni xenofobe ed antisemite. Gran parte degli ebrei che si trovavano in Polonia, in URSS e nei ghetti erano già stati costretti spesso a fuggire dai paesi democratici proprio per questo antisemitismo (contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, l’antisemitismo del regime di Vichy, per esempio, non è un fenomeno spontaneo, né specifico). Pertanto, nel 1935 le leggi antisemite di Norimberga poterono passare, non a caso, praticamente inosservate. Facendo degli Ebrei dei cittadini a parte ed emarginati, descrivendoli come “esseri dannosi”, fu possibile saccheggiare impunemente ed in buona coscienza le loro proprietà. Tutta questa dinamica, questo terreno nauseabondo costituirono l’alveo per la propaganda igienista e eugenista dei nazisti. Nel gennaio 1940, la “Aktion T4” in Germania con la sua programmazione metodica dell’eliminazione di handicappati fisici e mentali prefigurava già l’Olocausto. Di fronte alla tragedia che si configurava, gli Alleati rifiutarono di aiutare gli Ebrei “per non destabilizzare lo sforzo di guerra” (Churchill). Gli Alleati si sono quindi resi corresponsabili e complici di un genocidio che è stato prima di tutto un prodotto del sistema capitalistico. Ben presto i paesi democratici chiusero le porte rifiutandosi di fornire assistenza agli Ebrei, percepiti come reietti che non volevano in casa propria[10]. Ad esempio, di fronte alla repressione nazista e alle persecuzioni, il governo del Fronte Popolare in Francia si dimostrò inamovibile. Dietro la patina democratica, una circolare firmata da Roger Salengro, datata 14 agosto 1936, affermava: "non lasciar più (...) penetrare in Francia alcun emigrante tedesco e procedere alla deportazione di qualsiasi straniero, tedesco o proveniente dalla Germania, entrato dopo 5 Agosto 1936, non fornito del denaro necessario..."[11].
Tutte le azioni e le misure amministrative destinate a deportare, dare la caccia e sterminare le popolazioni si rivelarono molto più imponenti, e soprattutto con conseguenze ben più drammatiche, rispetto al 1914-1918. Il numero di rifugiati/migranti divenne sproporzionato. La violenza usata - dai campi di concentramento e le camere a gas, al bombardamento a tappeto, ai gas di fosforo, dalle bombe nucleari, all'uso di armi chimiche e biologiche - fece molte vittime e causò sofferenze durature anche dopo la guerra, con una quantità innumerevole di traumi. Il bilancio è terrificante! Le distruzioni alla fine del conflitto provocarono in totale quasi 66 milioni di morti (20 milioni di soldati e 46 milioni di civili) contro i 10 milioni del 1914-1918! Alla fine della seconda guerra mondiale fu necessario reintegrare 60 milioni di persone, dieci volte di più rispetto alla prima guerra mondiale! Al centro della stessa Europa, vi furono 40 milioni sono morti. In Asia orientale e Cina più di 12 milioni di persone perirono in scontri militari diretti e in Cina si registrarono circa 95 milioni di rifugiati. Durante la guerra, dei luoghi ed alcune battaglie militari hanno visto le carneficine più grandi della storia. Giusto qualche esempio: a Stalingrado circa un milione di uomini dei due campi avversi son morti sotto un fuoco infernale. In un assedio durato circa tre anni ne sono morti 1.800. La battaglia per la presa di Berlino uccise 300.000 soldati tedeschi e russi e più di 100.000 civili. La famosa battaglia di Okinawa uccise 120.000 soldati, ma anche 160.000 civili. Le truppe giapponesi uccisero 300.000 cinesi a Nánjīng! Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, secondo lo storico Howard Zinn, fecero fino a 250.000 morti! Il terribile bombardamento americano di Tokyo, nel marzo 1945, provocò 85.000 morti. In Unione Sovietica vi furono 27 milioni di vittime. L’Ucraina perse il 20% della sua popolazione, la Polonia il 15% (per lo più ebrei). Centinaia di città in Europa vennero parzialmente devastate o quasi distrutte. In Russia furono colpite 17.00 città, 714 in Ucraina con quasi 700.00 villaggi distrutti! In Germania, il tappeto incendiario di bombe al fosforo degli Alleati e il “Bomber Command” provocarono un numero enorme di vittime, radendo al suolo le città di Dresda e Amburgo (quasi 500.00 morti). Una città come Colonia venne distrutta al 70%! Alla fine della guerra si stima che in Germania si ebbero tra i 18 e i 20 milioni di senza tetto, 10 milioni in Ucraina! Il numero di orfani di guerra è parlante: 2 milioni in Germania, più di un milione in Polonia. Circa 180.000 bambini ridotti al rango di vagabondi per le strade di Roma, Napoli e Milano.
Le sofferenze terribili causate da queste distruzioni furono accompagnate molto spesso da tremende vendette e atti barbarici sulla popolazione, che terrorizzavano civili e rifugiati. Questo fu operato dagli Alleati, tuttavia presentati come “grandi liberatori”: "l’arroganza, il fulmine della vendetta si abbatte sui sopravvissuti; la scoperta delle atrocità commesse dai vinti alimenta la buona coscienza del conquistatore”[12].
L'accumulazione di violenza generata dal capitalismo decadente, una volta liberata, produce gli scenari più atroci, quello della “purificazione etnica” e di atti di crudeltà inimmaginabili. Durante e dopo la guerra in Croazia, quasi 600.000 serbi, musulmani ed ebrei vennero uccisi dal regime ustascia che desiderava “ripulire” l'intero paese. Comunità greche furono massacrate dall'esercito bulgaro, gli ungheresi fecero lo stesso con i serbi in Vojvodina. Durante la guerra, le sconfitte vennero sempre accompagnate da tragiche migrazioni. Ad esempio, cinque milioni di tedeschi fuggirono davanti all'Armata Rossa e molti morirono a causa dei linciaggi lungo le strade. Ecco uno degli episodi “eroici” dei "liberatori", di questi “cavalieri della libertà”, che cinicamente dopo la guerra assunsero il ruolo di procuratore, nonostante i loro impuniti crimini: “non si può ancora dimenticare lo spaventoso calvario delle popolazioni tedesche dell’est all’avanzata dell'’armata rossa (...) il soldato sovietico diventa lo strumento di una volontà fredda, deliberata di sterminio (...). Colonne di rifugiati vengono schiacciati sotto i cingolati dei carri armati o mitragliati sistematicamente dall'aviazione. La popolazione di intere città è massacrata con raffinata crudeltà. Donne nude crocifisse sulla porta del fienile. Bambini ce vengono decapitati o gli viene schiacciata la testa con il calcio dei fucili, o vengono gettati vivi nelle vasche dei maiali (...). La popolazione tedesca di Praga viene massacrata con raro sadismo. Dopo essere state violentate, alle donne vengono tagliati i tendini di Achille condannandole a morire in terra nel loro stesso sangue dopo una atroce agonia. Bambini vengono mitragliati all’uscita delle scuole, buttati giù dai piani superiori degli edifici o annegati nelle fontane; in totale, più di 30.000 vittime (...) la violenza non risparmia i giovani ausiliari delle trasmissioni della Luftwaffe gettati vivi nei pagliai in fiamme. Per settimane la Vltava (Moldava) trasporta migliaia di corpi; intere famiglie sono inchiodate su delle zattere"[13].
E difficile dire quante donne furono violentate da soldati tedeschi durante la guerra. Quello che è certo è che un'altra prova attendeva le forze degli Alleati che avanzavano, occupando il territorio “liberato”: un milione di donne stuprate in Germania da parte delle truppe alleate. Solo a Berlino circa 100.000 casi. Le stime per Budapest sono dai 50.000 a 1000.00 stupri.
Quello che vogliamo sottolineare è che lungi dall'essere intervenuti per la “difesa della libertà”, gli Alleati e le grandi democrazie entrarono in guerra per difendere interessi puramente imperialistici. Se ne infischiavano completamente del destino delle popolazioni e dei profughi, fin tanto che non ne avevano il carico o non potevano servirsene per sfruttare il loro lavoro. Non fecero mai menzione della sorte degli Ebrei nella loro propaganda durante la guerra, ma negarono loro l’assistenza e, anzi, li abbandonarono nelle mani dei nazisti. Il motivo dell’entrata in guerra degli Alleati quindi fu ben diverso da quello di un desiderio di “liberazione”. Per la Francia e la Gran Bretagna si trattò in realtà di difendere “l'equilibrio europeo”. Per gli Stati Uniti di bloccare l’espansione e la minaccia dell'URSS. Per quest'ultima lo scopo era estendere la sua influenza nell'Europa occidentale. In breve, ragioni puramente strategiche, imperialiste e militari. Nulla di più classico! Non agirono per “liberare la Germania” dalla “peste nera”. Questa falsità è solo una montatura diabolica orchestrata quando furono liberati i campi. Tutto era stato già predisposto dallo stato-maggiore alleato e i suoi politici, preoccupati di nascondere i propri crimini (a meno di non essere tanto ingenui da pensare che militari e politici democratici non fanno mai propaganda!). Il fatto che la “liberazione” ha potuto porre fine alle pratiche di tortura del nemico, è soprattutto una conseguenza indiretta del raggiungimento di un obiettivo puramente militare, non è frutto di ragioni “umanitarie”.
La prova più eloquente è che dopo la guerra le grandi potenze democratiche hanno continuato a difendere i propri interessi imperialisti generando nuove vittime, massacri coloniali, nuove fratture che hanno prodotto ancora rifugiati e indigenti.
WH (18 luglio 2015)
Nei prossimi articoli affronteremo la stessa questione a partire dalla Guerra fredda sino alla caduta del muro di Berlino per arrivare ad oggi.
[1] Vedi: "Immigrazione e movimento operaio [21]", ICConline 2015.
[2] Precisiamo che la stessa Russia stalinista era in realtà un paese capitalista, un'espressione caricaturale della tendenza al capitalismo di Stato nella decadenza di questo sistema.
[3] Isabelle Ohayon, « La déportation des peuples vers l’Asie centrale » Le XXe siècle des guerres, Editions de l’Atelier, 2004
[4] Marie Jego, Le Monde, 3 mars 2003
[5] P. J Deschodt, F. Huguenin, La République xénophobe, JC Lattès
[6] Secondo un veterano di Guadalcanal “il Giapponese non può essere considerato come un intellettuale (...), è piuttosto un animale” e un generale dei Marines ha anche affermato: “uccidere un Giapponese, è come uccidere un serpente”. Vedi Phil Masson, “Une guerre totale”, Edt. Pluriel.
[7] Ph. Masson, op cit.
[8] Illustrated Domenica Herald, 8 febbraio 1920, citato da Wikipedia
[9] Ph Masson, op. cit.
[10] Leggi la brochure “Fascisme & démocratie deux expressions de la dictature du capital » alla pagina https://fr.internationalism.org/french/brochures/introduction_fascisme_et_democratie [22]
[11] P. J Deschodt, F. Huguenin, op.cit
[12] Ph. Masson, op. cit.
[13] Cfr Ph. Masson, op. cit.
Radunando ogni sera qualche migliaio di partecipanti, in particolare in piazza della Republique a Parigi, il movimento “Nuit Debout” (notti in piedi) è al centro dell'attualità dal 31 marzo. Vi si riuniscono persone di ogni tipo, dai liceali agli universitari, dai precari ai lavoratori, dai disoccupati ai pensionati, il cui punto di incontro è la voglia di stare insieme, di discutere, di stringere le fila contro le avversità di questo sistema... La sincerità di molti partecipanti è innegabile; le ingiustizie li indignano ed essi aspirano al fondo ad un altro mondo, più solidale e più umano. Tuttavia, Nuit Debout non svilupperà affatto la loro lotta e la loro coscienza. Al contrario, questo movimento li conduce in un vicolo cieco e rafforza le visioni più conformiste che ci siano. Peggio ancora, Nuit Debout permette anche che si spargano senza ostacoli idee nauseabonde, come la personalizzazione dei mali della società attribuiti a qualche rappresentante del sistema (i banchieri, l'oligarchia...). Nuit debout in questa maniera non inganna solo quelli che vi partecipano con sincerità, ma rappresenta anche un nuovo colpo portato dalla borghesia alla coscienza di tutta la classe operaia.
Il progetto di legge sul lavoro simbolizza da solo la natura borghese e antioperaia del partito socialista. Questa riforma, che implica una fortissima degradazione delle condizioni di vita, cerca di dividere sempre più i lavoratori salariati, mettendoli in concorrenza gli uni con gli altri. Alla base di questo progetto c'è la generalizzazione della contrattazione fabbrica per fabbrica, per la durata della settimana lavorativa, i salari, i licenziamenti...
Per favorire l'accettazione di questa nuova legge, i sindacati hanno fatto il loro gioco abituale: hanno gridato allo scandalo, rivendicato la modifica o il ritiro di certe parti del testo iniziale e preteso di “fare pressione” sul governo socialista con l'organizzazione di molteplici giornate di azione e di manifestazioni. Quelle sfilate sindacali che consistono nel calpestare la strada gli uni dietro gli altri, sotto il rumore degli altoparlanti e di slogan ripetuti fino alla nausea (“I lavoratori sono sfilati, El Khomri[1] sei fregato” “Sciopero, sciopero generale! Sciopero, sciopero generale! ecc.), senza poter discutere e costruire qualche cosa insieme, hanno come solo effetto di demoralizzare e diffondere un senso di impotenza.
Nel 2010 e 2011, davanti alla riforma delle pensioni, le stesse giornate di azione sindacale si erano susseguite le une alle altre per dei mesi, radunando spesso parecchi milioni di persone, per, alla fine, lasciar passare l'attacco e, peggio ancora, provocare una demoralizzazione che pesa ancora molto fortemente su tutta la classe operaia.
Se oggi c'è una differenza notevole rispetto ai movimenti del 2010 e del 2011 è che il fenomeno Nuit debout beneficia di una copertura mediatica e politica di un'ampiezza e di una compiacenza rari per un movimento presunto sociale e contestatario.
“Nuit debout: il campo del possibile” o “Nuit debout, rianimiamo l'immaginario cittadino”, titola il giornale Libération, secondo cui “L'esito politico del movimento Nuit debout importa poco... E se, nelle pubbliche piazze e altrove, si fabbricasse una politica più degna e quotidiana?” Questo sostegno è reale anche a livello internazionale. Numerosi mezzi di informazione in giro per il mondo fanno una vera pubblicità alle assemblee generali di Nuit debout che reinventerebbero, secondo loro, la politica e il mondo. Certi personaggi politici di sinistra e di estrema sinistra, che sono anche andati a metterci il loro naso, sono altrettanto elogiativi. Jean-Luc Mélenchon, cofondatore del Partito di sinistra, si è complimentato per questi assembramenti, esattamente come il segretario nazionale del Partito comunista francese, Pierre Laurent. Per Julien Bayou (EELV [23]), Nuit debout “è un esempio di democrazia radicalizzata in tempo reale”. Anche Nathalie Kosciusko-Morizet, candidata alle primarie di destra, dice di “sentire” nella piazza degli slogan “interessanti”, come, per esempio, “Noi non siamo solamente degli elettori, siamo anche dei cittadini”. Anche il presidente della repubblica, François Hollande, ha voluto lasciare il suo piccolo saluto: “Io trovo legittimo che la gioventù voglia esprimersi rispetto al mondo com'è oggi, e anche rispetto a come è la politica, che voglia dire la sua parola (…) Non mi lamento se una parte della gioventù vuole inventare il mondo di domani...”. E non manca l'eco internazionale: “Questi movimenti sono dei lampi di luce in mezzo a un cielo oscuro” per Yanis Varufakis, l'ex ministro greco delle finanze.
Perchè tanti elogi da parte di alcuni grandi mezzi di informazione internazionali e di uomini politici? La risposta si trova nei due testi di fondazione del movimento. Il volantino distribuito dal collettivo Convergences des luttes (Convergenza delle lotte) durante la manifestazione del 31 marzo a Parigi e che ha lanciato la prima adunata in Piazza della Repubblica, afferma: “I nostri governanti sono bloccati nell'ossessione di perpetuare un sistema agli sgoccioli, al prezzo di “riforme” sempre più retrograde e sempre conformi alla logica del neoliberismo che domina da più di 30 anni: tutti i poteri a finanzieri e padroni, a questi privilegiati che accaparrano le ricchezze collettive. Questo sistema ci vien imposto, governo dopo governo, a prezzo di continui dinieghi di democrazia…” Il manifesto è dello stesso tenore: “L'umano deve essere al centro delle preoccupazioni dei nostri dirigenti...”
L'orientamento è chiaro: si tratta di organizzare un movimento per fare “pressione” sui “dirigenti” e le istituzioni statali con lo scopo di promuovere un capitalismo più democratico e più umano. Ed è effettivamente questa politica che caratterizza l'insieme della vita di Nuit debout. Basta osservare le azioni che escono dal lavoro delle commissioni e delle assemblee: “Aperitivo da Valls” (qualche centinaio di manifestanti hanno cercato di andare a prendere l'aperitivo a casa del primo ministro Valls il 9 aprile), manifestazione verso l'Eliseo (il 14 aprile, dopo una trasmissione televisiva a cui partecipava François Hollande), occupazione di un'agenzia della BNP Paribas a Tolosa, pic-nic in un ipermercato di Grenoble, contestazione in una riunione del consiglio regionale di Bourgogne-Franche-Comté e dei consigli comunali di Clermond-Ferrand e Poitiers, occupazione di un McDonald's a Tolosa, scritte sulle vetrine delle banche, scarico di immondizia davanti alle porte di alcune municipalità di Parigi, e così via.
Le proposte più popolari nelle assemblee generali parigine sono tutte altrettanto rivelatrici di questo orientamento politico di speranza in qualche rimaneggiamento superficiale o falsamente radicale del sistema capitalista: manifesto per una “democrazia ecologica”, salario a vita, reddito di base, riduzione dei redditi elevati, pieno impiego, sviluppo di un'agricoltura biologica, migliore riconoscimento delle minoranze, democrazia attraverso sorteggio, maggior impegno dello Stato per l'istruzione, in particolare nelle periferie, prezzi liberi, accordi transatlantici per il commercio e gli investimenti, ecc.
Rispetto ai sindacati già nel 1865 Marx scriveva, in Salario, prezzo e profitto,: “Bisogna cancellare questa divisa conservatrice 'Un salario giusto per una giusta giornata' e scrivere la parola d'ordine rivoluzionaria 'Abolizione del salariato!”. E' precisamente a questa logica rivoluzionaria che quelli che tirano nell'ombra le fila del movimento Nuit debout girano volontariamente le spalle, per trascinare quelli che si fanno coinvolgere, in particolare tra le giovani generazioni che si pongono delle questioni su questa società, su un terreno putrido, quello del riformismo e delle urne.
La più emblematica delle rivendicazioni è senza nessun dubbio la volontà di fare pressione per una nuova Costituzione che fondi una “Repubblica sociale”. Così si esprime l'economista Frederic Lordon, uno degli iniziatori di Nuit debout: “I primi tempi della riappropriazione sono chiaramente la riscrittura di una Costituzione (…) Che cos'è la repubblica sociale? E' prendere sul serio l'idea democratica posta in generale nel 1789...”
E' piuttosto chiaro. L'obiettivo centrale di quelli che hanno lanciato Nuit debout è quello di realizzare una “vera democrazia” come quella promessa dalla Rivoluzione francese del 1789; solo che quello che c'era di rivoluzionario due secoli fa, cioè instaurare il potere politico della borghesia in Francia, superare il feudalesimo con lo sviluppo del capitalismo, costruire una nazione..., tutto questo è diventato oggi irrimediabilmente reazionario. Questo sistema di sfruttamento è decadente, non si tratta più di migliorarlo, perchè è diventato impossibile, ma di superarlo, di abbatterlo con una rivoluzione proletaria internazionale. Si semina invece l'illusione che lo Stato sia un agente “neutro” della società su cui bisognerebbe “fare pressione” o che bisognerebbe proteggere dai finanzieri, dai “politici corrotti”, dagli “avidi banchieri”, dalla “oligarchia”, laddove in realtà lo Stato è il più alto rappresentante della classe dominante, il peggior nemico degli sfruttati.
Soprattutto non bisognerebbe sottostimare il pericolo che rappresenta la focalizzazione sui “banchieri”, i “finanzieri”, i “politici corrotti”. Questo metodo di accusare questa o quella frazione, questa o quella persona invece del sistema di sfruttamento nella sua totalità non significa altro che voler preservare i rapporti sociali capitalisti. Questo sostituisce alla lotta di classe, alla lotta contro il capitalismo e per un altro mondo, un odio mirato e diretto contro le persone che basterebbe togliere dal potere perchè tutti i mali della società spariscano come per incanto [2]
Nuit debout pretende di essere il continuatore dei movimenti del 2006 e 2011. Ma in realtà mira a mistificare la loro memoria deformando completamente quello che aveva costituito la forza del movimento contro il CPE (Contratto di Primo Impiego) e quello degli Indignados, dando un carattere di “cittadinanza” e “repubblicana” alla discussione, focalizzando la riflessione su come rendere il capitalismo più umano e più democratico.
Nel 2006, in Francia, gli studenti precari hanno discusso in vere assemblee generali sovrane che hanno liberato la parola. Essi hanno avuto anche la preoccupazione di allargare il movimento ai lavoratori, ai pensionati e ai disoccupati innanzitutto aprendo a questi le loro Assemblee generali, avanzando delle rivendicazioni generali che superavano il semplice quadro del CPE[3] e lasciando in secondo piano tutte le richieste specificamente studentesche. Cinque anni più tardi, nel 2011, è in Spagna con il movimento degli Indignados, negli Stati Uniti e in Israele con quello di Occupy che si è di nuovo rivisto il vitale bisogno di radunarsi e di discutere dei mali di questo mondo capitalista che ci impone la sua dittatura, fatta di sfruttamento, di esclusione e di sofferenze. Questa volta le assemblee non si fecero nelle aule magne, ma per strada e nelle piazze. [4]
Al momento del movimento degli Indignados in Spagna, in un contesto differente c'erano state le stesse manovre orchestrate oggi con Nuit debout. Gli altermondialisti della DRY (Democrazia Reale Ora) e di Attac si erano dissimulati dietro la maschera dell'apoliticismo per meglio sabotare ogni possibilità di discussione reale. Anche in questo caso l'attenzione era convogliata sulla “vita delle commissioni”, a discapito dei dibattiti nelle assemblee generali, e sulle “buone scelte da fare nelle urne” (Podemos è l'esito di queste manovre). Ma allora il movimento sociale era un po' più profondo. Molti partecipanti al movimento avevano avuto la forza politica di cercare di prendere in mano l'organizzazione della lotta; e delle autentiche assemblee generali, con dibattito e riflessione sulla società, si erano tenute parallelamente a quelle di DRY sotto un silenzio completo da parte dei mezzi di informazione. Ecco cosa scrivevamo allora: “Domenica 22, giorno delle elezioni, c'è stato un nuovo tentativo di mettere fine alle assemblee. DRY proclama che 'gli obiettivi sono stati raggiunti' e che il movimento deve concludersi. La risposta è unanime: 'Noi non siamo qui per le elezioni!' Lunedì 23 e martedì 24 le assemblee raggiungono il loro punto culminante, sia in numero di partecipanti che per la ricchezza dei dibattiti. Gli interventi, le parole d'ordine, i cartelli si moltiplicano e dimostrano una riflessione profonda: 'Dove sta la sinistra? In fondo a destra!', 'Se voi non ci lasciate sognare, noi vi impediremo di dormire!', 'Senza lavoro, senza case, senza paura!', 'Hanno ingannato i nostri nonni, hanno ingannato i nostri figli, non inganneranno i nostri nipoti!', E traspare anche una coscienza delle prospettive: 'Noi siamo il futuro, il capitalismo è il passato!', 'Tutto il potere alle assemblee!', 'Non c'è evoluzione senza rivoluzione!', 'il futuro comincia adesso!','Credi ancora che sia un'utopia?'(...) Tuttavia, è soprattutto la manifestazione di Madrid che esprime la svolta del 19 giugno verso la prospettiva del futuro. Essa è convocata da un organismo direttamente legato alla classe operaia e nato dalle sue minoranze più attive. Il tema della manifestazione è “Marciamo insieme contro la crisi e contro il capitale”. Le rivendicazioni sono: “no alla riduzione di salari e pensioni; per lottare la disoccupazione: la lotta operaia, contro l’aumento dei prezzi, per l'aumento dei salari, per l'aumento delle imposte a quelli che guadagnano di più, in difesa dei servizi pubblici, contro le privatizzazioni della sanità, dell'istruzione... Viva l'unità della classe operaia!”[5]
Noi non condividiamo tutte le rivendicazioni degli Indignados. Debolezze e illusioni sulla democrazia borghese erano molto presenti anche lì; ma la dinamica del movimento era animata da un soffio proletario, una critica profonda del sistema, dello Stato, delle elezioni, una lotta contro le organizzazioni di sinistra e di estrema sinistra che a loro volta impiegavano tutte le loro forze politiche per limitare la riflessione e riportarlo nei limiti di quello che è accettabile dal capitalismo.
La debolezza attuale della nostra classe non ha consentito lo sviluppo di una simile critica proletaria di Nuit debout e quindi di mettere a frutto la volontà di stare assieme, di solidarizzare e di dibattere che poteva animare una parte dei partecipanti. Soprattutto, la borghesia ha tirato le lezioni dei movimenti precedenti e ha preparato molto meglio il terreno e l'inquadramento, cosciente delle sue capacità di manovra nell'attuale situazione di debolezza del proletariato. Così oggi sono i vari Attac, NPA, il Fronte di sinistra e tutti gli adepti del riformismo e di una presunta “vera democrazia” che controllano Nuit debout e che approfittano dello scombussolamento e della mancanza di prospettiva come dell'incapacità dei proletari a riconoscersi come classe e a identificare i loro interessi di classe per occupare il terreno sociale. Questi gruppi agiscono in realtà come espressione e puntelli del capitalismo.
Bisogna essere chiari: Nuit debout non ha niente di spontaneo. E' un movimento pensato, preparato e organizzato da lungo tempo da animatori e difensori radicali del capitalismo. Dietro questo movimento preteso “spontaneo” e “apolitico” si nascondono dei professionisti, dei gruppi di sinistra e di estrema sinistra che usano l'”apoliticismo” per meglio controllare il movimento. Non a caso l'appello per il 31 marzo aveva già per la prima sera una dimensione tipicamente professionale: “Programma: animazione, ristorazione, concerti, scambio di informazioni, Assemblea cittadina permanente e piena di sorprese”.
L'origine di Nuit debout è un incontro pubblico organizzato alla Borsa del lavoro di Parigi, il 23 febbraio 2016. Questo incontro, battezzato “Far loro paura”, è motivata dalle entusiastiche reazioni del pubblico al film di François Ruffin, Merci Patron! Viene presa la decisione di occupare Place de la Republique al termine della manifestazione del 31 marzo. “Il collettivo 'di pilotaggio', una quindicina di persone, comprende: Johanna Silva del giornale Fakir, Loic Canitrot, della compagnia Jolie Mome, Leila Chaibi del Collettivo Giovedì nero e aderente al Partito di sinistra, una sindacalista di Air France, un membro dell'associazione Gli inseminatori e, ancora, uno studente di Scienze Politiche, l'economista Thomas Coutrot e Nicolas Galepides di Sud-PTT (…). L'associazione Diritto alla casa offre il suo aiuto, in particolare giuridico e pratico, e anche l'organizzazione altermondialista Attac e l'unione sindacale Solidali fanno parte del collettivo. E' l'economista Frederic Lordon che è stato invitato dal collettivo di iniziativa per aprire questa prima notte parigina del 31 marzo. [La sua idea] 'Per la repubblica sociale', (…) troverà un'eco nelle riunioni di riflessione sulla scrittura di una nuova Costituzione (a Parigi, Lione...” Queste poche linee estratte da Wikipedia rivelano a qual punto tutte le forze politiche ufficiali, sindacali e associative della sinistra hanno contribuito a preparare prima e poi a prendere in carico il movimento Nuit debout.
E chi è François Ruffin? Redattore capo del giornale gauchiste Fakir, è vicino al Fronte di sinistra e alla CGT. Il suo obiettivo è fare pressione sullo Stato e i suoi rappresentanti”, o, secondo le sue stesse parole, “far loro paura” (sic!). Perché un movimento riesca, secondo lui, bisogna che “la lotta di strada e l'espressione nelle urne convergano”, come nel 1936 (Guerra di Spagna) e “anche nel 1981”, il che significa dimenticare volontariamente e velocemente che il 1936 ha preparato l'intruppamento della classe operaia nella Seconda guerra mondiale; quanto al 1981, questo preteso “movimento sociale” ha permesso al Partito Socialista di arrivare al potere per portare avanti una delle politiche più efficacemente anti-operaie di questi ultimi decenni ! Ecco il vestito di Nuit debout: un'impresa fortemente destinata a far credere a tutti i suoi partecipanti in buona fede e pieni di speranze che essi lottano in maniera efficace e radicale per meglio dirigerli verso le urne e l'illusione che la società capitalista possa essere più umana se si vota per i “buoni partiti”[6]
Questa iniziativa della sinistra del Partito Socialista e dell'estrema sinistra arriva in un momento estremamente opportuno per la borghesia: a un anno dalle elezioni presidenziali, con il PS fortemente discreditato. Quello che è in gioco a corto e medio termine è in gran parte la capacità della borghesia di costruire una nuova sinistra credibile di fronte alla classe operaia, una sinistra “radicale”, alternativa e democratica”. E' la stessa dinamica d'altra parte che si gioca in forma abbastanza simile in diversi paesi, con Podemos in Spagna e Sanders negli Stati Uniti, per esempio. Non è per niente certo che la parte della manovra che riguarda il versante elettorale riesca ad avere successo per la borghesia, cioè che riesca a mobilitare per le elezioni, dal momento che la classe operaia è profondamente disgustata dall'insieme dei partiti politici. Ed anche il tentativo di François Ruffin di indirizzare i partecipanti di Nuit debout verso i sindacati[7], in particolare la CGT, è stato finora un fallimento. Viceversa, l'ideologia veicolata da questo movimento, il “cittadinismo”, che diluisce ancora un altro poco l'identità di classe del proletariato e mette la personalizzazione al posto della lotta contro il sistema capitalista è un veleno particolarmente efficace e pericoloso per l'avvenire.
Nuit debout, più ancora che una ennesima manovra delle forze di sinistra e dell'estrema sinistra della borghesia, è il simbolo della grande difficoltà attuale degli operai a riconoscersi come una classe, come una forza sociale portatrice di un futuro per l'insieme dell'umanità. E queste difficoltà non sono puntuali: esse si iscrivono in un processo profondo e storico della società. I semi piantati da movimenti come la lotta contro il CPE o gli Indignados, che sono stati una espressione di bisogni reali del proletariato per sviluppare la sua lotta sono oggi bloccati sotto un suolo gelato. Quanto ai movimenti più antichi, come la Comune di Parigi o la Rivoluzione di ottobre 1917, sono al momento sepolti sotto tonnellate di menzogne e di silenzi.
Ma se l'atmosfera sociale si riscaldasse, sotto i colpi della crisi e dell'intensificazione inevitabile degli attacchi contro tutte le nostre condizioni di esistenza, allora dei fiori potrebbero germogliare. Questa fiducia nell'avvenire si fonda sulla coscienza che il proletariato è una classe storica che porta sempre in sé questo altro mondo, liberato dai rapporti di sfruttamento, necessario e possibile per l'umanità.
Germain, 15 maggio 2016
[1] Il nome del ministro del lavoro autore del progetto di legge, l'equivalente del Job's act di Renzi
[2] Questa denuncia della oligarchia è peraltro molto vicina alla focalizzazione sul “sistema di potere” di Donald Trump negli Stati Uniti. Se la forma è diversa, si tratta in realtà dello stesso fondo ideologico, quello della personalizzazione.
[3] Sul CPE, leggere sul nostro sito in francese : “Salut aux jeunes générations de la classe ouvrière !”
[4] Leggere sul nostro sito in francese : “Dossier spécial sur le mouvement des Indignés et des Occupy”.
[5] Estratti dal nostro articolo pubblicato sul sito in francese : “La mobilisation des indignés en Espagne et ses répercussions dans le monde : un mouvement porteur d’avenir”.
[6] Per capire meglio il pensiero di François Ruffin e le origini di Nuit debout, vedere il nostro articolo sul suo film: Merci patron !, sul nostro sito web in francese.
[7] “Vorrei che si facesse un grande Primo Maggio, che la manifestazione finisse in piazza della République e che si facesse un meeting con i sindacati che si sono opposti alla legge sul lavoro.”
Pubblichiamo la traduzione di un contributo di un simpatizzante della CCI sulla situazione in Medio Oriente. La versione originale è disponibile sul nostro sito in inglese.
Il militarismo e la guerra, espressioni principali del modo di vita del capitalismo da circa un secolo, sono diventati i sinonimi della disintegrazione del sistema capitalista e della necessità di rovesciarlo. La guerra, in questo periodo, e per il futuro, è una questione cruciale per la classe operaia.
Nel periodo ascendente del capitalismo, le guerre potevano essere ancora un fattore di progresso storico, portavano alla creazione di unità nazionali vitali e servivano ad estendere il modo di produzione capitalista a scala mondiale: “dalla formazione dell'esercito dei cittadini, dalla Rivoluzione francese al Risorgimento italiano, dalla guerra di indipendenza americana alla Guerra Civile, la rivoluzione borghese ha preso la forma di lotte di liberazione nazionale contro i regni reazionari e le classi abbandonate dal feudalesimo (…) Queste lotte avevano per principale scopo di distruggere le sovrastrutture politiche antiquate del feudalesimo, di spazzare via il campanilismo e l'autosufficienza che impedivano la marcia verso l'unificazione del capitalismo”. (Opuscolo della CCI: Nazione o Classe). Come Marx ha scritto nel suo opuscolo a proposito della Comune di Parigi, La Guerra Civile in Francia: “Il più grande sforzo di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale”.
Al contrario, la guerra di oggi e di questi ultimi cento anni non può giocare che un ruolo reazionario ed attualmente minaccia la stessa esistenza dell'umanità. La guerra diventa un modo di esistenza permanente per tutti gli Stati-nazione, grandi o piccoli che siano. Anche se ogni Stato non dispone degli stessi mezzi per perseguire la guerra, tutti sono sottomessi alla stessa dinamica imperialistica. Il vicolo cieco del sistema economico obbliga le nazioni, vecchie o giovani, ad adottare una politica di capitalismo di Stato, se non vogliono correre il rischio di sparire; e questa politica è messa in opera dai partiti borghesi, dall'estrema destra all'estrema sinistra. Il capitalismo di Stato costituisce una difesa raffinata dello Stato-nazione ed un attacco permanente contro la classe operaia.
Nel periodo ascendente del capitalismo, la guerra tendeva a pagarsi da sola, sia economicamente che politicamente, rompendo le barriere allo sviluppo capitalista. Nella fase di decadenza, la guerra è una pericolosa assurdità, è diventata sempre più separata da ogni giustificazione economica. Basta guardare questi venticinque ultimi anni di pretesa «guerra per il petrolio» in Medio Oriente per accorgersi che occorrerebbero dei secoli affinché essa sia redditizia, e, comunque, a condizione che essa cessi da subito.
Dedicare una grande parte delle risorse nazionali alla guerra ed al militarismo adesso è normale per ogni Stato, ed è quello che è successo dall'inizio del XX secolo; oggi il fenomeno si è solo intensificato. Esso è legato direttamente all'evoluzione storica del capitalismo: “La politica imperialistica non è opera di uno o più Stati, è il prodotto di un determinato grado di maturità dello sviluppo mondiale del capitale, un fenomeno naturalmente internazionale, una totalità indivisibile che si può comprendere solamente nei suoi rapporti reciproci ed al quale nessuno Stato può singolarmente sottrarsi” [1]. La posizione che si adotta sulla guerra imperialistica determina da che lato della barriera di classe si trova; o si difende il dominio del capitale attraverso la difesa della nazione e del nazionalismo (compatibili sia con il trotskysmo che con l'anarchismo), o si difende la classe operaia e l'internazionalismo contro ogni forma di nazionalismo. Le "soluzioni" nazionali, le identità nazionali, la liberazione nazionale, i "conflitti" nazionali, la difesa nazionale: tutto ciò serve solamente gli interessi imperialistici, dunque capitalisti. Questi sono diametralmente opposti agli interessi della classe operaia: la guerra di classe dovrà farla finita con l'imperialismo, le sue frontiere ed i suoi Stati-nazione.
Nel 1900, c'erano quaranta nazioni indipendenti; all'inizio degli anni 1980, ce ne erano quasi 170. Oggi, ce ne sono 195. L'ultimo Stato, il Sudan del Sud, riconosciuto e sostenuto dalla "comunità internazionale", è sprofondato subito nella guerra, la carestia, la malattia, la corruzione, la legge dei signori di guerra, il gangsterismo: un'altra espressione concreta della decomposizione del capitalismo e dell'obsolescenza dello Stato-nazione. I nuovi Stati-nazione del XX e XXI secolo non sono l'espressione di una crescita di gioventù, perché essi sono nati senili e sterili, impigliati subito nelle reti dell'imperialismo, con i loro mezzi di repressione interna, ministero dell'interno, servizi segreti ed esercito nazionale, e di militarismo esterno con patti, protocolli di accordi di difesa reciproca, l'insediamento di consiglieri e di basi militari per le potenze maggiori.
" La fraseologia nazionalista è certo sopravvissuta. Ma il suo contenuto reale, la sua funzione si è convertita nel proprio contrario; essa funge ancora soltanto da indispensabile foglia di fico per le aspirazioni imperialistiche e da slogan di rivalità imperialistiche; essa è l'unica e ultima arma ideologica, con la quale le masse popolari potranno essere arruolate come carne da cannone nelle guerre imperialistiche"[2]. Da quando Rosa Luxemburg ha scritto queste righe, non ci sono state più rivoluzioni borghesi nei paesi sottosviluppati, ma solamente lotte di cricche tra gang borghesi rivali con i loro appoggi imperialistici locali e mondiali. Lo Stato militarista e la guerra diventano il modo di sopravvivenza per l'insieme del sistema come per ogni nazione; ogni proto-stato, ogni espressione nazionalista, ogni identità etnica o religiosa diventa espressione diretta dell'imperialismo.
Guardiamo più da vicino il ruolo reazionario dello Stato-nazione attraverso un breve excursus della situazione nell’ultimo secolo nell'importante regione del mondo che costituisce il Medio Oriente.
La nazione capitalista è stata preservata, e moltiplicata anche per quattro, durante gli ultimi cent’anni. Ma il suo programma democratico borghese e la sua tendenza unificatrice sono morti e sepolti; i suoi "popoli" possono essere oramai solo sottoposti alla repressione o mobilitati per difendere gli interessi imperialistici come carne da cannone. "Per completare il quadro, le nuove nazioni nascono con un peccato originario: sono dei territori incoerenti, formati da un aggregato caotico di differenti religioni, economie, culture. Le loro frontiere sono come minimo artificiali ed includono certe minoranze che appartengono a paesi limitrofi; tutto ciò può condurre solo alla disgregazione ed a scontri permanenti" [3].
Ciò è illustrato dalla moltitudine di nazionalismi, di etnie e di religioni che coabitano in Medio Oriente. Le tre religioni principali si sono moltiplicate qui in una miriade di sette, con conflitti interni ed esterni permanenti: gli Sciiti, Sunniti, Maroniti, Cristiani ortodossi e copti, gli Alauiti, ecc. Ci sono importanti minoranze linguistiche e sempre più popoli senza terra: i curdi, gli armeni, i palestinesi ed adesso i siriani.
La Prima Guerra mondiale ha visto il crollo dell'impero ottomano e dei suoi tesori, così come il crollo della posizione strategica del Medio Oriente (tra l’est e l'ovest, l'Europa e l’Africa, il canale di Suez, lo stretto dei Dardanelli) che suscitava la cupidigia delle grandi potenze. Anche prima che il petrolio fosse scoperto in questa regione, e molto prima che si rendesse conto dell'ampiezza delle riserve di petrolio, la Gran Bretagna aveva mobilitato truppe (1,5 milione di uomini) nella regione. Avendo resistito alla minaccia rappresentata dalla Germania e la Russia, e malgrado le rivalità esistenti tra la Gran Bretagna e le Francia, queste due potenze hanno formato a loro immagine i paesi di questa regione: la Siria, l'Iraq, il Libano, la Cisgiordania, l'Iran, l'Arabia Saudita, il "protettorato" palestinese, le frontiere di questi paesi sono state disegnate dalla due potenze imperialiste vittoriose, ciascuna sorvegliante al tempo stesso i suoi partner ed i vecchi rivali con la coda dell'occhio. Queste assurde "nazioni" sono diventate concime fertile per ulteriore instabilità e conflitti, non solamente a causa delle rivalità tra le grandi potenze ma anche a causa di lotte regionali tra loro stesse. Ciò ha dato spesso adito a spostamenti massicci di popolazioni, giustificati dalla necessità di formare entità nazionali distinte: in una parola, hanno fertilizzato il suolo con i pogrom, l'espulsione, la violenza tra le religioni e le sette che oggi siamo obbligati a sopportare; inoltre, questa violenza si estende e diventa sempre più pericolosa: Sunniti contro Sciiti, ebrei contro musulmani, Cristiani contro musulmani e sette ancora più vecchie, finora lasciate tranquille, che adesso sono trascinate nella burrasca imperialista. La regione è diventata una fusione violenta di regimi totalitari, di conflitti religiosi, di terrorismo e della legge dei signori di guerra, una prova supplementare che non c'è soluzione alla barbarie capitalista, a parte la rivoluzione comunista. Con la Dichiarazione Balfour, nel novembre 1917, l'Inghilterra aveva promesso un sostegno all'installazione di una patria ebraica in Palestina; intendeva utilizzarla come alleata locale contro i suoi grandi rivali. È nella cornice militarista di lotte sanguinose con i dirigenti arabi che è nato lo Stato sionista.[4] Gli Stati Uniti, principale beneficiario della Prima Guerra mondiale, cominciarono a soppiantare la Gran Bretagna come primo gendarme del mondo e questo divenne un'evidenza in Medio Oriente.
La controrivoluzione stalinista degli anni 1920-30, aiutata ed incoraggiata dalle potenze occidentali, ha implicato l'aumento delle macchinazioni imperialistiche in Medio Oriente, fino a e durante la Seconda Guerra mondiale. In questo periodo, i turchi, le fazioni arabe ed i sionisti oscillavano tra la Gran Bretagna e la Germania; la maggioranza scelse la Germania. Questa regione era importante per le due grandi potenze[5], ma è stata risparmiata relativamente dalle distruzioni, per il fatto che i campi di battaglia principali si trovavano in Europa e nel Pacifico. Nell'insieme, e la fine della guerra doveva confermarlo, la Gran Bretagna e la Francia hanno condotto una guerra persa in partenza in Medio Oriente ed altrove, perché la gerarchia imperialistica è stata messa a soqquadro dalla superpotenza americana. E ciò è stato ulteriormente rafforzato dalla creazione di uno Stato sionista che è stato molto sostenuto dagli Stati Uniti (in principio anche dalla Russia), a detrimento degli interessi nazionali britannici. La creazione dello Stato-nazione d'Israele ha determinato una nuova zona di conflitti la cui nascita ha implicato la creazione di un enorme e permanente problema di profughi che, ingrossandosi, ha rafforzato uno stato d'assedio militare permanente. L'esistenza d'Israele è probabilmente uno degli esempi più sorprendenti del modo con cui un paese formato nella decadenza capitalista è inquadrato dalla guerra, sopravvive per la guerra e vive nella paura costante della guerra.
Un altro capitolo dell'imperialismo è stato aperto quando il Medio Oriente è diventato una posta in gioco della Guerra Fredda tra il blocco americano e quello russo, che si sono consolidati dopo la Seconda Guerra mondiale e hanno effettuato parecchi interventi attraverso l'impegno di potenze militari loro alleate. Così, all'epoca delle guerre arabo-Israele del 1967 e 1973, i due blocchi in un certo modo si affrontavano per procura; le vittorie schiaccianti d'Israele hanno ridotto considerevolmente la capacità dell'URSS a mantenere i punti d’appoggio che essa aveva stabilito nella regione, in particolare in Egitto. Nello stesso tempo, già negli anni 1970 ed all'inizio degli anni 1980, si sono potuti vedere i germi di quei conflitti multipolari e caotici che avrebbero caratterizzato il periodo che è seguito al crollo dell'URSS e del suo blocco. Il capovolgimento dello Scià d'Iran nel 1979 ha determinato la formazione di un regime che ha teso a liberarsi dal controllo dei due blocchi. Il tentativo della Russia di rafforzarsi, approfittando del nuovo equilibrio di forze nella regione, il suo tentativo di occupazione dell'Afghanistan nel 1980, l'ha trascinata in una lunga ed usurante guerra che ha contribuito notevolmente al crollo del suo blocco. Allo stesso momento, favorendo lo sviluppo dei Mujahidin islamici (incluso il nucleo che diventerà Al Qaïda) per lottare contro l'occupazione russa, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed il Pakistan stavano fabbricando un mostro che presto avrebbe loro morso le mani. Durante questo tempo, l'imperialismo americano procedeva con il ritiro delle sue truppe dal Libano, non riuscendo a sottrarlo alle forze che agiscono come mandatari dell'Iran e della Siria.
È durante questo periodo che si assiste all'inizio della perdita di potere degli Stati Uniti che è al tempo stesso un'espressione ed un contributo alla decomposizione ambientale di oggi. Dopo il crollo del blocco russo, si è verificata la disintegrazione delle alleanze intorno agli Stati Uniti e lo sviluppo centrifugo del ciascuno per sé delle differenti nazioni. Gli Stati Uniti hanno reagito energicamente a questa situazione, tentando di riunire i loro alleati con il lancio della Guerra del Golfo del 1990-91 che è finita con la morte di circa mezzo milione di iracheni (mentre Saddam Hussein restava al suo posto). Ma la realtà di questa tendenza era troppo forte ed il dominio americano era già irrimediabilmente compromesso. Dopo l’11 settembre 2001, i neo-conservatori evangelici che agiscono per conto dell'imperialismo americano hanno impegnato nuove guerre in Afghanistan ed in Iraq, facendole apparire come una crociata contro l'islam, attizzando in tal modo le fiamme del fondamentalismo islamico.
Nel film del 1979 realizzato da Francis Ford Coppola, Apocalipse now, un colonnello rinnegato americano chiede al sicario ingaggiato dalla CIA cosa pensa dei suoi metodi; l'assassino risponde: “non vedo alcun metodo”. Non c'è metodo nelle guerre di oggi nel Medio Oriente, al di fuori di un grande precetto: “fate ciò che volete”. Non c'è nessuna giustificazione economica (miliardi di dollari sono appena andati in fumo per le guerre d’Iraq e dell'Afghanistan), ma solo una discesa permanente nella barbarie. Per quanto finto possa essere, il personaggio del colonnello Kurtz nel film è il simbolo dell'esportazione della guerra del “cuore delle tenebre”, che in realtà si trova nei centri principali del capitale piuttosto che nei deserti del Medio Oriente o le giungle del Vietnam e del Congo.
In Siria oggi, ci sono un centinaio di gruppi che combattono il regime e si battono tra loro, tutti teleguidati più o meno dalle potenze locali o da altre più importanti. La “nuova nazione”, il preteso califfato dello Stato islamico, col suo imperialismo, la sua carne da cannone, la sua brutalità e la sua irrazionalità, è al tempo stesso a pieno titolo un'espressione della decadenza del capitalismo ed il riflesso di tutte le grandi potenze che, in un modo o in un altro, l'hanno creato. Lo Stato islamico attualmente è in espansione ovunque nel mondo, guadagnando nuove filiali in Africa, impossessandosi di Boko Haram in Nigeria. Lo Stato islamico è anche in concorrenza con i Talibani in Afghanistan, che attualmente sono in pericolo nella regione dell’Helmand, che per molto tempo è stata anche una base dell'esercito britannico. Ma se lo Stato islamico fosse domani eliminato, sarebbe sostituito immediatamente da altre entità jihadiste, come Jahbat al-Nusra, una filiale di Al Qaïda. La “guerra contro il terrorismo” capitolo 2, come per il capitolo 1, farà solo aumentare il terrorismo esistente in Medio Oriente con la sua esportazione nel cuore del capitalismo.
Una delle caratteristiche del numero crescente di guerre in Medio Oriente è il riemergere della Russia sul piano militare, con la copertura ideologica dei "valori" della vecchia nazione russa. Durante la Guerra Fredda, la Russia è stata cacciata dall'Egitto e dal Medio Oriente in generale, perché la sua potenza era declinata. Adesso, la Russia è riapparsa, non sotto forma di capo blocco come prima (ha solamente alcune ex-repubbliche anemiche come alleate), ma come una forza allestita nella decomposizione che deve sostenere l'imperialismo per la sua "identità" nazionale. La debolezza della Russia è evidente nei suoi tentativi disperati per installare delle basi in Siria, le più importanti all'esterno del suo territorio. Un altro fattore che avrà un'incidenza importante, anche per lei, è l'attuale avvicinamento tra gli Stati Uniti e l’Iran, legati dall'accordo sul nucleare del 2015. Questo accordo esprime anche una debolezza fondamentale dell'imperialismo americano ed è la sorgente di tensioni importanti tra gli Stati Uniti ed i loro principali alleati regionali, Israele ed Arabia Saudita.
Da qualunque lato lo si guardi, il disordine imperialista in Medio Oriente diventa sempre più impossibile da controllare. In questa situazione pesa anche il posizionamento della Turchia, che non ha esitato a versare olio sul fuoco della guerra. La sua guerra contro i curdi non avrà fine ed attraverso il suo agire, monta gli uni contro gli altri, gli Stati Uniti, la Russia e l'Europa. Le sue relazioni con la Russia si sono raffreddate in particolare dopo la distruzione di un aereo da caccia russo, mentre ha utilizzato il grossolano pretesto di attaccare lo Stato islamico per colpire basi curde. C'è la partecipazione dell'Arabia Saudita che, sebbene falsamente alleata degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, è stata un importante finanziatore di differenti bande islamiche nella regione, grazie all'esportazione non solo della sua ideologia ortodossa ed ultraconservatrice wahabita ma anche di armi e denaro.
Appena gli Stati-nazione sono sprofondati nella decadenza, l'Arabia Saudita è apparsa come una delle peggiori farse storiche. Minata dalla caduta dei prezzi del barile di oro nero, che è stata incoraggiata dall'Iran (il che designa il petrolio non come un fattore di aggiustamento economico ma come un'arma imperialista) e temendo che la teocrazia iraniana rivale ridivenga il gendarme della regione dopo i suoi recenti accordi con gli Stati Uniti, il regime saudita ha portato un colpo contro l'Iran con l'esecuzione del celebre imam sciita Sheikh Nimr al-Nimr, e con altre decapitazioni che sono state appena menzionate dai media occidentali. Questa provocazione pianificata contro l'Iran mostra una certa disperazione ed una debolezza del regime saudita, così come un pericolo che la situazione scivoli e diventi fuori controllo. Le recenti azioni del regime saudita rivelano nuove tendenze centrifughe di ogni nazione al ciascuno per sé e la difficoltà delle grandi potenze, in particolare degli Stati Uniti, a contenerle. Una cosa è certa per quanto riguarda l'attuale rivalità Iran/Irak, e cioè la prospettiva dell'aggravamento della guerra, dei pogrom e del militarismo attraverso la regione, con le molteplici tensioni e la precarietà delle alleanze provvisorie che guadagnano campo. Alcuni scontri sono stati segnalati più lontano in Egitto (che l'Arabia Saudita ha finanziato nella sua lotta contro i Fratelli musulmani) e tutto ciò non potrà che aggravarsi.
Lo Stato-nazione del Libano è stato già lacerato negli anni 1980; adesso le tensioni vanno ad aumentare e le conseguenze della rottura di questo fragile Stato sarebbero disastrose, almeno per Israele la cui guerra larvata con le fazioni palestinesi e gli Hezbollah continua.
Infine, bisogna menzionare il ruolo crescente della Cina, anche se i suoi principali punti di rivalità imperialiste (con gli Stati Uniti, il Giappone ed altri) ricadono sull'Estremo Oriente. Emersa come alleata subalterna della Russia alla fine degli anni 1940 e 1950, la Cina ha cominciato ad avere un percorso indipendente negli anni 1960 (la “rottura cino-sovietica”), che ha condotto velocemente ad una nuova intesa con gli Stati Uniti. Ma, dagli anni 1990, la Cina è diventata la seconda potenza economica mondiale e ciò ha allargato seriamente le sue ambizioni imperialistiche, lo si vede nei suoi sforzi per penetrare in Africa. Per il momento, ha operato ai lati dell'imperialismo russo nel Medio Oriente, bloccando i tentativi americani di disciplinare la Siria e l'Iran, ma il suo potenziale per seminare il panico nell'equilibrio mondiale delle potenze, accelerando così la caduta nel caos, resta in larga misura non sfruttato. Ciò ci dà un’ulteriore prova che il decollo economico di una vecchia colonia come la Cina oramai non è più un fattore di progresso umano, ma porta con lui nuove minacce di distruzioni, sia militari che ecologiche.
Abbiamo cominciato con lo studiare la natura reazionaria dello Stato-nazione, una volta espressione del progresso e che adesso è diventato non solo un ostacolo all'avanzata dell'umanità ma anche una minaccia per la sua stessa esistenza. Lo scoppio virtuale delle nazioni siriane ed irachene, che obbliga milioni di persone a fuggire dalla guerra ed in un modo o nell’altro ad evitare di farsi arruolare, la nascita dello Stato islamico, il progetto nazionale di Jahbat al-Nusra, la difesa patriottica del popolo curdo, tutto ciò sono espressioni della decadenza, dell'imperialismo che non ha niente altro da offrire alle popolazioni di queste regioni che la miseria e la morte. Non c'è soluzione alla decomposizione del Medio Oriente in seno al capitalismo. Di fronte a ciò, è vitale che il proletariato mantenga e sviluppi i suoi interessi contro quelli dello Stato-nazione. La classe operaia nei paesi centrali del capitalismo detiene le chiavi della situazione, tenuto conto dell'estrema debolezza del proletariato nelle zone in guerra. E, sebbene la borghesia sottometta la classe operaia dei paesi centrali del capitalismo ad un martellamento ideologico permanente intorno ai temi dei profughi e del terrorismo, non osa ancora mobilitarla direttamente per la guerra. Potenzialmente, la classe operaia rappresenta la più grande minaccia contro l'ordine capitalista. Ma se vogliamo evitare il disastro verso cui stiamo correndo deve trasformare questo potenziale in realtà. Comprendere che gli interessi proletari sono internazionali, che lo Stato-nazione non è più un quadro vitale per la vita umana, sarà una parte essenziale di questa trasformazione.
Boxer, simpatizzante della CCI (13 gennaio 2016)
[1] Rosa Luxemburg, Juniusbroschure, in Scritti Scelti, Einaudi, pag. 482
[2]Ibidem, pag. 483
[3] Bilancio di 70 anni di lotte di liberazione nazionale, 2a parte: le nuove nazioni, Revue Internationale n°69 pp. 20-21.
[4] Vedere le Note sul conflitto imperialista in Medio Oriente 1a parte, Revue Internationale n°115, p. 21.
[5] Vedere le Note sul conflitto imperialista in Medio Oriente 3a parte, Revue Internationale n°118, estate 2004.
Un secolo fa, il primo maggio 1916, sulla piazza di Postdam a Berlino, il rivoluzionario internazionalista Karl Liebknecht dava la risposta della classe operaia alla guerra che devastava l'Europa e massacrava tutta una generazione di proletari. Davanti ad una folla di circa 10.000 operai che manifestavano in silenzio contro le privazioni, una delle conseguenze obbligate della guerra, Liebknecht descrisse l'angoscia delle famiglie di proletari che si confrontavano con la morte al fronte e con la carestia a casa loro, e terminò il suo discorso (che era stato anche riprodotto e distribuito nella manifestazione sotto forma di volantino) con la parola d’ordine "abbasso la guerra" e "abbasso il governo", ciò che provocò immediatamente il suo arresto malgrado gli sforzi della folla per difenderlo. Ma il processo a Liebknecht, il mese seguente, fu accompagnato da uno sciopero di 55.000 operai nelle industrie di armamento, condotto attraverso una nuova forma di organizzazione sui posti di lavoro, i sindacati di base rivoluzionari. Lo sciopero fu comunque sconfitto e molti dei suoi organizzatori inviati al fronte. Ma tale sciopero insieme ad altre lotte che cominciavano a manifestarsi in entrambi i campi in guerra erano i germi dell'ondata rivoluzionaria che sarebbe esplosa in Russia nel 1917, ed un anno più tardi in Germania, cosa che obbligò la classe dominante, atterrita dalla propagazione del "virus rosso", a mettere fine alla carneficina [1].
Ma questa fine fu solo un arresto temporaneo, perché l'ondata rivoluzionaria non mise fine al capitalismo decadente ed alla sua inevitabile deriva verso la guerra. L'accordo di pace "dei predatori" imposto alla Germania dai vincitori mise immediatamente in moto un processo che - sotto la sferza della crisi economica mondiale degli anni 1930 - avrebbe sprofondato il mondo in un olocausto ancora più devastante nel 1939-1945. Ancor prima che questa guerra terminasse, già furono tracciate le linee del fronte di un'altra guerra mondiale, l'America da un lato e l'URSS dall'altro, due blocchi militari che, durante i 4 o 5 decenni successivi, avrebbero manovrato per la conquista di posizioni strategiche attraverso tutta una serie di conflitti locali: Corea, Vietnam, Cuba, Angola, guerre arabo-israeliane…
Questo periodo - la sedicente "guerra fredda", che poi non è stata così fredda per i milioni di persone che sono morte sotto la bandiera della "liberazione nazionale", o della difesa del "mondo libero contro il comunismo" - fa parte della storia passata, ma oggi la stessa guerra è più diffusa che mai. La disintegrazione dei blocchi imperialistici dopo il 1989, a dispetto delle promesse dei politici e dei filosofi al loro soldo non ci ha portato un "nuovo ordine mondiale" o alla "fine dalla storia" ma ad un disordine mondiale crescente, ad una successione di conflitti caotici che in sé portano la minaccia per la sopravvivenza dell'umanità, come lo è stata lo spettro della terza guerra mondiale con l'arma nucleare nel periodo precedente.
Nel 2016 ci troviamo dunque di fronte a tutta una serie di guerre, dall'Africa fino all'Asia centrale, passando dal Medio Oriente; con tensioni crescenti in Oriente dove il gigante cinese si erge contro i suoi rivali giapponesi e soprattutto americani; con un fuoco attivo che cova in Ucraina dove la Russia cerca di riguadagnare la gloria imperialistica che ha perso col crollo dell'URSS.
Come quella nella ex-Iugoslavia, uno dei primi e più importanti conflitti nel periodo "post-blocchi", la guerra in Ucraina ha luogo alle porte della stessa Europa, vicino ai bastioni classici del capitalismo mondiale, dove si concentrano le più importanti frazioni della classe operaia internazionale.
I flussi di profughi che cercano di scappare dalle zone di guerra - Siria, Iraq, Libia, Somalia o Afghanistan - dimostrano che l'Europa non è più un'isola tagliata fuori dall'incubo guerriero che si è abbattuto su gran parte dell'umanità. Al contrario, le classi dominanti dei paesi centrali del capitalismo, le "grandi democrazie", sono state un fattore attivo nella proliferazione delle guerre in questo periodo, con tutta una serie di avventure militari alla periferia del sistema, dalla prima guerra del golfo nel 1991 fino all'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq all'inizio del ventunesimo secolo, ed alle campagne più recenti di bombardamenti in Libia, Iraq e Siria. Come ricaduta, queste avventure hanno smosso il nido di calabroni del terrorismo islamico, che subito si è preso una sanguinosa rivincita colpendo continuamente i centri capitalisti, dagli attacchi alle Twin Towers nel 2001 fino al massacro di Parigi del 2015.
Se la crisi dei rifugiati e gli attacchi terroristici ci ricordano costantemente che la guerra non è una realtà "straniera", è anche vero che l'Europa e gli Stati Uniti appaiono ancora come "paradisi" se paragonati ad una buona parte del mondo. Ciò si vede dal fatto che le vittime delle guerre in Africa o in Medio Oriente - o della povertà che le stritola e delle guerre della droga in Messico ed in America Centrale - sono pronte a rischiare le loro vite per raggiungere le coste d'Europa o attraversare la frontiera americana. E certamente, malgrado tutti gli attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni, malgrado la crescita della povertà e dei senza tetto nelle grandi città d’Europa e degli Stati Uniti, le condizioni di vita media del proletariato sembrano ancora come un sogno inaccessibile a quelli che sono stati sottoposti direttamente agli orrori della guerra - un contrasto sorprendente col periodo 1914-1945.
È perché i governanti hanno appreso la lezione dal 1914-18 o dal 1939-45 e hanno costituito potenti organizzazioni internazionali, che la guerra tra le grandi potenze è impensabile?
Sicuramente ci sono stati importanti cambiamenti nel rapporto di forza tra le grandi potenze dal 1945. Gli Stati Uniti sono usciti dalla 2a guerra mondiale come i reali vincitori e sono stati proprio loro ad imporre direttamente le loro condizioni alle potenze prostrate d'Europa: niente più guerre tra potenze dell'Europa dell'ovest, ma coesione economica e militare in quanto parte del blocco imperialistico sotto la guida degli Stati Uniti per fare fronte alla minaccia dell'URSS. Anche se il blocco occidentale ha perso questa ragione primaria della sua esistenza dopo la caduta dell'URSS e del suo blocco, l'alleanza tra gli accaniti ex-rivali al centro dell'Europa - Francia e Germania - si è mantenuta relativamente stabile.
Tutto ciò ed altri elementi entrano nell'equazione e possiamo prenderne conoscenza attraverso il lavoro degli storici accademici e dei politologi. Ma c'è un elemento chiave di cui i commentatori borghesi non parlano mai. È la verità contenuta nelle prime righe del Manifesto Comunista: che la storia è la storia di lotta di classi, e che ogni classe dominante, degna di questo nome, non può permettersi di ignorare la minaccia potenziale costituita dalla grande massa dell'umanità sfruttata ed oppressa. Ciò è particolarmente pertinente quando si tratta di fare la guerra, perché la guerra capitalista, più di ogni altra, richiede la sottomissione ed il sacrificio del proletariato.
Nel periodo antecedente e dopo il 1914, le classi dominanti in Europa hanno sempre avuto un'inquietudine sul fatto che una grande guerra potesse provocare una risposta rivoluzionaria della classe operaia. Non si sentivano abbastanza fiduciose nel fare gli ultimi passi fatali verso la guerra se non prima di essere sicure che le organizzazioni, costruite attraverso decenni dalla classe operaia (i sindacati ed i partiti socialisti), abiurassero alle loro dichiarazioni internazionaliste ufficiali e le aiutassero a mandare gli operai sui campi di battaglia. Come abbiamo già sottolineato, la stessa classe dominante, anche se doveva, in certi casi, prendere una nuova forma, come in Germania, dove i "socialisti" sostituirono il Kaiser, fu obbligata a mettere fine alla guerra per bloccare il pericolo di una rivoluzione mondiale.
Negli anni 1930, una nuova guerra si preparava grazie ad una disfatta ben più brutale e sistematica della classe operaia - non solamente attraverso la corruzione delle ex-organizzazioni rivoluzionarie che si erano opposte al tradimento dei socialisti, non solamente grazie alla mobilitazione ideologica della classe operaia sulla "difesa della democrazia" e de "l'antifascismo", ma anche grazie al terrore diretto e per niente mascherato del fascismo e dello stalinismo. L'imposizione di questo terrore fu perseguita anche dalle democrazie alla fine della guerra, quando possibilità di rivolte della classe operaia venivano viste in Italia ed in Germania. In particolare, gli inglesi si assicurarono che queste ultime non raggiungessero mai i livelli di un nuovo 1917, attuando bombardamenti aerei massicci sulle concentrazioni operaie o dando tempo ai boia fascisti di eliminare il pericolo sul campo.
Il boom economico che è seguito alla 2a Guerra mondiale e lo spostamento dei conflitti imperialistici ai margini del sistema hanno significato che un conflitto diretto tra i due blocchi nel periodo che va dal 1945 al 1965 si sia potuto evitare, anche se in certi momenti è stato pericolosamente vicino. In questo periodo, la classe operaia non si era ancora ripresa dalla sua sconfitta storica e non era un fattore primario nel bloccare la marcia alla guerra.
Tuttavia, la situazione è cambiata dopo il 1968. La fine del boom del dopoguerra si è scontrata con una nuova generazione della classe operaia che non risultava più sconfitta e che si è impegnata in una serie di lotte importanti il cui segnale è stato lo sciopero generale in Francia del 1968 e "l'autunno caldo" in Italia nel 1969. Il ritorno della crisi economica aperta ha acuito le tensioni imperialistiche e dunque il pericolo di un conflitto diretto tra i blocchi, ma né da un lato né dell'altro dei campi imperialistici, la classe dominante poteva essere sicura di persuadere gli operai a smettere di lottare per i loro interessi materiali abbandonandosi ad una nuova guerra mondiale.
Lo sciopero di massa in Polonia nel 1980 lo ha ben dimostrato. Sebbene sia stato alla fine sconfitto, ha mostrato chiaramente alle frazioni più intelligenti della classe dominante russa che non avrebbero mai potuto contare sui lavoratori dell'Europa dell'Est (e probabilmente nemmeno su quelli della stessa Russia, che avevano cominciato anche loro a lottare contro gli effetti della crisi) per fare parte di un'offensiva militare disperata contro l'occidente.
Questa incapacità a fare aderire la classe operaia ai suoi progetti di guerra è stata dunque un elemento essenziale nello scoppio implosivo dei due blocchi imperialistici e nel rinviare ogni prospettiva di una 3a guerra mondiale classica.
Se la classe operaia, sebbene non abbia preso ancora coscienza del reale progetto storico che le è proprio, può avere un peso tanto importante nella situazione mondiale, ciò deve essere preso sicuramente in conto quando si considerano ancora le ragioni per le quali il flusso delle guerre non ha raggiunto i paesi centrali del capitalismo? Dobbiamo considerare la domanda anche sotto un altro angolo: se c'è tanta barbarie e distruzioni irrazionali che dilagano in Africa, Medio Oriente ed Asia centrale, non è perché lì la classe operaia è debole, ha poche tradizioni di lotta e di politica di classe indipendente, è dominata dal nazionalismo, dal fondamentalismo religioso - ed anche dalle illusioni che arrivando alla "democrazia" si farebbe un passo avanti?
Ciò è meglio comprensibile se si esamina la sorte delle rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo (ed Israele…) nel 2011. Nei movimenti in cui era più forte l’impronta della classe operaia, anche se erano coinvolti differenti strati della popolazione - Tunisia, Egitto ed Israele - ci sono state delle avanzate importanti nella lotta: tendenze all'auto organizzazione ed alle assemblee di strada, all’abolizione delle divisioni religiose, etniche e nazionali. Sono stati questi elementi che lo stesso anno ispireranno le lotte in Europa e negli Stati Uniti, e soprattutto il movimento degli Indignati in Spagna. Ma il peso della classe dominante, l'ideologia sotto forma di nazionalismo, di religione e le illusioni sulla democrazia borghese erano ancora molto forti in ciascuna di queste tre rivolte in Medio Oriente ed in Africa settentrionale, portandole a false soluzioni, come in Egitto dove, dopo la caduta di Mubarak, un governo islamico repressivo è stato sostituito da un governo militare ancora più repressivo. In Libia ed in Siria, dove la classe operaia è molto più debole avendo solo inizialmente e comunque poca influenza sulle rivolte, la situazione è degenerata velocemente nei molteplici conflitti militari, alimentati dalle potenze regionali e mondiali che cercano di avanzare le loro pedine, come è descritto nelle note 2 e 3[2][3]. In questi paesi, la stessa società si è disgregata, dimostrando in modo molto chiaro ciò che può capitare se le tendenze di un capitalismo senile all'autodistruzione non vengono frenate. Infatti, in una tale situazione, ogni speranza di una risposta proletaria è persa, ed è per tale motivo che la sola soluzione per tante persone è tentare di fuggire dalle zone di guerra, qualunque siano i rischi.
Nel periodo tra 1968 e 1989, la lotta di classe è stata un ostacolo alla guerra mondiale. Ma oggi, la minaccia di guerra prende una forma differente e più insidiosa. Per reclutare la classe operaia in due grandi blocchi organizzati, la classe dominante avrebbe bisogno di rompere ogni resistenza a livello economico e al tempo stesso di trascinare la classe operaia dietro i temi ideologici che giustificano un nuovo conflitto mondiale. In breve, ciò esigerebbe la sconfitta ideologica e fisica della classe operaia, in modo simile a quello che il capitalismo riuscì a fare negli anni 30. Oggi, tuttavia, nell'assenza di blocchi, la propagazione della guerra può prendere la forma di uno slittamento graduale, se non accelerato, in una miriade di conflitti locali e regionali che implicano sempre più potenze locali, regionali e, dietro di esse, mondiali, con maggiori devastazioni di parti del pianeta e che - combinate con la distruzione strisciante dell'ambiente naturale e dello stesso tessuto della vita sociale - potrebbero significare una discesa irreversibile nella barbarie, eliminando una volta per tutte ogni possibilità di permettere alla società di passare ad un livello superiore.
Questo processo, che descriviamo come decomposizione del capitalismo, è già molto avanzato nei luoghi come la Libia e la Siria. Per impedire che questo livello di barbarie si estenda ai centri del capitalismo, la classe operaia ha bisogno di più di una forza passiva - e di più di una semplice resistenza sul piano economico. Ha bisogno di una prospettiva politica positiva. Ha bisogno di affermare la necessità di una nuova società per il comunismo autentico sostenuto da Marx e da tutti i rivoluzionari che hanno seguito le sue orme. Oggi, sembra che ci siano pochi segni per una tale prospettiva. La classe operaia ha attraversato una lunga e difficile esperienza dalla fine degli anni 1980: intense campagne della borghesia sulla morte del comunismo e la fine della lotta di classe sono state condotte contro ogni idea che la classe operaia possa avere un suo progetto per la trasformazione della società. Allo stesso tempo, l'avanzata senza tregua della decomposizione erode le viscere e lo spirito della classe, destabilizzando la sua fiducia nel futuro, generando disperazione, nichilismo, ed ogni tipo di reazioni disperate, dalla droga fino al fondamentalismo religioso ed alla xenofobia. La perdita di illusioni nei partiti "operai" tradizionali, in assenza di alternativa chiara, ha aumentato l'allontanamento della politica o ha dato uno slancio a nuovi partiti populisti di destra e di sinistra. Malgrado una certa rivitalizzazione delle lotte tra il 2003 e 2013, il riflusso della lotta di classe e della coscienza di classe, palpabile negli anni 1990, adesso sembra ancora più radicato.
E queste non sono le sole difficoltà alle quali deve far fronte la classe operaia. Oggi, il proletariato, a differenza del 1916, non deve affrontare una situazione di guerra mondiale nella quale ogni forma di resistenza è obbligata a prendere fin dall'inizio un carattere politico, ma una crisi economica che si approfondisce lentamente, manovrata da una borghesia molto sofisticata che fino ad ora è riuscita a risparmiare agli operai dei centri del sistema i peggiori effetti della crisi e, soprattutto, un'implicazione massiccia in un conflitto militare. Del resto, quando si tratta di un intervento militare nelle regioni periferiche, la classe dominante dei centri del capitalismo è molto prudente, adopera solo forze professionali, preferendo poi raid aerei e droni per minimizzare la perdita in vite di soldati che può condurre alla contestazione nell'esercito e nella popolazione civile.
Un'altra differenza importante tra il 1916 ed oggi: nel 1916, decine di migliaia di operai scioperarono in solidarietà con Liebknecht. Lui, era conosciuto dagli operai perché il proletariato, malgrado il tradimento dell'ala opportunista del movimento operaio nel 1914, non aveva perso il contatto con tutte le sue tradizioni politiche. Oggi, le organizzazioni rivoluzionarie sono praticamente una minuscola minoranza sconosciuta nella classe operaia. E questo è un ulteriore fattore che inibisce lo sviluppo di una prospettiva politica rivoluzionaria.
Con tutti questi elementi apparentemente accumulati contro la classe operaia, ha ancora senso pensare che un tale sviluppo sia oggi possibile?
Abbiamo descritto la fase attuale di decomposizione come la fase finale della decadenza del capitalismo. Nel 1916, il sistema stava solo entrando nella sua epoca di declino e la guerra si produsse molto prima che il capitalismo avesse esaurito tutte le sue possibilità economiche. In seno alla classe operaia, c'erano ancora profonde illusioni sull'idea che, se fosse stato possibile mettere fine alla guerra, si sarebbe probabilmente ritornati all'epoca della lotta per le riforme graduali in seno al sistema - illusioni su cui ha giocato la classe dominante mettendo fine alla guerra ed installando il partito socialdemocratico al potere in un paese centrale come la Germania.
Oggi, la decadenza del capitalismo è molto più avanzata e la mancanza di un futuro assicurato, avvertita da molti, è una reale riflessione sul vicolo cieco del sistema. La borghesia non ha palesemente nessuna soluzione alla crisi economica che si trascina da più di quattro decenni, nessuna alternativa allo scivolamento nella barbarie militare ed alla distruzione dell'ambiente naturale. In breve, le poste in gioco sono ancora più elevate di quanto fossero cento anni fa. La classe operaia è di fronte ad un'enorme sfida - la necessità di dare la sua risposta alla crisi economica, alla guerra ed al problema dei rifugiati, di dare una nuova visione dei rapporti dell'uomo con la natura. Il proletariato ha bisogno di più di una semplice serie di lotte sui suoi posti di lavoro - ha bisogno di fare una critica totale, sia teorica che pratica, di tutti gli aspetti della società capitalista. Non sorprende che la classe operaia, confrontata alla prospettiva offerta dalla società capitalista ed alla difficoltà immensa di liberare la sua prospettiva, cada nella disperazione. Tuttavia, abbiamo visto i bagliori di un movimento che comincia a cercare questa alternativa, soprattutto il movimento degli Indignati in Spagna che, nel 2011, ha aperto non solo la porta all'idea di una nuova forma di organizzazione sociale - contenuta nella parola d’ordine "tutto il potere alle assemblee" - ma anche ad educare se stessa sul sistema che rimetteva in questione ed che aveva bisogno di sostituire.
La nuova generazione di proletari che ha condotto questa rivolta è probabilmente ancora estremamente inesperta, manca di formazione politica e non vede se stessa come classe operaia. Tuttavia, le forme ed i metodi di lotta che sono apparsi in questi movimenti - come le assemblee - erano spesso profondamente radicati nelle tradizioni delle lotte della classe operaia. E più importante ancora, il movimento nel 2011 ha visto il riemergere di un internazionalismo autentico, espressione del fatto che la classe operaia di oggi è più globale di quanto non fosse nel 1916; che fa parte di un'immensa rete di produzione, distribuzione e comunicazione che collega tutto il pianeta; e che condivide la maggior parte degli stessi problemi fondamentali in tutti i paesi, a dispetto delle divisioni che la classe sfruttatrice tenta sempre di imporre e di manipolare. Gli Indignati erano molto coscienti che ripartivano da dove si erano fermate le rivolte in Medio Oriente, ed alcuni di loro si vedevano anche come facente parte di una "rivoluzione mondiale" di tutti coloro che sono esclusi, sfruttati ed oppressi da questa società.
Questo internazionalismo embrionale è estremamente importante. Nel 1916-17, l'internazionalismo era qualche cosa di molto concreto ed immediato. Prendeva la forma di affratellamento tra soldati degli eserciti nemici, di diserzione di massa, di ammutinamenti, di scioperi e di manifestazioni contro la guerra sul fronte interno. Queste azioni erano la realizzazione pratica delle parole d’ordine avanzate dalle minoranze rivoluzionarie quando la guerra esplose: "il nemico principale è nel nostro paese" e "trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile".
Oggi, l'internazionalismo comincia spesso sotto forme apparentemente più negative ed astratte: nella critica del quadro borghese dello Stato-nazione per risolvere il problema della guerra, del terrorismo e dei profughi; nel riconoscimento della necessità di andare al di là degli Stati-nazione concorrenti per superare le crisi economiche ed ecologiche. Ma, in certi momenti, può prendere una forma più concreta: nei legami internazionali, al tempo stesso fisici e numerici, tra i partecipanti delle rivolte del 2011; negli atti spontanei di solidarietà verso i rifugiati di lavoratori nei paesi centrali, spesso affrontando la propaganda xenofoba della borghesia. In certe parti del mondo, certamente, la lotta diretta contro la guerra è una necessità, e là dove esiste una classe operaia significativa, come in Ucraina, abbiamo visto dei segni di resistenza alla coscrizione e manifestazioni contro le restrizioni causate dalla guerra, sebbene qui ancora, la mancanza di una coerente opposizione proletaria al militarismo ed al nazionalismo abbia seriamente indebolito la resistenza alla marcia alla guerra.
Per la classe operaia dei paesi centrali, l'implicazione diretta nella guerra non è immediatamente all'ordine del giorno, e la questione della guerra può sembrare ancora lontana delle preoccupazioni quotidiane. Ma come già hanno mostrato la "crisi dei rifugiati" e gli attacchi terroristici in questi paesi, la guerra sta diventando sempre più una preoccupazione quotidiana per gli operai dei paesi centrali del capitale che, da un lato, sono meglio posti per approfondire la loro comprensione delle cause che stanno alla base della guerra e della sua connessione con la crisi globale, storica, del capitalismo; e dall'altro per colpire la bestia al cuore, i paesi centrali del sistema imperialista.
Amos 16.01.16
[1] Per una visione più approfondita di questi avvenimenti, vedere la Rivista Internazionale n°30: Germania 1918-19: 90 anni fa, la rivoluzione tedesca: di fronte alla guerra il proletariato ritrova i suoi principi internazionalisti. https://it.internationalism.org/node/666 [27]
[2] Le bombe britanniche aumenteranno il caos nel Medio Oriente. ICC on line, gennaio 2016.
[3] Medio Oriente: L'obsolescenza storica dello Stato-nazione. ICC on line, gennaio 2016.
1a parte: La nozione di Frazione nella storia del movimento operaio
Come riportato nell'articolo "40 anni dopo la fondazione della CCI - Quale bilancio e quali prospettive per la nostra attività?" il 21° congresso della CCI ha adottato un rapporto sul ruolo della CCI in quanto "Frazione". Questo rapporto è costituito da due parti, una prima che presenta il contesto di questo rapporto e un richiamo storico della nozione di "Frazione" ed una seconda che analizza concretamente il modo con cui la nostra organizzazione aveva interpretato la sua responsabilità. Pubblichiamo qui la prima parte di questo rapporto che presenta un interesse generale al di là delle questioni alle quali è confrontata specificamente la CCI.
Il 21° congresso internazionale pone al centro delle sue preoccupazioni un bilancio critico dei 40 anni di esistenza della CCI. Questo bilancio critico riguarda:
- le analisi generali elaborate dalla CCI (cf i 3 rapporti sulla situazione internazionale);
- il modo con cui la CCI ha sostenuto il suo ruolo di partecipazione alla preparazione del futuro partito.
La risposta a questa seconda domanda suppone evidentemente che sia ben definito il ruolo che incombe sulla CCI nel periodo storico attuale, un periodo dove non esistono ancora le condizioni per l'apparizione di un partito rivoluzionario, e cioè di un'organizzazione che abbia un’influenza diretta sul corso degli scontri di classe:
"Non si può studiare e comprendere la storia di questo organismo, il Partito, se non situandolo nel contesto generale delle differenti tappe percorse dal movimento della classe, dei problemi che le si pongono, dello sforzo della sua presa di coscienza, della sua capacità ad un dato momento di rispondere in modo adeguato a questi problemi, di trarre le lezioni dalla sua esperienza e farne un nuovo trampolino per le sue lotte a venire.
Se dunque i partiti politici sono un fattore di primo ordine dello sviluppo della classe, allo stesso tempo, essi rappresentano un'espressione dello stato reale di questa ad un dato momento della sua storia". (Révue Internationale n°35, "Sul partito ed i suoi rapporti con la classe", punto 9)
"Durante tutto il suo lungo movimento, la classe è stata sottoposta al peso dell'ideologia borghese che tende a deformare, a corrompere i partiti proletari, a snaturare la loro vera funzione. A questa tendenza si sono opposte le frazioni rivoluzionarie che si sono date il compito di elaborare, di chiarificare, di precisare le posizioni comuniste. È principalmente il caso della Sinistra Comunista generata della 3a Internazionale: la comprensione della questione del Partito passa necessariamente dall'assimilazione dell'esperienza e dagli apporti dell'insieme di questa Sinistra Comunista Internazionale.
Spetta tuttavia alla Frazione Italiana della Sinistra Comunista il merito specifico di avere messo in evidenza la differenza qualitativa che esiste nel processo di organizzazione dei rivoluzionari secondo i periodi: quella di sviluppo della lotta di classe e quella delle sue disfatte e dei suoi riflussi. La FI ha delineato con chiarezza, per ciascuno dei due periodi, la forma presa dall'organizzazione dei rivoluzionari ed i compiti corrispondenti: nel primo caso la forma di partito, potendo esercitare un'influenza diretta ed immediata nella lotta di classe; nel secondo caso, quella di un'organizzazione numericamente ridotta la cui influenza è ben più debole e poco operante nella vita immediata della classe. A questo tipo di organizzazione, ha dato il nome distintivo di Frazione che, tra due periodi di sviluppo della lotta di classe, e cioè tra due momenti dell'esistenza del Partito, costituisce un legame, una cerniera, un ponte organico tra il vecchio partito ed il futuro Partito". (Ibid., punto 10)
A questo punto dobbiamo porci un certo numero di domande:
- che cosa ricopriva questa nozione di frazione nei diversi momenti della storia del movimento operaio?
- in quale misura la CCI può essere considerata una "frazione?"
- quali sono i compiti di una frazione che restano validi per la CCI e quali sono quelli di sua competenza?
- quali compiti particolari incombono sulla CCI e quali non sarebbero quelli delle frazioni?
Nella prima parte di questo rapporto, andiamo ad affrontare essenzialmente il primo di questi 4 punti per stabilire una cornice storica alla nostra riflessione e permetterci di affrontare meglio la seconda parte del rapporto che si propone di rispondere alla domanda centrale posta sopra: quale bilancio può trarsi dal modo con cui la CCI ha sostenuto il suo ruolo allo scopo di partecipare alla preparazione del futuro partito?
Per esaminare questa nozione di Frazione nei differenti momenti della storia del movimento operaio, che ha permesso alla Frazione italiana di elaborare la sua analisi, distinguiamo 3 periodi:
- l'infanzia del movimento operaio: la Lega dei comunisti e l'AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori o Prima Internazionale);
- l'età della sua maturità: La 2a Internazionale o Internazionale socialista;
- il "periodo delle guerre e delle rivoluzioni" (secondo l'espressione adoperata dall'Internazionale Comunista).
Ma, per cominciare, può essere utile fare un breve richiamo sulla storia dei partiti del proletariato poiché la questione della Frazione ritorna, fondamentalmente, a porre in qualche modo la questione del Partito, costituendo quest’ultimo il punto di partenza ed il punto di arrivo della Frazione.
La nozione di partito è stata elaborata progressivamente, sia teoricamente che praticamente, durante l'esperienza del movimento operaio (Lega dei comunisti, AIT, partiti della 2a Internazionale, Partiti Comunisti).
La Lega, che è un'organizzazione clandestina, appartiene ancora al periodo delle sette:
"All'alba del capitalismo moderno, nella prima metà del diciannovesimo secolo, la classe operaia, ancora nella sua fase di costituzione, conducendo lotte locali e sporadiche non poteva dare nascita che a scuole dottrinarie, a sette e leghe. La Lega dei Comunisti era l'espressione più avanzata di questo periodo nello stesso momento in cui il suo Manifesto ed il suo Appello ai "proletari di tutti i paesi, unitevi", annunciava il "periodo" seguente. ("Sulla natura e la funzione del partito politico del proletariato", punto 23, Internationalisme n°38, ottobre 1948)
L'AIT ha avuto per ruolo proprio il superamento delle sette, permettendo un largo raggruppamento di proletari europei ed una decantazione rispetto a numerose confusioni che pesavano sulla loro coscienza. Allo stesso tempo, con la sua composizione eteroclita (sindacati, cooperative, gruppi di propaganda, ecc.) non è ancora un partito nel senso che questa nozione ha acquistato in seguito in seno e grazie alla 2a Internazionale.
"La Prima Internazionale corrisponde all'entrata effettiva del proletariato sulla scena delle lotte sociali e politiche nei principali paesi d'Europa. Così essa raccoglie tutte le forze organizzate della classe operaia, le sue più diverse tendenze ideologiche. La prima Internazionale riunisce al tempo stesso tutte le correnti e tutti gli aspetti della lotta operaia contingente: economici, educativi, politici e teorici. Essa rappresenta il punto più alto de L'ORGANIZZAZIONE UNITARIA DELLA CLASSE OPERAIA, in tutta la sua diversità.
La Seconda Internazionale segna una tappa di differenziazione tra le lotte economiche dei salariati e la lotta politica e sociale. In questo periodo di pieno sviluppo della società capitalista, la Seconda Internazionale è l'organizzazione della lotta per le riforme e delle conquiste politiche, l'affermazione politica del proletariato, nello stesso momento in cui segna una tappa superiore nella delimitazione ideologica in seno al proletariato, precisando ed elaborando i fondamenti teorici della sua missione storica rivoluzionaria." (Ibid.)
È in seno alla Seconda Internazionale che si opera la distinzione chiara tra le organizzazioni generali della classe (i sindacati) e la sua organizzazione specifica incaricata di difendere il suo programma storico, il partito. Una distinzione che risulta ben chiara alla fondazione della 3a Internazionale nel momento in cui la rivoluzione proletaria è, per la prima volta, all'ordine del giorno della storia. In questo nuovo periodo, per l'IC, l'organizzazione generale della classe non è più costituita dai sindacati (che comunque non raggruppano l'insieme del proletariato), ma dai consigli operai (anche se nell'IC restano delle confusioni sulla questione sindacale e su quella del ruolo del partito).
Malgrado tutte le differenze tra queste quattro organizzazioni, c'è un punto comune tra loro: hanno un impatto sul corso della lotta di classe ed è in questo senso che si può attribuire loro il nome di "partito".
Questo impatto è ancora debole per la Lega dei comunisti all'epoca delle rivoluzioni del 1848-49 dove agisce principalmente come ala sinistra del movimento democratico. Infatti, la Neue Rheinische Zeitung diretta da Marx, che ha una certa influenza in Renania ed anche nel resto della Germania, non è direttamente l'organo della Lega ma si presenta come "Organo della Democrazia". Come nota Engels: "(…) la Lega, una volta che le masse popolari si furono messe in movimento, si rivelò ben troppo debole come leva". ("Alcune parole sulla storia della Lega dei comunisti", novembre 1885). Una delle cause importanti di questa debolezza risiede nella debolezza stessa del proletariato in Germania dove la grande industria non è ancora sviluppata. Tuttavia, lo stesso Engels rileva che "La Lega è stata incontestabilmente la sola organizzazione rivoluzionaria che abbia avuto una certa importanza in Germania". L'impatto dell’AIT è ben più importante poiché essa diventa una "potenza" in Europa. Ma è soprattutto la 2a Internazionale (attraverso i differenti partiti che la compongono) che può, per la prima volta nella storia, rivendicare un'influenza determinante nelle masse operaie.
Questa domanda già è stata posta al tempo di Marx ma ha rivestito un'importanza maggiore in seguito: che cosa diventa il partito quando l'avanguardia che difende il programma storico della classe operaia, la rivoluzione comunista, non ha la possibilità di avere un impatto immediato sulle lotte di classe del proletariato?
A questa domanda, la storia ha dato differenti risposte. La prima risposta è quella dello scioglimento del partito quando le condizioni della sua esistenza non sono più presenti. E questo è stato il caso della Lega e dell’AIT. Nei due casi, Marx ed Engels hanno giocato un ruolo decisivo in questo scioglimento.
Fu così che nel novembre 1852, dopo il processo ai comunisti di Colonia che sanciva la vittoria della controrivoluzione in Germania, essi hanno fatto appello al Consiglio centrale della Lega affinché pronunciasse il suo scioglimento. Vale la pena sottolineare che la questione dell'azione della minoranza rivoluzionaria in un periodo di reazione era stata già sollevata fin dall'autunno 1850 in seno alla Lega. A metà 1850, Marx ed Engels avevano constatato che l'ondata rivoluzionaria rifluiva a causa della ripresa dell'economia: "Considerando questa prosperità generale nella quale le forze produttive della società borghese si sviluppano tanto abbondantemente quanto lo permettono le condizioni borghesi, non si dovrebbe parlare di vera rivoluzione. Una tale rivoluzione è possibile solamente nei periodi dove questi due fattori, le forze produttive moderne e le forme di produzione borghese entrano in conflitto le une con le altre". (Neue Rheinische Zeitung, Politisch-ökonomische Revue, fascicoli V e VI)
Essi sono costretti a combattere la minoranza immediatista di Willich-Schapper che vuole continuare a chiamare gli operai all'insurrezione malgrado il riflusso: "Al momento dell’ultimo dibattito sulla questione ‘della posizione del proletariato in Germania nella prossima rivoluzione’ alcuni membri della minoranza del Consiglio centrale hanno espresso dei punti di vista che sono in contraddizione diretta con la penultima circolare, anzi con il Manifesto. Essi hanno sostituito alla concezione internazionale del Manifesto una concezione nazionale e tedesca, adulando il sentimento nazionale dell’artigiano tedesco. Al posto della concezione materialista del Manifesto, hanno una concezione idealistica: al posto della situazione reale, è la volontà che diventa la forza motrice della rivoluzione. Mentre noi diciamo agli operai: vi occorrono quindici, venti, cinquant'anni di guerre civili per cambiare le condizioni esistenti e rendervi atti al dominio sociale, loro al contrario dicono: dobbiamo arrivare immediatamente al potere, o andiamo a casa a dormire! Alla stessa stregua di come i democratici utilizzano la parola 'popolo', essi utilizzano la parola 'proletariato' come semplice frase. Per realizzare questa frase, bisognerebbe proclamare tutti i piccoli-borghesi proletari, e ciò significa rappresentare la piccola borghesia, e non il proletariato. Al posto dello sviluppo storico reale, bisognerebbe mettere la frase 'rivoluzione'" (Intervento di Marx alla riunione del Consiglio centrale della Lega del 15 settembre 1850)
Così, al congresso dell'Aia del 1872, Marx ed Engels sostengono la decisione di trasferire il Consiglio Generale a New York per sottrarlo all'influenza delle tendenze bakuniniste che guadagnano posizioni in un momento in cui il proletariato europeo ha subito un'importante disfatta con lo schiacciamento della Comune di Parigi. Questo spostamento fuori dall'Europa del Consiglio Generale significava mettere fuori gioco l’AIT, un preludio al suo scioglimento. Questo scioglimento diventa effettivo alla conferenza di Filadelfia nel luglio 1876.
In un certo modo, lo scioglimento del partito quando le condizioni non permettono più la sua esistenza è stato ben più facile nel caso della Lega e dell’AIT che in seguito. La Lega era una piccola organizzazione clandestina, salvo al momento delle rivoluzioni del 1848-49 che non avevano preso un posto "ufficiale" nella società. Per L’AIT, la sua scomparsa formale non implica pertanto la sparizione di tutte le sue componenti. È così che sono sopravvissute all’AIT le Trad-unions inglesi o il partito operaio tedesco. Ciò che sparisce, è il legame formale esistente tra le sue diverse componenti.
In seguito le cose cambiano. I partiti operai non spariscono più ma passano al nemico. Essi diventano istituzioni dell'ordine capitalista, cosa che conferisce agli elementi rivoluzionari una responsabilità differente da quella che avevano all'epoca delle prime tappe del movimento operaio.
Quando la Lega è stata sciolta, non è rimasto nemmeno una minima organizzazione formale incaricata di costituire un ponte verso il nuovo partito che avrebbe potuto nascere in un momento o in un altro. Del resto, Marx ed Engels hanno ritenuto che il lavoro di elaborazione e di approfondimento teorico costituiva la prima delle priorità durante questo periodo e poiché, in quel momento, erano praticamente i soli a dominare la teoria che avevano elaborato, non avevano bisogno di un'organizzazione formale per fare questo lavoro. Detto ciò, alcuni vecchi membri della Lega restarono in contatto tra loro, in particolare nell'emigrazione in Inghilterra. Nel 1856, si assiste anche alla riconciliazione tra Marx e Schapper. Nel settembre 1864, è Eccarius, vecchio membro del Consiglio centrale della Lega, e che ha dei legami stretti col movimento operaio inglese, a chiedere la presenza di Marx alla tribuna della celebre riunione del 28 settembre a Saint-Martin's Hall dove è decisa la fondazione dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori[1]. Ed è così che ritroviamo nel Consiglio generale dell’AIT un numero significativo di vecchi membri della Lega: Eccarius, Lessner, Lochner, Pfaender, Schapper e, ovviamente, Marx ed Engels.
Quando l'AIT sparisce, rimangono, come abbiamo visto, delle organizzazioni che rappresenteranno l'origine della fondazione della 2a internazionale, particolarmente il partito tedesco generato dell'unificazione del 1875 (SAP) di cui la componente di Eisenach (Bebel, Liebknecht) era affiliata all’AIT.
Qui bisogna fare un’osservazione concernente il ruolo che si sono date queste prime due organizzazioni quando si sono costituite. Nel caso della Lega, è chiaro nel Manifesto che la prospettiva è quella della rivoluzione proletaria abbastanza a breve termine. È in seguito alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848-49 che Marx ed Engels comprendono che le condizioni storiche non sono ancora mature. Parimenti, al momento della fondazione dell’AIT, esiste l'idea di una "emancipazione dei lavoratori" (secondo i suoi statuti) a breve o medio termine (malgrado la diversità delle visioni che ricopriva questa formula per le differenti componenti dell'Internazionale: mutualismo – reciproco soccorso ed assistenza, collettivismo, ecc.). La sconfitta della Comune di Parigi ha messo in evidenza una nuova volta l'immaturità delle condizioni per il capovolgimento del capitalismo, tanto più che nel periodo che segue si assiste ad un'espansione considerevole del capitalismo principalmente con la costituzione della potenza industriale della Germania che all'inizio del ventesimo secolo supera quella dell'Inghilterra.
Durante questo periodo di espansione del capitalismo, mentre la prospettiva rivoluzionaria resta lontana, i partiti socialisti acquistano un'importanza maggiore in seno alla classe operaia (particolarmente in Germania, evidentemente). Questo impatto crescente, mentre lo stato d'animo della maggioranza degli operai non è rivoluzionario, è legato al fatto che i partiti socialisti nel loro programma ostentano non solo la prospettiva del socialismo, ma difendono anche, nel quotidiano, il "programma minimo" di riforme in seno alla società capitalista. Del resto, è questa situazione che determina l’opposizione tra quelli per i quali "Lo scopo finale, qualunque sia, non è niente, il movimento è tutto" (Bernstein) e quelli per cui "lo scopo finale del socialismo è il solo elemento decisivo che distingue il movimento socialista dalla democrazia borghese e dal radicalismo borghese, il solo elemento che, piuttosto che dare al movimento operaio il vano compito di rattoppare il regime capitalista per salvarlo, nei fatti [è] una lotta di classe contro questo regime, per l'abolizione di questo regime". "Per la socialdemocrazia, lottare all'interno anche del sistema esistente, giorno dopo giorno, per le riforme, per il miglioramento della situazione dei lavoratori, per le istituzioni democratiche, è il solo modo di impegnare la lotta di classe proletaria e di orientarsi verso lo scopo finale, cioé lavorare a conquistare il potere politico ed ad abolire il sistema del salariato" (Rosa Luxemburg nella prefazione di Riforma sociale o Rivoluzione). Infatti, malgrado il rigetto ufficiale delle tesi di Bernstein da parte del SPD e dell'Internazionale socialista, questa visione diventa in realtà maggioritaria in seno al SPD, e specialmente nell'apparato ed in seno all'Internazionale.
"L'esperienza della Seconda Internazionale conferma l'impossibilità di mantenere al proletariato il suo partito in un periodo prolungato di una situazione non rivoluzionaria. La partecipazione finale dei partiti della Seconda Internazionale alla guerra imperialistica del 1914 non ha fatto che rivelare la lunga corruzione dell’organizzazione. La permeabilità e penetrabilità, sempre possibili, dell'organizzazione politica del proletariato da parte dell'ideologia della classe capitalista dominante, prendono, nei periodi prolungati di stagnazione e di riflusso della lotta di classe, un'ampiezza tale che l'ideologia della borghesia finisce per sostituirsi a quella del proletariato, per cui inevitabilmente il partito si svuota del suo primitivo contenuto di classe per diventare lo strumento di classe del nemico". ("Sulla natura e la funzione del partito politico del proletariato", punto 12).
È in questo contesto che, per la prima volta, nascono delle vere frazioni. La prima frazione è quella dei bolscevichi che, dopo il congresso del 1903 del POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo), intraprende la lotta contro l'opportunismo, all’inizio sulle questioni organizzative poi sulle questioni di tattica di fronte ai compiti del proletariato in un paese semi-feudale come la Russia. Bisogna notare che, fino al 1917, anche se la frazione bolscevica e la frazione menscevica conducevano le rispettive politiche in modo indipendente, esse formalmente appartenevano allo stesso partito, il POSDR.
La corrente marxista che si è sviluppata intorno al settimanale De Tribune, diretto da Wijnkoop, Van Raveysten e Ceton ma al quale collaboravano particolarmente Gorter e Pannekoek, si è impegnata a partire dal 1907 in un lavoro simile nello SDAP, il partito olandese. Questa corrente ha condotto la lotta contro la deriva opportunista in seno al partito rappresentata principalmente dalla frazione parlamentare e da Troelstra che, fin dal congresso del 1908, propone di vietare De Tribune. Troelstra l’avrà alla fine vinta all'epoca del congresso straordinario di Deventer, 13-14 febbraio 1909, dove viene decisa la soppressione de De Tribune e l’espulsione dei suoi tre redattori del partito. Questa politica mirante a separare i "capi" tribunisti dai simpatizzanti di questa corrente provoca, in effetti, una viva reazione di questi ultimi. Infine, questa politica di Troelstra di espulsione, quella del Bureau internazionale dell'IS (Internazionale socialista) che è sollecitato per un arbitraggio ma che è dominato dai riformisti, ma anche la volontà di rottura dei tre redattori (volontà che Gorter non condivide)[3] conduce i "tribunisti" a fondare a marzo un nuovo partito, il SDP, il Partito socialdemocratico. Questo partito, fino alla guerra mondiale, resterà estremamente minoritario, con un'influenza elettorale insignificante, ma beneficia del sostegno della Sinistra in seno all’Internazionale, in particolare dei bolscevichi, ciò che gli permette, alla fine, di essere reintegrato nell'IS nel 1910, dopo un primo rifiuto da parte del BSI nel novembre 1909, e di mandare dei delegati (un mandato contro 7 del SDAP, ai congressi internazionali del 1910 (Copenaghen) e 1912 (Basilea). Durante la Guerra, alla quale l'Olanda non partecipa ma che pesa considerevolmente sulla classe operaia (disoccupazione, approvvigionamento, ecc.), il SDP guadagna in influenza, compreso sul piano elettorale, per la sua politica internazionalista e di sostegno alle lotte operaie. Alla fine, il SDP prenderà il nome di Partito comunista dei Paesi Bassi (CPN) nel novembre 1918, prima ancora della fondazione del Partito Comunista di Germania (KPD).
La terza corrente che ha sostenuto un ruolo di frazione decisiva in un partito della 2a Internazionale è quella che formerà proprio il KPD. Fin dalla sera del 4 agosto 1914, dopo il voto unanime dei crediti di guerra da parte dei deputati socialisti al Reichstag, un certo numero di militanti internazionalisti si ritrova nell'appartamento di Rosa Luxemburg per definire le prospettive di lotta ed i mezzi per raggruppare tutti quelli che, nel partito, combattono la politica sciovinista della direzione e della maggioranza. Questi militanti sono unanimi nel ritenere necessario condurre questa lotta IN SENO al partito. In numerose città, la base del partito denuncia il voto dei crediti di guerra da parte dellla frazione parlamentare. Anche Liebknecht è criticato per avere votato il 4 agosto, per disciplina, il suo sostegno. All'epoca della seconda votazione, il 2 dicembre, Liebknecht è il solo a votare contro ed è raggiunto da Otto Rühle durante le 2 successive votazioni, poi da un numero crescente di deputati. Fin dall'inverno 1914-1915, vengono distribuiti dei volantini clandestini (particolarmente quello intitolato "Il nemico principale è nel nostro paese"). Nell'aprile 1915 è pubblicato il primo ed unico numero di Die Internationale (L’Internazionale) la cui vendita arriva a 5.000 esemplari fin dalla prima sera e che dà il suo nome al Gruppo Internazionale, animato particolarmente da Rosa Luxemburg, Jogiches, Liebknecht, Mehring, Clara Zetkin.
Nella clandestinità, sottomesso alla repressione, questo piccolo gruppo che prende il nome di "Gruppo Spartacus" poi di "Lega Spartacus"[4], anima la lotta contro la guerra ed il governo ed ancora contro la destra ed il centro della socialdemocrazia. In questa lotta non è solo perché altri gruppi, specialmente quelli di Amburgo e Brema, dove si trovano Pannekoek, Radek e Frölich, difendono una politica internazionalista con ancora più chiarezza rispetto agli stessi spartakisti. All'inizio del 1917, quando la direzione del SPD espelle le opposizioni per fermare il progresso delle loro posizioni in seno al partito, questi gruppi proseguono la loro attività in modo autonomo mentre gli spartakisti proseguono un lavoro di frazione in seno all'USPD centrista. Alla fine, queste differenti correnti si raggruppano per la costituzione del KPD il 31 dicembre 1918, ma è chiaro che sono gli spartakisti a costituire l'asse del nuovo partito.
È con un certo ritardo sul movimento operaio in Russia, Olanda e Germania che si costituisce una frazione di Sinistra in Italia. Si tratta della "Frazione astensionista" che si raggruppa intorno al giornale Il Soviet pubblicato a Napoli da Bordiga e dai suoi compagni a partire da dicembre 1918, e che si costituisce formalmente in frazione al congresso del PSI nell'ottobre 1919, anche se è dal 1912 che, in seno alla Federazione dei giovani socialisti e nella federazione di Napoli del PSI, Bordiga ha animato una corrente rivoluzionaria intransigente. Questo ritardo si spiega in parte per il fatto che Bordiga, arruolato, non può intervenire nella vita politica prima del 1917, ma soprattutto perché, al momento della guerra, la direzione del partito è nelle mani della sinistra, in seguito al congresso del 1912 che ha espulso la destra riformista e quello del 1914 che ha espulso i massoni. L’Avanti, il giornale del PSI, è diretto da Mussolini che, a questi congressi, ha presentato le mozioni di espulsione delle suddette formazioni. Quest’ultimo approfitta di questa posizione per pubblicare il 18 ottobre 1914 un editoriale intitolato "Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operosa" che si pronuncia per l'entrata in guerra dell'Italia affianco all'Intesa. Viene subito destituito dal suo posto, ma appena un mese dopo, pubblica Il Popolo d’Italia grazie ai sussidi ricevuti dal deputato socialista Marcel Cachin, futuro dirigente del PCF, per conto del governo francese e dell'Intesa. È espulso dal PSI il 29 novembre. In seguito, anche se la situazione dominata dalla Guerra mondiale spinge alla decantazione tra una Sinistra, una Destra ed un Centro, la direzione del partito oscilla tra destra e sinistra, tra prese di posizioni "massimaliste" e prese di posizione riformiste. "È solamente in quest’anno 1917 che al congresso di Roma si cristallizzano nettamente le tendenze di destra e di sinistra. La prima ottiene 17.000 voti contro 14.000 della seconda. La vittoria di Turati, Treves, Modigliani, nel momento in cui si sviluppava la rivoluzione russa accelera la formazione di una Frazione intransigente rivoluzionaria a Firenze, Milano, Torino e Napoli" (dal nostro libro, La Sinistra comunista d'Italia). È solamente a partire dal 1920, sotto l'impulso della rivoluzione in Russia, della formazione dell'IC (che le porta il suo sostegno) ed anche degli scioperi operai in Italia, in particolare a Torino, che la Frazione astensionista guadagna in influenza nel partito. Entra anche in contatto con la corrente raggruppata intorno al giornale Ordine Nuovo, animato da Gramsci, anche se esistono importanti disaccordi tra le due correnti (Gramsci è favorevole alla partecipazione alle elezioni, difende una forma di sindacalismo rivoluzionario ed esita a rompere con la destra ed il centro per costituirsi in frazione autonoma). "Ad ottobre 1920, a Milano, si forma la Frazione comunista unificata che redige un Manifesto che chiama alla formazione del partito comunista e all'espulsione dell'ala destra di Turati; rinuncia al boicottaggio delle elezioni in applicazione delle decisioni del II congresso del Komintern" (Ibidem). È alla Conferenza di Imola, nel dicembre 1920 che è deciso il principio di una scissione: "la nostra opera di frazione è e deve essere terminata adesso (…) immediata uscita dal partito e dal congresso (del PSI), dal momento che il voto ci avrà dato la maggioranza o la minoranza. Seguirà… la scissione dal Centro". (Ibid.) Al congresso di Livorno che si apre il 21 gennaio, "la mozione di Imola ottiene un terzo dei voti degli aderenti socialisti: 58.783 su 172.487. La minoranza lascia il congresso e decide di chiamarsi Partito Comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale Comunista. (…) Con foga, Bordiga conclude, giusto prima di uscire dal congresso: 'portiamo con noi l'onore del vostro passato'". (Ibid.)
Questo esame, molto veloce, del lavoro delle principali frazioni che si sono costituite in seno ai partiti della Seconda Internazionale permette di definire un primo ruolo che spetta ad una frazione: difendere in seno al partito in degenerazione i principi rivoluzionari:
- innanzitutto per guadagnare un massimo di militanti a questi principi ed escludere dal partito le posizioni di destra e del centro;
- poi per trasformarsi in nuovo partito rivoluzionario quando le circostanze lo richiedono.
Bisogna notare che praticamente tutte le correnti di Sinistra hanno avuto come preoccupazione restare il più tempo possibile in seno al partito. Le uniche eccezioni sono quelle dei tribunisti, ma Gorter e Pannekoek non condividevano questa precipitazione, e delle "sinistre radicali" animate da Radek, Pannekoek e Frölich che, dopo l'espulsione nel 1917 degli oppositori in seno al SPD, si rifiutano di entrare nell'USPD (contrariamente agli Spartakisti). La separazione della Sinistra dal vecchio partito che ha tradito risultava o della sua esclusione, o dalla necessità di fondare un partito capace di stare all'avanguardia dell'ondata rivoluzionaria.
Bisogna notare anche come l'azione della Sinistra non sia condannata a restare minoritaria in seno al partito che degenerava: al Congresso di Tours del Partito socialista francese, la mozione della Sinistra che chiama all'adesione all'IC è maggioritaria. È per tale motivo che il Partito comunista neo fondato conserva in quel momento il giornale L'Humanité fondato da Jaurès. Conserva anche, purtroppo, il segretario generale del PS, Frossard che diventa per un certo tempo il nuovo principale dirigente del PC.
Un'ultima nota: questa capacità della frazione di Sinistra a costituire subito il nuovo partito è stata possibile solamente perché è trascorso poco tempo (3 anni) tra il tradimento accertato del vecchio partito e l'apparizione dell'ondata rivoluzionaria. In seguito, la situazione sarà molto differente.
L'Internazionale Comunista viene fondata a marzo 1919. In questa epoca, sono pochi i partiti comunisti costituiti (il partito comunista di Russia, dei Paesi Bassi, di Germania, di Polonia ed altri di minore importanza). E tuttavia, già da questo momento, si è vista nascere una prima frazione "di Sinistra" (che si proclama come tale), in seno al principale partito comunista, quello di Russia (che ha preso il nome di comunista solo a marzo 1918, all'epoca del 7° congresso del POSDR); si tratta della corrente raggruppata, all’inizio del 1918, intorno al giornale Kommunist ed animata da Ossinsky, Bukarin, Radek e Smirnov. Il disaccordo principale di questa frazione nei confronti dell'orientamento seguito dal partito riguarda la questione dei negoziati di Brest-Litovsk. I "Comunisti di Sinistra" si oppongono a questi negoziati e sostengono la "guerra rivoluzionaria", "l'esportazione" della rivoluzione verso altri paesi “a colpi di fucile”. Allo stesso tempo però, questa frazione intraprende una critica dei metodi autoritari del nuovo potere proletario ed insiste su una più larga partecipazione delle masse operaie a questo potere, critiche che sono abbastanza vicine a quelle di Rosa Luxemburg (Cf "La rivoluzione russa"). La firma della pace di Brest-Litovsk segnerà la fine di questa frazione. In seguito, Bukarin diventerà un rappresentante dell'ala destra del partito, ma alcuni elementi di questa frazione, come Ossinsky, apparterranno alle frazioni di sinistra che sorgeranno più tardi. Mentre in Europa occidentale alcune delle frazioni in seno ai partiti socialisti che formeranno i partiti comunisti non sono ancora costituite (la Frazione astensionista animata da Bordiga si costituisce solo nel dicembre 1918), i rivoluzionari della Russia si impegnano già in una lotta (anche se in modo abbastanza confuso), contro le derive che colpiscono il partito comunista nel loro paese. È interessante notare (anche se questo non è questo il luogo per analizzare questo fenomeno), che, su tutta una serie di questioni, i militanti della Russia sono stati dei precursori all'inizio del ventesimo secolo: costituzione della frazione bolscevica dopo il 2° congresso del POSDR (Partito Operaio Social Democratico Russo), chiarezza di fronte alla guerra imperialista nel 1914, animazione della Sinistra di Zimmerwald, necessità di fondare una nuova internazionale, fondazione del primo partito comunista a marzo 1918, impulso ed orientamento politico del 1° congresso dell'IC. E questa "precocità" si ritrova anche nella formazione di frazioni in seno al partito comunista. In effetti, per il suo ruolo particolare di primo (e solo) partito comunista ad accedere al potere, il partito della Russia è anche il primo a subire la pressione del fattore principale che segnerà la sua perdita (a parte, evidentemente, la sconfitta dell'ondata rivoluzionaria mondiale), la sua integrazione in seno allo Stato. Pertanto, le resistenze proletarie, per quanto confuse potessero essere, a questo processo di degenerazione del partito sono cominciate molto più presto che altrove.
In seguito, il partito russo vedrà nascere un numero significativo di altre correnti "di Sinistra":
- nel 1919 il gruppo di "Centralismo Democratico" formato intorno ad Ossinsky e Sapronov che combatte il principio dela "direzione unica" nell'industria e che difende il principio collettivo o collegiale come "l'arma più efficace contro il conferimento dello statuto di dipartimento ed il soffocamento burocratico dell'apparato di Stato" (Tesi sul principio collegiale e l'autorità individuale);
- nel 1919, molti membri di "Centralismo democratico" sono ancora impegnati, anche nella "Opposizione militare" formatasi per un breve periodo nel marzo 1919 per lottare contro la tendenza a plasmare l'esercito rosso secondo i criteri di un classico esercito borghese.
Durante il periodo della guerra civile, le critiche verso la politica condotta dal partito diventano molto più rare a causa della minaccia degli eserciti bianchi che pesa sul nuovo regime, ma appena questa si conclude con la vittoria dell'esercito Rosso sui Bianchi, esse riprendono con più vigore:
- All’inizio del 1921, in occasione del 10° congresso del partito e del dibattito sulla questione sindacale, si forma "l'Opposizione operaia" animata per Chliapnikov, Medvedev (entrambi operai metallurgici), e, soprattutto, Alessandra Kollontaï, redattrice della Piattaforma che vuole affidare ai sindacati il ruolo della gestione dell’economia (all'immagine dei sindacalisti rivoluzionari) al posto della burocrazia di Stato[5]. In seguito all'interdizione delle frazioni durante questo congresso (che si tiene nello stesso momento dell'insurrezione di Kronstadt), l'opposizione operaia si scioglie e la Kollontaï diventerà una fedele di Stalin;
- nell'autunno del 1921 si costituisce il gruppo "La Verità operaia", composto soprattutto da intellettuali adepti del "Proletkult" all'immagine del suo principale animatore, Bogdanov che, nello stesso momento in cui denuncia, con altre correnti di opposizione, la burocratizzazione del partito e dello Stato, adotta una posizione semi-menscevica sostenente che le condizioni della rivoluzione proletaria non erano mature in Russia ma che le condizioni erano state create da un forte sviluppo di quest’ultima su delle basi capitaliste moderne, (una posizione che in seguito sarà quella della corrente "consiliarista");
- è nel 1922-23 che si costituisce il "Gruppo operaio" animato da Gabriel Miasnikov, un operaio degli Urali che si era distinto nel partito bolscevico nel 1921, quando, subito dopo il 10° congresso, aveva richiesto "la libertà di stampa, dai monarchici agli anarchici inclusi". Malgrado gli sforzi di Lenin per dissuaderlo a portare avanti un dibattito su questa questione, Miasnikov non retrocede ed è espulso dal partito all'inizio del 1922. Con altri militanti di origine operaia, fonda "il Gruppo Operaio del partito comunista russo (bolscevico")" che distribuisce il suo Manifesto al 12° congresso del PCR. Questo gruppo comincia a fare del lavoro illegale e non tra gli operai del partito e sembra che sia stato presente in modo significativo nell'ondata di scioperi dell'estate 1923, chiamando alle manifestazioni di massa e provando a politicizzare un movimento di classe essenzialmente difensivo. Questa attività in questi scioperi convince il GPU (Gosudarstvennoye Politicheskoye Upravlenie - Direttorato politico dello Stato [28], polizia segreta dell'Unione Sovietica [29]) che il gruppo costituisce una minaccia, ed i suoi dirigenti, tra cui Miasnikov, sono incarcerati. L'attività di questo gruppo prosegue in modo clandestino in Russia (compreso nella deportazione), fino alla fine degli anni 1920 quando Miasnikov riesce ad uscire dal paese e partecipa alla pubblicazione a Parigi de "L'operaio comunista" che difende posizioni vicine a quelle del KAPD.
Di tutte le correnti che hanno condotto la lotta contro la degenerazione del Partito bolscevico, è certamente il "Gruppo operaio" ad essere politicamente il più chiaro. È molto vicino al KAPD (Partito Comunista Operaio Tedesco) che pubblica i suoi documenti e con cui è in contatto. Soprattutto, le sue critiche alla politica perseguita dal Partito si basano su una visione internazionale della rivoluzione, contrariamente a quelle degli altri gruppi che si polarizzano unicamente su delle questioni di democrazia (nel Partito e nella classe operaia), e di gestione dell'economia. È per tale motivo che rigetta le politiche del fronte unito del 3° e 4° congresso dell'IC, mentre la corrente trotskista continua a rifarsi ai primi 4 congressi. Bisogna notare che esistono alcune discussioni (soprattutto in deportazione) tra le ale sinistre della corrente trotskista ed elementi del Gruppo operaio.
Di tutte le correnti di Sinistra che sono sorte in seno al partito bolscevico, il Gruppo operaio è probabilmente il solo che somiglia ad una frazione conseguente. Ma la terribile repressione che Stalin scatena contro i rivoluzionari, rispetto alla quale la repressione zarista impallidisce, gli toglie ogni possibilità di svilupparsi. Alla fine, Miasnikov decide di ritornare in Russia dopo la 2a Guerra mondiale. Come era prevedibile, subito sparisce e ciò priva le deboli forze della Sinistra comunista di uno dei suoi combattenti più valorosi.
Al di fuori della Russia, la lotta delle frazioni di Sinistra negli altri paesi ha preso necessariamente forme differenti ma, se si ritorna sugli altri tre partiti comunisti, la cui fondazione è stata sopra citata, si constata che è molto presto che le correnti di Sinistra si impegnano in questa lotta benché sotto forme differenti.
All'epoca della fondazione del partito comunista della Germania, le posizioni della Sinistra sono maggioritarie. Sulla questione sindacale, Rosa Luxemburg che ha redatto il programma del KPD (Partito Comunista Tedesco) e lo presenta al Congresso, è molto chiara e categorica: "(… i sindacati, non sono più delle organizzazioni operaie ma i protettori più solidi dello Stato e della società borghese. Di conseguenza, va da sé che la lotta per la socializzazione non può essere portata avanti senza che essa non implichi quella per la liquidazione dei sindacati. Su questo punto siamo d’accordo ". Sulla questione parlamentare, contro la posizione degli Spartakisti (Rosa Luxemburg, Liebknecht, Jogiches, ecc.), il congresso rigetta la partecipazione alle elezioni che devono tenersi poco dopo. Dopo la scomparsa di questi militanti, tutti assassinati, la nuova direzione (Levi, Brandler) sembra, in un primo tempo, fare delle concessioni alla sinistra (che resta maggioritaria) sulla questione sindacale ma, fin da agosto 1919 (conferenza di Francoforte del KPD), Levi che vuole avvicinarsi all'USPD (Indipendenti partito socialista di Germania), si pronuncia per un lavoro nel parlamento e nei sindacati e, al congresso di Heidelberg, in ottobre, riesce, grazie ad una manovra, a fare espellere la sinistra antisindicale ed antiparlamentare, benché maggioritaria. La maggior parte dei militanti espulsi si rifiuta di formare immediatamente un nuovo partito perché sono contro la scissione e sperano di reintegrare il KPD. Sono sostenuti fermamente dai militanti della sinistra olandese (particolarmente Gorter e Pannekoek) che godono in quel momento di una forte autorità in seno all'IC e che stimolano l'orientamento del Bureau di Amsterdam nominato dall'Internazionale per prendere in carica un lavoro in direzione dell'Europa occidentale e dell'America. È solo sei mesi dopo, il 4 e 5 aprile 1920, davanti al rifiuto del congresso del KPD di febbraio 1920 di reintegrare i militanti espulsi ed anche davanti all'atteggiamento conciliatore di questo partito verso il SPD all'epoca del Golpe di Kapp (13-17 marzo) che questi militanti fondano il KAPD (il Partito comunista operaio della Germania). La loro marcia è rafforzata dal sostegno del Bureau di Amsterdam che ha organizzato in febbraio una conferenza internazionale dove le tesi della Sinistra hanno trionfato (sulle questioni sindacali, parlamentari e sul rigetto della svolta opportunista dell'IC manifestata particolarmente dalla richiesta ai comunisti inglesi di entrare nel Labour)[6]. Il nuovo partito beneficia del sostegno della minoranza di sinistra (animata da Gorter e Pannekoek) del partito comunista dei Paesi Bassi (CPN) che pubblica nel suo giornale il programma del KAPD adottato dal suo congresso di fondazione. Ciò non impedisce a Pannekoek di fare un certo numero di critiche a questo partito (lettera del 5 luglio 1920), particolarmente a proposito della sua posizione verso le "Unionen" (messa in guardia contro ogni concessione al sindacalismo rivoluzionario) e soprattutto della presenza nelle sue righe della corrente "Nazional bolscevica" che lui considera una "aberrazione mostruosa". In quel momento, su tutte le domande essenziali alle quali si confronta il proletariato mondiale (questione sindacale, parlamentare, del partito[7], dell'atteggiamento verso i partiti socialisti, della natura della rivoluzione in Russia, ecc.) la Sinistra olandese, e particolarmente Pannekoek che ispira la maggioranza del KAPD, si trova completamente all’avanguardia del movimento operaio.
Il congresso del KAPD che si tiene dal 1° al 4° agosto si pronuncia in favore di questi orientamenti: i "nazional-bolscevichi" lasciano in quel momento il partito e, alcuni mesi più tardi, è la volta degli elementi federalisti che sono ostili all'appartenenza all'IC. Invece Pannekoek, Gorter ed il KAPD sono risoluti a restare in seno all'IC per condurre la lotta contro la deriva opportunista che guadagna sempre più terreno. È per questa ragione che il KAPD invia 2 delegati in Russia, Jan Appel et Franz Jung, in vista del 2° congresso dell'IC che deve tenersi a Mosca a partire dal 17 luglio 1920[8], ma senza notizie da questi ultimi, invia altri 2 delegati (tra cui Otto Rühle), i quali, di fronte alla situazione catastrofica di cui soffre la classe operaia ed al processo di burocratizzazione dell'apparato governativo, decidono di non partecipare al Congresso malgrado il fatto che quest’ultimo abbia proposto loro di difendere le loro posizioni e di avere voto deliberativo. È in vista di questo congresso che Lenin redige "La malattia infantile del comunismo". Bisogna notare che in questo opuscolo, Lenin scrive che: "l'errore rappresentato dal dottrinarismo di sinistra nel movimento comunista è, attualmente, mille volte meno pericoloso e meno grave di quello rappresentato dal dottrinarismo di destra".
Sia da parte dell'IC e dei bolscevichi che da quella del KAPD, esisteva la volontà che quest’ultimo fosse integrato nell'Internazionale, e quindi nel KPD, ma il raggruppamento di quest’ultimo con la Sinistra dell'USPD nel dicembre 1920 per formare il VKPD (Partito Comunista Unificato di Germania), raggruppamento al quale erano ostili tutte le correnti di sinistra dell'IC, sbarra la strada a questa possibilità. Il KAPD acquista tuttavia lo statuto di "Partito simpatizzante dell'IC", disponendo di un rappresentante permanente nel suo Comitato esecutivo, ed invia alcuni delegati al suo 3° congresso nel giugno 1921. Nel frattempo, questo lavoro in comune si è fortemente alterato, in seguito soprattutto alla "azione di marzo" (una "offensiva" avventurista promossa dal VKPD), ed alla repressione dell'insurrezione di Kronstadt (repressione che la Sinistra in un primo tempo ha sostenuto credendo che questa insurrezione fosse in realtà opera dei Bianchi come sosteneva la propaganda del governo sovietico). Allo stesso tempo, la direzione di destra del PCN (Wijnkoop è chiamato il "Levi olandese") che ha la fiducia di Mosca, intraprende una politica di espulsioni anti statutaria dei militanti della Sinistra. Alla fine, questi militanti fonderanno a settembre un nuovo partito, il KAPN, sul modello del KAPD.
La politica del Fronte unico adottata dal 3° congresso dell'IC non fa che aggravare le cose, così come l'ultimatum inviato al KAPD di fondersi con il VKPD. Nel luglio 1921, la direzione del KAPD, col sostegno di Gorter, adotta una risoluzione che taglia i ponti con l'IC e chiama alla costituzione di una "Internazionale comunista operaia", e ciò due mesi prima del congresso del KAPD previsto in settembre. Evidentemente questa fu una decisione totalmente precipitosa. A questo congresso, viene discussa la questione della fondazione di una nuova internazionale; i militanti di Berlino, ed in particolare Jan Appel, si oppongono, ed il congresso alla fine decide di creare un Bureau d’informazione in vista di una tale costituzione. Questo Bureau di informazione agisce come se la nuova internazionale fosse stata già formata mentre la sua conferenza costitutiva non avrà luogo che nell'aprile 1922. In quel momento, il KAPD conosce una scissione tra, da una parte, la "tendenza di Berlino", maggioritaria, che è ostile alla formazione di una nuova internazionale, e la "tendenza di Essen" (che rigetta le lotte salariali). Solo quest’ultima partecipa a questa conferenza che conta tuttavia sulla presenza di Gorter, redattore del programma della KAI, (Internazionale Comunista Operaia), nome della nuova internazionale. I gruppi partecipanti sono di piccolo numero e rappresentano forze molto limitate: oltre la tendenza di Essen, c'è il KAPN (Partito Comunista Operaio dei Paesi bassi), i comunisti della Sinistra bulgari, il Communist Workers Party (CWP) di Sylvia Pankhurst, il KAP dell'Austria, qualificato "villaggio Potemkin" dal KAPD di Berlino. Alla fine, questa "Internazionale" sparirà con la scomparsa o il ritiro progressivo dei suoi costituenti. È così che la tendenza di Essen conosce molteplici scissioni e che il KAPN si disgrega, innanzitutto per l'apparizione nel suo seno di una corrente che si ricollega alla tendenza di Berlino, ostile alla formazione della KAI, poi per le lotte intestine di ordine clanico più che di principio.
In effetti, l'elemento essenziale che permette di spiegare l'insuccesso pietoso e drammatico della KAI è costituito dal riflusso dell'ondata rivoluzionaria che era servita da trampolino alla fondazione dell'IC: "L'errore di Gorter e dei suoi sostenitori di proclamare artificialmente il KAI, mentre rimanevano nell'IC frazioni di sinistra che potevano essere raggruppate all’interno di una stessa corrente comunista di sinistra internazionale, è stato molto pesante per il movimento rivoluzionario. (…) Il declino della rivoluzione mondiale, molto netto in Europa a partire da 1921, non permetteva di considerare la formazione di una nuova Internazionale. Credendo che il corso era sempre verso la rivoluzione, con la teoria della "crisi mortale del capitalismo", le correnti di Gorter e di Essen avevano una certa logica nella proclamazione della KAI. Ma le premesse erano false". (Dal nostro libro, La Sinistra olandese, Capitolo V.4.d)
Il dissesto finale del KAPD e del KAPN illustra in modo sorprendente la necessità per i rivoluzionari d’avere una visione più chiara possibile dell'evoluzione del rapporto di forze tra proletariato e borghesia.
Se è con molto ritardo che la Sinistra tedesco-olandese ha preso coscienza del riflusso dell'ondata rivoluzionaria[9], così non è stato per i Bolscevichi ed i dirigenti dell'Internazionale Comunista e neanche per la Sinistra Comunista d'Italia. Ma le risposte che gli uni e gli altri hanno portato a questa situazione sono state radicalmente differenti:
- per i bolscevichi e la maggioranza dell'IC, bisognava "andare verso le masse" poiché le masse non andavano più verso la rivoluzione, e ciò si traduceva in una politica sempre più opportunista, soprattutto verso i partiti socialisti e le correnti "centriste", così come verso i sindacati;
- per la Sinistra italiana, al contrario, bisognava continuare a dare prova della stessa intransigenza che aveva caratterizzato i bolscevichi durante la guerra e fino alla fondazione dell'IC; era fuori questione provare a prendere delle scorciatoie verso la rivoluzione negoziando sui princìpi ed attenuando la loro incisività; tali scorciatoie costituivano la strada più sicura verso la disfatta.
In realtà, il corso opportunista che ha colpito l'IC, fin dal 2° congresso ma soprattutto a partire dal 3°, e che rimetteva in causa la chiarezza e l'intransigenza affermata al suo 1° congresso, esprimeva non solo le difficoltà incontrate dal proletariato mondiale a proseguire ed a rafforzare la sua lotta rivoluzionaria, ma anche la contraddizione insolubile nella quale sprofondava il partito bolscevico che di fatto dirigeva l'IC. Da un lato, questo partito aveva il dovere di essere l’avanguardia della rivoluzione mondiale dopo esserlo stato nella rivoluzione in Russia. Del resto, aveva sempre affermato che quest’ultima era solamente una piccola tappa della prima ed era molto cosciente che una disfatta del proletariato mondiale significava la morte della rivoluzione in Russia. Dall’altro, in quanto detentore del potere in un paese, era sottoposto alle esigenze specifiche della funzione di uno Stato nazionale, ed in particolare quella di assicurare la "sicurezza" esterna ed interna, condurre cioè una politica estera conforme agli interessi della Russia ed una politica interna che garantisse stabilità al potere. In questo senso, la repressione degli scioperi di Pietrogrado e lo schiacciamento sanguinoso dell'insurrezione di Kronstadt nel marzo 1921 erano l'altro lato della medaglia di una politica di "mano tesa", con la scusa del "Fronte unico", verso i partiti socialisti nella misura in cui questi ultimi potevano esercitare una pressione sui governi per orientare la loro politica estera in un senso favorevole alla Russia.
L'intransigenza della Sinistra comunista italiana che dirigeva, di fatto, il PCI (le "Tesi di Roma" adottate dal suo 2° congresso nel 1922 sono state redatte da Bordiga e Terracini), si è espressa in particolare, ed in modo esemplare, di fronte all’ascesa del fascismo in Italia in seguito alla sconfitta delle lotte del 1920. Sul piano pratico, questa intransigenza si è manifestata attraverso un totale rifiuto a riallacciare alleanze con i partiti della borghesia (liberali o "socialisti) di fronte alla minaccia fascista: il proletariato non poteva combattere il fascismo che sul proprio campo, lo sciopero economico e l'organizzazione di milizie operaie di autodifesa. Sul piano teorico, si deve a Bordiga la prima analisi seria (e che resta sempre valida) del fenomeno fascista, un'analisi che lui ha presentato davanti ai delegati del 4° congresso dell'IC confutando l'analisi fatta da quest'ultima:
- "Il fascismo non è prodotto degli strati medi e della borghesia agraria. È la conseguenza della disfatta che ha subito il proletariato che ha gettato gli strati piccolo-borghesi indecisi dietro la reazione fascista" (La Sinistra comunista di Italia, capitolo I)
- "Il fascismo non è una reazione feudale. È nato nelle grandi concentrazioni industriali come Milano"… e ha ricevuto il sostegno della borghesia industriale. (Ibid.)
- "Il fascismo non si oppone alla democrazia. Le bande armate sono un supplemento indispensabile quando ‘lo Stato non riesce più a difendere il potere della borghesia’” (Ibid.)
Questa intransigenza si è espressa anche riguardo alla politica del Fronte unico, di "mano tesa" verso i partiti socialisti ed il suo corollario, la parola d’ordine di "Governo operaio" la quale "va a negare in pratica il programma politico del comunismo, e cioè la necessità di preparare le masse alla lotta per la dittatura del proletariato". (Citazione di Bordiga ne La Sinistra comunista d'Italia)
Si è espressa anche a proposito della politica dell'IC che mira a fondere i PC e le correnti di sinistra dei partiti socialisti o "centristi" che, in Germania, hanno portato alla formazione del VKPD e che, in Italia, si è manifestata nell'entrata, nell'agosto 1924, di 2.000 "terzini" (sostenitori della 3a Internazionale), in un partito che non contava più di 20.000 membri a causa della repressione e della demoralizzazione.
Essa si è espressa infine verso la politica di "bolscevizzazione" dei PC a partire dal 5° congresso dell'IC nel luglio 1924, una politica combattuta anche da Trotski e che, a grandi tratti, consisteva nel rafforzare la disciplina nei partiti comunisti, una disciplina burocratica destinata a fare tacere le resistenze contro la sua degenerazione. Questa bolscevizzazione consisteva anche nel promuovere un modo di organizzazione dei PC a partire dalle "cellule di fabbrica" ciò che polarizzava gli operai sui problemi che si ponevano nella "loro" fabbrica a scapito, evidentemente, di una visione e di una prospettiva generale della lotta proletaria.
Mentre la Sinistra è ancora largamente maggioritaria in seno al partito, l'IC impone una direzione di destra (Gramsci, Togliatti) che sostenga la sua politica, un'operazione che è facilitata dall'imprigionamento di Bordiga tra febbraio ed ottobre 1923. Tuttavia, alla conferenza clandestina del PCI di maggio 1924 le tesi presentate da Bordiga, Grieco, Fortichiari e Repossi, e che sono molto critiche verso la politica dell'IC, sono approvate da 35 segretari di federazione su 45 e da 4 segretari interregionali su 5. É nel 1925 che si scatena in seno all'IC la campagna contro le opposizioni, a cominciare dall'opposizione di Sinistra condotta da Trotski. "Nel marzo-aprile 1925, l'esecutivo allargato dell'IC mette all'ordine del giorno l'eliminazione della tendenza 'bordighista' in occasione del 3° congresso del PCd'I. Vieta la pubblicazione dell'articolo di Bordiga favorevole a Trotski. La bolscevizzazione della sezione italiana comincia dalla destituzione di Fortichiari dal suo posto di segretario federale di Milano. Allora, improvvisamente, in aprile, la Sinistra del partito, con Damen, Repossi, Perrone e Fortichiari mette su un "Comitato di intesa (…) per coordinare una controffensiva. La direzione di Gramsci attacca violentemente il 'Comitato di intesa' denunciandolo come 'frazione organizzata'. In realtà, la Sinistra non vuole ancora costituirsi in frazione: non vuole fornire un pretesto alla sua espulsione, rimanendo ancora maggioritaria nel partito. In principio, Bordiga rifiuta di aderire al Comitato, non volendo rompere con il quadro della disciplina imposta. È solamente a giugno che si riunisce con Damen, Fortichiari e Repossi. Viene incaricato di redigere una 'Piattaforma della sinistra' che è la prima demolizione sistematica della bolscevizzazione". (Ibid.)
"Sotto la minaccia di espulsione, il 'Comitato di intesa' deve sciogliersi… è il principio della fine della Sinistra italiana come maggioranza". (Ibid.)
Al congresso di gennaio 1926 che si tiene all'estero a causa della repressione fascista, la Sinistra presenta le "Tesi di Lione" che raccolgono solamente il 9,2% dei voti: la politica condotta, in applicazione delle consegne dell'IC, di reclutamento intensivo di elementi giovani e poco politicizzati ha dato i suoi frutti… Queste tesi di Lione orienteranno la politica della Sinistra italiana nell'emigrazione.
Bordiga condurrà un’ultima lotta all'epoca del 6° Esecutivo allargato dell'IC di febbraio-marzo 1926. Denuncia la deriva opportunista dell'IC e evoca la questione delle frazioni, senza però prospettandone l'attuazione immediata, affermando che "la storia delle frazioni è la storia di Lenin"; esse non sono una malattia, ma il sintomo di questa malattia. Sono una reazione di "difesa contro le influenze opportuniste".
In una lettera a Karl Korsch, nel settembre 1926, Bordiga scriveva: "Non bisogna volere la scissione dei partiti e dell'Internazionale. Bisogna lasciare compiersi l'esperienza della disciplina artificiale e meccanica rispettando questa disciplina fino nelle sue assurdità procedurali finché ciò sarà possibile, senza rinunciare mai alle posizioni di critica ideologica e politica e senza solidarizzare mai con l'orientamento dominante. (…) In genere, penso che ciò che deve essere messo oggi in primo piano, è, più dell'organizzazione e la manovra, un lavoro preliminare di elaborazione di un'ideologia politica di sinistra internazionale, basata sulle esperienze eloquenti che ha conosciuto il Komintern. Siccome questo punto è lontano dall’essere realizzato, ogni iniziativa internazionale appare difficile". (Citato ne La Sinistra comunista d'Italia)
Anche in questo vi sono delle basi su cui alla fine andrà a costituirsi la Frazione di Sinistra del Partito comunista d'Italia e che terrà la sua prima conferenza nell'aprile 1928 a Pantin, nella periferia di Parigi. Essa allora conta 4 "federazioni": Bruxelles, New York, Parigi e Lione con militanti anche nel Lussemburgo, a Berlino ed a Mosca.
Questa conferenza adotta all'unanimità una risoluzione che definisce le sue prospettive di cui riportiamo alcuni brani:
1. Costituirsi in frazione di sinistra dell'Internazionale Comunista.
2. (…)
3. Pubblicare un bimensile che si chiamerà Prometeo.
4. Costituire dei gruppi di sinistra che avranno per compito la lotta senza quartiere contro l'opportunismo e gli opportunisti. (…)
5. Assegnarsi come scopo immediato:
a. La reintegrazione di tutti gli espulsi dall'Internazionale che si richiamano al Manifesto comunista ed accettano le tesi dell'II Congresso mondiale.
b. La convocazione della 5° Congresso mondiale sotto la presidenza di Léon Trotski.
c. Mettere all'ordine del giorno al 5° Congresso mondiale l'espulsione dall'Internazionale di tutti gli elementi che si dichiarano solidali con le risoluzioni del XV congresso russo".
Come si vede:
- la Frazione non si concepisce come "italiana" ma come frazione dell'IC;
- considera che esiste ancora una vita proletaria in questa’ultima e che ancora si può salvare;
- ritiene che il partito russo deve sottoporsi alle decisioni del Congresso dell'IC e "fare pulizia nelle sue fila" espellendo tutti quelli che hanno tradito apertamente (come già fino ad ora è stato per gli altri partiti dell'Internazionale);
- non si dà per compito l'intervento tra gli operai in generale ma la precedenza è tra i militanti dell'IC.
La Frazione va allora ad intraprendere un notevole lavoro fino al 1945, un lavoro proseguito e completato dalla GCF fino al 1952. Abbiamo già rievocato spesso questo lavoro nei nostri articoli, testi interni e discussioni e non è il caso di ritornarvi qui.
Uno dei contributi essenziali della Frazione italiana, e che è al centro del presente rapporto, è proprio l'elaborazione della nozione di Frazione sulla base di tutta l'esperienza del movimento operaio. Questa nozione è già definita, a grandi tratti, all'inizio del rapporto. Inoltre, in un allegato, portiamo a conoscenza dei compagni una serie di citazioni di testi della Frazione italiana e della GCF che permette di farsi un'idea più precisa di questa nozione. Ci accontenteremo qui di riportare un brano della nostra stampa in cui è stata definita la nozione di Frazione ("La frazione italiana e la sinistra comunista di Francia", Révue Internationale n°90):
"La minoranza comunista esiste continuamente come espressione del divenire rivoluzionario del proletariato. Tuttavia, l’impatto che può avere sulle lotte immediate della classe è condizionato strettamente dal livello di queste e dal grado di coscienza delle masse operaie. È solamente nei periodi di lotte aperte e sempre più coscienti del proletariato che questa minoranza può sperare di avere un impatto su queste lotte. È solamente in queste circostanze che si può parlare di questa minoranza come un partito. Di contro, nei periodi di riflusso storico del proletariato, di trionfo della controrivoluzione, è vano sperare che le posizioni rivoluzionarie possano avere un impatto significativo e determinante sull'insieme della classe. In tali periodi, il solo lavoro possibile, ed è indispensabile, è quello di una frazione: preparare le condizioni politiche della formazione del futuro partito quando il rapporto di forze tra le classi permetterà di nuovo che le posizioni comuniste abbiano un impatto nell'insieme del proletariato". (Brano della nota 4)
"La Frazione di Sinistra si forma in un momento in cui il partito del proletariato tende a degenerare vittima dell'opportunismo, e cioè della penetrazione nel suo seno dell'ideologia borghese. È responsabilità della minoranza che mantiene il programma rivoluzionario di lottare in modo organizzato per fare trionfare quest’ultimo in seno al partito. O la Frazione riesce a fare trionfare i suoi principi ed a salvare il partito, o quest’ultimo prosegue il suo corso degenerativo e finisce allora per passare armi e bagagli nel campo della borghesia. Il momento del passaggio del partito proletario nel campo borghese non è facile da determinare. Tuttavia, uno degli indizi più significativi di questo passaggio è che comincia a non apparire più vita politica proletaria in seno al partito. La frazione di Sinistra ha la responsabilità di condurre la lotta in seno al partito finché rimane una speranza che quest’ultimo possa essere raddrizzato: è per ciò che negli anni 1920 ed all'inizio degli anni 1930, non sono state le correnti di sinistra a lasciare i partiti dell’IC ma esse ne sono state espulse, spesso attraverso sordide manovre. Ciò detto, una volta che un partito del proletariato è passato nel campo della borghesia, non c'è possibilità di recuperarlo. Necessariamente, il proletariato dovrà fare nascere un nuovo partito per riprendere la sua strada verso la rivoluzione ed allora il ruolo della Frazione è costituire un "ponte" tra il vecchio partito passato al nemico ed il futuro partito del quale dovrà elaborare le basi programmatiche e costituirne l'ossatura. Per il fatto che dopo il passaggio del partito nel campo borghese non possa esistere vita proletaria nel suo seno significa anche che è completamente vano, e pericoloso, per i rivoluzionari di praticare "l'entrismo" che costituisce una delle "tattiche" del trotskismo e che la Frazione ha sempre rigettato. Volere mantenere una vita proletaria in un partito borghese, e dunque sterile per le posizioni di classe, non ha avuto mai come altro risultato che accelerare la degenerazione opportunista delle organizzazioni che vi hanno provato senza riuscire in nessun modo a raddrizzare questo partito. Quanto al "reclutamento" che questi metodi hanno permesso, esso era particolarmente confuso, corrotto dall'opportunismo e non ha potuto costituire mai un'avanguardia per la classe operaia.
In effetti, una delle differenze fondamentali tra le Frazioni italiane ed il trotskismo risiedeva nel fatto che la Frazione, nella politica di raggruppamento delle forze rivoluzionarie, metteva sempre in avanti la necessità di una grande chiarezza, del più elevato rigore programmatico, anche se era aperta alla discussione con tutte le altre correnti che si erano impegnate nella lotta contro la degenerazione dell'IC. Di contro, la corrente trotskista ha tentato di costituire delle organizzazioni in modo precipitoso, senza una discussione seria ed una decantazione preliminare delle posizioni politiche, puntando essenzialmente su degli accordi tra "personalità" e sull'autorità acquistata da Trotski come uno dei principali dirigenti della rivoluzione del 1917 e dell'IC alla sua origine".
Questo passaggio rievoca i metodi della corrente trotskista che non abbiamo, per mancanza di spazio, rievocato sopra. Ma è significativo che due delle caratteristiche di questa corrente, prima che raggiunga il campo borghese, sono le seguenti:
- in nessun momento ha integrato nelle sue concezioni la nozione di Frazione; per lei, si passava da un partito ad un altro, e se nei periodi di riflusso della classe i rivoluzionari erano una piccola minoranza, bisognava considerare che la loro organizzazione era un "partito in piccolo", una nozione che era apparsa in seno alla stessa Frazione italiana nel mezzo degli anni 30, e che è quella di oggi della TCI poiché la sua principale componente si chiama Partito comunista internazionalista;
- Trotski, ma non è stato il solo, non ha compreso per niente l'ampiezza della controrivoluzione, a tal punto che ha considerato gli scioperi di maggio-giugno 1936 in Francia come "inizio della rivoluzione". In questo senso, la nozione di corso storico (rigettato anche dalla TCI) è essenziale e costitutiva di quella di Frazione.
La volontà di chiarezza che ha sempre animato la Sinistra italiana come condizione fondamentale per compiere il suo compito è evidentemente inseparabile della preoccupazione per la teoria e dalla necessità permanente di essere capace di rimettere in causa delle analisi e delle posizioni che sembravano definitive.
Per concludere questa parte del rapporto, occorre ritornare molto brevemente sulla traiettoria delle correnti che sono uscite dall'IC e di cui abbiamo sopra rievocato l'origine.
La corrente generata della Sinistra tedesco-olandese si è mantenuta anche dopo la scomparsa del KAPD e del KAPN. Il suo principale rappresentante è stato il GIK (Gruppo dei comunisti internazionalisti) in Olanda, un gruppo che ha avuto un'influenza all'infuori di questo paese, per esempio Living Marxism, animato da Paul Mattick negli Stati Uniti. Durante uno dei momenti più tragici e critici degli anni 1930, la Guerra di Spagna, questo gruppo ha difeso una posizione perfettamente internazionalista, senza nessuna concessione all'antifascismo. Ha stimolato la riflessione dei Comunisti di Sinistra ivi compreso di Bilan (che riprende la posizione di Rosa Luxemburg e della Sinistra tedesca sulla questione nazionale), come quella della GCF che ha rigettato la posizione classica della Sinistra italiana sui sindacati per riprendere quella della Sinistra tedesco-olandese. Tuttavia, questa corrente ha adottato due posizioni che le sarebbero state fatali (e che non erano quelle del KAPD):
- l'analisi della Rivoluzione del 1917 come borghese;
- il rigetto della necessità del partito.
Queste posizioni l'hanno condotta a rigettare alla fine nel campo borghese tutta una serie di organizzazioni proletarie del passato, a rigettare la storia del movimento operaio e le lezioni che essa poteva dare per il futuro, nonchè a rigettare anche ogni ruolo di frazione poiché il compito di quest’ultima è preparare un organismo che la corrente consiliarista non vuole, il partito.
Conformemente a queste due debolezze, essa si rifiuta di giocare un ruolo significativo nel processo che condurrà al futuro partito, e dunque alla rivoluzione comunista, anche se le idee consiliariste continuano ad avere un'influenza sul proletariato.
Un ultimo punto introduttivo alla 2a parte del rapporto: la CCI può considerarsi come una frazione? La risposta che salta agli occhi è evidentemente no, poiché la nostra organizzazione, non si è mai costituita in seno ad un partito proletario. Ma questa risposta, era già stata data all'inizio degli anni 50 dal compagno MC in una lettera agli altri compagni del gruppo Internationalisme:
"La Frazione era una continuazione organica, diretta, perché esisteva solamente per un tempo relativamente breve. Spesso continuava a vivere in seno alla vecchia organizzazione fino al momento della rottura. La sua rottura equivaleva spesso alla sua trasformazione in nuovo Partito (esempio della frazione Bolscevica e dello Spartakusbund) come quasi tutte le frazioni di sinistra del vecchio Partito. Questa continuità organica è oggi quasi inesistente. (…) Perché la Frazione non aveva da rispondere ai problemi fondamentalmente nuovi come lo pone il nostro periodo di crisi permanente e di evoluzione verso il capitalismo di Stato e non si trovava collocata in un pulviscolo di piccole tendenze, essa era ancorata più nei suoi principi rivoluzionari acquisiti che chiamata a formulare nuovi principi, doveva più mantenere che costruire. Per questa ragione e per quella della sua continuità organica diretta in un lasso di tempo relativamente corto, essa era il nuovo Partito in gestazione. (…)
[Il gruppo], se in parte ha come compiti quelli della Frazione, e cioè: riesame dell'esperienza, formazione dei militanti, ha in più quello dell'analisi dell'evoluzione nuova e la prospettiva nuova, ed in meno quella di ricostruire il programma del futuro Partito. Esso è solo un apporto a questa ricostruzione, come è solo una componente del futuro Partito. La sua funzione nel suo apporto programmatico è parziale a causa della sua natura organizzativa".
Oggi, al momento dei 40 anni della CCI, è lo stesso comportamento che dobbiamo avere ricordandoci di ciò che abbiamo scritto in occasione dei suoi 30 anni:
"La capacità della CCI a fare fronte alle sue responsabilità in tutti i suoi trent’anni di esistenza, la dobbiamo in gran parte agli apporti della Frazione italiana della Sinistra comunista. Il segreto del bilancio positivo che traiamo dalla nostra attività durante questo periodo, è nella nostra fedeltà agli insegnamenti della Frazione e, più generalmente, al metodo ed allo spirito del marxismo di cui essa si era pienamente appropriata". ("I trent'anni della CCI: appropriarsi del passato per costruire l'avvenire", Revue Internationale n°123).
[1] Bisogna notare che, secondo una lettera di Marx ad Engels inviata poco dopo questa riunione, Marx aveva accettato l'invito di Eccarius perché questa volta la faccenda gli sembrava seria, contrariamente ai tentativi precedenti di costituire delle organizzazioni alle quali era stato invitato e che riteneva artificiali.
[2] In questa parte, come nella seguente, ci fermiamo sulle frazioni che sono nate in quattro partiti differenti, quello di Russia, di Olanda, di Germania e d'Italia senza interessarci ai partiti di due paesi maggiori, la Gran Bretagna e la Francia. In realtà, in questi ultimi partiti, non ci sono state frazioni di Sinistra degne di questo nome a causa, in particolare, dell'estrema debolezza del pensiero marxista nel loro seno. Così, in Francia, la prima reazione organizzata contro la Prima guerra mondiale non proviene da una minoranza in seno al Partito socialista ma da una minoranza in seno alla centrale sindacale CGT, il nucleo intorno a Rosmer e Monatte che pubblicava La Vita operaia.
[3] "Ho detto continuamente contro la redazione di De Tribune: dobbiamo fare del tutto per attirare gli altri verso noi, ma se ciò fallisce dopo che ci siamo battuti fino alla fine e che tutti i nostri sforzi siano falliti, allora dobbiamo cedere [in altre parole accettare la soppressione di De Tribuna]. (Lettera di Gorter a Kautsky, 16 febbraio 1909). "La nostra forza nel partito può crescere; la nostra forza all'infuori del partito non potrà mai crescere". (Intervento di Gorter al congresso di Deventer). Nell'articolo "La sinistra olandese (1900-1914): Il movimento ‘Tribunista’ 3a parte", Révue Internationale n°47)
[4] Tra i numerosi militanti colpiti dalla repressione, si può segnalare Rosa Luxemburg che passa buona parte della guerra in prigione, Liebknecht che viene prima arruolato poi chiuso in fortezza dopo avere preso la parola per denunciare la guerra ed il governo nella manifestazione del 1° maggio 1916; anche Mehring, a più di 70 anni, è incarcerato.
[5] Le altre due posizioni sono quella di Trotski che vuole integrare i sindacati nello Stato per farne degli organi di inquadramento degli operai (sul modello dell'esercito Rosso) per una maggiore disciplina al lavoro, e di Lenin che, al contrario, ritiene che i sindacati devono sostenere un ruolo di difesa degli operai contro lo Stato a cui riconosce "forti deformazioni burocratiche".
[6] In seguito al "pericolo" che il Bureau di Amsterdam costituisse un polo di raggruppamento della Sinistra in seno all'IC, il Comitato Esecutivo di questa annuncia per radio il suo scioglimento il 4 maggio 1920.
[7] In questa epoca, la Sinistra olandese e Pannekoek sono particolarmente chiari nel combattere la visione sviluppata da Otto Rühle che rigetta la necessità del partito all'immagine della posizione che sarà più tardi quella dei consiliaristi … e di Pannekoek.
[8] Conosciamo in che modo questi delegati sono giunti in Russia (mentre la guerra civile ed il "cordone sanitario" rendono quasi impossibili un accesso per via terrestre): hanno dirottato una nave commerciale fino a Mourmansk.
[9] Nei suoi ultimi scritti, alla vigilia della sua morte, Gorter dimostra di aver compreso i suoi errori ed incita i suoi compagni a fare altrettanto ed a trarne le lezioni (Vedere La gauche hollandaise - La sinistra olandese- fine del capitolo V.4.d)
Nello scorso novembre è scomparso il compagno Sandro Saggioro, morto alla prematura età di 66 anni. Medico di professione, Sandro lavorò in diversi ospedali della provincia di Padova. Di formazione “bordighista”, entrò in contatto con il gruppo francese Révolution Internationale, uno dei precursori della CCI e, dopo una fase di discussioni, fu integrato nella tendenza internazionale che avrebbe in seguito costituito la CCI, formando, con un altro compagno, il primo nucleo di Rivoluzione Internazionale, l'attuale sezione della CCI in Italia. Come tale, Sandro partecipò al primo congresso della CCI (1975) diventando così uno dei fondatori della nostra Corrente. Il nucleo realizzò i primi numeri del periodico Rivoluzione Internazionale e questo inizio di lavoro politico in Italia consentì l'avvicinarsi di altri compagni e la loro integrazione.
Ben presto però le posizioni di Sandro non si ritrovarono più con quelle della CCI e nel 1977 diede le sue dimissioni. Al fondo, Sandro era rimasto bordighista ed infatti, dopo aver lasciato la CCI, egli aderì a Programma Comunista, gruppo in cui militò fino all'implosione di questo, nel 1982[1]. La crisi di Programma significò l’abbandono della militanza da parte di molti compagni e la nascita di altri piccoli nuclei, ognuno dei quali rivendicava le posizioni d’origine del “partito”. Sandro restò in contatto con il nucleo di Schio e con il gruppo di Torino che pubblica la rivista N+1. Ma, soprattutto, Sandro si dedicò a quella che era la sua passione, la storia della Sinistra Comunista italiana[2]. Il risultato dei suoi studi e delle sue riflessioni sono i diversi contributi che egli ha scritto su questa storia.
Tra questi contributi possiamo ricordare “Nè con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionale (1942-1952)”, ed. Colibrì, 2010, in cui Sandro racconta la storia del Partito Comunista Internazionale dalla sua nascita fino alla separazione tra il PC Internazionale (Programma Comunista) di Bordiga e il PC Internazionalista di Damen, e in cui riporta dei dibattiti importanti come, per esempio, il dibattito che ci fu, in particolare, fra Amadeo Bordiga e Onorato Damen sui compiti e il destino del partito, dibattito che, toccando le fondamentali questioni della valutazione del corso storico e della funzione dell'organizzazione rivoluzionaria in rapporto a questo, è ancora di attualità oggi.
O, ancora, “In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale (Il Programma Comunista) dal 1952 al 1982”, ed. Colibrì, ottobre 2014, in cui Sandro ci parla della storia di quella che fu la più numerosa organizzazione della Sinistra Comunista fino alla sua implosione nel 1982, che costituì un vero disastro per la perdita di militanti che provocò.
Nella maniera in cui Sandro ci riporta quegli anni e quei dibattiti ritroviamo tutta la passione del militante (con ovviamente l’evidenza del lato per cui lui pendeva), e ce lo dice chiaramente nella Premessa del primo libro: “Chi ha affrontato il presente lavoro non ha certo la pretesa di imparzialità; sta tutto dalla parte della formazione rivoluzionaria di cui ha narrato (...)”[3], perché Sandro, pur non militando più in una organizzazione, non ha mai abbandonato la fiducia nella prospettiva rivoluzionaria del proletariato, come sente il bisogno di dirci nella Conclusione del secondo libro: “ (Noi) pensiamo che lo scontro violento tra le forze della rivoluzione e quelle della controrivoluzione deve ancora prodursi. Oggi viviamo l'epoca dell'impazienza e questo è un periodo di falsa quiete e falsa pace e preannuncia (…) l'entrata in azione della classe dei diseredati e dei senza riserve.”[4]
E’ questa l’eredità che Sandro ci ha lasciato e che ci permette di non dimenticare questo compagno, con cui abbiamo condiviso una parte del nostro cammino, e con cui i nostri militanti che l'hanno conosciuto personalmente hanno passato dei momenti piacevoli per le conversazioni che lui sapeva animare anche al di fuori delle riunioni politiche ufficiali.
CCI, marzo 2016
[1] Su questa crisi di Programma Comunista, vedi Révue Internationale n. 32, 1983: “Convulsions dans le milieu révolutionnaire: le PCI (Programme Communiste) à un tournant de son histoire” https://fr.internationalism.org/rinte32/pci.htm [32], e “Le Parti communiste Internationale (Programme Communiste) à ses origines, tel qu'il prétend être, tel qu'il est” https://fr.internationalism.org/rint/32_PCInt [33].
[2] Le “Note per una storia della Sinistra Comunista (frazione italiana 1926 – 39)”, pubblicate in Révue Internationale n. 9, 1977, https://fr.internationalism.org/rinte9/italie [34], (in italiano in Rivista Internazionale n. 1, https://it.internationalism.org/rint/1_Note [35] ) furono scritte da Sandro.
[3] “Né con Truman né con Stalin”, p.17.
[4] “In attesa della grande crisi”, p. 350.
Fin dalle sue origini, la CCI ha sempre cercato di analizzare la lotta di classe nel suo contesto storico. La stessa esistenza della nostra organizzazione è dovuta non solo agli sforzi dei rivoluzionari del passato e di quelli che si sono assunti il compito di ponte tra una generazione di rivoluzionari e l'altra ma, anche, al cambiamento del corso storico, apertosi con il riemergere del proletariato a livello mondiale dopo 1968 e che ha messo fine ai "quarant’anni di controrivoluzione", iniziata con la fine delle ultime lotte della grande ondata rivoluzionaria del 1917-27. Ma oggi, dopo quaranta anni dalla sua fondazione, la CCI si trova di fronte al compito di riesaminare tutto il corpus del lavoro considerevole che ha condotto rispetto alla ricomparsa storica della classe operaia ed alle immense difficoltà che quest’ultima incontra sulla via della sua emancipazione.
Questo rapporto non costituisce che l'inizio di questo esame. Non è possibile ritornare nei dettagli sulle stesse lotte né sulle differenti analisi che sono state fatte dagli storici o da altri elementi del campo proletario. Dobbiamo limitarci a quello che è già un compito abbastanza importante: esaminare come la stessa CCI ha analizzato lo sviluppo della lotta di classe nelle sue pubblicazioni, principalmente nel suo organo teorico internazionale, la Revue Internationale, che globalmente contiene la sintesi delle discussioni e dei dibattiti che hanno animato la nostra organizzazione durante la sua esistenza.
Prima della CCI, prima di Maggio 1968, erano già apparsi i segni di una crisi della società capitalista: sul piano economico, i problemi delle valute americana e britannica; sul piano socio-politico, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam e contro la segregazione razziale negli Stati Uniti; nella lotta di classe, gli operai cinesi si ribellavano contro la pretesa "rivoluzione culturale", gli scioperi selvaggi esplodevano nelle fabbriche automobilistiche americane, ecc. (vedere per esempio l'articolo di Accion Proletaria pubblicato da World Revolution n°15 e 16 che parla di un'ondata di lotte iniziata in realtà nel 1965). Tale è il contesto in cui Marc Chirik (MC)[1] ed i suoi giovani compagni in Venezuela formularono il pronostico spesso citato (almeno da noi): "Non siamo dei profeti, e non pretendiamo indovinare quando ed in che modo si svolgeranno gli avvenimenti futuri. Ma ciò di cui siamo effettivamente coscienti e sicuri, che riguarda il processo in cui è immerso attualmente il capitalismo, è che non è possibile fermarlo con le riforme, con certe svalutazioni né con alcun tipo di misure economiche capitaliste e che conduce direttamente alla crisi". "E noi siamo ancora sicuri che il processo inverso di sviluppo della combattività della classe, che attualmente si vive in modo generale, condurrà la classe operaia ad una lotta sanguinosa e diretta alla distruzione dello Stato borghese". (Internacionalismo n°8, "1968: inizia una nuova convulsione del capitalismo").
Qui risiede tutta la forza del metodo marxista ereditato dalla Sinistra comunista: una capacità a discernere i cambiamenti maggiori nella traiettoria della società capitalista, molto prima che siano diventati troppo evidenti per potere essere negati. E così MC che aveva trascorso grande parte della sua vita militante nell'ombra della controrivoluzione, fu capace di annunciare il cambiamento del corso storico: la controrivoluzione era finita, il boom del dopoguerra stava terminando e s'affacciava la prospettiva di una nuova crisi del sistema capitalista mondiale e la rinascita della lotta di classe proletaria.
Ma c'era una debolezza-chiave nella formulazione utilizzata per caratterizzare questo cambiamento di corso storico perché poteva dare l'impressione che si stesse già entrando in un periodo rivoluzionario - in altri termini in un periodo in cui la rivoluzione mondiale fosse all'ordine del giorno a breve termine, come lo fu nel 1917. L'articolo sicuramente non diceva che la rivoluzione fosse dietro l'angolo di strada e MC aveva appreso la virtù della pazienza nelle più dure delle circostanze. Sicuramente non commise lo stesso errore dei Situazionisti che pensavano che Maggio 1968 costituisse veramente l'inizio della rivoluzione. Ma questa ambiguità stava per avere delle conseguenze per la nuova generazione di rivoluzionari che stavano per costituire la CCI. In seguito, per la grande parte della sua storia, anche dopo avere riconosciuto l'inadeguatezza della formulazione "corso alla rivoluzione" sostituita con "corso agli scontri di classe" all'epoca del suo 5 Congresso[2], la CCI avrebbe continuato a patire in permanenza della tendenza a sottovalutare sia la capacità del capitalismo a sostenere se stesso malgrado la sua decadenza e la sua crisi aperta, e sia la difficoltà per la classe operaia di superare il peso dell'ideologia dominante, di costituirsi in quanto classe sociale con la sua propria prospettiva.
La CCI si è costituita nel 1975 sulla base dell'analisi secondo la quale una nuova era di lotte operaie si era aperta, generando anche una nuova generazione di rivoluzionari il cui primo compito era di riappropriarsi delle esperienze politiche ed organizzative della Sinistra comunista e lavorare al raggruppamento su scala mondiale. La CCI era convinta di essere la sola ad avere un tale ruolo da giocare in questo processo, definendosi come "l'asse" del futuro partito comunista mondiale. ("Rapporto sulla questione dell'organizzazione della nostra corrente internazionale", Revue Internationale n°1).
Tuttavia, l'ondata di lotte inaugurate dal movimento di massa in Francia nel maggio-giugno 1968 era finita più o meno quando la CCI si era formata, in generale si sviluppò dal 1968 al 1974, sebbene importanti lotte avranno luogo in Spagna, in Portogallo, in Olanda, ecc. nel 1976-77. Poiché non c'è un legame meccanico tra la lotta immediata e gli sviluppi dell'organizzazione rivoluzionaria, la crescita relativamente veloce all'inizio della CCI proseguì malgrado il riflusso. Ma questo sviluppo era influenzato sempre profondamente dall'atmosfera di Maggio 1968 quando agli occhi di molti la rivoluzione sembrava quasi a portata di mano. Raggiungere un'organizzazione che era apertamente per la rivoluzione mondiale non sembrava all'epoca una scommessa perdente.
Questo sentimento che già si vivesse negli ultimi giorni del capitalismo, che la classe operaia sviluppava la sua forza in modo quasi esponenziale, era rafforzato da una caratteristica del movimento della classe all'epoca in cui non c’erano che brevi pause con quelle che si identificavano come "ondate" di lotta di classe internazionale.
Tra i fattori che la CCI ha analizzato nel riflusso della prima ondata, c'è la controffensiva della borghesia che, se era stata sorpresa nel 1968, successivamente aveva sviluppato velocemente una strategia politica allo scopo di deviare la classe su una falsa prospettiva. Ciò fu riassunto nella strategia de "la sinistra al potere" che prometteva la fine veloce delle difficoltà economiche che all'epoca erano ancora relativamente leggere.
La fine della prima ondata coincise, in effetti, più o meno con lo sviluppo più aperto della crisi economica dopo il 1973, ma fu questa evoluzione che creò le condizioni di nuove esplosioni di movimenti di classe. La CCI analizzò l'inizio de "la seconda ondata" nel 1978, con lo sciopero degli autotrasportatori, il Winter of Discontent ("l'inverno del malcontento"), quello dei siderurgici in Gran Bretagna, la lotta degli operai del petrolio in Iran organizzata negli shoras ("consigli"), dei vasti movimenti di sciopero in Brasile e dei portuali di Rotterdam col suo comitato di sciopero indipendente, il movimento combattivo degli operai siderurgici a Longwy e Denain in Francia e, soprattutto, l'enorme movimento di sciopero in Polonia nel 1980.
Questo movimento che partì dai cantieri navali di Danzica fu un'espressione chiara del fenomeno dello sciopero di massa e ci permise di approfondire la nostra comprensione di questo fenomeno ritornando sull'analisi fatta da Rosa Luxemburg dopo gli scioperi di massa in Russia culminati nella rivoluzione del 1905 (vedere per esempio l’articolo "Note sullo sciopero di massa" Revue internationale n°27). Abbiamo visto nella riapparizione dello sciopero di massa il punto più alto della lotta dal 1968 che rispondeva a molte domande che erano state poste nelle lotte precedenti, in particolare sull'autorganizzazione e l'estensione. Allora difendevamo - contro la visione di un movimento di classe condannato a girare a vuoto finché "il partito" non fosse stato capace di dirigerlo verso il capovolgimento rivoluzionario - che le lotte operaie seguivano una traiettoria, che tendevano ad avanzare, a tirare delle lezioni, a rispondere alle domande poste nelle lotte precedenti. Peraltro, fummo capaci di vedere che la coscienza politica degli operai polacchi era in ritardo rispetto al livello di combattività della lotta. Formulavano delle rivendicazioni generali che andavano al di là di semplici questioni economiche, ma la presa del sindacalismo, della democrazia e della religione era molto forte e tendeva a deformare ogni tentativo di avanzamento sul campo esplicitamente politico. Abbiamo visto anche la capacità della borghesia mondiale ad unirsi contro lo sciopero di massa in Polonia, in particolare attraverso la creazione di Solidarinosc.
Ma i nostri sforzi per analizzare le manovre della borghesia contro la classe operaia hanno anche dato nascita ad una tendenza fortemente empirica, contrassegnata dal "comune buonsenso", chiaramente espressa dal "clan" Chénier (vedere nota 3). Quando abbiamo osservato la strategia politica della borghesia alla fine degli anni 1970 - strategia della destra al potere e della sinistra all'opposizione nei paesi centrali del capitalismo - abbiamo dovuto approfondire la questione del machiavellismo della borghesia. Nell'articolo della Revue Internationale n°31 sulla coscienza e l'organizzazione della borghesia, si esaminava come l'evoluzione del capitalismo di Stato abbia permesso a questa classe di sviluppare attivamente delle strategie contro la classe operaia. In gran parte, la maggioranza del movimento rivoluzionario aveva dimenticato che l'analisi marxista della lotta di classe è un'analisi delle due classi principali della società, non solamente degli avanzamenti e dei riflussi del proletariato. Quest’ultimo non è impegnato in una facile battaglia ma si scontra con la più sofisticata classe della storia, la quale, malgrado la sua falsa coscienza, ha mostrato una capacità a tirare delle lezioni dagli avvenimenti storici, soprattutto quando si tratta del suo nemico mortale, ed è capace di manipolazioni e di inganni senza fine. L'esame delle strategie della borghesia era evidente per Marx ed Engels, ma i nostri tentativi di perseguire questa tradizione sono stati spesso rigettati da molti elementi come fatti che sollevavano la "teoria del complotto" trovandosi loro stessi "ammaliati" dalle apparenze delle libertà democratiche.
Analizzare "il rapporto di forza" tra le classi ci porta di conseguenza alla questione del corso storico. Nella stessa Revue Internationale dove è stato pubblicato il primo testo più importante sulla sinistra all'opposizione (Revue n°18, 2 trimestre 1979, che contiene i testi del 3° Congresso della CCI), ed in risposta alle confusioni delle Conferenze internazionali e nei nostri ranghi (per esempio la tendenza RC/GCI[3] che annunciava un corso alla guerra), abbiamo pubblicato un contributo cruciale sulla questione del corso storico che era un'espressione della nostra capacità a proseguire e sviluppare l'eredità della Sinistra comunista. Questo testo si impegnava a confutare alcune false idee tra le più comuni nel campo rivoluzionario, in particolare l'idea empirica che non è possibile per il rivoluzionario fare delle previsioni generali sul corso della lotta di classe. Contro ciò, il testo riafferma che la capacità di definire una prospettiva per il futuro - e non solamente l'alternativa generale socialismo o barbarie - è una delle caratteristiche del marxismo, e lo è sempre stata. Ed in particolare il testo insiste sul fatto che i marxisti hanno sempre fondato il loro lavoro sulla loro capacità di comprendere il particolare rapporto di forze tra le classi in un dato periodo, come abbiamo visto precedentemente nella prima parte di questo rapporto. Allo stesso modo, il testo mostra che l'incapacità a comprendere la natura del corso storico aveva portato nel passato dei rivoluzionari a commettere seri errori (per esempio, le disastrose avventure di Trotsky negli anni 1930).
Un'estensione di questa visione agnostica del corso storico è stato il concetto, difeso in particolare dal BIPR (Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario che diventerà successivamente la TCI - Tendenza Comunista Internazionalista - di cui si parlerà nel seguito di questo articolo), di un corso "parallelo" verso la guerra e verso la rivoluzione: "Recentemente sono sorte altre teorie secondo le quali ''con l'aggravamento della crisi del capitalismo, saranno i due termini della contraddizione a rafforzarsi contemporaneamente: guerra e rivoluzione non si escluderebbero reciprocamente ma avanzerebbero in modo simultaneo e parallelo senza che si possa sapere quale delle due arriverà al suo termine prima dell'altra'.” “L'errore maggiore di una tale concezione è che essa trascura totalmente il fattore lotta di classe nella vita sociale, proprio come la concezione sviluppata dalla Sinistra italiana [la teoria dell'economia di guerra] peccava per una sopravvalutazione dell'impatto di questo fattore. Partendo dalla frase de Il Manifesto comunista secondo la quale 'la storia di ogni società fino ai nostri giorni è la storia della lotta di classi', essa ne faceva un’implicazione meccanica all'analisi del problema della guerra imperialista considerando quest’ultima come una risposta alla lotta di classe senza vedere, al contrario, che non poteva avere luogo che nell'assenza di questa o grazie alla sua debolezza. Ma per falsa che fosse, questa concezione si basava su uno schema corretto, l'errore che proviene da una delimitazione scorretta del suo campo di applicazione. Invece, la tesi del 'parallelismo e della simultaneità del corso verso la guerra e la rivoluzione' fanno decisamente fede a questo schema di base del marxismo perché suppone che le due principali classi antagoniste della società possano preparare le loro risposte rispettive alla crisi del sistema - la guerra imperialistica per una e la rivoluzione per l'altra - in modo completamente indipendente l’una dall'altra, dal rapporto tra le loro rispettive forze, dei loro scontri. Se non può applicarsi anche a ciò che determina tutta l'alternativa storica della vita della società, lo schema de Il Manifesto comunista non ha più ragione di esistere e può essere riposto con tutto il marxismo in un museo nel settore delle invenzioni 'strampalate' dell'immaginazione umana" [4].
Sebbene siano stati necessari quattro anni prima che cambiassimo in modo formale la formulazione "corso alla rivoluzione", innanzitutto perché conteneva l'implicazione di un tipo di progresso inevitabile ed anche lineare verso gli scontri rivoluzionari, avevamo compreso che il corso storico non era né statico né predeterminato, ma che era assoggettato ai cambiamenti nell'evoluzione del rapporto di forze tra le classi. Da cui il nostro "slogan" all'inizio degli anni 1980 in risposta all'accelerazione tangibile delle tensioni imperialistiche (in particolare l'invasione dell'Afghanistan da parte della Russia e la risposta che aveva provocato da parte dell'Occidente): gli Anni della Verità. Verità non solo nel linguaggio brutale della borghesia e delle sue nuove equipe di governo di destra ma anche nei termini in cui si sarebbe deciso lo stesso avvenire dell'umanità. Certamente ci sono degli errori in questo testo, in particolare l'idea de "il fallimento totale" dell'economia e di una "offensiva" proletaria già esistente, quando le lotte operaie erano ancora necessariamente su un terreno fondamentalmente difensivo. Ma il testo mostrava una reale capacità di previsione, non solo perché gli operai polacchi ci avevano offerto velocemente una chiara prova che il corso alla guerra non era aperto e che il proletariato era capace di fornire un'alternativa ma, anche, perché gli avvenimenti del 1980 si sono rivelati decisivi, pur se non nel modo con cui li avevamo considerati all’inizio. Le lotte in Polonia sono state un momento chiave nel processo che avrebbe determinato il crollo del blocco dell'Est e l'apertura definitiva della fase di decomposizione, espressione del vicolo cieco sociale in cui nessuna classe era capace di attuare la sua alternativa storica.
La "seconda ondata" è stata anche il periodo durante il quale MC ci ha esortati a "scendere dal balcone" ed a sviluppare la capacità a partecipare alle lotte ed a sostenere proposte concrete per l'autorganizzazione e l'estensione come, per esempio, durante lo sciopero dei siderurgici in Francia. Ciò ha dato adito ad un certo numero di incomprensioni, per esempio la proposta di distribuire un volantino che chiamava gli operai di altri settori a raggiungere il corteo dei siderurgici a Parigi è stata considerata come una concessione al sindacalismo perché questa marcia era organizzata dai sindacati. Ma la domanda da porsi non era astratta - denunciare in generale i sindacati - bisognava mostrare come, nella pratica, i sindacati si opponevano all'estensione della lotta e spingere avanti le tendenze a rimettere in causa i sindacati ed a prendere in mano l'organizzazione della lotta. Che ciò fosse una possibilità reale, lo dimostra l'eco che certi nostri interventi, nelle riunioni di massa formalmente chiamate dai sindacati, hanno ricevuto, come a Dunkerque. Fu posta anche la questione dei "gruppi operai" che nascevano da queste lotte[5]. Ma tutto questo sforzo di intervento attivo nelle lotte ha avuto anche un aspetto "negativo", la comparsa di tendenze immediatiste ed attiviste che riducevano il ruolo dell'organizzazione rivoluzionaria a portare un'assistenza pratica agli operai. Nello sciopero dei portuali di Rotterdam, abbiamo sostenuto il ruolo di "portatori d’acqua" per il comitato di sciopero, ciò che diede adito ad un contributo estremamente importante di MC[6] che stabiliva in modo sistematico come il passaggio dall’ascendenza alla decadenza aveva portato dei profondi cambiamenti nella dinamica della lotta di classe proletaria e dunque alla funzione primaria dell'organizzazione rivoluzionaria che non poteva più considerarsi come "l'organizzatrice" della classe, ma solo una minoranza lucida che fornisce una direzione politica. Malgrado questo vitale chiarimento, una minoranza dell'organizzazione cadde ancora più nell'operaismo e l'attivismo, caratterizzati dall'opportunismo verso il sindacalismo manifestato nel clan Chénier che vedeva i comitati di sciopero sindacali dello sciopero della siderurgia in Gran Bretagna come organi di classe, pure negando allo stesso tempo di riconoscere il significato storico del movimento della Polonia. Il testo della Conferenza straordinaria del 1982 sulla funzione dell'organizzazione identificava molto di questi errori[7].
La seconda ondata di lotte ha conosciuto la sua fine con la repressione in Polonia e ciò ha accelerato anche una crisi nel campo rivoluzionario, la rottura delle conferenze internazionali, la scissione nella CCI[8], il crollo del PCInt: vedere la Revue Internationale n°28 e 32. Comunque abbiamo continuato a sviluppare la nostra comprensione teorica, in particolare sollevando la questione della generalizzazione internazionale come prossima tappa della lotta, ed attraverso il dibattito sulla critica della teoria dell'anello debole (vedere Revue n°31 e 37). Queste due questioni connesse tra loro fanno parte dello sforzo per comprendere il significato della sconfitta in Polonia. Attraverso queste discussioni abbiamo visto che la chiave di nuovi e maggiori sviluppi della lotta di classe mondiale - che noi definivavamo non solo in termini di autorganizzazione e di estensione, ma di generalizzazione e di politicizzazione internazionale - risiedeva in Europa occidentale. I testi sulla generalizzazione ed altre polemiche riaffermavano anche che non era la guerra che costituiva le migliori condizioni per la rivoluzione proletaria come continuavano a sostenere la maggior parte dei gruppi della tradizione della Sinistra italiana, ma la crisi economica aperta; e fu precisamente questa prospettiva che venne aperta dopo il 1968. Alla fine, sull'ondata della sconfitta in Polonia, certe analisi chiaroveggenti sulla rigidità di base dei regimi stalinisti furono anticipate negli articoli come "La crisi economica nell'Europa dell'Est e le armi della borghesia contro il proletariato" nella Revue Internationale n°34. Queste analisi furono la base della nostra comprensione dei meccanismi del crollo del blocco dell'Est dopo 1989.
Una nuova ondata di lotte fu annunciata dagli scioperi del settore pubblico in Belgio e fu confermata negli anni seguenti dallo sciopero dei minatori in Gran Bretagna, dalle lotte dei ferrovieri e della sanità in Francia, delle ferrovie e della scuola in Italia, da lotte massicce in Scandinavia, e di nuovo in Belgio nel 1986, ecc. Quasi ogni numero della Revue Internationale di questo periodo conteneva un articolo editoriale sulla lotta di classe ed abbiamo pubblicato le differenti risoluzioni dei congressi sulla questione. Sicuramente abbiamo sempre tentato di localizzare queste lotte in un contesto storico più largo. Nella Revue Internationale n°39 e 41, abbiamo pubblicato degli articoli sul metodo necessario per analizzare la lotta di classe, cercando di rispondere all'empirismo ed alla mancanza di quadro dominante nel campo proletario che poteva passare da una grande sottovalutazione ad improvvise ed assurde esagerazioni. Il testo della Revue n°41 riaffermava in particolare certi elementi fondamentali sulla dinamica della lotta di classe - il suo carattere irregolare, fatto di "ondate", derivante dal fatto che la classe operaia è la prima classe rivoluzionaria ad essere una classe sfruttata e che non può avanzare di vittoria in vittoria come la borghesia, ma deve passare attraverso un processo di sconfitte che possono essere il trampolino di nuovi avanzamenti della coscienza. Questo avanzamento irregolare, con degli alti e bassi della lotta di classe, è ancora più marcato nel periodo di decadenza così che, per comprendere il significato di un'esplosione particolare di lotta di classe, non possiamo esaminarla all’istante come una "fotografia": dobbiamo localizzarla in una traiettoria più generale che ci riporti alla questione del rapporto di forze tra le classi e del corso storico.
Allo stesso tempo si sviluppava il dibattito sul centrismo rispetto al consiliarismo che è apparso per prima sul piano teorico - il rapporto tra la coscienza e la lotta e la questione della maturazione sotterranea della coscienza (vedere l'articolo nella Revue Internationale n°43). Questi dibattiti permisero alla CCI di effettuare un'importante critica della visione consiliarista, secondo la quale la coscienza si sviluppa solo nei momenti delle lotte aperte, e di elaborare la distinzione tra le dimensioni di estensione e di profondità ("la coscienza della - o nella - classe e la coscienza di classe", una distinzione che fu considerata immediatamente come "leninista" da quella che in futuro diventerà la tendenza FECCI). Nella polemica con la CWO sulla questione della maturazione sotterranea si notavano delle similarità tra le visioni consiliariste della nostra "tendenza" con chi, in quel momento, difendeva apertamente la teoria kautskyana della coscienza di classe, secondo la quale quest’ultima sarebbe inculcata dall'esterno e cioè da intellettuali borghesi alla classe operaia. L'articolo cercava di avanzare nella visione marxista dei rapporti tra l'inconscio ed il conscio pur criticando la visione del "buonsenso" comune della CWO.
C'è un altro campo in cui la lotta contro il consiliarismo non è stata condotta fino alla fine: pur riconoscendo in teoria che la coscienza di classe può svilupparsi all'infuori dei periodi di lotta aperta, c'era una tendenza già da tempo in voga nello sperare che, non vivendo più in un periodo di controrivoluzione, la crisi economica apporterebbe salti improvvisi nella lotta di classe e nella coscienza di classe. Ciò faceva rientrare dalla finestra la concezione consiliarista attraverso un legame automatico tra le crisi e la lotta di classe, e spesso è tornata a perseguitarci, anche nel periodo che è seguito al crash del 2008.
Applicando l'analisi che avevamo sviluppato nel dibattito sull'anello debole, i nostri principali testi sulla lotta di classe in questo periodo riconoscono l'importanza di un nuovo sviluppo della lotta di classe nei paesi centrali dell'Europa. Le "Tesi sulla lotta di classe" (1984) pubblicate nella Revue Internationale n°37 sottolineano le caratteristiche di questa ondata:
"Le caratteristiche della presente ondata, come si sono già manifestate e che vanno a delinearsi sempre più, sono le seguenti:
- tendenza a movimenti di notevole ampiezza che implicano un numero elevato di operai, toccando simultaneamente settori interi o parecchi settori in uno stesso paese, ponendo in tal modo le basi dell'estensione geografica delle lotte, tendenza all'apparizione di movimenti spontanei che manifestano, in particolare al loro inizio, un certo straripamento dai sindacati,
- crescente simultaneità delle lotte a livello internazionale, che gettano le fondamenta per la futura generalizzazione mondiale delle lotte,
- sviluppo progressivo, in seno all'insieme del proletariato, della sua fiducia in se stesso, della coscienza della sua forza, della sua capacità di opporsi come classe agli attacchi capitalisti,
- ritmo lento dello sviluppo delle lotte nei paesi centrali e particolarmente dell'attitudine alla loro autorganizzazione, fenomeno che risulta dallo spiegamento da parte della borghesia di questi paesi di tutto il suo arsenale di trappole e mistificazioni e che si è realizzato ancora una volta negli scontri di questi ultimi mesi". (Tesi sull'attuale ripresa della lotta di classe)
La più importante di queste "trappole e mistificazioni" è stata l’utilizzazione del sindacalismo di base contro le vere tendenze all'autorganizzazione degli operai, una tattica abbastanza sofisticata capace di creare dei falsi coordinamenti antisindicali che, in realtà, servivano da ultimo baluardo di difesa del sindacalismo. Ma pure non essendo affatto ciechi nei confronti dei pericoli ai quali era confrontata la lotta di classe, le Tesi, come il testo sugli Anni della Verità, contenevano sempre la nozione di un'offensiva del proletariato e prevedevano che la terza ondata avrebbe raggiunto un livello superiore alle precedenti, e ciò significava che essa necessariamente avrebbe raggiunto lo stadio della generalizzazione internazionale.
Il fatto che il corso fosse verso scontri di classe non significava che il proletariato fosse già all'offensiva: fino alla vigilia della rivoluzione, le sue lotte saranno essenzialmente difensive di fronte agli incessanti attacchi della classe dominante. Tali errori erano il prodotto di una tendenza di lunga data a sopravvalutare il livello di quel momento della lotta di classe. Era spesso in reazione all'incapacità del campo proletario a vedere più lontano della punta del suo naso, tema spesso sviluppato nelle nostre polemiche e, anche, nella Risoluzione sulla situazione internazionale del 6° Congresso della CCI nel 1985, pubblicate nella Revue Internationale n°44 che contiene un lungo passo sulla lotta di classe. Questa parte è un'eccellente dimostrazione del metodo storico della CCI per analizzare la lotta di classe, una critica dello scetticismo e dell'empirismo che dominava il campo, ed essa identificò anche la perdita delle tradizioni storiche e la rottura tra la classe e le sue organizzazioni politiche come debolezze chiave del proletariato. Ma, retrospettivamente, essa insisteva troppo sulla disillusione verso la sinistra ed in particolare verso i sindacati, e sulla crescita della disoccupazione come fattori potenziali di radicalizzazione della lotta di classe. Non ignorava gli aspetti negativi di questi fenomeni ma non riusciva a vedere che, con l'arrivo della fase di decomposizione, il disincanto passivo nei confronti delle vecchie organizzazioni operaie e la generalizzazione della disoccupazione, in particolare tra i giovani, sarebbero diventati potenti fattori di demoralizzazione del proletariato e destabilizzatori della sua identità di classe. Anche nel 1988 (Revue Internationale n°54), per esempio, continuavamo a pubblicare una polemica sulla sottovalutazione della lotta di classe nel campo proletario. Gli argomenti sono in generale corretti ma mostrano anche la mancanza di coscienza di ciò che si profilava - il crollo dei blocchi ed il riflusso più lungo che abbiamo conosciuto.
Ma verso la fine degli anni 1980, diventava chiaro, almeno per una nostra minoranza, che la spinta in avanti della lotta di classe che era stata analizzata in tanti articoli e risoluzioni durante questo periodo, si arenava. Ci fu un dibattito su questo argomento all’8° Congresso della CCI (Revue Internationale n°59), in particolare rispetto alla questione della decomposizione e dei suoi effetti negativi sulla lotta di classe. Una parte considerevole dell'organizzazione vedeva la "terza ondata" rafforzarsi e sottovalutava l'impatto di certe sconfitte. Come per esempio lo sciopero dei minatori in GB la cui sconfitta non fermò l'ondata ma ebbe un effetto a lungo termine sulla fiducia della classe operaia in se stessa e non solamente in GB, il tutto rafforzando l'impegno della borghesia nello smantellamento delle "vecchie" industrie. L’8° Congresso fu anche quello in cui fu formulata l'idea che le mistificazioni borghesi duravano oramai non più di tre settimane.
La discussione sul centrismo verso il consiliarismo aveva sollevato il problema della fuga del proletariato nei confronti della politica ma non fummo capaci di applicare questa questione alla dinamica del movimento di classe, in particolare a quella della sua mancanza di politicizzazione, della sua difficoltà a sviluppare una prospettiva anche quando le lotte erano autorganizzate e mostravano una tendenza all’estensione. Possiamo anche dire che la CCI non ha sviluppato mai una critica adeguata dell'impatto dell'economicismo e dell'operaismo nelle sue righe, che l’hanno portata a sottovalutare l'importanza dei fattori che spingono il proletariato al di là dei limiti del posto di lavoro e delle rivendicazioni economiche immediate.
È solamente con il crollo del blocco dell'Est che abbiamo potuto veramente comprendere tutto il peso della decomposizione e che allora abbiamo previsto un periodo di nuove difficoltà per il proletariato (Revue Internationale n°60). Queste difficoltà derivavano precisamente dall'incapacità della classe operaia a sviluppare la sua prospettiva, ma che sarebbero state attivamente rafforzate dalla vasta campagna ideologica della classe dominante sul tema de "la morte del comunismo” e della fine della lotta di classe.
In seguito all'affondamento del blocco dell'Est, confrontata al peso della decomposizione e delle campagne anticomuniste della classe dominante, la lotta di classe ha subito un riflusso che è stato molto profondo.
Sebbene ci siano state alcune espressioni di combattività all'inizio degli anni 1990 e di nuovo alla fine del decennio, il riflusso doveva persistere nel secolo successivo, mentre la decomposizione avanzava in modo visibile, espressa chiaramente nell'attacco alle Twin Towers e nelle successive invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq. Di fronte all'avanzata della decomposizione, siamo stati obbligati a riesaminare tutta la questione del corso storico in un Rapporto per il 14° Congresso, pubblicato nella Revue Internationale n°107. Altri notevoli testi su questo tema sono "Perché il proletariato non ha ancora rovesciato il capitalismo" nelle Revue n°103 e 104 e la Risoluzione sulla situazione internazionale del 15° Congresso della CCI (2003), Revue n°113.
Il Rapporto sul corso storico del 2001 dopo avere riaffermato le acquisizioni teoriche dei rivoluzionari del passato ed il nostro quadro come sviluppato nel documento del 3° Congresso, è incentrato sulle modifiche portate dall'entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione, dove la tendenza alla guerra mondiale è contrastata non solo dall'incapacità della borghesia a mobilitare il proletariato ma, anche, dalla dinamica centrifuga del "ciascuno per sé", e ciò avrebbe significato che la riformazione di blocchi imperialisti avrebbe incontrato crescenti difficoltà. Tuttavia, poiché la decomposizione contiene rischi di una discesa graduale nel caos e la distruzione irrazionale, essa crea enormi pericoli per la classe operaia ed il testo riafferma il punto di vista delle Tesi di origine secondo cui la classe gradualmente potrebbe essere schiacciata dall'insieme del processo al punto di non essere più capace di insorgere contro la marea della barbarie. Il testo tenta anche di distinguere tra gli avvenimenti materiali ed ideologici implicati nel processo di "stritolamento": gli elementi ideologici che emergono spontaneamente dal terreno del capitalismo in declino e le campagne consapevolmente orchestrate dalla classe dominante, come la propaganda incessante sulla morte del comunismo. Nello stesso tempo, il testo identificava certi elementi materiali più diretti come lo smantellamento dei vecchi centri industriali che spesso erano stati il cuore della combattività operaia durante le precedenti ondate di lotte (le miniere, la siderurgia, i portuali, le fabbriche automobilistiche, ecc.). Pur non cercando di mascherare le difficoltà che la classe affrontava, questo nuovo rapporto esaminava anche i segni di ripresa della combattività e le difficoltà persistenti della classe dominante a trascinare la classe operaia nelle sue campagne guerriere e concludeva che le potenzialità di rivitalizzazione della lotta di classe erano sempre intatte; e ciò si sarebbe confermato due anni dopo, con i movimenti sulle "riforme delle pensioni" in Austria ed in Francia (2003).
Nel rapporto sulla lotta di classe nella Revue Internationale n°117, identifichiamo una svolta, una ripresa della lotta manifestata in questi movimenti sulle pensioni ed in altre espressioni. Ciò si confermò nei nuovi movimenti nel 2006 e nel 2007 come all'epoca del movimento contro il CPE in Francia e nelle lotte massicce nell'industria tessile ed in altri settori in Egitto. Il movimento degli studenti in Francia fu in particolare una testimonianza eloquente di una nuova generazione di proletari confrontati ad un avvenire molto incerto (vedere le "Tesi sul movimento degli studenti in Francia" nel Revue n°125 ed anche l'editoriale di questo stesso numero). Questa tendenza fu in seguito confermata dalla "gioventù" in Grecia nel 2008-2009, dalla rivolta studentesca in Gran Bretagna nel 2010 e, soprattutto, dalla primavera araba e dai movimenti degli Indignados e di Occupy nel 2011-2013 che hanno dato luogo a parecchi articoli della Revue Internationale, in particolare quello della Revue n°147. Chiaramente in questi movimenti ci furono delle acquisizioni - l'affermazione della forma assembleare, un impegno più diretto verso le questioni politiche e morali, un chiaro senso internazionalista, elementi sul significato dei quali noi vi ritorneremo. Nel nostro rapporto al BI plenario di ottobre 2013 abbiamo criticato il rigetto economista ed operaista di questi movimenti ed il tentativo di vedere il cuore della lotta di classe mondiale nelle nuove concentrazioni industriali dell'Estremo Oriente. Ma non abbiamo nascosto il problema fondamentale rivelato in queste rivolte: la difficoltà per i loro giovani protagonisti di concepirsi come parte della classe operaia, l'enorme peso dell'ideologia della cittadinanza e dunque del democraticismo. La fragilità di questi movimenti fu indicata chiaramente in Medio Oriente dove abbiamo potuto vedere chiare regressioni della coscienza (come in Egitto ed in Israele) ed in Libia ed in Siria una caduta quasi immediata nella guerra imperialista. Ci sono state autentiche tendenze alla politicizzazione in questi movimenti poiché hanno posto delle questioni profonde sulla natura stessa del sistema sociale esistente e, come all'epoca delle precedenti apparizioni negli anni 2000, essi diedero adito ad una minuscola minoranza di elementi alla ricerca ma, in seno a questa minoranza, c'è stata un'immensa difficoltà ad andare verso un impegno militante rivoluzionario. Anche quando queste minoranze sembravano essere sfuggite alle catene più evidenti dell'ideologia borghese in decomposizione, esse le hanno ritrovate spesso sotto le forme più sottili e più radicali che sono cristallizzate nell'anarchismo, la teoria della "comunizzazione" ed altre tendenze simili, fornendo tutte una prova supplementare sul fatto che avevamo perfettamente ragione nel vedere "il consiliarismo come il pericolo maggiore" negli anni 1980 poiché tutte queste correnti falliscono precisamente sulla questione degli strumenti politici della lotta di classe e, innanzitutto, l'organizzazione rivoluzionaria.
Un bilancio completo di questi movimenti, e delle nostre discussioni su questo argomento, non è stato ancora fatto e nè possiamo farlo qui. Ma sembra che il ciclo del 2003-2013 tocchi la sua fine e che siamo di fronte ad un nuovo periodo di difficoltà[9]. Ciò è particolarmente evidente in Medio Oriente dove le proteste sociali hanno incontrato la più rude repressione e la barbarie imperialistica; e questa orribile involuzione non può che avere un effetto deprimente sugli operai del mondo intero. In ogni modo, se ci ricordiamo della nostra analisi sullo sviluppo irregolare della lotta di classe, è inevitabile il riflusso dopo queste esplosioni e, per qualche tempo, ciò tenderà ad esporre di più la classe all'impatto nocivo della decomposizione.
"... Secondo i rapporti, avete detto che avevo previsto il crollo della società borghese nel 1898. C'è un leggero errore da qualche parte. Tutto ciò che ho detto, è che potremmo prendere forse il potere da qui al 1898. Se ciò non accade, la vecchia società borghese potrebbe ancora vegetare un momento, purché una spinta dell'esterno non faccia crollare tutto il vecchio edificio putrefatto. Un vecchio imballaggio ammuffito come questo può anche sopravvivere alla sua morte essenziale interna ancora alcuni decenni se l'atmosfera non è turbata" (Engels a Bebel, 24-26 ottobre 1891).
In questo breve passo, l'errore è così evidente che non è necessario commentarlo: l'idea che la classe operaia arrivasse al potere nel 1898 era un'illusione probabilmente generata dalla crescita veloce del partito socialdemocratico in Germania. Una deriva riformista si mescola ad un ottimismo esagerato e ad un'impazienza che, nel Manifesto comunista, aveva dato adito alla formulazione secondo cui "la caduta della borghesia e la vittoria del proletariato sono inevitabili" e forse non così lontano. Ma accanto a ciò, c'è un'idea molto valida: una società condannata dalla storia può anche mantenere per molto tempo il suo "vecchio imballaggio ammuffito" dopo di che sorge il bisogno di sostituirlo. In effetti, non decenni ma un secolo dopo la Prima guerra mondiale, vediamo la sinistra determinazione della borghesia di mantenere il suo sistema in vita qualunque ne sia il prezzo per l'avvenire dell'umanità.
La maggior parte dei nostri errori in questi ultimi quarant’anni sembra risiedere nella sottovalutazione della borghesia, della capacità di questa classe a mantenere il suo sistema putrefatto e dunque dell'immensità di ostacoli contro cui la classe operaia deve scontrarsi per assumere i suoi compiti rivoluzionari. Per fare il bilancio delle lotte di 2003-2013, questo deve essere un elemento chiave.
Il rapporto per il 21° Congresso della sezione in Francia (Révolution Internationale) nel 2014 riafferma l'analisi della svolta: le lotte del 2003 hanno sollevato la questione chiave della solidarietà ed il movimento del 2006 contro il CPE in Francia è stato un movimento profondo che prese la borghesia di sorpresa e la costrinse ad arretrare perché poneva il reale pericolo di un'estensione ai lavoratori attivi. Ma di seguito si è avuta una tendenza a dimenticare la capacità della classe dominante a recuperare tali shock ed a rinnovare la sua offensiva ideologica e le sue manovre, in particolare restaurare l'influenza dei sindacati. Abbiamo visto ciò in Francia negli anni 1980 con lo sviluppo dei coordinamenti e l'abbiamo visto di nuovo nel 1995 ma, come sottolinea il rapporto dell'ultimo Congresso di Révolution Internationale, abbiamo dimenticato nelle nostre analisi i movimenti in Guadalupa e nelle lotte sulle pensioni nel 2010 che hanno effettivamente sfinito il proletariato francese, impedendogli di essere ricettivo al movimento dell'anno seguente in Spagna. E di nuovo, malgrado la nostra insistenza sull'enorme impatto delle campagne anticomuniste, il rapporto di questo congresso suggerisce anche che abbiamo velocemente dimenticato che le campagne contro il marxismo e contro il comunismo hanno sempre un peso considerevole sulla nuova generazione che è apparsa durante il precedente decennio.
Altre debolezze durante questo periodo cominciano ad essere riconosciute.
Nelle nostre critiche dell'ideologia degli "anticapitalisti" degli anni 1990, con la loro insistenza sulla mondializzazione come una fase totalmente nuova nella vita del capitalismo - e delle concessioni fatte nel movimento proletario a questa ideologia, in particolare da parte del BIPR che sembrava mettere in questione la decadenza - non abbiamo riconosciuto elementi di verità al centro di questa mitologia: che la nuova strategia della "mondializzazione" ed il neoliberismo abbiano permesso alla classe dominante di resistere alle recessioni degli anni 1980 ed anche di aprire vere possibilità di espansione nelle zone dove le vecchie divisioni tra blocchi ed i modelli economici semiautarchici avevano eretto considerevoli barriere al movimento del capitale. L'esempio più evidente di questo sviluppo è evidentemente la Cina di cui non abbiamo anticipato pienamente l’ascesa allo statuto di "superpotenza", sebbene dagli anni 1970 e dalla rottura tra Russia e Cina abbiamo sempre riconosciuto che questa era una specie di eccezione alla regola dell'impossibile "indipendenza" rispetto al dominio dei due blocchi. Abbiamo dunque ritardato nel comprendere l'impatto che sarebbe stato prodotto da queste enormi concentrazioni industriali in alcune di queste regioni, sullo sviluppo globale della lotta di classe. Le ragioni teoriche che stavano alla base della nostra incapacità a prevedere l’ascesa della Nuova Cina dovranno essere ricercate più in profondità nelle discussioni sulla nostra analisi della crisi economica.
In un modo forse più significativo, non abbiamo investigato adeguatamente il ruolo giocato dall'affossamento di molti antichi centri di combattività di classe nei paesi centrali nel sabotare l'identità di classe. Abbiamo avuto ragione di essere scettici verso le analisi puramente sociologiche della coscienza di classe ma il cambiamento di composizione della classe operaia nei paesi centrali, la perdita delle tradizioni di lotta, lo sviluppo delle forme di lavoro più atomizzato, tutto ha certamente contribuito all'apparizione di generazioni di proletari che non si vedono più come parte della classe operaia, anche quando intraprendono la lotta contro gli attacchi dello Stato, come abbiamo visto durante i movimenti degli Occupy e degli Indignados nel 2011-2013. Particolarmente importante è il fatto che l'entità delle "delocalizzazioni", che hanno avuto luogo nei paesi occidentali, risultava spesso da sconfitte maggiori – come per esempio i minatori in GB, i siderurgici in Francia. Queste questioni, sebbene poste nel rapporto del 2001 sul corso storico, non sono state veramente trattate e sono state riaffermate nel rapporto del 2013 sulla lotta di classe. È là un ritardo molto importante e non sempre abbiamo incorporato questo fenomeno nel nostro quadro, ciò che richiederebbe certamente una risposta ai tentativi erronei di correnti come gli autonomi e la TCI per teorizzare la "ricomposizione" della classe operaia.
Nello stesso tempo, la prevalenza della disoccupazione a lungo termine o dell'impiego precario hanno inasprito la tendenza all'atomizzazione ed alla perdita d'identità di classe. Le lotte autonome dei disoccupati, capaci di ricollegarsi alle lotte degli operai attivi, furono ben meno significative di quanto noi avessimo previsto negli anni 1970 e 1980 (cf. Le "Tesi sulla disoccupazione" nella Revue internationale n°14 o la Risoluzione sulla situazione internazionale del 6° Congresso della CCI di cui si parla sopra), e numerosi disoccupati ed impiegati precari sono caduti in una condizione sottoproletaria, nella cultura di bande o ideologie politiche reazionarie. I movimenti degli studenti in Francia nel 2006 e le rivolte sociali verso la fine del decennio del nuovo secolo cominciarono a portare delle risposte a questi problemi, offrendo la possibilità di integrare i disoccupati nelle manifestazioni di massa e le assemblee di strada, ma era sempre un contesto dove l'identità di classe era ancora molto debole.
La nostra principale insistenza per spiegare la perdita dell'identità di classe si è spostata sul piano ideologico, sia come prodotto immediato della decomposizione (ciascuno per sé, cultura di banda, fuga nell'irrazionalità, ecc.) sia per l'utilizzazione deliberata degli effetti della decomposizione da parte della classe dominante - in modo più evidente, le campagne sulla morte del comunismo ma, anche, l'assalto ideologico giornaliero dei media e della pubblicità intorno a false rivolte, l'ossessione del consumismo e delle celebrità, ecc. Ciò è evidentemente di vitale importanza ma, in un certo modo, siamo solo all’inizio di una investigazione su come questi meccanismi ideologici operano a livello più profondo - un compito teorico chiaramente posto dalle "Tesi sulla morale"[10] e nei nostri sforzi per sviluppare ed applicare la teoria marxista dell'alienazione.
L'identità di classe non è, come l'ha difesa talvolta la TCI, una specie di semplice sentimento istintivo o semicosciente che avrebbero gli operai, che andrebbe distinto dalla vera coscienza di classe preservata dal partito. È essa stessa una parte integrante della coscienza di classe, fa parte del processo in cui il proletariato si riconosce in quanto classe distinta con un ruolo ed un potenziale unici nella società capitalista. Inoltre, non è limitata al campo puramente economico ma fin dall'inizio comporta un potente elemento culturale e morale: come Rosa Luxemburg scriveva, il movimento operaio non si limita ad una questione di "coltello e forchetta" ma è "un grande movimento culturale". Il movimento operaio del diciannovesimo secolo ha incorporato dunque non solo le lotte per le rivendicazioni economiche e politiche immediate ma anche l'organizzazione dell'educazione, dei dibattiti sull'arte e sulla scienza, delle attività sportive e di tempo libero, ecc. Il movimento forniva tutto un ambiente in cui i proletari e le loro famiglie potevano associarsi all'infuori dei posti di lavoro, rafforzando la convinzione che la classe operaia era la vera erede di tutto ciò che era sano nelle precedenti espressioni della cultura umana. Questo genere di movimento della classe operaia ha raggiunto il suo culmine nel periodo della socialdemocrazia ma in quest’ultimo c’erano anche le premesse della sua caduta. Ciò che venne perso nel grande tradimento del 1914, non fu solo l'Internazionale e le vecchie forme di organizzazione politica ed economica ma, anche, un terreno culturale più vasto che sopravvisse solamente nella caricatura costituita dalle "feste" dei partiti stalinisti e gauchisti. Il 1914 costituì dunque il primo di tutta una serie di colpi contro l'identità di classe durante il secolo passato: la diluizione politica della classe nella democrazia e nell'antifascismo negli anni 1930 e 1940, l'assimilazione del comunismo con lo stalinismo, la rottura della continuità organica con le organizzazioni e le tradizioni del passato portata dalla controrivoluzione: molto prima dell’inizio della fase di decomposizione, questi traumi già pesavano insistentemente sulla capacità del proletariato a costituirsi in classe con un reale senso di sé in quanto forza sociale che porta con lei "l’annullamento di tutte le classi". Così, ogni investigazione sul problema della perdita dell'identità di classe dovrà ritornare sull'insieme della storia del movimento operaio e non restringersi agli ultimi decenni. Anche se in questi ultimi decenni il problema è diventato così acuto e minaccioso per l'avvenire della lotta di classe, esso non è che l'espressione concentrata di un processo che ha una storia ben più lunga.
Per ritornare al problema dalla nostra sottovalutazione della classe dominante: il culmine della nostra sottovalutazione di lunga data del nemico - e che costituisce anche la maggiore delle debolezze delle nostre analisi - è stato raggiunto dopo il crash finanziario del 2007-08, al seguito di una vecchia tendenza a considerare che la classe dominante al centro del sistema avrebbe esaurito tutte le opzioni, che l'economia si sarebbe infilata in un vicolo cieco totale. Ciò non poteva che aumentare i sentimenti di panico, inasprire l'idea spesso non espressa e tacita secondo la quale la classe operaia ed il minuscolo movimento rivoluzionario si confrontavano con la loro ultima opportunità, o che avevano "già mancato la buona occasione". Certe formulazioni sulla dinamica dello sciopero di massa avevano nutrito questo immediatismo. In realtà, non avevamo torto nel vedere dei "germi" dello sciopero di massa nel movimento degli studenti in Francia nel 2006, o in altri come quello dei siderurgici in Spagna lo stesso anno, quello dell'Egitto nel 2007, in Bangladesh o altrove. Il nostro errore risiedeva nel fatto di avere preso il seme per il fiore e di non avere compreso che il periodo di germinazione non poteva che essere lungo. È chiaro che questi errori di analisi erano legati molto alle deformazioni attiviste ed opportuniste del nostro intervento durante questo periodo, tuttavia essi devono essere compresi anche nella discussione più larga del nostro ruolo come organizzazione (vedere il testo sul lavoro della frazione).
"Se il proprietario della forza-lavoro ha lavorato oggi, deve potere ricominciare domani nelle stesse condizioni di vigore e di salute. Occorre dunque che la somma dei mezzi di sussistenza basti per intrattenerlo nel suo stato di vita normale. I bisogni naturali, come cibo, vestiti, riscaldamento, abitazione, ecc., differiscono secondo il clima ed altre particolarità fisiche di un paese. Sotto un altro aspetto lo stesso numero dei sedicenti bisogni naturali, ed anche il modo di soddisfarli, è un prodotto storico e dipende così, in grande parte, dal grado di civiltà raggiunto. Le origini della classe salariata in ogni paese, l'ambiente storico in cui si è formata, continuano per molto tempo ad esercitare la massima influenza sulle abitudini, le esigenze e per contraccolpo i bisogni che essa apporta nella vita. La forza lavoro racchiude dunque, dal punto di vista del valore, un elemento storico e morale, ciò che la distingue dalle altre merci". (Marx, Il Capitale, volume I, capitolo 6).
Leggere Il Capitale senza veramente cogliere che Marx cerca di comprendere il funzionamento di particolari rapporti sociali che sono il prodotto di migliaia di anni di storia e che, come altri rapporti sociali, sono condannati a sparire, significa trovarsi ammaliati dalla visione reificata del mondo che lo studio di Marx ha per scopo di combattere. Questo è un atteggiamento di tutti gli intellettuali studiosi di Marx, che si considerano come professori rassicuranti o dei comunisti ultraradicali che tendono ad analizzare il capitalismo come un sistema autosufficiente, dalle leggi eterne, operante allo stesso modo in tutte le condizioni storiche, durante la decadenza di un sistema come nella sua ascendenza. Ma le osservazioni di Marx sul valore della forza lavoro ci aprono gli occhi su questo punto di vista puramente economico del capitalismo e mostrano in che cosa i fattori "storici e morali" sostengono un ruolo cruciale nella determinazione di un fondamento "economico" di questa società: il valore della forza lavoro. In altri termini, contrariamente alle affermazioni di Paul Cardan (alias Castoriadis, il fondatore del gruppo Socialismo o Barbarie) per il quale Il Capitale è un libro senza lotta di classe, Marx sostiene che l'affermazione della dignità umana da parte della classe sfruttata - la dimensione morale per eccellenza - non può, per definizione, essere detratta da un esame scientifico del modo con cui opera il sistema capitalista. Nella stessa frase, Marx risponde anche a coloro che lo considerano come un relativistico morale, come un pensatore che rigetta ogni morale come un insieme di frasi vuote ed ipocrite provenenienti da una qualsiasi classe dominante.
Oggi, la CCI è obbligata ad approfondire la sua comprensione "dell’elemento storico e morale" nella situazione della classe operaia - storico non solo nel senso delle lotte degli ultimi 40 anni, 80 o 100 anni, o anche di tutti i primi movimenti operai all'alba del capitalismo, ma nel senso della continuità e della rottura tra le lotte della classe operaia e quelle delle precedenti classi sfruttate e, al di là di ciò, la loro continuità e la loro rottura con tutti i tentativi precedenti della specie umana per superare le barriere per la realizzazione delle sue vere potenzialità, liberare le "sue facoltà che sonnecchiano", come Marx definisce la caratteristica centrale del lavoro umano in sé. È là che la storia e l'antropologia si congiungono, e parlare di antropologia è parlare della storia della morale. Da cui l’importanza delle "Tesi sulla morale" e della loro discussione.
Estrapolando dalle Tesi, possiamo notare certi momenti chiave che segnano la tendenza all'unificazione della specie umana: il passaggio dall'orda al comunismo primitivo, l'avvento del "Periodo assiale" collegato alla nascente generalizzazione dei rapporti commerciali che hanno visto la nascita della maggior parte delle religioni del mondo, espressioni nel "senso" dell'unificazione di un'umanità che tuttavia non poteva essere unita in realtà; l'espansione globale del capitalismo ascendente che, per la prima volta, tendeva ad unificare l'umanità sotto il regno, anche se brutale, di un solo modo di produzione; la prima ondata rivoluzionaria che conteneva la promessa di una comunità umana materiale. Questa tendenza ha ricevuto un terribile colpo con il trionfo della controrivoluzione e non è a caso se, alla vigilia della guerra più barbara della storia, Trotsky nel 1938 poteva parlare già di "crisi dell'umanità". È chiaro che aveva in mente come prova di questa crisi la Prima guerra mondiale, la Russia stalinista, la Grande Depressione e la marcia verso la Seconda guerra mondiale, ma era forse soprattutto l'immagine della Germania nazista (anche se non è vissuto per essere testimone delle più orribili espressioni di questo barbaro regime) che confermava questa idea, quella che la stessa umanità era sottomessa ad un test, perché qui aveva luogo un processo senza precedenti di regressione in seno ad uno delle culle della civiltà borghese: la cultura nazionale che aveva dato nascita a Hegel, Beethoven, Goethe adesso soccombeva al dominio di teppisti, di occultisti e di nichilisti, motivati da un programma che cercava di mettere un punto finale ad ogni possibilità di una umanità unificata.
Nella decomposizione, questa tendenza alla regressione, questi segnali di un collasso su se stessi dell'insieme dei progressi dell'umanità fatti finora, sono diventati “normalità” sul pianeta. Ciò viene espresso innanzitutto nel processo di frammentazione e del ciascuno per sé: ad uno stadio in cui la produzione e la comunicazione sono più unificate che mai, l'umanità sta correndo il pericolo di dividersi e suddividersi in nazioni, regioni, religioni, razze, gang, tutto ciò corredato da una regressione altrettanto distruttrice a livello intellettuale con l’ascesa di numerose forme di fondamentalismo religioso, di nazionalismo e di razzismo. L’ascesa dello Stato islamico fornisce una sintesi di questo processo a scala storica: là dove in passato l'Islam fu il prodotto di un avanzamento morale ed intellettuale attraverso ed al di là di tutta la regione, oggi l'islamismo, sotto la sua forma sunnita o anche sciita, è una pura espressione di negazione dell'umanità, di pogromismo, di misoginia e di adorazione della morte.
Chiaramente, questo pericolo di regressione contamina lo stesso proletariato. Per esempio, certe parti della classe operaia europea, che hanno visto la disfatta di tutte le lotte degli anni 1970 e 1980 contro la decimazione dell'industria e degli impieghi, sono entrate con successo nelle mire di partiti razzisti che hanno trovato dei nuovi capri espiatori da biasimare per la loro miseria - le ondate verso i paesi centrali degli immigranti che fuggono dal disastro economico, ecologico, militare delle loro regioni. Questi immigranti sono generalmente più "visibili" rispetto agli ebrei nell'Europa degli anni 1930, e coloro fra loro che adottano la religione musulmana possono legarsi direttamente alle forze impegnate nei conflitti imperialisti dei loro paesi di "accoglienza". Questa capacità della destra piuttosto che della sinistra a penetrare delle parti della classe operaia (in Francia per esempio, vecchi "bastioni" del Partito comunista sono caduti nel Fronte Nazionale) è un'espressione significativa di una perdita di identità di classe: là dove si potevano vedere in passato gli operai perdere le loro illusioni nella sinistra avendo fatto esperienza sul ruolo che quest’ultima sosteneva nel sabotaggio delle loro lotte, oggi l'influenza declinante di questa sinistra è più un riflesso del fatto che la borghesia ha meno bisogno di forze di mistificazione che pretendono di agire in nome della classe operaia perché questa ultima è decisamente meno capace di vedersi come una classe. Ciò riflette anche uno dei prodotti più significativi del processo globale di decomposizione e dello sviluppo impari della crisi economica mondiale: la tendenza dell'Europa e del Nord America a diventare isolette di "salvezza" relativa in un mondo diventato folle. L'Europa somiglia in particolare sempre più ad un bunker provvisto di scorte da difendere contro le masse disperate che cercano rifugio contro un'apocalisse generale. La risposta di "buonsenso comune" di tutti gli assediati, qualunque sia la durezza del regime in seno al bunker, è di stringere le righe ed assicurarsi che le porte del bunker vengano chiuse accuratamente. L'istinto di sopravvivenza diventa allora totalmente separato da ogni sentimento o da ogni impulso morale.
Le crisi de "l'avanguardia" devono essere localizzate anche in seno a questo processo di insieme: l'influenza dell'anarchismo sulle minoranze politicizzate generate dalle lotte del 2003-13, con la sua fissazione sull'immediato, il posto di lavoro, la "comunità"; la crescita dell'operaismo come il Movimento comunista e al suo polo opposto, la tendenza "comunizzatrice" che rigetta la classe operaia come soggetto della rivoluzione; lo scivolamento verso la bancarotta morale in seno alla stessa Sinistra comunista che analizzeremo in altri rapporti. In breve, l'incapacità dell'avanguardia rivoluzionaria di cogliere la realtà della regressione al tempo stesso morale ed intellettuale che sta imperversando nel mondo, e di lottare contro.
In realtà, la situazione sembra molto grave. Pertanto ha ancora un senso parlare di un corso storico verso gli scontri di classe? Oggi, la classe operaia è anche lontana dal 1968 quanto il 1968 lo era dagli inizi della controrivoluzione e, di più, la sua perdita di identità di classe significa che la capacità a riappropriarsi delle lezioni delle lotte che si sono avute durante i decenni precedenti è diminuita. Allo stesso tempo, i pericoli inerenti al processo di decomposizione - di uno sfinimento graduale della capacità del proletariato a resistere alla barbarie del capitalismo - non restano statici ma tendono ad amplificarsi man mano che il sistema sociale capitalista affonda più profondamente nel declino.
Il corso storico non è mai per sempre stabilito e la possibilità di scontri di classe massicci nei paesi-chiave del capitalismo non è una tappa prestabilita nel viaggio verso il futuro.
Tuttavia, continuiamo a pensare che il proletariato non abbia detto la sua ultima parola, anche quando quelli che prendono la parola non hanno talmente consapevolezza di parlare per il proletariato.
Nella nostra analisi dei movimenti di classe del 1968-89, avevamo notato l'esistenza di alcuni momenti alti che fornivano un'ispirazione per le lotte future ed uno strumento per misurare il loro progresso. Così l'importanza del 1968 in Francia che solleva la questione di una nuova società; delle lotte in Polonia nel 1980 che riaffermavano i metodi dello sciopero di massa; dell'estensione e dell'autorganizzazione delle lotte, ecc. In grande misura, queste sono domande restate senza risposta. Ma possiamo dire che le lotte dell'ultimo decennio hanno conosciuto anche dei punti alti, innanzitutto perché hanno cominciato a porre la questione-chiave della politicizzazione identificata da noi come una debolezza centrale delle lotte del ciclo precedente. In più, ciò che c'è di più importante in questi movimenti - come quello degli studenti in Francia nel 2006 o la rivolta degli Indignados in Spagna - è di avere posto molte domande mostrando che, per il proletariato, la politica non è "sapere se bisogna tenersi o cacciare i membri del governo", ma il cambiamento dei rapporti sociali, che la politica del proletariato porta alla creazione di una nuova morale opposta alla visione del mondo del capitalismo dove l'uomo è un lupo per l'uomo.
Nella loro "indignazione" contro lo scempio di potenziale umano ed il carattere distruttore del sistema attuale, nei loro sforzi per guadagnare i settori più alienati della classe operaia (l’appello degli studenti francesi ai giovani delle periferie), attraverso il ruolo di avanguardia giocato dalle ragazze, per il loro atteggiamento verso la questione della violenza e la provocazione poliziesca, nel desiderio per il dibattito appassionato nelle assemblee e l'internazionalismo nascente in tanti slogan del movimento[11], questi movimenti hanno portato un colpo all'avanzamento della decomposizione e hanno affermato che cedere passivamente non era la sola possibilità, che era sempre possibile rispondere al no-future della borghesia con i suoi attacchi incessanti contro la prospettiva del proletariato per la riflessione ed il dibattito sulla possibilità di un altro tipo di rapporti sociali. E, nella misura in cui questi movimenti erano costretti ad elevarsi da soli ad un livello generale, di porre delle domande su tutti gli aspetti della società capitalista - economici, politici, artistici, scientifici ed ambientalisti - ci hanno dato un'idea del modo con cui un nuovo "grande movimento culturale" potrebbe riapparire nei fuochi della rivolta contro il sistema capitalista.
Certamente ci sono stati dei momenti in cui abbiamo avuto una tendenza ad essere coinvolti dall'entusiasmo di questi movimenti ed a perdere di vista le loro debolezze, rafforzando le nostre tendenze all'attivismo ed a forme di intervento che non erano guidate da un chiaro punto di partenza teorico. Ma non abbiamo avuto torto, nel 2006 per esempio, a vedere elementi dello sciopero di massa nel movimento contro il CPE. Sicuramente abbiamo visto quest’ultimo in modo immediatista piuttosto che in una prospettiva a lungo termine, ma non c'era da mettere in questione il fatto che queste rivolte stavano riaffermando la natura di base della lotta di classe in decadenza: lotte che non sono organizzate prima dagli organi permanenti ma che tendono ad estendersi a tutta la società, che pongono il problema di nuove forme di autorganizzazione, che tendono ad integrare la dimensione politica con la dimensione economica.
Evidentemente la grande debolezza di queste lotte fu che, per la gran parte di esse, non si consideravano come proletarie, come espressioni della guerra di classe. E se questa debolezza non viene superata, i punti forti di tali movimenti tenderanno a diventare punti deboli: le preoccupazioni morali declineranno in una forma vaga di umanesimo piccolo-borghese che cade facilmente nelle politiche democratiche e "cittadine", e cioè apertamente borghesi; le assemblee diventeranno semplici parlamenti di strada dove i dibattiti aperti sulle questioni fondamentali sono sostituiti dalle manipolazioni delle élite politiche e di rivendicazioni che limitano il movimento all'orizzonte della politica borghese. E questo evidentemente è stato il destino delle rivolte sociali del 2011-2013.
È necessario collegare la rivolta di strada alla resistenza dei lavoratori attivi, ai diversi prodotti del movimento della classe operaia, e di comprendere che questa sintesi può basarsi solamente su una prospettiva proletaria per l'avvenire della società che, a sua volta, implica che l'unificazione del proletariato deve includere la restaurazione del legame tra la classe operaia e le organizzazioni dei rivoluzionari. Tale è la domanda senza risposta, la prospettiva insoddisfatta, posta non solo dalle lotte degli ultimi anni ma anche da tutte le espressioni della lotta di classe dal 1968.
Contro il buonsenso comune dell'empirismo che riesce a vedere il proletariato solo quando quest’ultimo appare in superficie, i marxisti riconoscono che il proletariato è come Albion, il gigante addormentato di Blake il cui risveglio metterà sottosopra il mondo. Sulla base della teoria della maturazione sotterranea della coscienza, che la CCI è, più o meno, la sola a difendere, riconosciamo che il vasto potenziale della classe operaia resta per la sua maggior parte nascosto ed anche i rivoluzionari più lucidi possono dimenticare facilmente che questa "facoltà che sonnecchia" può avere un impatto enorme sulla realtà sociale anche quando, apparentemente, si è ritirata della scena. Marx fu capace di vedere nella classe operaia la nuovo forza rivoluzionaria nella società sulla base di quelle che potevano sembrare prove molto deboli, come alcune lotte dei tessitori in Francia che non avevano ancora completamente superato lo stadio artigianale dello sviluppo. E malgrado le immense difficoltà alle quali è confrontato il proletariato, malgrado tutte le nostre sopravvalutazioni delle lotte e le nostre sottovalutazioni del nemico, la CCI vede ancora abbastanza elementi nei movimenti di classe durante questi ultimi 40 anni per concludere che la classe operaia non ha perso la sua capacità di offrire all'umanità, una nuova società, una nuova cultura ed una nuova morale.
Questo Rapporto è già molto più lungo del previsto e si è limitato spesso a porre delle domande piuttosto che a rispondere. Ma non cerchiamo delle risposte immediate; il nostro scopo è di sviluppare una cultura teorica dove ogni domanda è esaminata con profondità, collegandola al prezioso patrimonio intellettuale della CCI, alla storia del movimento operaio ed ai classici del marxismo come guide indispensabili nell'esplorazione di nuovi problemi sollevati dalla fase finale del declino del capitalismo. Una domanda-chiave implicitamente sollevata in questo Rapporto - nella sua riflessione sull'identità di classe o sul corso storico - è la nozione stessa di classe sociale ed il concetto di proletariato come classe rivoluzionaria di questa epoca. La CCI ha dato importanti contributi in questo campo, in particolare "Il proletariato è sempre la classe rivoluzionaria" nella Revue n°73 e 74 e "Perché il proletariato non ha rovesciato ancora il capitalismo" nella Revue n°103 e 104, due articoli che cercano di rispondere ai dubbi in seno al movimento politico proletario sulla stessa possibilità della rivoluzione. È necessario ritornare a questi articoli ma, anche, ai testi ed alle tradizioni marxiste su cui si basano, pure saggiando contemporaneamente i nostri argomenti alla luce dell'evoluzione reale del capitalismo e della lotta di classe negli ultimi decenni. È chiaro che un tale progetto non può essere intrapreso che a lungo termine. Ne va parimenti per altri aspetti del Rapporto che abbiamo potuto solamente sfiorare, come la dimensione morale della coscienza di classe ed il suo ruolo essenziale nella capacità della classe operaia a superare il nichilismo e la mancanza di prospettiva inerente al capitalismo nella sua fase di decomposizione, o la necessità di una critica molto dettagliata delle differenti forme di opportunismo che hanno colpito sia l'analisi della lotta di classe da parte della CCI e del suo intervento, in particolare le concessioni al consiliarismo, all'operaismo ed all'economicismo.
Può essere che una delle debolezze che appare chiaramente nel Rapporto sia la nostra tendenza a sottovalutare le capacità della classe dominante a mantenere il suo sistema in declino, sia sul piano economico (elemento che deve essere sviluppato nel Rapporto sulla crisi economica), sia sul piano politico attraverso la sua capacità ad anticipare ed a deviare lo sviluppo della coscienza nella classe attraverso tutta una panoplia di manovre e di stratagemmi. Il corollario di questa debolezza da parte nostra è che siamo stati troppo ottimisti sulla capacità della classe operaia a bloccare gli attacchi della borghesia e ad avanzare verso una chiara comprensione della sua missione storica, una difficoltà che è anche riflessa spesso nello sviluppo estremamente lento e tortuoso dell'avanguardia rivoluzionaria. È una caratteristica dei rivoluzionari essere impazienti nel vedere la rivoluzione: Marx ed Engels consideravano che le rivoluzioni borghesi della loro epoca "avrebbero potuto essere trasformate" velocemente in rivoluzione proletaria; i rivoluzionari che hanno costituito l'IC erano fiduciosi che i giorni del capitalismo erano contati; anche il nostro compagno MC sperava che avrebbe vissuto abbastanza per vedere l'inizio della rivoluzione. Per i cinici ed i venditori ambulanti del buon vecchio senso comune, ciò sarebbe dovuto al fatto che la rivoluzione e la società senza classe sono nella migliore delle ipotesi illusioni ed utopie, che si possono anche aspettare il giorno dopo o fra cent’anni. D’altro canto, per i rivoluzionari questa impazienza di vedere l'alba della nuova società è il prodotto della loro passione per il comunismo, una passione che non "si basa per niente su delle idee, dei principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo" ma che è semplicemente "l'espressione generale delle condizioni reali di una lotta di classe esistente, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi" (Il Manifesto comunista). Evidentemente la passione deve anche essere guidata e talvolta temperata dalla più rigorosa delle analisi, dalla capacità più seria nel testare, verificare ed autocriticare; ed è questo, in primo luogo, che cerchiamo di fare per il 21° Congresso della CCI. Ma, per citare ancora una volta Marx, una tale autocritica "non è una passione della testa ma la testa della passione".
[1] Per una presentazione del militante MC vedere l'articolo "Che bilancio e quali prospettive per la nostra attività"? Nel presente numero della Revue Internationale.
[2] "La stessa esistenza di un corso allo 'scontro di classi' significa che la borghesia non ha le mani libere per scatenare una nuova carneficina mondiale; prima, dovrà affrontare e sconfiggere la classe operaia. Ma ciò non pregiudica la sorte di questo scontro, né in un senso, né nell'altro. È per tale motivo che è preferibile utilizzare questo termine piuttosto che quello di 'corso alla rivoluzione'”. (Risoluzione sulla situazione internazionale; pubblicata nella Revue Internationale n°35)
[3] Per ulteriori informazioni su questa tendenza, leggere il nostro articolo della Revue Internationale n° 109 "La questione del funzionamento dell'organizzazione nella CCI" (https://fr.internationalism.org/rinte109/fonctionnement.htm [36])
[4] "Il corso storico", nella Revue Internationale n°18.
[5] Cf. "L'organizzazione del proletariato all'infuori dei periodi di lotte aperte (gruppi, nuclei, circoli, ecc.") nella Revue Internationale n°21.
[6] Cf. "La lotta del proletariato nella decadenza del capitalismo" nella Revue Internationale n°23.
[7] Cf. "Rapporto sulla funzione dell'organizzazione rivoluzionaria" nella Revue Internationale n°29.
[8] Per maggiori informazioni su questa scissione vedere il nostro articolo della Revue internationale n°109, "La questione del funzionamento dell'organizzazione nella CCI" da cui è estratto il seguente passo: "All'epoca della crisi del 1981, si era sviluppata (col contributo dell'elemento torbido Chénier, ma non solo), una visione che considerava che ogni sezione locale potesse (SI) (ai quali si rimproverava particolarmente la loro posizione sulla sinistra all'opposizione e di provocare una avere una sua specifica politica in materia di intervento, contestando violentemente il Bureau International(BI) ed il suo Segretariato degenerazione stalinista), e che, pur riconoscendo la necessità degli organi centrali, attribuiva loro un ruolo di semplice cassetta postale".
[9] Questa questione è ancora in discussione nella CCI.
[10] Un documento interno ancora in discussione nell'organizzazione.
[11] Possiamo parlare di una espressione aperta di solidarietà tra le lotte negli Stati Uniti ed in Europa e quelle del Medio Oriente, in particolare in Egitto o gli slogan del movimento in Israele che definiscono Netanyahou, Moubarak ed Assad come un unico nemico.
Invitiamo i nostri lettori a una discussione sul bilancio del nostro 21° Congresso Internazionale, sulla base del nostro articolo A 40 anni dalla fondazione della CCI, quale bilancio e quali prospettive per la nostra attività? [39]
La riunione si terrà a Napoli, venerdì 26 febbraio 2016, alle ore 17.00, presso La Citta del Sole in vico G. Maffei 4, Napoli
Invitiamo i nostri lettori a una discussione sul bilancio del nostro 21° Congresso Internazionale, sulla base del nostro articolo A 40 anni dalla fondazione della CCI, quale bilancio e quali prospettive per la nostra attività? [39]
La riunione si terrà a Napoli, venerdì 26 febbraio 2016, alle ore 17.00, presso La Citta del Sole in vico G. Maffei 4, Napoli
Il primo articolo, Islamismo: un sintomo della decomposizione del capitalismo [41] ha evidenziato il ritorno in forza dell'Islam in quanto ideologia capace di mobilitare le masse. Abbiamo visto come l'Islam è stato adattato ai bisogni del capitalismo in decomposizione nei paesi sottosviluppati, prendendo la forma di un sedicente 'Islam politico', il fondamentalismo, che ha poche cose in comune con la fede di Maometto, il suo fondatore, ma che si presenta come il difensore di tutti gli oppressi. Abbiamo mostrato anche che, contrariamente a Marx che pensava che la nebbia religiosa sarebbe stata dispersa velocemente dallo stesso capitalismo, i suoi continuatori hanno riconosciuto che il capitalismo, nella sua fase di decadenza, ha determinato una rinascita della religione, espressione evidente di una totale bancarotta della società borghese. Nei paesi sottosviluppati questa ha preso la forma particolare di una recrudescenza di movimenti 'fondamentalisti'. Nei paesi evoluti, la situazione è più complessa: la rigorosa osservanza dei riti delle religioni stabilite è più o meno in declino da cinquanta anni, mentre altri culti religiosi alternativi, come la 'New Age', si sviluppano.
Nello stesso momento in cui certi settori della popolazione si allontanano dalla religione e dalla fede in Dio, altrove si vedono risorgere credenze 'fondamentaliste'.
Queste tendenze si osservano particolarmente negli ambienti tradizionali religiosi e riguardano tutte le grandi religioni, salvo forse il Buddismo. Le popolazioni immigrate provenienti dal Terzo Mondo tendono ad aggrapparsi alla loro religione, non solo per 'consolarsi' ma anche perché quest’ultima costituisce un simbolo della loro eredità culturale persa, un mezzo per mantenere la loro identità culturale in un ambiente crudele ed ostile.
Queste tendenze non sono uniformi in tutti i paesi evoluti, nonostante la loro evidente evoluzione comune verso il laicismo. Così, secondo un articolo de Le Monde diplomatique (Dominique Vidal, "Una società secolare", novembre 2001), "solamente il 5% degli americani dice di non avere una religione" e a dispetto dei progressi secolari della società, sarebbe impensabile che un presidente degli Stati Uniti non intonasse il God bless America (Dio benedica l’America) ogni volta che si rivolge alla nazione. Tuttavia, mentre in Francia, dove la separazione tra Chiesa e Stato ha rappresentato la ragion d'essere della borghesia dal 1789 e che "la metà della popolazione non frequenta più la chiesa, il tempio o la moschea", si sviluppa un'ondata crescente di 'fondamentalismo' tra gli immigrati dell'Africa del nord. Così dunque, malgrado una disaffezione verso le principali religioni, la pratica religiosa perdura. La fine del periodo ascendente del capitalismo, la sua entrata nel suo periodo di decadenza, ed ora nella sua fase terminale di decomposizione generalizzata, non hanno solo prolungato la vita dell'irrazionalità religiosa ma anche fatto nascere molteplici varianti, che riteniamo essere ancora più pericolose per l'umanità.
Questo articolo costituisce un primo tentativo di esaminare da un punto di vista marxista, nelle condizioni attuali, il problema della lotta contro l'ideologia religiosa in seno al proletariato. Vedremo come, su questo argomento, molti insegnamenti possono essere tratti dalla storia del movimento operaio.
Come dimostrato nella prima parte, Marx vedeva la religione come una pericolosa mistificazione che permette di fuggire dalla realtà ("l'oppio del popolo"), ma anche come "il sospiro della creatura oppressa"; in altri termini un grido soffocato contro l'oppressione. Lenin aggiungeva a ciò il seguente consiglio ai comunisti: avanzare prudentemente nella propaganda anti-religiosa, senza per questo nascondere il suo materialismo ateo. In generale l’atteggiamento di Lenin su questa delicata questione rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per il pensiero comunista e la pratica rivoluzionaria. E non solo perché ne ha tracciato il quadro con citazioni di Marx ed Engels (e ciò significherebbe abbassare la scienza marxista a livello di una religione), ma anche perché questo quadro tratta tutti i principali problemi in modo razionale e scientifico. È utile esaminare innanzitutto le riflessioni di Lenin su questa questione prima di ritornare sulla situazione attuale per capire dunque quale deve essere l'atteggiamento dei marxisti.
È interessante segnalare che il primo commento di Lenin sulla religione che sia stato tradotto, è una difesa appassionata della libertà religiosa. Si tratta di un testo scritto nel 1903, indirizzato ai contadini poveri di Russia, nel quale dichiara che i marxisti "esigono che ciascuno abbia il pieno diritto di professare la religione che si desidera". Lenin denunciava come particolarmente 'vergognose' le leggi in vigore in Russia e nell'impero ottomano ("le scandalose persecuzioni poliziesche contro la religione") così come le discriminazioni in favore di certe religioni (rispettivamente la Chiesa ortodossa e l'Islam). Per lui tutte queste leggi sono così ingiuste, arbitrarie e scandalose, e ciascuno deve essere perfettamente libero non solo di professare la religione che desidera, ma anche di diffonderla o cambiarla.
Le idee di Lenin su numerosi aspetti della politica rivoluzionaria nel tempo cambiarono, ma non su questo argomento. È questo che dimostra la sua prima dichiarazione importante "Socialismo e religione" - un testo del 1905 – che, in fondo, non si discosta di molto dai suoi ultimi scritti su tale argomento.
"Socialismo e religione" rappresenta l’indispensabile cornice entro cui si muovono i bolscevichi verso la religione. Quest’articolo riassume, in uno stile accessibile, le conclusioni già raggiunte da Marx ed Engels sull'argomento: la religione, dice Lenin, è "una sorte di alcol spirituale che incoraggia gli operai a subire il loro sfruttamento nella speranza di essere ricompensati nella vita eterna. Ma a coloro che vivono del lavoro degli altri, la religione insegna a praticare quaggiù la carità, ciò che a buon conto permette di giustificare tutta la loro esistenza in quanto sfruttatori e di poter acquistare un biglietto a tariffa ridotta per la beatitudine nell'aldilà".
Lenin prediceva con fiducia che il proletariato avrebbe fuso la sua lotta con la scienza moderna, in rottura con "la nebbia della religione" e "oggi stesso starebbe combattendo per una migliore vita terrestre".
Per Lenin, nel quadro della dittatura del proletariato, la religione era un fatto privato. Affermava che i comunisti volevano uno Stato assolutamente indipendente da ogni affiliazione religiosa e non contribuente con alcun aiuto materiale alle spese delle organizzazioni religiose. Allo stesso tempo, ogni discriminazione verso le religioni doveva essere bandita, ed ogni cittadino doveva "essere libero di professare qualsiasi religione" o magari "alcuna religione".
Di contro, per il partito marxista, la religione non fu considerata mai come un fatto privato: "Il nostro partito è un'associazione di elementi animati di una coscienza di classe, all'avanguardia del combattimento per l'emancipazione del proletariato. Una tale associazione non può e non deve essere indifferente al vero significato delle credenze religiose: ignoranza, oscurantismo e perdita di coscienza di classe. Esigiamo la completa separazione della Chiesa e dello Stato, per essere capaci di combattere la nebbia religiosa con armi puramente e semplicemente ideologiche, per mezzo della nostra stampa e dei nostri interventi. Ma per noi, il combattimento ideologico non è un fatto privato, è un fatto di tutto il partito, il fatto di tutto il proletariato".
E Lenin aggiungeva che non si potrebbe giungere ad una fine della religione unicamente attraverso una propaganda vuota ed astratta: "Bisognerebbe essere un borghese dalla mente ristretta per dimenticare che il giogo della religione... è solamente il prodotto ed il riflesso del giogo economico che pesa sulla società. Tutti gli opuscoli e tutti i discorsi non potranno illuminare il proletariato se non è, lui stesso, illuminato dalla sua lotta contro le forze oscure del capitalismo. L'unità, in questo combattimento realmente rivoluzionario della classe oppressa per la creazione di un paradiso sulla terra, è più importante per noi dell'unità dell'opinione dei proletari su un paradiso nei cieli".
I comunisti, scriveva Lenin, si oppongono in modo intransigente ad ogni tentativo di attizzare "le differenze secondarie" su questioni religiose, ciò che potrebbe essere utilizzato dai reazionari per dividere il proletariato. Dopo tutto, la vera fonte del "ciarlatanismo religioso" è la schiavitù economica.
Gli stessi temi furono sviluppati nel 1909, in un testo intitolato "Sull'atteggiamento del partito operaio al riguardo della religione": "La base filosofica del marxismo, così come l'hanno più volte proclamata Marx ed Engels, è il materialismo dialettico..., materialismo indiscutibilmente ateo, risolutamente ostile ad ogni religione...” “La religione è l'oppio del popolo” (Karl Marx, Contributo alla critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione). Questa sentenza di Marx costituisce la pietra angolare di tutta la concezione marxista in materia di religione. Il marxismo considera sempre le religioni e le chiese, le organizzazioni religiose di ogni tipo esistenti attualmente, come organi della reazione borghese che servono a difendere lo sfruttamento ed ad intossicare la classe operaia.
Nello stesso tempo, Engels non mancò di condannare i tentativi di coloro che, desiderosi di mostrarsi più 'a sinistra' o 'più rivoluzionari' della socialdemocrazia, volevano introdurre nel programma del partito operaio una proclamazione esplicita di ateismo, ciò che significava una dichiarazione di guerra alla religione. Lenin si appoggia sulla condanna di Engels della guerra alla religione condotta dai blanquisti per considerarla il migliore mezzo per ravvivare l'interesse per la religione e rendere più difficile il suo effettivo deperimento: "Engels imputa ai blanquisti di non comprendere che solo la lotta di classe delle masse operaie, portando i più larghi strati del proletariato a praticare a fondo l'azione sociale, cosciente e rivoluzionaria, può liberare nei fatti le masse oppresse dal giogo della religione, e che proclamare la guerra alla religione come compito politica del partito operaio, è solamente fraseologia anarchicheggiante" (id.).
Lo stesso avvertimento è stato lanciato da Engels nell'anti-Dühring, in relazione alla guerra che Bismarck faceva alla religione: "Attraverso questa lotta, Bismarck non ha fatto che riaffermare il clericalismo militante dei cattolici; ha nuociuto alla causa della vera cultura; mettendo in primo piano le divisioni religiose, al posto delle divisioni politiche, ha deviato l'attenzione di certi strati della classe operaia e della democrazia, dai compiti essenziali che comportano la lotta di classe rivoluzionaria, verso l'anticlericalismo il più superficiale e borghesemente menzognero. Accusando Dühring, che voleva mostrarsi ultrarivoluzionario, di volere riprendere sotto un'altra forma quella stessa stupidità di Bismarck, Engels esigeva che il partito operaio lavorasse pazientemente all'opera di organizzazione e di educazione del proletariato, che porta al deperimento della religione, e non di gettarsi nelle avventure di una guerra politica contro la religione (..) Engels (..) ha sottolineato di proposito (..) che la socialdemocrazia considera la religione come un affare privato di fronte allo Stato, ma non verso se stessa, non verso il marxismo, non verso il partito operaio".(id.)
Questo atteggiamento flessibile verso la religione, ma fondato su dei principi, che era quello di Marx, Engels e Lenin, è stato attaccato dai "parolai anarchici" (espressione di Lenin) che non sono riusciti ad afferrare quello che l'approccio marxista di questa questione aveva di logico e di coerente.
Come spiega Lenin: "Sarebbe un grossolano errore pensare che l'apparente 'moderazione' del marxismo verso la religione sia dovuta a pretese considerazioni 'tattiche', il desiderio di non 'urtare', ecc. Al contrario, la linea politica del marxismo, anche per questa questione, è legata indissolubilmente ai suoi principi filosofici.
Il marxismo è un materialismo (...) Noi dobbiamo combattere la religione, è l'ABC di tutto il materialismo e, partendo dal marxismo. Ma il marxismo non è un materialismo che si sarebbe fermato all'ABC. Il marxismo va più lontano, dice: bisogna sapere lottare contro la religione e, per farlo, dobbiamo spiegare la fonte della fede e della religione delle masse in un modo materialista. Non si deve confinare la lotta contro la religione in una predicazione ideologica astratta, non la si deve minimizzare; bisogna legare questa lotta alla pratica concreta del movimento di classe che mira a fare sparire le radici sociali della religione". (id.)
Secondo "il borghese progressista, il radicale ed il borghese ateo", continua Lenin, la religione mantiene il suo ascendente "sul popolo a causa della sua ignoranza". "I marxisti dicono: ciò è falso. È un punto di vista superficiale, il punto di vista di un borghese dalla mente ristretta che vuole elevare le masse. Non spiega le radici della religione in modo sufficientemente profonda, le spiega in un modo idealistico e non materialista. Nei paesi capitalisti moderni, queste radici sono soprattutto sociali. Oggi, la religione è radicata profondamente alle condizioni sociali di oppressione delle masse lavoratrici e alla completa impotenza a cui esse sono manifestamente ridotte di fronte alle forze cieche del capitalismo, che infliggono ad ogni ora di ogni giorno agli operai le più orribili sofferenze e i tormenti più brutali, mille volte più rigorosi di quelli inflitti dagli avvenimenti straordinari come le guerre, i terremoti, ecc.".
"La paura ha creato gli dei". La paura davanti alle forze cieche del capitale - cieche perché non possono essere previste dalle masse popolari - che minacciano ad ogni tappa della loro vita il proletario ed il piccolo padrone e portano loro la rovina 'improvvisa', 'inattesa' e 'accidentale' che causa la loro fine, che ne fanno un mendicante, un declassato, una prostituta e li riducono a morire di fame. Tali sono le radici della religione moderna, e questo deve avere in mente, prima di ogni cosa, il marxista, se non vuole rimanere un materialista primitivo. Nessun libro divulgatore potrà estirpare la religione dalla mente delle masse inebetite dall'inferno capitalista, e che sono alla mercé delle forze cieche e distruttrici del capitalismo, finché queste masse non apprenderanno da sole a combattere queste radici della religione, a combattere il regno del capitale sotto tutte le sue forme, in un modo unitario, organizzato, sistematico e cosciente.
Ciò significherebbe che il libro divulgativo contro la religione sarebbe nocivo o inutile? No. La conclusione che si impone è tutt'altra. Ciò significa che la propaganda atea della socialdemocrazia deve essere subordinata al suo compito fondamentale: lo sviluppo della lotta di classe delle masse sfruttate contro i loro sfruttatori". (id.)
Lenin insisteva sul fatto che ciò poteva essere compreso solamente in modo dialettico. Altrimenti, in certe circostanze, la propaganda atea può essere nociva. Cita l'esempio di uno sciopero condotto da un'associazione operaia cristiana. In questo caso, i marxisti devono "porre al di sopra di tutto il successo del movimento di sciopero", opporsi ad ogni divisione tra gli operai "tra atei e cristiani", saranno, infatti, i progressi della lotta di classe a "convertire gli operai cristiani alla socialdemocrazia ed all'ateismo, cento volte più efficaci di un semplice sermone per l'ateismo".
"Il marxista deve essere un materialista, nemico della religione, ma un materialista dialettico, deve cioè considerare la lotta contro la religione non in modo speculativo, non sul campo astratto e puramente teorico di una propaganda sempre identica a se stessa, ma in modo concreto, sul terreno della lotta di classe realmente in corso, che educa le masse più di tutto e meglio di tutto.
Il marxista deve sapere considerare l'insieme della situazione concreta, deve sempre trovare il punto di equilibrio tra l'anarchismo e l'opportunismo (questo equilibrio è relativo, leggero, variabile, ma esiste), non cadere né nel 'rivoluzionarismo' astratto, verbale e praticamente vuoto dell'anarchico, né nel filisteismo e l'opportunismo del piccolo borghese o dell'intellettuale liberale, che teme la lotta contro la religione, dimentica la missione che gli compete in questo campo, si adatta alla legge di Dio, e si ispira non agli interessi della lotta di classe ma ad un meschino e miserabile piccolo calcolo: non urtare nessuno, non ferire nessuno, non impaurire nessuno, alla massima: 'vivere e lasciare vivere', ecc". (id.)
Lenin ha sempre allertato sui pericoli dell'impazienza piccolo-borghese nella lotta contro i danni determinati dalla religione. E così in un discorso davanti al primo congresso panrusso delle operaie, nel novembre 1918, notò i successi stupefacenti ottenuti dalla giovane Repubblica dei soviet nelle zone più urbanizzate, nella sua capacità di fare arretrare l'oppressione delle donne. Ma avvertì: "Per la prima volta nella storia, le nostre leggi hanno soppresso tutto ciò che privava le donne dei loro diritti. Ma la cosa importante non è la legge. Nelle grandi città e nelle zone industriali, questa legge sulla completa libertà del matrimonio si applica senza problemi, ma nelle campagne è rimasta lettera morta. Là, è il matrimonio religioso che predomina ancora. E questo è dovuto all'influenza del clero, una piaga che è più difficile da combattere della vecchia legislazione.
Dobbiamo essere estremamente prudenti nella nostra lotta contro la nocività della religione; alcuni hanno causato molti danni offendendo i sentimenti religiosi. Dobbiamo servirci della propaganda e dell'educazione. Con attacchi frontali, troppo brutali, non faremo che svegliare il risentimento del popolo, e tali metodi di lotta tendono a perpetuare le divisioni in seno al popolo secondo criteri religiosi, mentre la nostra forza risiede nella sua unità. La povertà e l'ignoranza sono le fonti più profonde delle nocività della religione, ed è questo il male che dobbiamo combattere".
Nel suo progetto di programma del Partito comunista di Russia stabilito l'anno successivo, Lenin reiterò la rivendicazione della completa separazione tra Chiesa e Stato e rinnovò i suoi avvertimenti di non "urtare i sentimenti religiosi dei credenti, perché ciò può servire solamente ad aumentare il fanatismo".
Due anni dopo, all'epoca di una riunione dei delegati non bolscevichi al 9° congresso panrusso dei soviet, quando Kalinin (a cui più tardi Stalin diede il controllo dell'educazione) rese noto che Lenin potrebbe dare l'ordine di "bruciare tutti i libri di preghiere", Lenin si affrettò a chiarire con una certa insistenza che lui "mai aveva suggerito una tale cosa e non avrebbe potuto mai farla. Voi sapete che, secondo la nostra Costituzione, la legge fondamentale della Repubblica, la libertà di coscienza, per ciò che riguarda la religione, è pienamente garantita a ciascuno".
Qualche tempo prima, nel 1921, Lenin aveva scritto a Molotov (un altro dei futuri pilastri dell'apparato di Stalin), per criticare le parole d'ordine come "denunciare le menzogne della religione" che comparvero in una circolare riguardante il 1° maggio. "È un errore, una mancanza di tatto" scrisse Lenin, sottolineando ancora una volta la necessità "di evitare assolutamente di attaccare la religione frontalmente". In effetti, Lenin aveva tale consapevolezza dell'importanza di questa questione che chiese una circolare addizionale a correzione della precedente. E se la Segreteria non fosse stata d'accordo, allora avrebbe proposto di portare l'argomento davanti al Politburo. Di conseguenza, il Comitato centrale fece pubblicare una lettera nella Pravda del 2l aprile 1921, esigendo che nelle celebrazioni del 1° maggio "niente sarebbe fatto o detto che potesse offendere i sentimenti religiosi delle masse popolari".
Il punto di vista di Lenin sui rapporti tra socialismo e religione sono definiti con chiarezza. Ora, possiamo brevemente esporre come Marx, Engels e Lenin vedono la lotta contro l'oscurantismo religioso. In primo luogo, la religione è vista come una forma di oppressione in una società divisa in classi, un mezzo per ingannare le masse e far loro accettare questa oppressione. Esiste e si sviluppa nelle condizioni materiali specifiche che Lenin definiva "la schiavitù economica". L'entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza significa, più che mai, che il proletariato e gli altri strati oppressi soffrono "la paura delle forze cieche del capitale", le catastrofi economiche del capitalismo che trascina le masse lavoratrici nell'abisso senza fondo "della mendicità, della prostituzione e della carestia".
Le religioni prendono forme estremamente varie. Ma ogni religione, pur deviando indiscutibilmente l'essere umano dalla sua vera liberazione, funziona precisamente da diversivo per il conforto che dispensa a ciascuno contro l'avversità. Sembra offrire la speranza di una vita migliore, che sia dopo la morte o attraverso qualche trasformazione soprannaturale del mondo materiale. Ed attraverso questa speranza di liberazione, 'la salvezza dell'anima' nell'aldilà o nella futura Apocalisse, può svilupparsi l'illusione che la sofferenza patita quaggiù non è vana, poiché questa sarà ricompensata generosamente in Paradiso, se il credente si sottopone alle leggi di Dio. In questo mondo freddo, disumano e senza pietà, conseguenza della crisi permanente ed approfondita della decadenza capitalista, la religione fornisce quindi agli oppressi un apparente calo di tensione parziale della loro schiavitù. Infatti, la religione afferma che ogni persona è veramente preziosa agli occhi del suo divino creatore.
Per gli anarchici, "i borghesi dalla mente ristretta che vogliono elevare le masse" ed i radicali impazienti, generati dalle classi medie, l'ascendente della religione sulle masse è dovuto alla loro ignoranza. I marxisti, al contrario, sanno che la religione affonda le sue radici nel profondo del capitalismo moderno, e prima ancora fino alle origini della società di classe e persino alle stesse origini dell'umanità. È per tale motivo che non è possibile arrivare alla sua fine basandosi semplicemente, e neanche principalmente, sulla propaganda. I comunisti sicuramente devono fare propaganda anti-religiosa, ma questa deve essere sempre subordinata alla ricerca dell'unità effettiva del proletariato nella lotta di classe. Il discorso anti-religioso "deve essere collegato alla pratica concreta del movimento della classe il cui scopo è eliminare le radici sociali della religione". E questa è la sola strategia materialista per estirpare tali radici. Tutti i tentativi per risolvere il problema attraverso una dichiarazione di guerra politica alla religione, attaccandola frontalmente senza precauzioni, o sostenendo misure il cui scopo è restringere l'osservanza delle pratiche religiose, ignorano le radici ben reali e materiali della religione. Da un punto di vista proletario, una tale condotta è irragionevole, perché inasprisce le divisioni in seno al proletariato e spinge gli operai nelle braccia dei fanatici religiosi.
Se i comunisti si oppongono alla religione, ciò non significa che essi danno sostegno alle misure prese dallo Stato contro le credenze o le pratiche religiose, o contro gruppi religiosi particolari.
Sul piano ideologico e politico, i comunisti si oppongono alla religione: non dovrebbe esserci una questione religiosa considerata come un fatto privato nelle stesse righe di un'organizzazione rivoluzionaria, essendo questa costituita da militanti animati da una coscienza di classe e che hanno già rotto con ogni forma di religione. Nella loro lotta contro i danni inflitti dalla religione tra le masse, i comunisti non devono essere solamente materialisti, in quanto basano la loro convinzione e la loro azione sul fatto fondamentale che sono gli esseri umani a fare la loro storia e che dunque possono liberare se stessi attraverso la loro attività cosciente. Essi devono essere dei materialisti dialettici, e cioè agire considerando la situazione nel suo insieme, in quanto coscienti di tutte le interazioni cruciali tra le differenti componenti politiche. Ciò implica che la propaganda anti-religiosa deve essere concretamente legata alla lotta di classe ben reale, al posto di condurre un combattimento astratto, puramente ideologico, contro la religione. È solamente attraverso la vittoria del movimento proletario che le radici sociali delle nocività religiose legate allo sfruttamento della classe operaia potranno essere estirpate.
La religione non può essere abolita per decreto e le masse operaie devono superarla basandosi sulla loro esperienza. I comunisti eviteranno dunque ogni misura (come la condanna delle pratiche religiose), che tendono infatti a ravvivare i sentimenti religiosi, ciò che sarebbe contrario allo scopo ricercato. Così lo Stato del periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, attuato dalla dittatura del proletariato, dovrà guardarsi da ogni discriminazione religiosa così come da ogni affiliazione o legame materiale con la religione.
Proprio per mostrare quali interessi di classe serve oggigiorno la religione, le organizzazioni rivoluzionarie devono integrare, nella loro propaganda, l'evoluzione del ruolo della religione nella società. Le credenze e le pratiche, che caratterizzavano le grandi religioni alla loro origine, si sono trasformate in una sorte di caricatura, per il fatto che le gerarchie religiose si sono adattate alla società di classi e che queste le ha assorbite. È questo che sentiva profondamente Rosa Luxemburg nel rivolgere un appello agli operai animati da sentimenti religiosi nel quale accusava le chiese: "Oggi siete voi, con le vostre menzogne ed i vostri insegnamenti ad essere dei pagani, invece siamo noi che annunciamo ai poveri ed agli sfruttati la buona novella della fratellanza e dell'uguaglianza. Siamo noi a marciare per conquistare il mondo, come l'aveva fatto prima colui che proclamava che era più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un uomo ricco entrare nel regno dei cieli" (Rosa Luxemburg, Il socialismo e le chiese, tradotto da noi).
Si vede chiaramente che l'eredità rivoluzionaria del passato, attualmente è ancora molto utile. Gli scritti militanti di Marx ed Engels datano l'epoca della piena ascesa del capitalismo, mentre Lenin è stato un pioniere rivoluzionario della praxis comunista all'alba della decadenza del capitalismo. Oggi la fase finale della decadenza capitalista ha raggiunto il suo parossismo: la decomposizione capitalista. Allora o il proletariato riscoprirà la sua eredità rivoluzionaria, o l'umanità nel suo insieme sarà condannata all'estinzione. Evidentemente, ciò significa che non basta ripetere i testi pertinenti tratti dai classici del marxismo, ma che è imperativo identificare ciò che il periodo attuale ha di nuovo, e gli insegnamenti che da questo nuovo devono trarre nella loro pratica il proletariato e le sue organizzazioni politiche.
In effetti, la prima questione da chiarire si è posta all'alba della decadenza, verso il 1914, ma all’epoca non fu identificata con chiarezza dai rivoluzionari. Si tratta della parola d'ordine ereditata dalla rivoluzione francese e ripresa dalla 1a e 2a Internazionale: la separazione tra Chiesa e Stato. Questa parola d'ordine, completamente appropriata e necessaria all'epoca in cui fu lanciata, era un'esigenza borghese e democratica del capitalismo nella sua fase ascendente che non è stata mai soddisfatta. Bisogna comprendere che solo il proletariato ed il suo partito possono soddisfarla realmente, considerando i numerosi legami che uniscono le religioni ed il capitalismo. Questa era già una verità universalmente riconosciuta nel diciannovesimo secolo, ed è ancora più evidente in questa epoca di capitalismo di Stato, specifico della decadenza capitalista. Rivendicare la separazione della Chiesa dallo Stato capitalista non significa niente e, di più, rappresenta un'illusione pericolosa verso la quale tendevano Lenin ed i Bolscevichi.
La seconda questione, menzionata nell'introduzione del presente articolo e nel precedente, è la seguente: il capitalismo, da quando è entrato nella sua fase di decomposizione, è più irrazionale e barbaro di quanto non lo sia mai stato prima (vedere: "La decomposizione, fase estrema della decadenza del capitalismo", Rivista Internazionale n°14). La decomposizione è la conseguenza di una situazione nella quale il capitalismo, allorché ha da molto tempo smesso di giocare un ruolo progressista ed utile all'umanità, si trova confrontato a un proletariato che è ancora pesantemente contrassegnato da lunghi decenni di controrivoluzione e che manca di fiducia in sé, sebbene sia l'unica forza capace di rovesciare questo sistema e di sostituirlo con un'altra società. Durante il periodo che va dal 1968 al 1989, la ripresa dell'attività della classe operaia ha indebolito seriamente certi effetti della controrivoluzione capitalista. Ma durante l'ultimo decennio, ed è questo periodo che caratterizziamo come corrispondente alla fase di decomposizione capitalista, la classe operaia ha subito numerosi attacchi contro la coscienza della sua identità di classe, in particolare attraverso le campagne orchestrate dalla borghesia su 'la morte del comunismo' e 'la fine della lotta di classe'. A questi effetti negativi sulla coscienza della classe operaia si sono aggiunti quegli insidiosi e sornioni risultanti dalla decomposizione sociale.
Nella sua ultima fase, perversa ed altamente irrazionale, niente potrà arrestare il capitalismo dal suo tentativo di ostacolare lo sviluppo della fiducia della classe operaia in se stessa, e della sua coscienza politica. Di più, le organizzazioni rivoluzionarie non sono immunizzate contro l'influenza dell'irrazionalità del capitalismo decadente. Già dopo il 1905, come conseguenza della sconfitta dell'assalto rivoluzionario e del trionfo della reazione di Stolypin, una parte dei Bolscevichi fu afferrata da una frenesia religiosa. Più recentemente, un gruppo bordighista che pubblica il giornale Il Partito Comunista, si è anche dedicato al misticismo (vedere: "Marxismo e misticismo", Revue Internationale n°94, ed il numero di maggio 1997 di Programme Communiste). Parimenti, la CCI è stata costretta, nel mezzo degli anni 90, a condurre una lotta al suo interno contro l'infatuazione di alcuni militanti per l'esoterismo e l'occultismo.
I pericoli accresciuti che la decomposizione del capitalismo rappresenta non devono essere sottovalutati. L'umanità nel suo insieme è, per natura, un animale sociale. La decomposizione è un tipo di acido sociale che erode i legami naturali di solidarietà che gli esseri umani che vivono in società tessono, spargendo al loro posto il sospetto e la paranoia. In altri termini, la decomposizione genera una tendenza spontanea nella società a raggruppamenti tribali e in bande. Tutti i tipi di 'fondamentalismi', le differenti varietà di culti, lo sviluppo di gruppi e di pratiche 'New Age', la recrudescenza di bande di giovani delinquenti, tutto questo rappresenta dei tentativi, destinati all'insuccesso, che mirano a colmare il vuoto della sparita solidarietà sociale, in un mondo sempre più duro ed ostile. Poiché non si basano sulla vitalità latente della sola classe rivoluzionaria della nostra epoca, ma su repliche individualistiche delle relazioni sociali fondate sullo sfruttamento, tutti questi tentativi sono, per loro stessa natura, condannati a produrre solamente più alienazione e sconforto e, in effetti, ad inasprire ancora oltre gli effetti della decomposizione.
Così dunque, la lotta contro un revival religioso, contro tutte le forme di irrazionalismo oggi fiorenti, è oggi ancora più inseparabile dalla necessità per la classe operaia di riannodarsi alla lotta per i suoi reali interessi. Solo questa lotta è in grado di bloccare gli effetti distruttori di un ordine sociale che va disgregandosi. Il proletariato, nella lotta per la difesa dei suoi interessi materiali, non ha altra scelta che creare le premesse di una vera comunità umana. La vera solidarietà che l'anima nella lotta è l'antidoto a questo falso sentimento di solidarietà che procura la cultura delle bande ed il fondamentalismo. Allo stesso modo, la lotta per svegliare la coscienza di classe del proletariato - e all'avanguardia di questa lotta si trovano le minoranze comuniste - è sempre più l'antidoto contro queste mitologie avvilenti e disumane, secretate da una società in putrefazione. E questa lotta indica la strada verso un avvenire dove l'essere umano diventerà infine pienamente cosciente di sé e del suo posto nella natura, e dove avrà lasciato lontano dietro di lui tutti gli dei.
Dawson
1. Per un bilancio della sua analisi della situazione internazionale nel corso degli ultimi 40 anni, la CCI può prendere esempio dal Manifesto comunista del 1848, prima dichiarazione aperta della corrente marxista nel movimento operaio. Le acquisizioni del Manifesto sono note: l'applicazione del metodo materialistico al processo storico, che mostra la natura transitoria di tutte le formazioni sociali che esistevano in precedenza; il riconoscimento del fatto che mentre il capitalismo gioca ancora un ruolo rivoluzionario nell’unificare il mercato mondiale e sviluppa le forze produttive, le sue contraddizioni intrinseche, che si esprimono in ripetute crisi di sovrapproduzione, indicano anche che esso rappresenta solo una tappa transitoria nella storia dell’umanità; l'identificazione della classe operaia come il becchino del modo di produzione borghese; la necessità per la classe operaia di sviluppare le sue lotte a livello della presa del potere politico, per costruire le fondamenta di una società comunista; il necessario ruolo di una minoranza comunista, come un prodotto e fattore attivo nella lotta di classe del proletariato.
2. Questi punti sono ancora una parte fondamentale del programma comunista di oggi. Ma Marx ed Engels, fedeli a un metodo che è allo stesso tempo storico ed autocritico, sono stati in grado poi di riconoscere che alcune parti del Manifesto erano state superate o smentite dall'esperienza storica. Così, in seguito agli eventi della Comune di Parigi nel 1871, conclusero che la presa del potere da parte della classe operaia avrebbe dovuto comportare la distruzione, non la conquista, dello Stato borghese. E molto tempo prima, nei dibattiti della Lega dei Comunisti, che seguirono la sconfitta delle rivoluzioni del 1848, si resero conto che il Manifesto si era sbagliato nel credere che il capitalismo fosse già entrato una crisi definitiva per cui si sarebbe potuta avere una rapida transizione dalla rivoluzione borghese a quella proletaria.
Contro la tendenza iper-attivista sviluppatasi intorno a Willich e Schapper, misero in evidenza la necessità per i rivoluzionari di sviluppare una riflessione più profonda sulle prospettive di un società capitalista ancora in ascesa. Tuttavia, pur riconoscendo questi errori, non misero in discussione il loro metodo, anzi lo utilizzarono per dare una base più solida alle acquisizioni programmatiche del movimento.
3. La passione del comunismo, l'ardente desiderio di vedere la fine di sfruttamento capitalista, hanno spesso condotto i comunisti a cadere in errori simili a quelli di Marx ed Engels nel 1848. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e l'immensa insurrezione rivoluzionaria avutasi negli anni 1917-1920, sono stati visti correttamente dai comunisti come prova definitiva che il capitalismo era entrato in una nuova epoca, quella del suo declino e quindi della rivoluzione proletaria. La rivoluzione mondiale era stata posta all’ordine del giorno dalla presa del potere da parte del proletariato russo nell’ottobre 1917. Ma l'avanguardia comunista del tempo aveva anche sottovaluto le enormi difficoltà a cui avrebbe dovuto far fronte il proletariato, la cui fiducia e integrità avevano subito un duro colpo a causa del tradimento delle sue vecchie organizzazioni; un proletariato consumato da anni di massacro imperialista e su cui pesavano ancora notevolmente il riformismo e le tendenze opportuniste sviluppatesi nel movimento operaio nei precedenti tre decenni.
La risposta della direzione dell'Internazionale comunista a queste difficoltà fu quello di cadere in nuove versioni dell’opportunismo allo scopo di aumentare la propria influenza tra le masse, quali la “tattica” del fronte unito con agenti della borghesia all'interno della classe operaia. Questa svolta opportunista diede luogo a sua volta a reazioni vigorose delle correnti di sinistra nell’Internazionale, in particolare la sinistra italiana e tedesca, ma esse stesse si trovarono di fronte ad ostacoli significativi nella comprensione delle nuove condizioni storiche. Nella sinistra tedesca, quelle tendenze che avevano elaborato la teoria della “crisi mortale”, si erano sbagliate di fronte all'inizio della decadenza del capitalismo. Mentre la decadenza si sarebbe dovuta intendere come un periodo di crisi e guerre, per queste correnti significava che il sistema si trovava di fronte ad un muro che non sarebbe stato più in grado di superare. Risultato di questa analisi è stato lo sviluppo di azioni avventuristiche allo scopo di spingere il proletariato ad assestare un colpo mortale al capitalismo; un altro errore fu la creazione di una effimera “Internazionale Comunista Operaia”, seguita da una fase “consiliarista” ed un crescente abbandono della nozione di partito di classe.
4. L'incapacità della maggioranza della sinistra tedesca nel rispondere al riflusso dell'onda rivoluzionaria è stato un elemento essenziale di disintegrazione della maggior parte delle sue organizzazioni. A differenza della sinistra tedesca, la sinistra italiana è stata in grado di riconoscere la profonda sconfitta subita dal proletariato mondiale alla fine degli anni ’20 e di sviluppare le risposte teoriche e organizzative richieste dalla nuova fase della lotta di classe; queste risposte sono racchiuse nel concetto di un cambiamento del corso storico, nella formazione della Frazione e nell'idea di effettuare un “bilancio” dell'ondata rivoluzionaria e delle posizioni programmatiche dell’Internazionale Comunista. Questa chiarezza ha permesso alla Frazione italiana di fare inestimabili progressi teorici, difendendo contemporaneamente le posizioni internazionaliste quando tutto intorno, si cedeva all’antifascismo e alla marcia verso la guerra. Tuttavia, anche la frazione non era immunizzata contro crisi e arretramenti teorici; nel 1938, la rivista Bilan viene chiamata Ottobre, in previsione di una nuova ondata rivoluzionaria che sarebbe dovuta nascere dalla guerra imminente e dalla conseguente “crisi dell’economia di guerra”. Nel dopoguerra, la Sinistra Comunista di Francia (GCF), nata in risposta alla crisi della Frazione durante la guerra e alla deriva immediatista che aveva portato a formare il Partito Comunista Internazionalista nel 1943, che era stata in grado, in un periodo molto fruttuoso tra il 1946 e il 1952, di sintetizzare i migliori contributi delle sinistre italiane e tedesche e sviluppare una migliore comprensione della adozione da parte del capitalismo delle forme totalitarie e di Stato, si era essa stessa disintegrata a causa di un’errata comprensione del periodo post-bellico, prevedendo erroneamente lo scoppio imminente di una terza guerra mondiale.
5. Nonostante questi gravi errori, l'approccio fondamentale di Bilan e della GCF rimase valido ed è stato essenziale per la formazione della CCI all'inizio degli anni ‘70. La CCI si è formata sulla base di una serie di acquisizioni chiave della Sinistra Comunista: non solo posizioni di classe come l'opposizione alle lotte di liberazione nazionale e a tutte le guerre capitaliste, la critica a sindacati e parlamentarismo, il riconoscimento della natura capitalistica dei partiti “operai” e dei paesi “socialisti “, ma anche:
• l'eredità organizzativa sviluppata da Bilan e dalla GCF, soprattutto la loro distinzione tra frazione e partito e la critica tanto delle concezioni consiliariste che di quelle sostituzioniste del ruolo dell'organizzazione; e in più, il riconoscimento del funzionamento del comportamento militante come una questione del tutto politica;
• un insieme di elementi essenziali che danno alla nuova organizzazione una chiara prospettiva per il periodo che le si apriva dinanzi, in particolare: la nozione del corso storico e l'analisi del rapporto di forze globali tra le classi, il concetto di decadenza del capitalismo e dell’approfondimento delle sue contraddizioni economiche; la deriva verso la guerra e la costituzione di blocchi imperialisti; il ruolo essenziale del capitalismo di Stato nella capacità del sistema di mantenere la sua esistenza, nonostante la sua obsolescenza storica.
6. La questione della capacità della CCI di riprendere e sviluppare l'eredità organizzativa della sinistra comunista è trattata in altre relazioni del 21° Congresso. Questa risoluzione si concentra sugli elementi che orientano la nostra analisi della situazione internazionale dalle nostre origini. E qui è chiaro che la CCI non ha semplicemente ereditato le conquiste del passato, ma è stata in grado di svilupparle in vari modi:
• Armata della nozione del corso storico, la CCI è stata in grado di riconoscere che gli eventi del maggio-giugno 1968 in Francia e l'ondata internazionale di lotte che seguirono, hanno annunciato la fine del periodo di contro-rivoluzione e l'apertura di un nuovo corso di scontri di classe di massa; è stata quindi in grado di continuare ad analizzare l'evoluzione del rapporto di forza tra le classi, i progressi effettivi e le battute d'arresto del movimento di classe in questo contesto globale e storico, evitando anche di rispondere empiricamente ad ogni episodio la lotta di classe internazionale.
• Sulla base della teoria della decadenza del capitalismo, i gruppi che si sono riuniti per formare la CCI avevano anche capito che quest’ondata di lotta non era causata dalla noia della società dei consumi, come sostenuto dai situazionisti, ma al ritorno della crisi aperta del sistema capitalista. Nel corso della sua esistenza, la CCI ha quindi continuato a seguire il corso della crisi economica osservandone il suo inesorabile approfondimento.
• Comprendendo che la ricomparsa della crisi economica avrebbe spinto le potenze mondiali capitaliste ad entrare in conflitto fra loro e a prepararsi per una nuova guerra mondiale, la CCI ha riconosciuto la necessità di continuare ad analizzare i rapporti di forza tra i blocchi imperialisti e tra la borghesia e la classe operaia, la cui resistenza alla crisi economica avrebbe costituito un ostacolo alla tendenza del sistema a scatenare un nuovo olocausto generalizzato.
• Con la sua concezione del capitalismo di Stato, la CCI è stata in grado di fornire una spiegazione coerente a lungo termine della natura della crisi ricomparsa alla fine degli anni '60, che ha visto la borghesia utilizzare tutti i tipi di meccanismi (nazionalizzazione, privatizzazione, uso massiccio del credito ...) per manipolare il funzionamento della legge del valore e ridurre o ritardare gli effetti più esplosivi della crisi economica. Da ciò la CCI è stata in grado di vedere come la borghesia nella sua fase decadente ha usato la sua posizione nello Stato per realizzare tutti i tipi di manovre (sul terreno elettorale, le tattiche sindacali, le campagne ideologiche, ecc.) per deviare la lotta di classe e ostacolare lo sviluppo della coscienza di classe. Ed è questo stesso quadro teorico che ha permesso alla CCI di mostrare le cause alla base della crisi nei paesi sedicenti" socialisti" e il crollo del blocco sovietico dopo il 1989.
• Sulla base della concezione sul corso storico e sull’analisi dell'evoluzione dei conflitti imperialisti e della lotta di classe, la CCI è stata l'unica organizzazione proletaria a capire che il crollo del vecchio sistema dei blocchi era il prodotto di uno stallo storico tra le classi e segnava l'ingresso del capitalismo in una nuova ed ultima fase della sua decadenza - la fase di decomposizione - che a sua volta ha creato nuove difficoltà per il proletariato e nuovi pericoli per l'umanità.
7. Insieme alla possibilità di appropriarsi e sviluppare le conquiste del movimento operaio passato, la CCI, come tutte le organizzazioni rivoluzionarie precedenti, è stata anche oggetto di molte pressioni da parte dell’ordine sociale dominante e quindi delle forme ideologiche che queste pressioni creano - prima di tutto, l'opportunismo, il centrismo e il materialismo volgare. In particolare, nella sua analisi della situazione mondiale, è stata presa anche dall’impazienza e dall’immediatismo che abbiamo identificato nelle organizzazioni del passato che rivelano, in parte, una forma di materialismo meccanicistico.
Queste debolezze si sono aggravate nella storia della CCI, a causa delle condizioni in cui era nata, in quanto pagava il prezzo della rottura organica con le organizzazioni del passato, dell'impatto della contro-rivoluzione stalinista che ha introdotto un falsa visione della lotta e della morale proletaria e della forte influenza della rivolta piccolo-borghese degli anni ‘60 – essendo la piccola borghesia, come classe senza futuro storico, l'incarnazione dell’immediatismo. Inoltre, queste tendenze si sono esacerbate nel periodo di decomposizione che è sia prodotto che un fattore attivo nella perdita di prospettiva per il futuro.
8. Fin dall'inizio, il pericolo dell’immediatismo si è espresso nella valutazione che la CCI ha espresso sul rapporto di forza tra le classi. Mentre è risultato corretto identificare il periodo successivo al 1968 come la fine della controrivoluzione, la caratterizzazione del nuovo corso storico come "un corso verso la rivoluzione" ha fatto ritenere che si sarebbe assistito ad un lineare e rapido aumento delle lotte sino a rovesciare il capitalismo, e anche dopo aver corretto questa formulazione la CCI ha conservato la visione che le ondate di lotte che seguirono tra il 1978 e il 1989, nonostante le battute d'arresto temporaneo, rappresentassero una offensiva semi-permanente del proletariato. Le immense difficoltà della classe per passare da un movimento difensivo alla politicizzazione delle sue lotte e allo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria non è stata sufficientemente evidenziata e analizzata. Anche se la CCI è stata in grado di riconoscere l'inizio della decomposizione e che il crollo dei blocchi avrebbe comportato un profondo arretramento nella lotta di classe, si era ancora fortemente condizionati dalla speranza che l'approfondimento della crisi economica avrebbe riprodotto le “ondate” di lotta degli anni '70 e '80; poi giustamente si è ritenuto che si fosse avuta una svolta dopo il 2003, ma spesso sottovalutando le enormi difficoltà che stanno vivendo le nuove generazioni della classe operaia per sviluppare una prospettiva chiara delle proprie lotte, fattore che influenza sia la classe operaia nel suo complesso che le sue minoranze politicizzate. Gli errori di analisi hanno anche alimentato qualche approccio falso e opportunista nell'intervento nelle lotte e nella costruzione dell'organizzazione.
9. Se la teoria della decomposizione (l'ultima eredità lasciata dal compagno MC alla CCI) è stata una guida indispensabile ed essenziale per la comprensione del periodo attuale, la CCI ha spesso fatto fatica a comprendere tutte le sue implicazioni. Ciò è particolarmente vero quando si è trattato di spiegare e riconoscere le difficoltà della classe operaia dopo gli anni ’90. Mentre eravamo in grado di vedere come la borghesia ha usato gli effetti della decomposizione per costruire enormi campagne ideologiche contro la classe operaia - in particolare il profluvio di menzogne sulla “morte del comunismo” dopo il crollo del blocco dell’Est - non abbiamo sufficientemente esaminato in modo approfondito come il processo di decomposizione tendeva a minare la fiducia e la solidarietà del proletariato. Inoltre, abbiamo faticato a comprendere l'impatto sull’identità di classe dovuto alla distruzione delle vecchie concentrazioni operaie in alcuni paesi dell'Europa centrale e il loro trasferimento nei paesi in precedenza “sottosviluppati”. Mentre abbiamo avuto almeno una conoscenza parziale della necessità per il proletariato di politicizzare le sue lotte per resistere agli effetti della decomposizione è con molto ritardo che abbiamo cominciato a capire che per il proletariato ritrovare una identità di classe e adottare una prospettiva politica implica anche una dimensione morale e culturale vitale.
10. è probabilmente nel campo della crisi economica che la CCI ha espresso le più chiare difficoltà; in particolare:
• A livello più generale, una tendenza a cadere in una visione reificata dell'economia capitalistica come una macchina guidata esclusivamente da leggi oggettive, dimenticando che il capitalismo è prima di tutto un rapporto sociale e le azioni degli esseri umani - sotto forma di classi sociali - non possono mai essere del tutto trascurate quando si analizza l'attuale crisi economica. Ciò è particolarmente vero nel periodo del capitalismo di Stato, in cui la classe dominante è costantemente di fronte alla necessità di intervenire nell'economia e addirittura di opporsi alle sue leggi “immanenti”, mentre è costretta contemporaneamente a prendere in considerazione i pericoli della lotta di classe come un elemento della sua politica economica.
• Una comprensione riduzionista della teoria economica di Rosa Luxemburg, con una falsa estrapolazione che il capitalismo avesse già esaurito tutte le possibilità di espansione dal 1914 (o anche negli anni ‘60). Infatti, quando Rosa espose la sua teoria nel 1913, riconobbe che c'erano ancora zone molto ampie a economia non-capitalistica che rimanevano da sfruttare, anche se era sempre meno possibile che ciò avvenisse senza conflitti diretti tra potenze imperialiste.
• Il riconoscimento del fatto che con la riduzione di queste zone per l'espansione il capitalismo è stato sempre più costretto a ricorrere al palliativo del debito è diventato a volte una spiegazione generale, che dimenticava che il credito si ha anche nell’accumulazione del capitale; ancora più importante, l'organizzazione ha ripetutamente previsto che i limiti del debito erano già stati raggiunti;
• Tutti questi elementi facevano parte di una visione del crollo automatico del capitalismo che è diventato prevalente al momento del “credit crunch” (la crisi del credito) del 2008. Diversi rapporti interni o articoli nella nostra stampa hanno proclamato che il capitalismo era totalmente senza uscita e si stava dirigendo verso una sorta di paralisi economica, un crollo improvviso. In realtà, come Rosa stessa ha sottolineato, la vera catastrofe del capitalismo consiste nel fatto che esso sottopone l'umanità ad un declino, ad una lunga agonia, facendo sprofondare la società in una barbarie crescente, che la “fine” del capitalismo non è una crisi puramente economica ma inevitabilmente si giocherà nel campo del militarismo e della guerra, a meno che essa non si realizzi coscientemente a causa della rivoluzione proletaria (e a fianco a queste previsioni, dobbiamo anche aggiungere la crescente minaccia di devastazione ecologica, che certamente accelererà la tendenza alla guerra). Questa idea di un crollo improvviso e completo ci fa dimenticare anche la nostra analisi sulla capacità della classe dominante, attraverso il capitalismo di Stato, di prolungare il proprio sistema con ogni sorta di manipolazioni politica e finanziaria.
• La negazione, in alcuni dei nostri testi chiave, di ogni possibilità di espansione del capitalismo nella sua fase decadente ha anche reso difficile per l'organizzazione spiegare la crescita esplosiva della Cina e di altre “economie emergenti” nel periodo successivo alla caduta dei vecchi blocchi. Mentre questi sviluppi non rimettono in questione, come molti hanno detto, la decadenza del capitalismo anzi ne sono anche una chiara espressione, essi vanno contro la posizione che nel periodo di decadenza, non c'è assolutamente alcuna possibilità di un decollo industriale in alcune parti della “periferia”. Mentre siamo stati in grado di confutare alcuni dei più facili miti sulla “globalizzazione” nella fase seguita al crollo dei blocchi (miti spacciati dalla destra che vi ha scorto un nuovo e glorioso capitolo nell’ascesa del capitalismo o dalla sinistra che lo ha utilizzato per una rivitalizzazione del vecchio nazionalismo e statalismo), non siamo stati in grado di separare la verità dalla mitologia mondialista: che la fine del vecchio modello autarchico avrebbe aperto nuove aree all’investimento capitalista, tra cui la gestione di un enorme nuova forza lavoro prelevata direttamente al di fuori dei rapporti sociali capitalisti.
• Questi errori di analisi, si sono legati al fatto che l'organizzazione ha affrontato notevoli difficoltà nello sviluppare una comprensione del problema economico in modo autenticamente associato. Una tendenza a vedere le questioni economiche come rientrante nella sfera di “esperti” è diventata visibile nel dibattito sui “30 Gloriosi” (gli anni del secondo dopoguerra) nel primo decennio del 21° secolo. Anche se la CCI ha certamente avuto bisogno di comprendere e spiegare il motivo per cui ha respinto l'idea che la ricostruzione delle economie distrutte dalla guerra stessa spiega la sopravvivenza del sistema in decadenza, in pratica, questo dibattito è stato un tentativo fallito di affrontare il problema. Questo dibattito non è stato ben compreso né dentro né fuori l'organizzazione e ci ha lasciato disorientati teoricamente. Questa questione deve essere reimpostata in rapporto a tutto il periodo di decadenza per chiarire il ruolo dell'economia di guerra e il significato della irrazionalità della guerra nel periodo di decadenza.
11. Nel campo delle tensioni imperialiste, la CCI possiede un solido quadro analitico, che mostra le varie fasi del confronto tra i blocchi negli anni ‘70 e ‘80 e pur essendo stata un po’ “sorpresa” dal crollo improvviso del blocco dell’Est e dell'URSS dopo il 1989, aveva già sviluppato gli strumenti teorici per analizzare le debolezze intrinseche nei regimi stalinisti; collegandoli alla questione del militarismo e della decomposizione che aveva cominciato a sviluppare nella seconda metà degli anni ‘80, la CCI è stato la prima organizzazione tra i gruppi proletari a prevedere la fine del sistema dei blocchi, il declino dell'egemonia degli Stati Uniti e il rapidissimo sviluppo dell’“ognuno per sé” a livello imperialista. Pur rimanendo consapevoli del fatto che la tendenza alla formazione di blocchi imperialisti non è scomparsa dopo il 1989, abbiamo mostrato le difficoltà in cui versa anche il candidato più verosimile per la guida di un blocco contro gli Stati Uniti, cioè la Germania di recente riunificata, difficoltà a realizzare un giorno le sue ambizioni imperialiste. Tuttavia, siamo stati meno in grado di predire la capacità della Russia di riemergere come una forza con cui fare i conti sulla scena mondiale e ancora più abbiamo tardato ad accorgerci dell’ascesa della Cina come nuovo attore significativo nella rivalità tra le grandi potenze che si sono sviluppate negli ultimi due o tre decenni, errore strettamente connesso al nostro problema nel riconoscere la realtà del progresso economico della Cina.
12. L'esistenza di questi punti deboli, nel loro insieme, non deve scoraggiarci, ma stimolarci per intraprendere un programma di sviluppo teorico che renderà la CCI capace di approfondire la sua visione di tutti gli aspetti del situazione mondiale. L'inizio di una revisione critica degli ultimi 40 anni, cominciato nelle relazioni del Congresso, il tentativo di andare alle radici del nostro metodo di analisi della lotta di classe e della crisi economica, la ridefinizione del nostro ruolo di organizzazione nel periodo di decomposizione del capitalismo, è il segno evidente di una vera e propria rinascita culturale nella CCI. Nel prossimo periodo, la CCI dovrà anche riprendere i temi teorici fondamentali quali la natura dell'imperialismo e la decadenza, al fine di fornire il quadro più solido per la nostra analisi della situazione internazionale.
13. Il primo passo nella valutazione critica dei 40 anni di analisi della situazione mondiale è riconoscere i nostri errori, cercando fino in fondo le loro origini. Sarebbe prematuro cercare di considerare ora tutte le loro implicazioni per l'analisi della situazione mondiale attuale e le sue prospettive. Tuttavia, possiamo dire che nonostante le nostre debolezze, la nostra prospettiva fondamentale rimane valida:
• A livello economico, ci sono tutte le ragioni per aspettarsi che la crisi economica continuerà ad approfondirsi e, anche se non ci sarà l’Apocalisse finale, con gravi convulsioni che scuoteranno il sistema sino al suo cuore, così come continuerà la situazione di insicurezza e la disoccupazione dilagante che già grava sulla classe operaia.
• Non possiamo certo sottovalutare la resilienza del sistema e la determinazione della classe dirigente nel continuare ad andare avanti, nonostante la sua obsolescenza storica, ma come abbiamo sempre detto, gli stessi rimedi che il capitale utilizza per curare la sua malattia mortale, se agiscono nel breve termine, tendono ad aggravare il male a lungo termine.
• A livello delle tensioni imperialiste, stiamo assistendo a una vera e propria accelerazione del caos militare, in particolare in Ucraina, in Medio Oriente, in Africa e nel Mar Cinese Meridionale, che porta con sé la crescente minaccia di un “ripercussione” nei paesi dell'Europa centrale (come dimostrano i recenti massacri di Parigi e Copenaghen). Il terreno del conflitto imperialista si amplia sempre più così come le alleanze che si sono formate per portarlo avanti, come possiamo vedere nel caso del conflitto tra la Russia e l' “Occidente” a proposito dell’Ucraina o nella collaborazione crescente tra la Russia e la Cina rispetto ai conflitti in Medio Oriente e altrove. Ma queste alleanze sono contingenti e non hanno le condizioni per evolvere in blocchi stabili. Il pericolo principale per l’umanità non è quindi quello di una guerra mondiale convenzionale, ma di una degenerazione dei conflitti regionali in una spirale incontrollabile di distruzione.
Gli inizi di questa spirale sono già visibili e le sue conseguenze più negative si riversano sul proletariato, le cui frazioni “periferiche” sono mobilitate direttamente o massacrate nei conflitti in corso, mentre le parti centrali non sono in grado di rispondere alla barbarie crescente, il che rafforza la tendenza a cadere nell’atomizzazione e disperazione. Ma nonostante i pericoli reali creati dalla marea di decomposizione, il potenziale della classe operaia per rispondere a questa crisi senza precedenti del genere umano non è ancora esaurito, come hanno dimostrato i periodi migliori del movimento studentesco in Francia nel 2006 o le rivolte sociali del 2011, in cui il proletariato, pur senza riconoscersi come classe, ha mostrato chiari segni della sua capacità di unificazione al di là di tutte le divisioni, nelle strade e nelle assemblee generali.
Soprattutto i giovani proletari impegnati in questi movimenti, nella misura in cui hanno iniziato a contestare la brutalità dei rapporti sociali capitalisti e posto la questione di una nuova società, hanno fatto i primi passi verso la riaffermazione che la lotta di classe non è affatto una lotta economica, ma politica e che il suo obiettivo finale rimane quello indicato in modo così ardito nel Manifesto del 1848: l'instaurazione della dittatura del proletariato e l'apertura di un nuova cultura umana.
"Il marxismo è una visione rivoluzionaria del mondo che deve chiamare a lottare senza tregua per acquisire nuove conoscenze, che niente rigetta se non le forme stereotipate e definitive e che mette alla prova la sua forza vivente nel tintinnio delle armi dell'autocritica e sotto i tuoni della storia". (Rosa Luxemburg, Critica delle critiche)
La CCI ha tenuto nella primavera scorsa il suo 21° congresso. Quest’avvenimento ha coinciso con i 40 anni di esistenza della nostra organizzazione. Per tale motivo abbiamo deciso di dare a questo congresso un carattere eccezionale, con l’obiettivo centrale di gettare le basi di un bilancio critico delle nostre analisi e della nostra attività nel corso di questi quattro decenni. I lavori del congresso si sono dunque incentrati nell’identificare, nella maniera più lucida possibile, le nostre forze e le nostre debolezze, ciò che era valido nelle nostre analisi e gli errori che abbiamo fatto, al fine di armarci per superarli.
Questo bilancio critico s’inserisce in piena continuità con l’approccio che ha sempre adottato il marxismo lungo tutta la storia del movimento operaio. In questo modo Marx ed Engels, fedeli a un metodo al tempo stesso storico e autocritico, sono stati capaci di riconoscere che certe parti del Manifesto Comunista si erano rivelate erronee o superate dall'esperienza storica. È la capacità di fare la critica dei propri errori che ha sempre permesso ai marxisti di avanzare sul piano teorico e di continuare a portare il loro contributo alla prospettiva rivoluzionaria del proletariato. Così come Marx seppe trarre le lezioni dall'esperienza della Comune di Parigi e dalla sua sconfitta, la Sinistra comunista d'Italia è stata capace di riconoscere la profonda sconfitta del proletariato mondiale alla fine degli anni 20, di fare un "bilancio"[1] dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23 e delle posizioni programmatiche della Terza Internazionale. Questo bilancio critico le ha permesso, nonostante i suoi errori, di fare degli avanzamenti teorici inestimabili sia sul piano dell'analisi del periodo di controrivoluzione che su quello organizzativo. Le ha permesso di comprendere il ruolo e i compiti di una frazione all’interno di un partito proletario in degenerazione e come ponte verso un futuro partito quando il precedente è guadagnato dalla borghesia.
Questo Congresso eccezionale della CCI si è tenuto nel contesto della nostra ultima crisi interna che ha reso necessario, un anno, tenere una conferenza internazionale straordinaria[2]. Tutte le delegazioni hanno preparato il Congresso con grande serietà e si sono inscritte nei dibattiti con una comprensione chiara della posta in gioco e della necessità, per tutte le generazioni di militanti, di impegnarsi in questo bilancio critico dei 40 anni di esistenza della CCI. Questo Congresso e i suoi testi preparatori hanno permesso ai militanti che non erano ancora membri della CCI all'epoca della sua fondazione (e in particolare ai più giovani) di apprendere dall'esperienza della CCI e, al tempo stesso, di parteciparvi attivamente prendendo posizione nei dibattiti.
La fondazione della CCI è stata una manifestazione della fine della controrivoluzione e della ripresa storica della lotta di classe che si è evidenziata in particolare in Francia attraverso il movimento del Maggio 68. La CCI è la sola organizzazione della Sinistra comunista ad aver analizzato questo avvenimento nel quadro dell’emergere della crisi aperta del capitalismo, iniziata nel 1967. Con la fine dei "30 gloriosi" e la corsa agli armamenti durante la guerra fredda, si poneva di nuovo l'alternativa "guerra mondiale o sviluppo delle lotte proletarie". Il Maggio 68 e l'ondata di lotte operaie che si sono sviluppate a livello internazionale hanno segnato l'apertura di un nuovo corso storico: dopo 40 anni di controrivoluzione, il proletariato rialzava la testa e non era disposto a lasciarsi reclutare in una terza guerra mondiale, dietro la difesa delle bandiere nazionali.
Il Congresso ha sottolineato che l'apparizione e lo sviluppo di una nuova organizzazione internazionale e internazionalista confermavano la validità del nostro quadro di analisi su questo nuovo corso storico. Armata di questo concetto, insieme all'analisi che il capitalismo era entrato nel suo periodo storico di decadenza con lo scoppio della prima guerra mondiale, la CCI ha continuato durante tutta la sua esistenza ad analizzare i tre aspetti della situazione internazionale - l'evoluzione della crisi economica, della lotta di classe e dei conflitti imperialisti – al fine di non cadere nell'empirismo e per trarne gli orientamenti per la sua attività. Tuttavia il Congresso si è concentrato nell’esaminare nella maniera più lucida possibile gli errori che abbiamo commesso in alcune nostre analisi per permetterci di identificare l'origine di questi errori e quindi di migliorare il nostro quadro di analisi.
Sulla base del rapporto sull'evoluzione della lotta di classe a partire dal 1968, il congresso ha sottolineato che una delle principali debolezze della CCI, sin dalle sue origini, è stata quella che abbiamo chiamato l'immediatismo: cioè una impostazione politica contrassegnata dall'impazienza e che si focalizza sugli avvenimenti immediati a scapito di una visione storica ampia della prospettiva nella quale si inscrivono questi avvenimenti. Sebbene abbiamo identificato, a giusta ragione, che la ripresa della lotta di classe alla fine degli anni 60 aveva segnato l'apertura di un nuovo corso storico, la caratterizzazione di questo corso storico come "corso verso la rivoluzione" è stata sbagliata e abbiamo dovuto correggerla con l'espressione "corso agli scontri di classe". Tuttavia, questa formulazione più appropriata non ha, a causa di una certa imprecisione, sbarrato la porta a una visione schematica, lineare della dinamica della lotta di classe insieme a una certa esitazione, al nostro interno, a riconoscere le difficoltà, le sconfitte e i periodi di riflusso del proletariato.
L'incapacità della borghesia di reclutare la classe operaia dei paesi centrali in una terza guerra mondiale non significava che le ondate internazionali di lotte sviluppatesi fino al 1989 sarebbero proseguite in modo meccanico e ineluttabile, fino all'apertura di un periodo rivoluzionario. Il congresso ha messo in evidenza che la CCI ha sottovalutato il peso della rottura della continuità storica col movimento operaio del passato e dell'impatto ideologico nella classe operaia in 40 anni di controrivoluzione, impatto che si manifesta particolarmente attraverso una diffidenza, se non un rigetto, delle organizzazioni comuniste.
Il Congresso ha sottolineato anche un'altra debolezza della CCI nelle sue analisi del rapporto di forze tra le classi: la tendenza a vedere il proletariato costantemente "all'offensiva" in ogni movimento di lotta, mentre finora le sue lotte sono state di difesa degli interessi economici immediati (per quanto importanti e significative) senza riuscire a dar loro una dimensione politica.
I lavori del congresso ci hanno permesso di costatare che queste difficoltà di analisi dell'evoluzione della lotta di classe hanno avuto alla base un’erronea visione del funzionamento del modo di produzione capitalista, con una tendenza a perdere di vista che il capitale è innanzitutto un rapporto sociale. Il che significa che la borghesia è costretta a tener conto della lotta di classe nell’attuazione delle sue politiche economiche e degli attacchi contro il proletariato. Il congresso ha anche posto l’accento su una certa mancanza di padronanza da parte della CCI della teoria di Rosa Luxemburg come spiegazione della decadenza del capitalismo. Secondo Rosa Luxemburg il capitalismo, per essere in grado di continuare la sua accumulazione, ha bisogno di trovare degli sbocchi nei settori extra capitalisti. La scomparsa progressiva di questi settori condanna il capitalismo a crescenti convulsioni. Quest’analisi è stata adottata nella nostra piattaforma, anche se una minoranza di nostri compagni si appoggia su un'altra analisi per spiegare la decadenza: quella della caduta tendenziale del tasso di profitto. La mancanza di padronanza da parte della CCI dell'analisi di Rosa Luxemburg (sviluppata in L'accumulazione del capitale) si è tradotta in una visione "catastrofistica", anzi apocalittica del crollo dell'economia mondiale. Il Congresso ha costatato che durante tutta la sua esistenza, la CCI ha sempre sopravvalutato il ritmo dello sviluppo della crisi economica. Ma in questi ultimi anni, e in particolare con la crisi dei debiti sovrani, le nostre analisi avevano come sottofondo l'idea soggiacente che il capitalismo potesse crollare da sé poiché la borghesia è "in un vicolo cieco" e avrebbe esaurito tutti i palliativi che le hanno permesso fino ad ora di prolungare in modo artificiale la sopravvivenza del suo sistema.
Questa visione "catastrofista" deriva, in buona parte, da una mancanza di approfondimento della nostra analisi del capitalismo di Stato, ad una sottovalutazione delle capacità della borghesia, che pure avevamo identificato da tempo, a trarre le lezioni dalla crisi degli anni 30 e accompagnare il fallimento del suo sistema con ogni tipo di manipolazioni, di imbrogli con la legge del valore e attraverso un intervento statale permanente nell'economia. Essa deriva anche da una comprensione ristretta e schematica della teoria economica di Rosa Luxemburg con l'idea erronea che il capitalismo avrebbe già esaurito tutte le sue capacità di espansione dal 1914 o negli anni 1960. In realtà, come sottolineava Rosa Luxemburg, la catastrofe reale del capitalismo sta nel fatto che questo sottomette l'umanità a un declino, a una lunga agonia facendo sprofondare la società in una barbarie crescente.
L’errore consistente nel negare ogni possibilità di espansione del capitalismo nel suo periodo di decadenza spiega le difficoltà che ha avuto la CCI nel comprendere la crescita e lo sviluppo industriale vertiginoso della Cina (e di altri paesi periferici) dopo il crollo del blocco dell'Est. Benché questo decollo industriale non rimette per niente in discussione la nostra analisi della decadenza del capitalismo[3], la previsione secondo la quale non ci sarebbe nessuna possibilità di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo nel periodo di decadenza non si è verificata. Quest’errore, sottolineato dal Congresso, ci ha portato a non considerare che il fallimento del vecchio modello autarchico dei paesi stalinisti avrebbe potuto aprire nuovi sbocchi agli investimenti capitalisti[4] fino allora bloccati (ivi compresa l'integrazione nel salariato di una massa enorme di lavoratori che prima viveva al di fuori di rapporti sociali direttamente capitalisti e che sono stati sottoposti a un feroce super sfruttamento).
Sulla questione delle tensioni imperialiste, il Congresso ha evidenziato che la CCI ha sviluppato in generale un quadro di analisi molto solido sia all'epoca della guerra fredda tra i due blocchi rivali che dopo il crollo dell'URSS e dei regimi stalinisti. La nostra analisi del militarismo, della decomposizione del capitalismo e della crisi nei paesi dell'Est ci ha permesso di percepire le crepe che avrebbero determinato il crollo del blocco dell'Est. La CCI è stata così la prima organizzazione ad avere previsto la scomparsa dei due blocchi, quello diretto dall'URSS e quello diretto dagli Stati Uniti, così come il declino dell'egemonia americana e lo sviluppo della tendenza al "ciascuno per sé" sulla scena imperialista con la fine della disciplina dei blocchi militari[5].
La CCI è stata in grado di vedere correttamente la dinamica delle tensioni imperialistiche perché ha potuto analizzare lo spettacolare crollo del blocco dell'Est e dei regimi stalinisti come maggiori manifestazioni dell'entrata del capitalismo nella fase estrema della sua decadenza: quella della decomposizione. Questo quadro di analisi è stato l'ultimo contributo che il nostro compagno MC[6] ha lasciato alla CCI per permetterle di affrontare una situazione storica inedita e particolarmente difficile.
Da più di venti anni, l’ascesa del fanatismo e dell'integralismo religioso, lo sviluppo del terrorismo e del nichilismo, la moltiplicazione dei conflitti armati e il loro carattere sempre più barbaro, il riemergere dei pogrom (e, più in generale, di una mentalità alla ricerca di “capri espiatori”), confermano la validità di questo quadro di analisi.
La CCI ha ben analizzato come la classe dominante ha saputo sfruttare il crollo del blocco dell'Est e dello stalinismo per rivolgere questa manifestazione della decomposizione del suo sistema contro la classe operaia, scatenando le sue campagne sul "fallimento del comunismo". Ma abbiamo ampiamente sottovalutato la profondità del loro impatto sulla coscienza del proletariato e sullo sviluppo delle sue lotte.
Abbiamo sottovalutato che l'atmosfera deleteria della decomposizione sociale (così come la deindustrializzazione e le politiche di delocalizzazione in alcuni paesi centrali) contribuisce a minare la fiducia in sé, la solidarietà del proletariato ed a rafforzare la perdita della sua identità di classe. Sottovalutando le difficoltà del nuovo periodo aperto con il crollo del blocco dell'Est, la CCI ha avuto la tendenza a conservare l’illusione che l'aggravamento della crisi economica e degli attacchi contro la classe avrebbero necessariamente, e in modo meccanico, provocato delle "ondate di lotte" che si sarebbero sviluppate con le stesse caratteristiche e sullo stesso modello di quelle degli anni 1970-80. In particolare, sebbene abbiamo salutato a giusta ragione il movimento contro il CPE in Francia e quello degli Indignati in Spagna, abbiamo però sottovalutato le enormi difficoltà alle quali è confrontata oggi la giovane generazione della classe operaia per sviluppare una prospettiva alle sue lotte (in particolare il peso delle illusioni democratiche, la paura e il rigetto della parola "comunismo", il fatto che questa generazione non ha potuto beneficiare della trasmissione dell'esperienza viva della generazione di lavoratori, oggi pensionati, che hanno partecipato agli scontri di classe degli anni 70 e 80). Difficoltà che non colpiscono solo la classe operaia nel suo insieme ma anche i giovani elementi in ricerca che vogliono implicarsi in un'attività politica.
L'isolamento e l'influenza trascurabile della CCI (come di tutti i gruppi storici usciti dalla Sinistra comunista) nella classe operaia da quattro decenni, e particolarmente dopo il 1989, indicano che la prospettiva della rivoluzione proletaria mondiale è ancora molto lontana. All'epoca della sua fondazione la CCI non immaginava che quarant’anni dopo la classe operaia non avrebbe ancora rovesciato il capitalismo. Ciò non significa che il marxismo si sia sbagliato e che questo sistema è eterno. Il principale errore che abbiamo commesso è l’avere sottovalutato la lentezza del ritmo della crisi acuta del capitalismo, ricomparsa alla fine del periodo di ricostruzione del secondo dopoguerra, e le capacità della classe dominante a frenare il crollo storico del modo di produzione capitalista.
Peraltro, il Congresso ha evidenziato che la nostra ultima crisi interna (e le lezioni che ne abbiamo tratte) hanno permesso alla CCI di cominciare a riappropriarsi di un'esperienza fondamentale del movimento operaio già messa in luce da Engels: la lotta del proletariato contiene tre dimensioni. Una dimensione economica, una dimensione politica e una dimensione teorica. Il proletariato dovrà sviluppare questa dimensione teorica nelle sue lotte future per poter ritrovare la sua identità di classe rivoluzionaria, resistere al peso della decomposizione sociale e mettere avanti la propria prospettiva di trasformazione della società. Come affermava Rosa Luxemburg, la rivoluzione proletaria è innanzitutto un vasto "movimento culturale" perché la società comunista non avrà per obiettivo la sola soddisfazione dei bisogni materiali vitali dell'umanità, ma anche la soddisfazione dei suoi bisogni sociali, intellettuali e morali. A partire dalla presa di coscienza di questa lacuna nella nostra comprensione della lotta del proletariato (che rivela una tendenza "economicista" e materialista volgare) abbiamo potuto identificare non solo la natura della nostra ultima crisi ma anche comprendere che questa crisi "intellettuale e morale", che avevamo esaminato già alla Conferenza straordinaria del 2014[7], dura in realtà da più di trenta anni. E ciò è dovuto al fatto che la CCI ha sofferto di una mancanza di riflessione e di discussioni approfondite sulle radici di tutte le difficoltà organizzative alle quali è stata confrontata dalle sue origini, e in particolare dalla fine degli anni 80.
Per iniziare un bilancio critico dei quarant’anni di esistenza della CCI, il Congresso ha messo al centro dei suoi lavori la discussione non solo di un rapporto di attività generale ma anche di un rapporto sul ruolo della CCI "in quanto frazione".
La nostra organizzazione non ha avuto mai la pretesa di essere un partito (e ancor meno IL partito mondiale del proletariato).
Come già sottolineato dai nostri testi di fondazione "Lo sforzo della nostra corrente per costituirsi in polo di raggruppamento intorno alle posizioni di classe si inserisce in un processo che va verso la formazione del partito al momento di lotte intense e generalizzate. Non pretendiamo essere un partito" (Rivista Internazionale n.1 Report on the International Conference [43]). La CCI deve fare un lavoro che comporta numerose similitudini con quello di una frazione, anche se non è una frazione.
Infatti, essa è sorta dopo una rottura organica con le organizzazioni comuniste del passato e non è stata generata da un'organizzazione preesistente. Non c'è dunque nessuna continuità organica con un particolare gruppo o un partito. Il solo compagno (MC) che veniva da una frazione del movimento operaio staccatasi dalla 3a Internazionale non poteva rappresentare la continuità di un gruppo, ma era il solo "legame vivente" col passato del movimento operaio. Poiché la CCI non si è consolidata e non è uscita da un partito degenerato, che ha tradito i principi proletari ed è passato nel campo del capitale, essa non è stata fondata nel contesto di una lotta contro la degenerazione di questo partito. Il compito primario della CCI, proprio per la rottura organica e la profondità di quarant’anni di controrivoluzione, è stato innanzitutto il riappropriarsi delle posizioni dei gruppi della Sinistra comunista che ci avevano preceduto.
La CCI doveva dunque costruirsi e svilupparsi a livello internazionale, in un certo qual modo, a partire da "zero". Questa nuova organizzazione internazionale doveva imparare “sul campo”, nelle nuove condizioni storiche e con una prima generazione di giovani militanti inesperti, usciti dal movimento studentesco del Maggio 68 e fortemente marcata dal peso della piccola borghesia, dell'immediatismo, del "conflitto generazionale" e della paura dello stalinismo che, fin dall'inizio, si è manifestato specialmente attraverso una diffidenza rispetto alla centralizzazione.
Dalla sua fondazione, la CCI si è riappropriata dell'esperienza delle organizzazioni del movimento operaio del passato (in particolare della Lega dei comunisti, dell’AIT o Prima internazionale, di Bilan, della GCF) dotandosi di Statuti, di principi di funzionamento che sono parte integrante della sua piattaforma. Ma contrariamente alle organizzazioni del passato, la CCI non si concepiva come un'organizzazione federalista, composta da una somma di sezioni nazionali con delle specificità locali. Costituendosi direttamente in organizzazione internazionale e centralizzata, la CCI si concepiva come un corpo unito internazionalmente. I suoi principi di centralizzazione erano il garante di quest’unità dell’organizzazione.
“Mentre per Bilan e la GCF - date le condizioni della controrivoluzione - era impossibile accrescersi e costruire un'organizzazione in parecchi paesi, la CCI ha intrapreso il compito di costruire un'organizzazione internazionale sulla base di posizioni solide (…) In quanto espressione del corso storico nuovamente aperto a scontri di classe (…), la CCI è stata internazionale e centralizzata internazionalmente fin dall'inizio, mentre le altre organizzazioni della Sinistra comunista del passato erano tutte confinate a uno o due paesi". (Rapporto sul ruolo della CCI come "frazione", presentato al Congresso).
Nonostante queste differenze con Bilan e la GCF, il Congresso ha sottolineato che la CCI ha un ruolo simile a quello di una frazione: costituire un ponte tra il passato (dopo un periodo di rottura) e il futuro. "La CCI definisce se stessa né come un partito, né come un ‘partito in miniatura’, ma come una “sorta di frazione” (ibidem). La CCI deve essere un polo di riferimento, di raggruppamento internazionale e di trasmissione delle lezioni dell'esperienza del movimento operaio del passato. Deve anche guardarsi da ogni approccio dogmatico, sapendo fare una critica, quando necessario, di posizioni sbagliate o diventate obsolete, per andare oltre e continuare a far vivere il marxismo.
Il processo di riappropriazione delle posizioni della Sinistra comunista nella CCI è stato fatto abbastanza velocemente, anche se la loro assimilazione è stata segnata fin dall'inizio da una notevole eterogeneità.
"Riappropriazione non voleva dire essere arrivati alla chiarezza e alla verità una volta per tutte, che la nostra piattaforma era diventata 'invariante' (…) La CCI ha modificato la sua piattaforma all'inizio degli anni 80 dopo un dibattito intenso" (Ibid.). Ed è sulla base di questa riappropriazione che la CCI ha potuto sviluppare delle elaborazioni teoriche a partire dall'analisi della situazione internazionale (per esempio, la critica della teoria di Lenin sugli "anelli deboli" dopo la sconfitta dello sciopero di massa in Polonia nel 1980[8], l'analisi della decomposizione come fase ultima della decadenza del capitalismo che annuncia il crollo dell'URSS)[9].
Fin dall'inizio la CCI ha adottato l’approccio di Bilan e della GCF che hanno insistito durante tutta la loro esistenza sulla necessità di un dibattito internazionale (anche nelle condizioni di repressione del fascismo e della guerra) finalizzato al chiarimento delle rispettive posizioni dei diversi gruppi con un’implicazione in polemiche sulle questioni di principio. Subito dopo la fondazione della CCI, nel gennaio 1975, abbiamo ripreso questo metodo impegnandoci in numerosi dibattiti pubblici e polemiche, non in vista di un raggruppamento precipitoso ma per favorire la chiarezza.
Dall'inizio della sua esistenza, la CCI ha sempre difeso l'idea che esiste un "campo politico proletario" delimitato da principi e si è impegnata a sostenere un ruolo dinamico nel processo di chiarimento all’interno di questo campo.
La traiettoria della Sinistra comunista d'Italia è stata segnata, dall'inizio alla fine, da lotte permanenti per la difesa dei principi del movimento operaio e del marxismo. Questa è stata anche una preoccupazione permanente della CCI durante tutta la sua esistenza, sia nei dibattiti polemici all'esterno che nelle lotte politiche che abbiamo dovuto affrontare all’interno dell'organizzazione, in particolare nelle situazioni di crisi.
Bilan e la GCF erano convinti che il loro ruolo era anche la "formazione di quadri". Benché questo concetto di "quadri" sia molto criticabile e possa prestarsi a confusioni, la loro principale preoccupazione era perfettamente valida: si trattava di formare la futura generazione di militanti trasmettendole le lezioni dell'esperienza storica affinché essa potesse riprendere il testimone e proseguire il lavoro della generazione precedente.
Le frazioni del passato non sono sparite unicamente a causa del peso della controrivoluzione. Anche le analisi erronee della situazione storica hanno contribuito alla loro scomparsa. La GCF si è sciolta in seguito all'analisi, non verificatasi, dello scoppio imminente e ineluttabile di una 3a guerra mondiale. La CCI è l'organizzazione internazionale che ha la vita più lunga nella storia del movimento operaio. A quarant’anni dalla sua fondazione esiste ancora. Non siamo stati spazzati via dalle nostre varie crisi. Nonostante la perdita di numerosi militanti, la CCI è riuscita a mantenere la maggior parte delle sue sezioni fondatrici e a costituirne nuove che permettono la diffusione della stampa in diverse lingue, paesi e continenti.
Tuttavia, il Congresso ha evidenziato lucidamente che la CCI è ancora sottoposta alla pressione del fardello delle condizioni storiche delle sue origini. A causa di queste condizioni storiche sfavorevoli, c'è stata al nostro interno una generazione "persa", dopo il 68, e una generazione "mancante", per l'impatto prolungato delle campagne anti-comuniste dopo il crollo del blocco dell'Est. Questa situazione ha costituito un handicap nel consolidare l'organizzazione nella sua attività sul lungo periodo. Le nostre difficoltà sono state inoltre aggravate, dalla fine degli anni 80, dal peso della decomposizione che colpisce l'insieme della società, ivi compresa la classe operaia e le sue organizzazioni rivoluzionarie.
Come Bilan e la GCF che hanno avuto la capacità di condurre la lotta "contro corrente", la CCI, per poter assumere il suo ruolo di ponte tra il passato e il futuro, deve sviluppare oggi questo stesso spirito di lotta sapendo che anche noi siamo "controcorrente", isolati e tagliati fuori dall'insieme della classe operaia (come le altre organizzazioni della Sinistra comunista). Anche se non siamo più in un periodo di controrivoluzione, la situazione storica aperta dal crollo del blocco dell'Est e le grandi difficoltà del proletariato a ritrovare la sua identità di classe rivoluzionaria e la sua prospettiva (così come tutte le campagne borghesi per screditare la Sinistra comunista) hanno rafforzato questo isolamento. "Il ponte alla cui costruzione dobbiamo contribuire sarà quello che passa al di sopra della generazione 'persa' del 1968 e al di sopra del deserto della decomposizione verso le future generazioni" (Ibid.).
Le discussioni del Congresso hanno sottolineato che la CCI col passare del tempo (e in particolare dopo la scomparsa del nostro compagno MC, avvenuta poco dopo il crollo dello stalinismo) ha perso abbondantemente di vista la necessità di continuare il lavoro delle frazioni della Sinistra comunista. Ciò si è manifestato nell’aver sottovalutato che il nostro compito principale è quello dell’approfondimento teorico[10] (che non deve essere lasciato a qualche "specialista") e la costruzione dell'organizzazione attraverso la formazione di nuovi militanti trasmettendo loro la cultura della teoria. Il Congresso ha costatato che, negli ultimi venticinque anni, la CCI ha fallito nel trasmettere ai nuovi compagni il metodo della Frazione. Invece di trasmettere il metodo col quale si costruisce sul lungo periodo un'organizzazione centralizzata, abbiamo teso a trasmettere la visione della CCI come un "mini-partito"[11] il cui compito principale sarebbe l'intervento nelle lotte immediate della classe operaia.
All'epoca della fondazione della CCI, una responsabilità immensa ricadeva sulle spalle di MC che era il solo compagno che poteva trasmettere a una nuova generazione il metodo del marxismo sulla costruzione dell'organizzazione e la difesa intransigente dei suoi principi. Oggi nell’organizzazione ci sono molti più militanti sperimentati (e che erano presenti all'epoca della fondazione della CCI), ma esiste sempre un pericolo di "rottura organica" date le nostre difficoltà a fare questo lavoro di trasmissione.
In effetti, le condizioni che hanno presieduto alla fondazione della CCI hanno costituito un enorme handicap per la costruzione dell'organizzazione sul lungo termine. La controrivoluzione stalinista è stata la più lunga e profonda di tutta la storia del movimento operaio. Non c’è mai stata prima, dalla Lega dei Comunisti, una discontinuità, una rottura organica tra le generazioni di militanti. C'è sempre stato un legame vivente da un'organizzazione all'altra e il lavoro di trasmissione dell'esperienza non è mai ricaduto sulle spalle di un solo individuo. La CCI è la sola organizzazione che abbia conosciuto questa situazione inedita. Questa rottura organica, che ha coperto parecchi decenni, ha costituito una debolezza molto difficile da superare ed è stata aggravata anche dalla resistenza della giovane generazione uscita dal Maggio 68 a "imparare" dall'esperienza della generazione precedente. Il peso delle ideologie della piccola borghesia in rivolta, dell’ambiente studentesco contestatario e fortemente contrassegnato dal "conflitto generazionale" (dovuto al fatto che la generazione precedente era stata proprio quella che aveva vissuto profondamente la controrivoluzione) ha rafforzato ulteriormente il peso della rottura organica con l'esperienza vivente del movimento operaio del passato.
Evidentemente la scomparsa di MC, all’inizio del periodo di decomposizione del capitalismo, non poteva che rendere ancora più difficile per la CCI avere la capacità di superare le sue debolezze congenite.
La perdita della sezione della CCI in Turchia è stata la manifestazione più evidente della difficoltà a trasmettere ai giovani militanti il metodo della Frazione. Il Congresso ha fatto una critica molto severa del nostro errore nell’avere integrato in modo prematuro e precipitoso questi ex-compagni quando non c’era da parte loro una reale comprensione degli Statuti e dei principi organizzativi della CCI (con una forte tendenza localista, federalista, che consisteva nel concepire l'organizzazione come una somma di sezioni "nazionali" e non come un corpo unito e centralizzato a livello internazionale).
Il Congresso ha anche sottolineato che il peso dello spirito di circolo e delle dinamiche claniche[12] che fanno parte delle debolezze congenite della CCI, hanno costituito un ostacolo permanente al suo lavoro di assimilazione e di trasmissione delle lezioni dell'esperienza del passato ai nuovi militanti.
Le condizioni storiche in cui la CCI ha vissuto sono cambiate dalla sua fondazione a oggi. Durante i primi anni della nostra esistenza potevamo intervenire in una classe operaia che stava conducendo delle lotte significative. Oggi, dopo venticinque anni di quasi stagnazione della lotta di classe a livello internazionale, la CCI deve impegnarsi in un compito simile a quello di Bilan alla sua epoca: comprendere le ragioni del fallimento della classe operaia a ritrovare una prospettiva rivoluzionaria circa mezzo secolo dopo la ripresa storica della lotta di classe alla fine degli anni 60.
"Il fatto che siamo quasi soli oggi a esaminare dei problemi colossali può pregiudicare a priori i risultati, ma non la necessità di una soluzione" (Bilan n.22, settembre 1935, "Progetto di risoluzione sui problemi dei collegamenti internazionali").
"Questo lavoro non deve essere solo sui problemi che abbiamo bisogno di risolvere oggi per stabilire la nostra tattica ma sui problemi che si porranno domani alla dittatura del proletariato" (Internationalisme n.1, gennaio 1945, "Risoluzione sui compiti politici").
I dibattiti sul bilancio critico dei quarant'anni di esistenza della CCI ci hanno obbligati a considerare il pericolo di sclerosi e di degenerazione che hanno sempre minacciato le organizzazioni rivoluzionarie. Nessuna organizzazione rivoluzionaria è stata mai immune da questo pericolo. L’SPD (Partito Socialdemocratico della Germania) è stato incancrenito dall'opportunismo, fino ad una totale rimessa in causa dei fondamenti del marxismo, in gran parte perché aveva abbandonato ogni lavoro teorico a profitto di compiti immediati allo scopo di guadagnare influenza sulle masse operaie attraverso i successi elettorali. Ma il processo di degenerazione dell’SPD è cominciato molto prima di questo abbandono dei compiti teorici. È cominciato con la distruzione progressiva della solidarietà tra i militanti.
Dopo l'abolizione delle leggi antisocialiste (1878-1890) e con la legalizzazione dell’SPD, la solidarietà tra militanti, che era stata un'esigenza durante il periodo precedente, non era più una cosa ovvia perché non si rischiava più di essere sottoposti alla repressione e alla clandestinità. Questa distruzione della solidarietà (permessa grazie alle condizioni "confortevoli" della democrazia borghese) ha aperto la strada a una crescente depravazione morale all’interno dell’ SPD, che era comunque il partito faro del movimento operaio internazionale. Questa depravazione si è manifestata, per esempio, con la divulgazione di pettegolezzi nauseabondi contro la rappresentante più intransigente della sua ala sinistra, Rosa Luxemburg[13]. È quest’insieme di fattori, e non solamente l'opportunismo e il riformismo, ad aver aperto le porte a un lungo processo di degenerazione interna fino al tracollo dell’SPD nel 1914[14]. Per molto tempo, la CCI ha approcciato la questione dei principi morali solo da un punto di vista empirico, pratico, in particolare all'epoca della crisi del 1981 quando siamo stati confrontati, per la prima volta, a comportamenti teppistici come il furto del nostro materiale da parte della tendenza Chénier[15]. La CCI non ha affrontato questa questione da un punto di vista teorico essenzialmente perché all'epoca della fondazione della CCI esistevano un rigetto e una certa "fobia" del termine "morale". La giovane generazione uscita dal Maggio 68 non voleva (contrariamente a MC) che la parola "morale" comparisse negli Statuti della CCI, mentre l'idea di una morale proletaria era presente negli Statuti della GCF. Questa avversione per la "morale" rappresentava ancora una manifestazione dell'ideologia e dell’approccio della piccola borghesia studentesca dell'epoca.
Solo al ripetersi, nella crisi del 2001, di comportamenti teppistici da parte degli ex-militanti che costituiranno la FICCI, la CCI ha capito la necessità di una riappropriazione teorica delle acquisizioni del marxismo sulla questione della morale. Sono stati necessari diversi decenni per iniziare a capire l’importanza di colmare questa lacuna. Ed è a partire dalla nostra ultima crisi che la CCI ha cominciato una riflessione per meglio comprendere ciò che voleva dire Rosa Luxemburg quando affermava che "il partito del proletariato è la coscienza morale della rivoluzione".
Il movimento operaio nel suo insieme ha trascurato questa questione. Il dibattito all'epoca della Seconda Internazionale non è stato mai sviluppato sufficientemente (in particolare sul libro di Kautsky "Etica e concezione materialista della storia") e la perdita morale è stata un elemento decisivo nella sua degenerazione. Sebbene i gruppi della Sinistra comunista abbiano avuto il coraggio di difendere nella pratica i principi morali proletari, né Bilan, né la GCF hanno trattato questa questione in modo teorico. Le difficoltà della CCI su questo piano devono dunque essere viste alla luce delle insufficienze del movimento rivoluzionario nel corso del ventesimo secolo.
Oggi il rischio di degenerazione morale delle organizzazioni rivoluzionarie è aggravato dai miasmi della putrefazione e della barbarie della società capitalista. Questa questione non riguarda solamente la CCI ma anche gli altri gruppi della Sinistra comunista.
Dopo la nostra ultima Conferenza straordinaria che si era impegnata a identificare la dimensione morale della crisi della CCI, il Congresso si è dato l’obiettivo di discutere della sua dimensione intellettuale. Per tutta la sua esistenza, la CCI ha sempre segnalato regolarmente le sue difficoltà sul piano dell'approfondimento delle questioni teoriche. La tendenza a perdere di vista il ruolo che deve giocare la nostra organizzazione nel periodo storico presente, l'immediatismo nelle nostre analisi, le tendenze attiviste e operaiste nel nostro intervento, il disprezzo per il lavoro teorico e di ricerca della verità, hanno costituito il terreno fertile per lo sviluppo di questa crisi.
La nostra sottovalutazione ricorrente dell'elaborazione teorica (in particolare sulle questioni organizzative) trova le sue fonti nelle origini della CCI: l'impatto della rivolta studentesca con la sua componente accademica (di natura piccolo-borghese) alla quale si è opposta una tendenza attivista "operaista" (di natura gauchisteggiante) che confondeva l’anti-accademismo con il disprezzo della teoria. E ciò in un'atmosfera di contestazione infantile de "l’autorità" (rappresentata dal "vecchio" MC). A partire dalla fine degli anni 80, questa sottovalutazione del lavoro teorico dell'organizzazione è stata alimentata dall'ambiente deleterio della decomposizione sociale che tende a distruggere il pensiero razionale a profitto di credenze e pregiudizi oscurantisti, che sostituisce la cultura della teoria con la "cultura del pettegolezzo"[16]. La perdita delle nostre acquisizioni (e il pericolo di sclerosi che comporta) è una conseguenza diretta di questa mancanza di cultura della teoria. Di fronte alla pressione dell'ideologia borghese, le acquisizioni della CCI (sul piano programmatico, di analisi o organizzative) possono mantenersi solo se arricchite continuamente dalla riflessione e dal dibattito teorico.
Il Congresso ha rilevato che la CCI è ancora affetta dal suo "peccato di gioventù", l'immediatismo, che ci ha fatto perdere di vista, in modo ricorrente, il quadro storico e a lungo termine nel quale si inscrive la funzione dell'organizzazione. La CCI è stata costituita dal raggruppamento di giovani elementi che si sono politicizzati durante una ripresa spettacolare degli scontri di classe (nel Maggio 68). Molti tra questi avevano l'illusione che la rivoluzione fosse già in marcia. I più impazienti e immediatisti si sono demoralizzati e hanno abbandonato il loro impegno militante. Ma questa debolezza si è mantenuta anche tra coloro che sono restati nella CCI. L'immediatismo continua a impregnarci e si è manifestato in numerose occasioni. Il Congresso ha preso coscienza che questa debolezza può esserci fatale perché, associata alla perdita delle acquisizioni e al disprezzo della teoria, sfocia inevitabilmente nell'opportunismo, una deriva che va sempre a minare i fondamenti dell'organizzazione.
Il Congresso ha ricordato che l'opportunismo (e la sua variante, il centrismo) deriva dall'infiltrazione permanente dell'ideologia borghese e piccolo-borghese all’interno delle organizzazioni rivoluzionarie che richiedono una vigilanza e una lotta permanente contro il peso di queste ideologie. Sebbene l'organizzazione dei rivoluzionari sia un "corpo estraneo", antagonista al capitalismo, essa nasce e vive nella società di classe ed è dunque minacciata continuamente dall'infiltrazione di ideologie e pratiche estranee al proletariato, dalle derive che rimettono in causa le acquisizioni del marxismo e del movimento operaio. Durante questi quarant’anni di esistenza, la CCI ha dovuto difendere costantemente i suoi principi e ha dovuto combattere al suo interno, attraverso difficili dibattiti, tutte queste ideologie che si sono manifestate, tra l’altro, attraverso deviazioni gauchiste, moderniste, anarco-libertarie, consiliariste.
Il Congresso ha esaminato anche le difficoltà della CCI a superare un’altra grande debolezza risalente alle sue origini: lo spirito di circolo e la sua manifestazione più distruttrice, lo spirito di clan[17]. Lo spirito di circolo costituisce, come mostra tutta la storia della CCI, uno dei veleni più pericolosi per l'organizzazione. E questo per diversi motivi. Porta in sé la trasformazione dell'organizzazione rivoluzionaria in un semplice raggruppamento di amici, snaturando così la sua natura politica come emanazione e strumento di lotta della classe operaia. Attraverso la personalizzazione delle questioni politiche mina la cultura del dibattito e il chiarimento dei disaccordi attraverso il confronto, coerente e razionale di argomenti. La costituzione di clan o di circoli di amici che si scontrano con l’organizzazione o con alcune delle sue parti distrugge il lavoro collettivo, la solidarietà e l'unità dell'organizzazione. Essendo alimentato da comportamenti emozionali, irrazionali, da rapporti di forza, da animosità personali, lo spirito di circolo si oppone al lavoro del pensiero, alla cultura della teoria, a favore dell'infatuazione per i pettegolezzi, lo spettegolare "tra amici" e le calunnie, minando così la salute morale dell'organizzazione.
La CCI non è riuscita a sbarazzarsi dello spirito di circolo nonostante tutte le lotte fatte durante i suoi quarant’anni di esistenza. La persistenza di questo veleno si spiega con le origini della CCI che si è costituita a partire da circoli e in un ambiente "familista” dove gli affetti (simpatie o antipatie personali) prendono il sopravvento sulla necessaria solidarietà tra militanti che lottano per la stessa causa e sono raccolti intorno a uno stesso programma. Il peso della decomposizione sociale e la tendenza al "ciascuno per sé", ai comportamenti irrazionali, hanno ulteriormente aggravato questa debolezza originaria. E soprattutto, l'assenza di discussioni teoriche approfondite sulle questioni organizzative non ha permesso all'organizzazione nel suo insieme di superare questa "malattia infantile" della CCI e del movimento operaio. Il Congresso ha sottolineato (riprendendo la costatazione già fatta da Lenin nel 1904 in "Un passo avanti, due passi indietro") che lo spirito di circolo è veicolato essenzialmente dalla pressione dell'ideologia della piccola borghesia.
Per affrontare tutte queste difficoltà, e di fronte alla gravità della posta in gioco nell’attuale periodo storico, il Congresso ha evidenziato che l'organizzazione deve sviluppare uno spirito di lotta contro l'influenza dell'ideologia dominante, contro il peso della decomposizione sociale. Questo significa che l'organizzazione rivoluzionaria deve lottare continuamente contro la routine, la superficialità, la pigrizia intellettuale, lo schematismo, e sviluppare lo spirito critico identificando con lucidità i suoi errori e le sue insufficienze teoriche.
Nella misura in cui "la coscienza socialista precede e condiziona l'azione rivoluzionaria della classe operaia" (Internationalisme, "Natura e funzione del partito politico del proletariato"), lo sviluppo del marxismo è il compito centrale di tutte le organizzazioni rivoluzionarie. Il Congresso ha assunto come orientamento prioritario per la CCI il rafforzamento collettivo del suo lavoro di approfondimento e riflessione riappropriandosi della cultura marxista, della teoria in tutti i suoi dibatti interni.
Nel 1903, Rosa Luxemburg deplorava in questo modo l'abbandono dell'approfondimento della teoria marxista: "Solo nel campo economico possiamo trovare in Marx una costruzione quasi perfettamente compiuta. Al contrario, per quanto riguarda la parte dei suoi scritti che presenta il valore maggiore, la concezione materialista e la dialettica della storia, questa resta solo un metodo d’inchiesta, una coppia di linee guide generali che permettono di vedere un mondo nuovo (…) Eppure, anche su questo terreno, a parte piccole ricerche, l'eredità di Marx è restata incolta. Quest’arma meravigliosa viene lasciata arrugginire. La stessa teoria del materialismo storico è ancora oggi molto schematica, poco approfondita rispetto a quella lasciataci dal suo creatore. (…) Pensare che la classe operaia in piena lotta, possa, grazie al contenuto stesso della sua lotta di classe, esercitare all'infinito la sua attività creatrice nel dominio teorico, sarebbe farsi delle illusioni" ("Arresto e progresso del marxismo").
La CCI oggi si trova in un periodo di transizione. Grazie al bilancio critico che ha intrapreso, alla capacità di esaminare le sue debolezze, a riconoscere i suoi errori, essa sta facendo una critica radicale della visione dell'attività militante avuta fino ad ora, dei rapporti tra militanti e dei militanti con l'organizzazione, avente come linea guida la questione della dimensione intellettuale e morale della lotta del proletariato. È dunque in una vera e propria "rinascita culturale" che dobbiamo impegnarci per poter continuare a "imparare" e assumerci le nostre responsabilità. È un processo lungo e difficile, ma vitale per l'avvenire.
Durante tutta la sua esistenza, la CCI ha dovuto combattere in permanenza per la difesa dei suoi principi contro la pressione ideologica della società borghese, contro i comportamenti anti-proletari e le manovre di avventurieri senza fede né legge. La difesa dell'organizzazione è una responsabilità politica e anche un dovere morale. L'organizzazione rivoluzionaria non appartiene ai militanti ma all'insieme della classe operaia. È un'emanazione della sua lotta storica, uno strumento della sua lotta per lo sviluppo della coscienza in vista della trasformazione rivoluzionaria della società.
Il Congresso ha insistito sul fatto che la CCI è un "corpo estraneo" in seno alla società, antagonista e nemico del capitalismo. È proprio per tale motivo che la classe dominante è molto interessata alla nostra attività, fin dall'inizio della nostra esistenza. Questa realtà non ha niente a che vedere con la paranoia o la "teoria del complotto". I rivoluzionari non possono avere l'ingenuità degli ignoranti della storia del movimento operaio e ancora meno cedere alle lusinghe della democrazia borghese (e della sua "libertà di espressione"). Se oggi la CCI non è sottoposta alla repressione diretta dello Stato capitalista, è perché le nostre idee sono molto minoritarie e non rappresentano nell’immediato alcun pericolo per la classe dominante. Proprio come Bilan e la GCF, noi nuotiamo "controcorrente". Tuttavia, anche se oggi la CCI non ha nessuna influenza diretta e immediata nel corso delle lotte della classe operaia, diffondendo le sue idee, sparge i semi per il futuro. Pertanto la borghesia è ben interessata alla scomparsa della CCI che è la sola organizzazione internazionale centralizzata della Sinistra comunista con sezioni in diversi paesi e continenti.
Questo alimenta anche l'odio degli elementi declassati[18] che sono sempre a caccia di "segni premonitori" della nostra scomparsa. La classe dominante non può che esultare nel vedere tutta una costellazione d’individui, che dicono di richiamarsi alla Sinistra comunista, agitarsi intorno alla CCI (attraverso blogs, siti, forum Internet, Facebook e altri network) per divulgare pettegolezzi e calunnie contro la CCI, attacchi osceni e metodi polizieschi che prendono di mira, in modo ripetuto e nauseante, alcuni nostri militanti.
Il Congresso ha evidenziato che la recrudescenza degli attacchi contro la CCI, da parte di quest’ambiente parassita[19] che cerca di recuperare e snaturare il lavoro militante dei gruppi della Sinistra comunista, è una manifestazione della putrefazione della società borghese.
Il Congresso ha preso consapevolezza della nuova dimensione raggiunta dal parassitismo dall'inizio del periodo di decomposizione. Il suo obiettivo, dichiarato o meno, mira oggi non solo a seminare scompiglio e confusione, ma soprattutto a sterilizzare le potenziali forze che potrebbero politicizzarsi intorno alle organizzazioni storiche della Sinistra comunista. Mira a creare un "cordone sanitario" (in particolare agitando lo spettro dello stalinismo che imperverserebbe ancora nella CCI!) per impedire ai giovani elementi in ricerca di avvicinarsi alla nostra organizzazione. Questo boicottaggio va oggi a completare le campagne anticomuniste scatenate dalla borghesia all'indomani del crollo dei regimi stalinisti. Il parassitismo è il migliore alleato della borghesia decadente contro la prospettiva rivoluzionaria del proletariato.
Mentre il proletariato ha enormi difficoltà a ritrovare la sua identità di classe rivoluzionaria e a ricongiungersi con il suo passato, le calunnie, gli attacchi e la mentalità nauseabonda di individui che si richiamano alla Sinistra comunista e che denigrano la CCI possono fare solamente il gioco della classe dominante e difendere il suo interesse. Assumendo la difesa dell'organizzazione, non difendiamo la nostra "cappella". Per la CCI si tratta di difendere i principi del marxismo, della classe rivoluzionaria e della Sinistra comunista che rischiano di essere inghiottiti dall'ideologia del "no future" che il parassitismo drena con sé.
Il rafforzamento della difesa pubblica e intransigente dell'organizzazione è un orientamento di cui si è dotato il Congresso. La CCI è pienamente consapevole che quest’orientamento, nell’immediato, ci può portare a non essere compresi, a essere criticati per la mancanza di "fair play" e dunque a un isolamento maggiore. Ma la cosa peggiore sarebbe lasciar fare al parassitismo il suo lavoro di distruzione senza reagire. Il Congresso ha messo in evidenza che, anche su questo piano, la CCI deve avere il coraggio di "nuotare contro corrente", così come ha avuto il coraggio in questo Congresso di fare una critica implacabile dei suoi errori e difficoltà e renderne conto pubblicamente.
"Per il movimento proletario, l'autocritica, un'autocritica senza sconti, crudele, che va fino in fondo alle cose, è l'aria, la luce senza le quali non può vivere (…) Ma non siamo ancora persi e vinceremo purché non avremo disimparato a imparare. E se mai la guida attuale del proletariato, la socialdemocrazia, non sapesse più imparare, allora perirebbe "per fare posto a uomini che siano all'altezza di un mondo nuovo" (Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia).
CCI (dicembre 2015)
[1] Bilan era, tra il 1933 e il 1938, il nome della pubblicazione in lingua francese della Frazione di Sinistra del Partito comunista d'Italia divenuta, nel 1935, la Frazione italiana della Sinistra comunista.
[2] Conferenza internazionale straordinaria della CCI: la “notizia” della nostra scomparsa è ampiamente esagerata! [44]
[3] Vedi in particolare il nostro articolo "Ressorts, contradictions et limites de la croissance en Asie de l’Est [45]
[4] Quest’analisi è al momento oggetto di una discussione e di un approfondimento all’interno dell’organizzazione.
[5] Vedi in particolare After the collapse of the Eastern Bloc, destabilization and chaos Rivista Internazionale n.61, disponibile anche in francese e spagnolo.
[6] MC, Marc Chirik, è stato un militante della Sinistra comunista, nato a Kichinev (Bessarabia) nel 1907, deceduto a Parigi nel 1990. Suo padre era rabbino e suo fratello maggiore segretario del partito bolscevico della città. È al suo fianco che Marc ha assistito alle rivoluzioni di febbraio e ottobre 1917. Nel 1919, per sfuggire ai pogrom antiebraici degli eserciti bianchi rumeni, tutta la famiglia emigra in Palestina e Marc, appena tredicenne, diventa membro del Partito comunista della Palestina fondato da suo fratello e dalle sue sorelle maggiori. Molto presto entra in disaccordo con la posizione dell'Internazionale comunista di sostegno alle lotte di liberazione nazionale, cosa che gli vale una prima espulsione nel 1923. Nel 1924, mentre alcuni membri del gruppo famigliare ritornano in Russia, Marc e uno dei suoi fratelli vanno a vivere in Francia. Marc entra nel PCF dove, rapidamente, si batte contro la sua degenerazione e da cui è espulso nel febbraio 1928. Per un certo tempo membro dell'opposizione di Sinistra internazionale animata da Trotsky, inizia la lotta contro la deriva opportunista di quest’ultima e partecipa nel novembre 1933, in compagnia di Gaston Davoust (Chazé), alla fondazione dell'Unione Comunista che pubblica l’Internationale. Al momento della Guerra di Spagna, questo gruppo adotta una posizione ambigua sulla questione dell'antifascismo. Dopo essersi battuto contro questa posizione, MC raggiunge, all’inizio del ‘38, la Frazione italiana della Sinistra comunista con la quale era in contatto e che difende una posizione perfettamente proletaria e internazionalista su questa questione. Poco dopo, inizia una nuova lotta contro le analisi di Vercesi, principale animatore di quest’organizzazione, secondo il quale i differenti conflitti militari che si svolgevano all'epoca non erano dei preparativi per una nuova guerra mondiale ma avevano per scopo schiacciare il proletariato per impedirgli di lanciarsi in una nuova rivoluzione. Di conseguenza lo scoppio della guerra mondiale nel settembre 1939 crea uno sbandamento all’interno della Sinistra italiana. Vercesi teorizza una politica di ritiro politico durante il periodo di guerra mentre Marc raggruppa nel Sud della Francia i membri della Frazione che si rifiutavano di seguire Vercesi nel suo ritiro. Nelle peggiori condizioni, Marc e un piccolo nucleo di militanti proseguono il lavoro portato avanti dalla Frazione italiana dal 1928, ma nel 1945, appreso della costituzione in Italia del Partito comunista internazionalista che si richiama alla Sinistra comunista italiana, la Frazione decide il suo scioglimento e l'integrazione individuale dei suoi membri nel nuovo partito. Marc, in disaccordo con questa decisione che andava contro tutto l'orientamento che in precedenza aveva distinto la Frazione italiana, raggiunge la Frazione francese della Sinistra comunista (della quale già ispirava le posizioni) che diventerà, di lì a poco, la Sinistra comunista di Francia (GCF). Questo gruppo pubblicherà 46 numeri della sua rivista Internationalisme, proseguendo la riflessione teorica portata avanti precedentemente dalla Frazione, in particolare ispirandosi agli apporti della Sinistra comunista tedesco-olandese. Nel 1952, considerando che il mondo s’incamminava verso una nuova guerra mondiale di cui l'Europa sarebbe stata di nuovo il principale campo di battaglia, il che avrebbe minacciato la distruzione delle minuscole forze rivoluzionarie sopravvissute, la GCF decide che diversi suoi militanti si disperdano su altri continenti. Marc andrà a vivere in Venezuela. Questo è stato uno dei principali errori commessi dalla GCF e da MC, la cui conseguenza fu la scomparsa formale dell'organizzazione. Tuttavia, dal 1964, Marc raggruppa intorno a sé un certo numero di elementi molto giovani con i quali formerà il gruppo Internacionalismo. Nel maggio 1968, appena viene a sapere dello scoppio dello sciopero generalizzato in Francia, Marc va in questo paese per ricontattare i suoi vecchi compagni e assume un ruolo decisivo (insieme a un elemento che era stato membro di Internacionalismo in Venezuela) nella formazione del gruppo Révolution Internationale. Gruppo che darà impulso al raggruppamento internazionale da cui si costituirà, nel gennaio 1975, la Corrente comunista internazionale. Fino al suo ultimo respiro, nel dicembre 1990, Marc Chirik ha sostenuto un ruolo essenziale nella vita della CCI, specialmente nella trasmissione delle acquisizioni sul piano organizzativo dell’esperienza passata del movimento operaio e nei suoi avanzamenti teorici. Per maggiori elementi sulla biografia di MC, vedi i nostri articoli nei numeri 65 e 66 della Rivista Internazionale, in inglese, francese e spagnolo su questo sito
[7] Conferenza internazionale straordinaria della CCI: la “notizia” della nostra scomparsa è ampiamente esagerata! [44]
[8] Vedi i nostri documenti pubblicati nella Rivista Internazionale: The Historic Conditions for the Generalization of Working Class Struggle [46] (n.26)
The proletariat of Western Europe at the centre of the generalization of the class struggle [47] (n. 31)
Debate: On the critique of the theory of the "weakest link" [48] (n.37)
Disponibili anche in francese e spagnolo
[9] La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [49]
[10] Il che non significa affatto che questo approfondimento non sia di attualità all'epoca di un periodo rivoluzionario o di movimenti importanti della classe operaia dove l'organizzazione può esercitare un'influenza determinante sul corso delle lotte. Per esempio, Lenin ha scritto il suo lavoro teorico più importante, Stato e rivoluzione, nel corso stesso degli avvenimenti rivoluzionari del 1917. Marx ha pubblicato Il Capitale, nel 1867, quando dal settembre 1864 era pienamente implicato nell'azione dell’AIT.
[11] Questa nozione di "mini-partito" o "partito in miniatura" contiene l'idea che anche nei periodi in cui la classe operaia non sviluppa lotte di notevole portata, una piccola organizzazione rivoluzionaria potrebbe avere lo stesso impatto di un partito nel pieno senso del termine, anche se a scala ridotta. Una tale idea è in contraddizione totale con l'analisi sviluppata da Bilan che sottolineava la differenza qualitativa fondamentale tra il ruolo di un partito e quello di una frazione. Bisogna notare che la Tendenza comunista internazionalista, che pure si richiama alla Sinistra comunista italiana, non è chiara su questa questione poiché la sua sezione in Italia continua oggi a chiamarsi "Partito comunista internazionalista".
[12] Su questa questione, vedi in particolare il nostro testo The question of organisational functioning in the ICC [50] Rivista Internazionale n.109 (anche in francese e spagnolo), in particolare il punto 3.1. e il paragrafo “I rapporti tra militanti”.
[13] Queste campagne abiette contro Rosa Luxemburg costituivano, in un certo senso, dei preparativi al suo assassinio su ordine del governo diretto dall’SPD durante la settimana di sangue a Berlino nel gennaio 1919 e più globalmente gli appelli al pogrom contro gli spartachisti lanciati da questo stesso governo.
[14] Le chemin vers la trahison de la Social-démocratie allemande [51], numero speciale della Rivista Internazionale dedicato alla Prima Guerra mondiale
[15] Su “l’affare Chénier” vedi The present convulsions in the revolutionary milieu [52], Rivista Internazionale n. 28, anche in francese e spagnolo, in particolare i paragrafi "Le difficoltà relative all’organizzazione" e "I recenti avvenimenti".
[16] “I diversi elementi che costituiscono la forza del proletariato si scontrano direttamente con i diversi aspetti di questa decomposizione ideologica:
- l’azione collettiva, la solidarietà, contro l’atomizzazione, il “ciascuno per sé”, l’“arrangiarsi individuale”;
- il bisogno di organizzazione contro la decomposizione sociale, la distruzione dei rapporti su cui poggia la vita sociale;
- la fiducia nell’avvenire e nelle sue proprie forze continuamente minate dalla disperazione generale che pervade la società, dal nichilismo, dalla “mancanza di futuro”;
- la coscienza, la lucidità, la coerenza e l’unità del pensiero, l’inclinazione per la teoria hanno difficoltà ad affermarsi di fronte alla fuga nelle chimere, la droga, le sette, il misticismo, il rigetto della riflessione e la distruzione del pensiero che caratterizzano la nostra epoca”. La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [49]
[17] Vedi nota 12.
[18] Vedi, Costruzione dell'organizzazione rivoluzionaria. Tesi sul parassitismo [53], in particolare il punto 20.
[19] Vedi "Tesi sul parassitismo", cf. nota precedente.
“Una cosa è certa, la guerra mondiale è un punto di svolta per il mondo (...) in seguito all'eruzione del vulcano imperialista, il ritmo del cambiamento ha ricevuto un impulso così violento che, per i conflitti che si avranno nella società e per i compiti che attendono il proletariato socialista nell'immediato futuro, tutta la storia del movimento operaio sembra essere stata finora un’epoca paradisiaca.” (Rosa Luxemburg, Brochure di Junius, 1916)
La spinta brutale e violenta del capitalismo decadente evocata da Rosa Luxemburg è particolarmente vera per la sorte delle popolazioni civili del XX secolo fatte oggetto di eventi senza precedenti: confino nei campi, esodi, deportazioni ed epurazioni di massa. L'effetto combinato delle guerre, della crisi economica e delle condizioni di oppressione nella decadenza del capitalismo ha creato un ingranaggio irrazionale, una violenza cieca fatta di pogrom, "pulizia etnica" ed una militarizzazione ad oltranza. Il XX secolo è uno dei più barbari della storia!
Il 1914 e l'isteria sciovinista aprono una spirale di violenza senza precedenti. Se in passato le guerre portavano spesso a massacri locali e oppressione, non hanno mai causato grandi esodi di massa, controllo delle popolazioni e una paranoia da parte degli Stati nel volerle controllare a tutti i costi. La guerra moderna invece diventa totale.
Mobilita per anni l'intera popolazione e la macchina economica dei paesi belligeranti, distrugge decenni di lavoro umano, provoca decine di milioni di morti, porta alla fame centinaia di milioni di esseri umani. I suoi effetti non si limitano più alla semplice conquista, con il suo seguito di stupri e saccheggi, ma ad una gigantesca distruzione del mondo intero. Allo sradicamento, all'esodo dalle campagne causato da rapporti sociali capitalistici, la guerra totale aggiunge la mobilitazione e il coinvolgimento brutale di tutta la società civile al servizio del fronte o direttamente in trincea. È un salto di qualità. Le popolazioni, in maggior parte i giovani, si trovano forzatamente reclutate come soldati, costrette ad affrontarsi in un bagno di sangue. I civili nelle retroguardie vengono dissanguati per lo sforzo bellico e i prigionieri delle nazioni nemiche si trovano per la prima volta concentrati nei campi. Anche se nella Grande Guerra non ci sono ancora dei campi di sterminio, tuttavia si può già parlare di reclusione e deportazione. Qualsiasi straniero diventa necessariamente sospetto. Nel Regno Unito, ad esempio, gli stranieri vengono rinchiusi nei campi da corsa di Newbury o sull'Isola di Man. In Germania, i prigionieri e i civili sono intrappolati nei campi di Erfurt, Münster e Darmstadt. In Francia, dal 1914 al 1920, vengono utilizzati 70 campi di confino sulla costa occidentale (come nella baia di Brest) e nei dipartimenti del sud.
Si tratta di edifici già esistenti o di perimetri sorvegliati e circondati da filo spinato. Il passaggio da un campo all'altro veniva già effettuato in carri bestiame ed ogni rivolta sedata con violenza. Inutile dire che il più semplice militante comunista veniva internato come ad esempio tutte quelle donne "compromesse con il nemico" e altri "indesiderati". Un campo come Pontmain permetteva di rinchiudere i turchi, gli austro-ungarici e i tedeschi (i più numerosi). Si tratta di una prefigurazione dei campi di concentramento che si sarebbero realizzati negli anni '30 per raggiungere poi il massimo sviluppo durante la Seconda guerra mondiale. Mentre venivano incoraggiati i pregiudizi xenofobi, gli indigeni di terre lontane venivano contemporaneamente spinti in Europa dai reclutatori, forzatamente arruolati e utilizzati per farsi massacrare. Dal 1917 al 1918, sotto gli ordini di Clemenceau in Francia, saranno inviati al fronte 190 mila nordafricani. 170 mila uomini dell'Africa occidentale, i famosi "soldati senegalesi", saranno mobilitati con forza. Persino dei cinesi verranno mobilitati da Francia e Gran Bretagna. L’Inghilterra invierà in guerra africani e indù (1,5 milioni solo dal subcontinente indiano). I belligeranti, come dimostrato anche dalle "divisioni selvagge" del Caucaso dell'esercito russo, fabbricheranno carne da cannone specializzata, con tutti questi "non bianchi", per le più pericolose imprese militari. Al di là dei soldati scappati, oltre 12 milioni di europei furono spinti a sfuggire dalla guerra e diventare "rifugiati".
Questo fu il caso del popolo armeno che visse una delle tragedie più significative della guerra, da considerare come il primo vero genocidio del XX secolo. Nel corso del XIX secolo, il desiderio di emancipazione degli armeni (come dei greci) divenne uno dei principali motivi della loro persecuzione da parte degli ottomani. Un movimento politico, detto dei "giovani turchi", permeato di un potente nazionalismo costituito dall’ideologia panturca avrebbe preparato questo terribile disastro. Divenuti capri espiatori durante la guerra, in particolare nel momento della sconfitta contro i russi, gli armeni furono oggetto di un massacro precedentemente pianificato e programmato dall’aprile 1915 all’autunno del 1916. Dopo aver arrestato inizialmente gli intellettuali, il resto della popolazione armena fu deportata e sistematicamente decimata dallo Stato turco. Donne e bambini vennero trasportati con barche, annegati al largo della costa o venduti come schiavi. La ferrovia e la strada verso Baghdad vennero utilizzate per una deportazione di massa nel deserto o nei campi, dove molti saranno sterminati. Molti armeni alla fine moriranno di sete nel deserto della Mesopotamia. Coloro che sfuggirono al massacro divennero profughi miserabili, tra cui migliaia di orfani. Si ebbe dunque una vera e propria diaspora (una buona parte si recò negli Stati Uniti dove c'è ancora una comunità significativa). Il tutto, naturalmente, è stato rapidamente dimenticato dalle "grandi democrazie". Eppure si è trattato di più di un milione di armeni uccisi!
Il crollo degli ultimi grandi imperi durante questa terribile guerra, aveva generato una moltitudine di tensioni nazionaliste, con conseguenze disastrose per molte altre minoranze. La formazione degli Stati-nazione, conclusasi alla vigilia della Prima guerra mondiale, si accompagnò alla frammentazione dei vecchi e agonizzanti imperi. Questo fu particolarmente vero per l’Impero austro-ungarico e quello ottomano, le cui popolazioni si distribuirono come in un mosaico, attorniate dalle potenze imperialiste europee, simili ad avvoltoi affamati. In lotta per la propria sopravvivenza, questi imperi in rovina, come ultima risorsa, cominciarono a fortificare i propri confini, a realizzare disperate alleanze militari, a spostare le popolazioni, tentando assimilazioni forzate che generarono solo ulteriori divisioni e "pulizie etniche". Il conflitto greco-turco, spesso presentato come il risultato della reazione "spontanea" delle folle turche, venne perfettamente orchestrato dal nuovo nascente Stato e dal suo moderno leader Mustafa Kemal Atatürk. Stava fondando una nazione turca ed intraprendendo una lunga e sanguinosa guerra contro i greci. Durante questo conflitto, i greci si abbandonarono a saccheggi, gruppi di civili, riuniti in bande, bruciavano i villaggi turchi, commettendo atrocità di ogni sorta contro i loro abitanti. Da parte loro, dal 1920 al 1923, anche le forze armate turche commisero ogni sorta d'atrocità e crudeli massacri contro greci e armeni. Fin dall'inizio, si ebbe un trasferimento di popolazioni: greci provenienti dalla Turchia e viceversa (1,3 milioni di greci dalla Turchia e 385.000 turchi provenienti dalla Grecia). Nel 1923, il Trattato di Losanna approvò queste pratiche violente con una serie di procedure amministrative. Migliaia di greci e turchi vennero espulsi con questo scambio ufficiale e molti di loro moriranno proprio durante l’esodo.
In queste circostanze, con tali movimenti e con una concentrazione di popolazioni indebolite e affamate in tutto il continente, non è sorprendente che si siano moltiplicati anche focolai di infezioni patogene.
L’Europa centrale e orientale fu rapidamente colpita dal tifo. In modo molto più drammatico, il mondo sarebbe stato colpito dalla "influenza spagnola" che, diffondendosi rapidamente a causa del sovraffollamento causato dalla guerra, mieté da 40 a 50 milioni di morti. Il peggior ricordo risaliva al colera del XIX secolo. Bisognava tornare al Medioevo con la grande peste dell’Occidente, per ritrovare epidemie di così grandi dimensioni (il 30% della popolazione era stato decimato). Questa realtà barbara si rese possibile perché la classe operaia era stata imbrigliata nel nazionalismo ed imbevuta di patriottismo. Ed è di fronte a queste atroci condizioni che il proletariato aveva alzato la testa, dimostrando con la sua forza che solo lui poteva fermare la carneficina ed arrestare la macchina da guerra.
È in seguito agli ammutinamenti del 1917 e all'ondata rivoluzionaria che si sarebbe avuta in Russia, ai sollevamenti operai in Germania (rivolte dei marinai di Kiel nel 1918 e insurrezioni nelle grandi città come a Berlino), che i principali belligeranti si videro costretti a firmare l'armistizio. Di fronte alla minaccia di una rivoluzione mondiale imminente fu necessario porre fine al conflitto.
Di fronte alle diserzioni, alla smobilitazione e soprattutto al rischio di deflagrazione sociale, la classe dominante aveva solo una ossessione: schiacciare i focolai della rivoluzione comunista. Per schiacciare il proletariato si sarebbe scatenata in tutto il mondo una nuova ondata di violenza. Un odio potente spinse la reazione a circondare la Russia bolscevica con gli eserciti dell'Intesa. Si scatenò la terribile guerra civile delle "armate bianche". Gli eserciti degli Stati capitalisti dell'Europa, degli Stati Uniti e del Giappone, con la loro guerra contro la classe operaia in Russia, provocarono numerose vittime. Un vero e proprio blocco produsse una grande carestia nella stessa Russia. Il proletariato era diventato il nemico comune di tutto il mondo capitalistico. Di fronte alla minaccia proletaria, era necessario “collaborare”. Ma a differenza di quella dei vincitori, la borghesia e in particolare la piccola borghesia dei paesi vinti, come la Germania, avrebbe maturato un sentimento profondo, quello di aver ricevuto una “pugnalata alla schiena”, essendo stata “umiliata” dal “nemico interno”. Le condizioni drastiche del trattato di Versailles spinsero alla ricerca di capri espiatori sviluppando l’antisemitismo e una vera e propria caccia all'uomo contro i comunisti, accusati di tutti i mali (come la caccia aperta agli spartachisti). Il punto culminante si raggiunse con la Comune di Berlino nel 1919 ed i successivi massacri di estrema ferocia: “Ben forniti, i macellai si misero all’opera. Mentre interi blocchi di case crollavano sotto il fuoco dell'artiglieria e dei mortai, seppellendo intere famiglie sotto le macerie, altri proletari morivano dinanzi alle loro case, nei cortili delle scuole, nelle stalle, fucilati, colpiti con il calcio dei fucili, trafitti da baionette, spesso denunciati da informatori anonimi. Messi al muro da soli, in coppia, in gruppi di tre o più; o uccisi da un colpo di pistola alla nuca, di notte, sulle rive della Sprea. Per settimane, il fiume ha gettato cadaveri sulla riva.”[1]
Le successive sconfitte del proletariato sono state punteggiate dall'assassinio delle grandi figure del movimento operaio, le più famose delle quali furono Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Negli anni '20, la repressione feroce contro ogni forma di opposizione si dispiegherà più facilmente della controrivoluzione stalinista, con l'espulsione e l'omicidio, la creazione dei campi di lavoro e di internamento, i gulag, ci sarà la caccia ai rivoluzionari e saranno imprigionati sempre più sistematicamente i gruppi e gli operai sospettati di “adunata sediziosa”.
Nel quadro della decadenza del capitalismo e del contesto di questa controrivoluzione, l'odio nei confronti del comunismo e l'assimilazione all’apolide ebreo avrebbe contribuito a un cambiamento qualitativo dei pogrom antisemiti.
Già nel XIX secolo c’era stata una serie di pogrom contro gli ebrei in Russia, in particolare dopo l'annessione della Polonia. Episodi di violenza contro gli ebrei erano per esempio ricorrenti a Odessa nella prima metà del XIX secolo. Tra il 1881 e il 1884, dei violenti pogrom provocarono dei massacri. La gente del posto venne incitata e incoraggiata dalle autorità locali ad effettuare saccheggi, stupri e omicidi. Nel 1903, una terribile ondata di pogrom colpì la città di Kishinev, gli ebrei furono accusati in modo del tutto irrazionale e oscurantista di “praticare crimini rituali”. Dal 1879 al 1914, quasi due milioni di ebrei divennero profughi. Nei primi anni '20, una nuova ondata di pogrom toccherà l’Europa. Durante la guerra civile in Russia, decine di migliaia di ebrei furono massacrati dalle “armate bianche”, in Ucraina e Bielorussia, in particolare quelle delle truppe di Denikin.[2]
Durante questo periodo, i pogrom nell’ex impero russo avrebbe prodotto tra i 60.000 e 150.000 morti.[3]
La sconfitta del proletariato in Germania avrebbe generato crescenti tensioni verso gli ebrei, un po’ dappertutto in Europa, spingendo ai primi esodi. Il programma del NSDAP (il partito nazista) del 24 febbraio 1920, poteva permettersi di sottolineare che “per essere un cittadino, bisogna avere sangue tedesco, poco importa la confessione. Nessun ebreo può dunque essere un cittadino”.
Con la preparazione e l'entrata in guerra, si era aperta una nuova era: quella della decadenza del capitalismo e della sua tendenza universale al Capitalismo di Stato. Oramai ogni Stato era costretto a esercitare un controllo burocratico su tutta la vita sociale. Per quanto riguarda il rafforzamento delle frontiere, i controlli e le estorsioni contro le popolazioni di esiliati e rifugiati, si moltiplicarono in nome di interessi militari o di sicurezza degli Stati. A differenza del periodo precedente, dopo la Prima guerra mondiale, le migrazioni furono ora soggette a restrizioni. Fu in questo periodo che si costruirono i principali strumenti amministrativi anti-migranti. Lo spostamento delle popolazioni avutosi durante la guerra portò gli Stati a creare un vero e proprio controllo di polizia delle identità e a sistematicamente sospettare e schedare gli stranieri.
In Francia, per esempio: “la creazione di una carta di identità nel 1917 è un vero stravolgimento delle pratiche amministrative e di polizia. Le nostre menti sono ora integrate in questa stampigliatura individuale le cui origini non sono più percepite come di polizia. Non è, pertanto, per caso che l'istituzione della carta d'identità abbia dapprima interessato gli stranieri, al fine di sorvegliarli, e questo in pieno stato di guerra”[4].
Fin dall'inizio, le forze armate hanno visto lo spostamento di civili (spontaneo o indotto) come una reale minaccia, un “ingombro” per l'attività di truppe e la logistica militare. Gli Stati hanno sin dall'inizio cercato di dare gli ordini di evacuazione, a volte strumentalizzando la situazione dei civili e dei rifugiati per utilizzarla come un'arma di guerra, come è avvenuto durante il conflitto greco-turco. La “soluzione” che si sviluppò e si impose fu, come abbiamo visto, la proliferazione dei campi di confino. Quando i rifugiati sono dovuti fuggire dalle zone di combattimento (come è stato il caso nel 1914 dei belgi di fronte agli “invasori”), anche se hanno beneficiato della solidarietà e del lavoro delle associazioni, molti civili si sono trovati direttamente sotto il controllo delle autorità terminando il proprio doloroso esodo nei campi. I prigionieri venivano divisi per nazionalità o “pericolosità” in una grande promiscuità. Ecco le decisioni degli Stati che difendono i loro sordidi interessi capitalistici, con in testa i più “democratici”, che furono i veri assassini di civili trasformati in ostaggi. Dopo la guerra, dopo la sconfitta ideologica e fisica del proletariato, l'inasprimento della vendetta apriva un periodo di preparazione di un conflitto ancor più barbaro e micidiale.
In un contesto di rovine, gli Stati europei si sono ritrovati in grande difficoltà a causa della distruzione della loro forza-lavoro. Così alcuni accordi cercarono di promuovere l'emigrazione economica. Negli anni '20, la Francia per esempio reclutò immigrati italiani, polacchi e cecoslovacchi, preludio a nuove campagne xenofobe a causa della crisi economica e della terribile depressione che ne sarebbe seguita, poco prima dell'avvio aperto a una nuova guerra mondiale.
WH (28 giugno 2015)
L'inizio di un Secondo olocausto mondiale porterà la barbarie a livelli sconosciuti per civili e rifugiati.
In un secondo articolo affronteremo questa tragedia.
[1] Fröhlich, Lindau, Schreiner, Walcher, Révolution et contre-révolution en Allemagne 1918-1920, Ed. Science marxiste.
[2] In seguito a questi pogrom, il nostro compagno MC, ad esempio, fu costretto ad esiliare con una parte della sua famiglia, rifugiandosi i Palestina (vedi Revue internationale n°65 et n°66. 2e et 3e trimestre 1991).
[3] Secondo Le livre des pogroms, antichambre d'un génocide, diretto da Lidia Miliakova.
[4] P.J Deschodt et F. Huguenin, La République xénophobe, Ed. JC Lattès)
Dalla redazione di questo editoriale, la situazione dei profughi, sempre più numerosi, che fuggono dalla spirale guerriera di zone devastate, non ha fatto che aggravarsi. Mentre l'Ungheria ha sbarrato totalmente la strada ai migranti dopo aver eretto il suo muro di fili spinati, la nuova strada presa verso la Slovenia si rivela una vera catastrofe umana. A sua volta, la Slovenia cerca di arginare il fenomeno ammassando nei suoi campi recintati migliaia di persone in condizioni drammatiche: senza nessuna coperta, le persone dormono sul suolo e cercano di scaldarsi bruciando plastiche tossiche. Dal 17 ottobre, più di 90.000 migranti sono transitati per questo piccolo paese dell'UE. La stessa Austria annuncia di voler chiudere la frontiera slovena. Dietro il folclore del mini-vertice dell'Unione Europea del 25 ottobre a Bruxelles e le concrete divisioni sui profughi, in seno alla borghesia traspare un punto di accordo unanime: la necessità di rafforzare il controllo repressivo poliziesco e costruire barriere, creare un nuovo muro e dei campi in periferia per contenere "gli indesiderabili", coloro che un buon numero di questi stessi Stati pretende ipocritamente di volere accogliere. È così che un vero muro viene eretto e che un vasto campo di 100.000 persone è previsto come emergenza nei Balcani. Più di 400 poliziotti saranno sul piede di guerra. In Grecia, lo stesso governo di Tsipras partecipa a questa impresa nauseabonda. In breve, gli Stati capitalisti si corazzano nello stesso momento in cui vengono attizzati i populismi e la xenofobia. La Germania attualmente rende drasticamente più dure le condizioni di accesso nel suo territorio ed organizza la repressione a grande scala di coloro che sono tacciati come "profughi economici". Mai come oggi, le parole di Rosa Luxemburg ben esprimono la realtà barbara e mortale di un capitalismo decadente nella sua fase di decomposizione: "oggi, niente più sorprende, nessuna cosa ha un'importanza più decisiva per la vita politica e sociale attuale quanto la contraddizione tra questo fondamenta economico comune che unisce ogni giorno sempre più saldamente e strettamente tutti i popoli in una grande totalità e la superstruttura politica degli Stati che cercano di dividere artificialmente i popoli, attraverso le stazioni di frontiera, le barriere doganali ed il militarismo, in altrettante frazioni straniere ed ostili le une agli altri"[1].
L'esistenza di frontiere ma anche le delimitazioni della proprietà privata sono altrettanto vecchie come l'esistenza della stessa proprietà. Non c'è proprietà riconosciuta senza la demarcazione e la difesa di questa. Con l'avvento dei grandi imperi come Roma o la Cina, sono stati eretti dei bastioni che delimitano le frontiere: il Muro di Adriano, i Limes, la Grande Muraglia cinese. Così, l'esistenza di tali frontiere per difendere un impero contro l'invasione di rivali non è nuova.
Tuttavia, poiché per molto tempo il pianeta non è risultato interamente "ripartito" tra i principali rivali capitalisti, le sue frontiere non sono state molto protette e la loro delimitazione poteva essere cambiata attraverso trattati firmati "al tavolo dei negoziati". Per esempio, nel 1884, alla Conferenza di Berlino, le frontiere dell'Africa potevano essere anche stabilite su una carta. All'inizio del XIX secolo, un territorio grande come l'Alaska fu venduto dallo zar della Russia agli Stati Uniti. Alla svolta del XIX secolo, la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti era appena controllata. E, al momento della Prima Guerra mondiale, le frontiere in Europa non erano ancora strettamente vigilate.
È solamente all'inizio del XX secolo, una volta che il mondo risultò diviso tra i principali rivali capitalisti, che la difesa dei territori diventò una posta più importante. Anche se la Prima Guerra mondiale ha visto grandi battaglie per i territori (come la guerra di trincee in Belgio ed in Francia, con il loro terribile costo in vite umane ed in materiale), le frontiere sono restate molto "aperte" dopo la guerra. I risarcimenti imposti ai paesi vinti dal trattato di Versailles erano o una perdita relativamente minore di territorio (la Saar tedesca "abbandonata" alla Francia, o le vecchie colonie tedesche che hanno cambiato proprietario), o un compenso finanziario conseguente. Ma non c'era ancora spartizione di paesi interi, né la fortificazione delle frontiere come quelle prodotte dopo la II guerra mondilale.
Con l'intensificazione delle rivalità imperialiste, la difesa delle frontiere e dei territori è qualitativamente cambiata. E' sorta una lotta accanita per ogni pollice di territorio. Dopo la Seconda Guerra mondiale, un certo numero di paesi fu diviso, la Germania, la Corea, la Cina, il Vietnam, l'India ed il Pakistan. Tutti hanno militarizzato le loro frontiere, attrezzandole di tunnel, di recinti, di muri, di guardie armate e di cani. La formazione dello Stato d'Israele nel 1948 ha richiesto la delocalizzazione di centinaia di migliaia di palestinesi e la necessità di trincerarsi dietro muri molto sofisticati. Il muro di frontiera d'Israele è attualmente uno dei più guardati al mondo e simbolicamente da l’immagine di un nuovo muro di Berlino… quattro volte più lungo e due volte più alto, otto metri, odiata icona della Guerra fredda. In costruzione dal 2002, è previsto estendersi per 709 km attraverso la Cisgiordania. "Una serie di lastre di cemento, di "zone-tampone" in fili spinati, di trincee, di chiusure elettrificate, torri di guardia, videocamere a percezione termica, torri di tiratori scelti, punti di controllo militare e strade per i veicoli di pattuglia, hanno smembrato le città del lato Ovest e le hanno separate da gerusalemme Est occupata (…). Il muro è costato più di 2,6 miliardi di dollari, mentre il costo annuo di manutenzione è di 260 milioni". Insomma, dalla Prima Guerra mondiale, tutti i paesi sono imperialisti e devono ubbidire alla legge di difesa dei loro interessi anche attraverso il controllo rigoroso delle loro frontiere.
La recente serie di guerre che attraversa il pianeta ha mostrato che molte frontiere sono state fortificate in previsione dell'infiltrazione delle forze nemiche, spesso bande di terroristi sostenuti dai differenti Stati. Tutto un sistema è stato creato per controllare le persone in attesa di un visto e sono state sviluppate istituzioni di sorveglianza simili al mondo descritto nel libro 1984 di George Orwell, come l'Autorità di Sicurezza interna negli Stati Uniti per braccare eventuali nemici ed impedire loro di entrare nel paese.
Se la migrazione del XIX secolo non era stata significativamente ostacolata da una legislazione complessa e da un sistema poliziesco sofisticato, di contro, nel XX sec, le frontiere hanno acquistato una seconda funzione, oltre alla "tradizionale" funzione militare: impedire l'entrata della forza lavoro non necessaria. Ciò contrasta con la permanente richiesta di forza lavoro negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo, vera ragione della chiamata: "Mandateci i vostri poveri, le vostre masse diseredate". Oggi, gli Stati Uniti si sono messi in carreggiata nel sigillare le loro frontiere meridionali contro le ondate di proletari dell'America latina che fuggono dalla povertà e dalla violenza.
Negli anni 1960, è apparso un nuovo fenomeno: molti paesi, dominati dal blocco dell'Est, conoscevano una penuria di mano d'opera, in particolare la Germania Est. Lo Stato tedesco dell'Est eresse il muro di Berlino per impedire alla sua forza lavoro di lasciare il paese: il "nano economico" chiudeva così le sue frontiere per chiudere all'interno i suoi operai.
Oggi, le frontiere esercitano più che mai questa doppia funzione simultanea: oltre alla difesa militare classica del territorio, si costruiscono muri molto sofisticati per impedire ai profughi di entrare, scoraggiare gli altri e filtrare i "migranti economici" indesiderabili.
Così, sebbene la Cortina di ferro sia stata distrutta nel 1989, la fine del confronto tra i vecchi blocchi non ha significato per niente l'avvento di un mondo senza frontiere: al contrario!
"Tra il 1947 e 1991, undici muri sono stati costruiti, sopravvissuti alla Guerra fredda (Africa del Sud-Mozambico, Corea del Nord-Sud, India-Pakistan, Israele, Marocco-Sahara occidentale, Zimbabwe-Zambia). Tra il 1991 e 2001, sette muri sono stati eretti: intorno alle enclavi di Ceuta e Melilla, tra gli Stati Uniti ed il Messico, la Malaysia e la Tailandia, il Kuwait e l'Iraq, l'Uzbekistan, l'Afghanistan ed il Kirghizistan. Dal 2001, 22 muri sono sorti dal suolo: alle frontiere dell'Arabia saudita con gli Emirati Arabi Uniti, l'Iraq, l'Oman, il Qatar, lo Yemen, tra la Birmania ed il Bangladesh, la Botswana e lo Zimbabwe, tra Brunei e la Malaysia, la Cina e le Corea del Nord, l'Egitto e la Striscia di Gaza, gli Emirati Arabi Uniti e l'Oman, l'India ed il Bangladesh, la, l'Iran ed il Pakistan, Israele e la Giordania, la Giordania e l'Iraq, il Kazakistan e l'Uzbekistan, il Pakistan e Afgnanistan, la Tailandia e la Malaysia, il Turkmenistan e l'Uzbekistan, Israele ed Egitto"[2]. Esistono circa duecento paesi nel mondo e 250000 km di frontiere li separano: si tratta di una società smembrata![3]
Ciò dimostra il carattere totalmente irrazionale del sistema capitalista. Mentre il capitalismo "può prosperare" solamente se c'è una libera circolazione di merci e di lavoro, il movimento legato al lavoro umano è sottoposto ai più spietati controlli ed ostacoli. Ciò significa non solo un livello inedito di violenza lungo le frontiere, ma anche dei costi finanziari smisurati. Il sistema di protezione massiccia delle frontiere tra il Messico e Stati Uniti costa una fortuna: "Ma ciò alla fine puà costare caro. Si stima generalmente che le ispezioni, le pattuglie, e le infrastrutture costano ai contribuenti tra i 12 e i 18 miliardi di dollari all'anno. Ciò rappresenta un aumento di circa il 50% dall'inizio degli anni 2000, secondo il Journal, aggiungendo che le spese includono "tutto, dai recinti fino agli aerei militari, le navi, i droni, le attrezzature di sorveglianza, le torri per le videoriprese ad infrarossi ed i centri di detenzione". Più in generale, il costo della sicurezza alle frontiere è arrivato fino a 90 miliardi tra il 2002 e 2011, rivela l'Associated Press. L'agenzia di stampa riporta che le spese annue comprendono anche cani antidroga (5400 dollari ciascuno), o truppe della guardia nazionale (circa 91000 dollari per soldato)"[4].
Se consideriamo il numero totale di guardie spiegate lungo tutte le frontiere mondiali ed il loro costo, il tutto ci sembrerà assurdo. Ciò mostra realmente fino a che punto questa società riesce a sciupare le sue risorse![5]
Parallelamente ai controlli di frontiera sempre più sofisticati, si costruiscono ovunque "residenze-fortezza", con recintazioni e sistemi di protezione armata per i privilegiati. Interi quartieri sono divenuti “zone interdtte” ai non residenti.
Ma i paesi industrializzati non stanno solamente diventando vere fortezze, essi posseggono anche i più grandi "agenti di deportazione" della forza di lavoro. Mentre il numero totale di schiavi sottratti con la forza dal continente africano è salito a circa 10 o 20 milioni tra il 1445 ed il 1850, la politica di deportazione condotta dai paesi industrializzati raggiungerà probabilmente lo stesso numero in un tempo molto più breve. Alcuni esempi: più di 5 milioni di immigrati "illegali" sono stati deportati dagli Stati Uniti (sotto G.W Bush, circa 2 milioni, sotto Clinton quasi 900000 e sotto Obama più di 2 milioni). In Europa, le misure sono sempre più draconiane, e ci sono circa 400 centri di detenzione per i clandestini in attesa di espulsione. Lo stesso Messico deporta 250000 stranieri all'anno verso l'America centrale. L'Arabia saudita deporta più di un milione di persone che vivono e lavorano illegalmente nel regno.
Di fronte alla recente ondata di profughi che fuggono dalle zone di guerra in Medio Oriente (Afghanistan, Siria, Nord-Africa …), il sistema di protezione delle frontiere ha raggiunto un nuovo livello. Le autorità spiegano ancora più truppe e materiale per detenere e deportare i profughi. Più di un quarto di secolo dopo "l'apertura" della Cortina di ferro, l'Ungheria ha chiuso la sua frontiera con il filo spinato per impedire ai "miserabili" di raggiungere "luoghi più sicuri" e ha intenzione di attuare un'altra cortina di ferro lungo la frontiera rumena. Misure simili sono prese in altri paesi europei. Le frontiere precedentemente "aperte" dello spazio Schengen ora sono controllate dalla polizia di frontiera: degli "otspots" (centri di selezione dei profughi devono essere attuati in Grecia ed in Italia, con la possibilità di rinviarli verso l'inferno da cui provengono). Si creano anche avamposti per recuperare profughi fino in Africa. Alcune disposizioni sono prese per atture dei controlli alle frontiere sulle strade di transito dei profughi in Africa.
Le immagini di lunghe marce di profughi e di migliaia di profughi detenuti o respinti sui Balcani ed altrove, abbandonati senza cibo e senza riparo, ci ricordano il modo con cui la popolazione ebraica è stata trattata sotto il regime nazista o il destino dei profughi alla fine della Seconda Guerra mondiale. Esse mostrano la continuità della barbarie di questo sistema. Un secolo di profughi, di guerra, di campi, di deportazioni, di cortine di ferro, di migrazioni illegali e l'espulsione di quelli che hanno la sfrontatezza di "venire solamente per riempirsi il ventre".
Abbiamo adesso i muri più alti e più lunghi di tutti i tempi per impedire ai profughi di guerra ed ai migranti "economici" disperati di entrare (ma essi non potranno arginare sempre il flusso delle vittime degli effetti combinati della decomposizione inesorabile del capitalismo).
Creando un'economia globale, il capitalismo ha creato le condizioni di una comunità umana mondiale. Ma la sua totale incapacità a realizzarla è dimostrata oggi dalla fortificazione internazionale delle sue frontiere. Gli appelli molto forti a "l'abolizione delle frontiere" dei gruppi attivisti sono di conseguenza interamente utopici. Le frontiere potranno essere abolite solo dalla rivoluzione proletaria internazionale che smantellerà la prigione disumana dello Stato-nazione.
Wold Revolution, organo di stampa della CCI in GB, settembre 2015
[1] Introduzione all'economia politica, nelle Opere complete di Rosa Luxemburg, volume I, ed. Verso, Londra (2013), p. 121
[2] www.dandurand.uqam.ca [56]
[3] 500000 tonnellate di filo di ferro spinato sono prodotte ogni anno nel mondo, in chilometri 8 milioni di fili spinati, e cioè 200 volte la circonferenza della terra.
[4] www.fool.com [57]
[5] L'importo delle somme che i profughi devono pagare ai trafficanti di esseri umani ha raggiunto anche cifre astronomiche mai viste.
Pubblichiamo la traduzione in italiano di un nostro articolo apparso nel 2005 nella Rivista Internazionale (organo teorico della CCI), per l’importanza che assume oggi una comprensione di cosa ha rappresentato l’Islamismo nella storia e di cosa è espressione nella fase attuale.
Non è la prima volta che il capitalismo giustifica la marcia verso la guerra con lo “scontro tra due civiltà”. Nel 1914, gli operai partirono al fronte per difendere la "civiltà" moderna contro la barbarie dell’orso russo o del Kaiser tedesco; nel 1939 per difendere la democrazia contro le tenebre del Nazismo, e dal 1945 al 1989, per la democrazia contro il comunismo o per i paesi socialisti contro l'imperialismo. Oggi, ci viene offerto il ritornello della difesa dello "stile di vita occidentale" contro "il fanatismo Islamico" o, al contrario quello dell’"Islam contro i Crociati e gli ebrei". Tutti questi slogan sono grida di adunata alla guerra imperialista; in altri termini, appelli allo scontro militare tra frazioni rivali della borghesia, in piena epoca di decomposizione del capitalismo decadente.
L'articolo seguente contribuisce a combattere l’idea secondo la quale l'Islam militante sarebbe al di fuori della civiltà borghese, anzi sarebbe diretto contro di essa. Cercheremo di dimostrare esattamente il contrario: questo fenomeno non può comprendersi che come prodotto, espressione concentrata, del declino storico di questa civiltà.
Un secondo articolo studierà l'approccio marxista della lotta contro l'ideologia religiosa in seno al proletariato.
Marx vedeva la religione come “la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso”. La religione è dunque “una coscienza capovolta del mondo… realizzazione fantastica dell'essenza umana, poiché l'essenza umana non possiede una realtà vera”.[1]. Tuttavia, questa non è solo una coscienza capovolta, ma anche una risposta all'oppressione reale (risposta inadatta e che non può condurre che all’insuccesso): “La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo”[2].
In opposizione a quei filosofi del diciottesimo secolo che denunciavano la religione come sola opera di impostori, Marx affermava che era necessario mettere in luce le radici reali, materiali, della religione, nel quadro di rapporti di produzione economici ben determinati. Pensava con fiducia che l'umanità potrà riuscire a emanciparsi da questa falsa coscienza e raggiungere la sua piena potenzialità in un mondo comunista senza classi.
Di fatto, Marx ha evidenziato fino a che punto lo sviluppo economico del capitalismo avesse destabilizzato le basi della religione. Nella Ideologia tedesca, per esempio, afferma che l'industrializzazione capitalista è riuscita a ridurre la religione a qualcosa di poco più di una semplice menzogna. Per liberarsi, il proletariato avrebbe dovuto perdere le sue illusioni religiose e distruggere tutti gli ostacoli che gli impediscono di realizzarsi in quanto classe; ma la nebbia della religione sarebbe stata dispersa velocemente dallo stesso capitalismo. In effetti, per Marx, lo stesso capitalismo stava distruggendo la religione, a tal punto che talvolta ne parlava come se per il proletariato fosse già morta.
I successori di Marx messo in evidenza che, quando il capitalismo verso il 1871 smise di essere una forza rivoluzionaria per la trasformazione della società, la borghesia si orientò di nuovo verso l'idealismo e la religione. Nel loro testo: L'ABC del comunismo (uno sviluppo del programma del Partito comunista russo nel 1919), Boukharin e Préobrajenski spiegano le relazioni tra la chiesa ortodossa russa e il vecchio Stato feudale zarista. Sotto gli zar, spiegano, il principale contenuto dell'educazione era la religione: “la conservazione del fanatismo religioso, della stupidità e dell'ignoranza era ritenuta di capitale importanza"[3]. La chiesa e lo Stato erano "obbligati a unire le loro forze contro le masse lavoratrici e la loro alleanza serviva a rafforzare il loro dominio sui lavoratori"[4]. In Russia, la borghesia emergente si è trovata costretta a un conflitto contro la nobiltà feudale, che includeva la Chiesa, perché bramava gli immensi redditi che quest'ultima traeva dallo sfruttamento dei lavoratori: "la base reale di questa questione era il desiderio di veder trasferiti verso borghesia i redditi assegnati alla Chiesa da parte dello Stato"[5].
Così come la giovane borghesia dell'Europa occidentale, anche la borghesia che si attestava in Russia conduceva una campagna vigorosa per la completa separazione tra Chiesa e Stato. Tuttavia, da nessuna parte questa lotta è stata in grado di andare fino in fondo, e dappertutto - anche in Francia dove il conflitto fu particolarmente acuto - la borghesia finì per raggiungere un compromesso con la Chiesa: nella misura in cui sosteneva il suo ruolo di pilastro del capitalismo, essa poteva unirsi alla borghesia e portare avanti le sue attività religiose. Bukharin e Preobrajensky attribuiscono questo al fatto che “poiché la lotta sempre più accanita della classe operaia contro il capitalismo e contro la borghesia non ha permesso a quest'ultima di continuare la sua battaglia contro la Chiesa …, la borghesia ha ritenuto più vantaggioso riconciliarsi con la Chiesa, impadronirsi del frutto delle sue preghiere per lottare contro il socialismo, utilizzare la sua influenza sulle masse per conservare, fra queste, l'obbedienza servile allo Stato sfruttatore”[6].
I borghesi dell'Europa occidentale si rappacificarono allora con il Clero pur mantenendo in buona parte, in privato, un presunto materialismo. Come dimostrano Bukharin e Preobrajensky, la spiegazione di questa contraddizione va trovata nella "tasca degli sfruttatori". Nel suo testo del 1938, Lenin filosofo, Anton Pannekoek, della Sinistra comunista olandese, spiega perché il materialismo naturalistico della borghesia nascente ebbe breve vita: "Finché la borghesia ha creduto che la sua società di proprietà privata, di libertà personale, di libera competizione, potesse risolvere, attraverso lo sviluppo dell'industria, delle scienze e delle tecniche, tutti i problemi materiali dell'umanità, poteva anche credere che i problemi teorici potessero essere risolti dalla scienza, senza il bisogno di ipotizzare l'esistenza di poteri soprannaturali e spirituali. Ecco perché, nel momento in cui apparve chiaro che il capitalismo non poteva risolvere i problemi materiali delle masse, come dimostrava l'ascesa della lotta di classe del proletariato, la fiducia nella filosofia materialista sparì. Il mondo fu di nuovo percepito pieno di insolubili contraddizioni e di incertezze, di forze sinistre che minacciano la civiltà. Allora la borghesia si orientò verso varie credenze religiose, e i suoi intellettuali e scienziati furono sottomessi all'influenza di tendenze mistiche. Non ci misero molto a scoprire le debolezze e i difetti della filosofia materialista e a parlare dei limiti della scienza e degli enigmi insolubili del mondo"[7].
Presente talvolta anche durante la fase ascendente del capitalismo, questa tendenza ne diventò la regola fin dall'inizio dell'epoca di decadenza. Avendo raggiunto i limiti della sua espansione, il capitalismo in declino è stato incapace di creare un mondo totalmente a sua immagine: ha lasciato intere regioni in ritardo e non sviluppate.
Questo ritardo economico e sociale ha costituito la base dell’influenza che la religione esercita ancora su queste zone. Gli stessi Bolscevichi dovettero confrontarsi con questo problema e nel 1919 furono obbligati a includere nel loro programma una sezione che trattava specificamente della religione, "espressione dell'arretramento delle condizioni materiali e culturali della Russia".
La borghesia è costretta a contare sull'idealismo e sulla religione nel periodo di decadenza, specialmente quando il suo ottimismo vacilla; lo si è visto con il Nazismo che ha manifestato una tendenza profonda all’'irrazionalità. Nella tappa finale della decadenza capitalista - la decomposizione- queste tendenze risultano amplificate, e anche membri della borghesia, come il miliardario Osama Bin Laden, finiscono per prendere sul serio le credenze reazionarie e oscurantiste che sbandierano. Come giustamente notano Bukharin e Preobrajensky: “se la classe borghese comincia a credere in Dio e nella vita eterna, significa semplicemente che si rende conto che la sua vita quaggiù è prossima alla fine!”[8].
Il rifiorire di movimenti irrazionalisti tra le masse delle regioni più sfavorite assume sempre più importanza nel periodo di decomposizione, dove appare chiaramente l'assenza di ogni avvenire per il sistema e dove la vita sociale, nelle zone più deboli della periferia del capitalismo, tende a disgregarsi. Dappertutto, come negli ultimi giorni dei precedenti modi di produzione, assistiamo alla proliferazione di sette, di culti suicida apocalittici e di differenti fondamentalismi. È chiaro che l'Islamismo è un'espressione di questa tendenza generale. Ma prima di esaminare la sua espansione, bisogna ritornare alle origini storiche dell'Islam in quanto religione mondiale.
Alla sua fondazione, nel settimo secolo, nella regione dell’Hegiaz[9], a ovest dell'Arabia, l'Islam rappresenta, per riassumere, un miscuglio di giudaismo, di cristianesimo bizantino e assiro, di religioni antiche persiane ma anche di credenze locali monoteiste, come l’Hanifiyia. Questa ricca mescolanza era adatta ai bisogni di una società in pieno sconvolgimento sociale, economico e politico. Dominato dalla città de La Mecca, l'Hegiaz era all'epoca il principale incrocio commerciale del Medio Oriente. L'Arabia era compresa tra due grandi imperi: la Persia, dinastia dei Sasanidi[10], e Bisanzio, l'impero romano d'Oriente. In questa società la classe dominante de La Mecca incoraggiava i commercianti di passaggio a porre i loro dei pagani personali nella Ka'aba (La scatola), un santuario religioso locale, così da poterli adorare a ogni loro visita. Questa idolatria fruttava molto ai ricchi abitanti della città.
Per circa 100 anni, La Mecca fu una società prospera, diretta da un'aristocrazia tribale che utilizzava poco il lavoro degli schiavi, che praticava un commercio prospero con regioni lontane e che traeva dei redditi addizionali dalla Ka'aba. Tuttavia, quando Maometto raggiunge l'età adulta, la società si trovava già in uno stato di crisi profonda. Questa esplode, con il pericolo di far sprofondare le differenti tribù in una guerra senza fine.
Giusto all'esterno de La Mecca e di Yathrib, seconda città della regione, oggi Medina, si trovavano i Beduini, organizzati in fiere e austere tribù nomadi indipendenti che, in principio, avevano beneficiato dell'arricchimento dei centri urbani della regione; ottenendo prestiti dai ricchi cittadini avevano potuto migliorare il loro livello di vita. Tuttavia, sempre più incapaci di rimborsare i loro debiti, nel tempo si trovarono in una situazione che doveva avere conseguenze esplosive. La disintegrazione delle tribù andava accelerandosi sia nelle città sia nelle oasi del deserto; i beduini venivano "venduti come schiavi o ridotti a uno stato di dipendenza? I limiti erano stati superati”. Più precisamente:
"Inevitabilmente, queste trasformazioni economiche e sociali furono accompagnate da cambiamenti intellettuali e morali. Quelli che avevano fiuto per gli affari prosperavano. Le virtù tradizionali dei figli del deserto, i beduini, non rappresentavano più la strada del successo. Sapere afferrare la propria fortuna ed essere avido era ben più utile. I ricchi erano diventati fieri e arroganti, glorificando i loro successi come un fatto personale e che non riguardava neanche più l’intera tribù. I legami di sangue andavano indebolendosi, sostituiti da altri, basati sull'interesse”[11]. Successivamente “L'iniquità trionfava in seno alle tribù. I ricchi e i potenti opprimevano i poveri. Ogni giorno le leggi ancestrali venivano schernite. Il debole e l'orfano erano venduti come schiavi. Il vecchio codice d’onore, di decenza e moralità, era calpestato. Il popolo non sapeva nemmeno più quali Dei servire e adorare”[12].
Quest'ultima frase è molto significativa: in una società dove la religione era il solo mezzo possibile per strutturare l'esistenza quotidiana, essa esprime chiaramente la gravità della crisi sociale. L'Islam chiama questo periodo della storia dell'Arabia la jahiliyya, o era dell'ignoranza e dice che durante questo periodo non c'erano limiti alla dissolutezza, alla crudeltà, alla pratica di una poligamia senza limite e all'omicidio di neonati di sesso femminile.
L'Arabia di quest’epoca era lacerata sia dalle rivalità delle proprie tribù, in guerra tra loro, che dalle minacciose ambizioni delle civiltà attigue. Ma vi erano anche fattori più globali. In Arabia si sapeva che gli imperi persiano e romano avevano serie difficoltà, sia interne che esterne, e stavano per crollare; molti vi vedevano "la proclamazione della fine del mondo"[13]. La maggior parte del mondo civilizzato era quindi sull'orlo del caos.
Engels ha analizzato l'ascesa dell'Islam come "una reazione dei beduini contro i cittadini, potenti ma degenerati, e che in quell'epoca professavano una religione decadente, mescolanza di un culto naturalistico depravato col giudaismo e il cristianesimo”[14].
Nato a La Mecca nel 570 d. C, ma allevato in parte nel deserto dai beduini e influenzato profondamente dalle correnti intellettuali provenienti dal mondo intero che inondavano l'Arabia, e specialmente l’Hedjaz, Maometto, uomo ponderato e incline alla meditazione, divenne il vettore ideale per risolvere la crisi delle relazioni sociali che colpiva la sua città e la sua regione. L'inizio del suo ministero nel 610, fece di lui l'uomo della situazione.
L'intera Arabia era matura per il cambiamento; era in una condizione favorevole per la nascita di uno Stato pan-arabo capace di mettere fine al separatismo tribale e di dare alla società nuove basi economiche e, attraverso queste, sociali e politiche. L'Islam si mostrò essere lo strumento perfetto per compiere ciò. Maometto insegnò agli arabi che il caos crescente della loro società proveniva dal fatto che essi si erano allontanati dalle leggi di Dio, la Sharia. Pertanto, se volevano sfuggire alla dannazione eterna dovevano sottomettersi a queste leggi. La nuova religione denunciò la crudeltà e le lotte tribali, dichiarando non solo che i musulmani erano tutti fratelli, ma che in quanto uomini e donne avevano l'obbligo di unirsi. L'Islam (letteralmente sottomissione a Dio) proclamò che era Dio stesso (Allah) a chiederlo. L'Islam mise fuorilegge la dissolutezza, l'alcol, le bestemmie e i giochi di denaro, la crudeltà fu vietata (per esempio, i proprietari di schiavi furono incoraggiati a liberarli), la poligamia fu limitata a quattro spose per ogni credente di sesso maschile (ognuna doveva essere trattata con equità - ciò che condusse alcuni ad affermare che questa pratica era in realtà fuorilegge), gli uomini e le donne avevano ruoli sociali differenti, ma una donna era autorizzata a lavorare e a scegliere lei stessa il marito; l'omicidio era vietato rigorosamente, ivi compreso l'infanticidio. L'Islam insegnò così agli arabi che non bastava pregare ed evitare il peccato; la sottomissione a Dio significava che tutte le sfere dell'esistenza dovevano essere sottomesse alla volontà di Dio, in altre parole l'Islam offriva un quadro per ogni cosa, includendo la vita economica e politica di una società.
Nelle condizioni dell'epoca non sorprende che questa nuova religione abbia subito attirato numerosi fedeli, una volta falliti i tentativi delle classi dominanti de La Mecca di distruggerla fisicamente. Essa fu lo strumento ideale per rovesciare la società araba e le società circostanti. Ma l'epoca d'oro musulmana non poteva durare per sempre. Accadde che i successori di Maometto, i Califfi - scelti per dirigere il mondo musulmano in funzione della loro supposta fedeltà al messaggio di Maometto – furono in effetti sostituiti da dinastie di dirigenti sempre più corrotti che rivendicavano questo incarico come ereditario. Questa trasformazione fu completa quando accesse al Califato la dinastia degli Omàyyadi (680-750). Resta comunque vero che, all'epoca della sua comparsa, l'Islam esprimeva un avanzamento evolutivo storico, ed è da questo che trae la sua originale forza e la profondità dalla sua visione. E anche se, inevitabilmente, la civiltà musulmana medievale non riuscì a vivere secondo gli ideali di Maometto, essa costituì un quadro per degli avanzamenti folgoranti nel campo della medicina, della matematica e di altri rami dello scibile umano. Sebbene il dispotismo orientale, su cui l’Islam era fondato, lo avrebbe portato all’impasse sterile alla quale questo modo di produzione lo condannava, durante il suo massimo sviluppo, la società feudale occidentale, al suo confronto, appariva rozza e oscurantista. Classicamente ciò è simboleggiato dall'enorme fossato culturale che separava Riccardo Cuor di Leone e Saladino all'epoca delle crociate[15]. Si potrebbe aggiungere che il fossato è ancora più profondo tra la cultura musulmana al suo zenit e l'oscurantismo rappresentato dall’attuale fondamentalismo.
Ma se i marxisti hanno potuto riconoscere un carattere progressista all'Islam alle sue origini, come hanno analizzato il suo ruolo in un periodo di rivoluzione proletaria, dove tutte le religioni sono diventate un ostacolo reazionario all'emancipazione dell'umanità? È istruttivo esaminare brevemente la politica dei Bolscevichi a tale riguardo.
A meno di un mese dalla vittoria della rivoluzione di Ottobre 1917, i Bolscevichi diffusero un proclama "A tutti gli operai musulmani di Russia e dell'Est", in cui dichiararono di essere al fianco degli "operai musulmani le cui moschee e luoghi di culto sono stati distrutti, la cui fede e le tradizioni sono state calpestate dagli Zar e dagli oppressori della Russia". I Bolscevichi s’impegnavano quindi così: "Le vostre credenze e i vostri costumi, le vostre istituzioni nazionali e culturali sono per sempre libere e inviolabili. Sappiate che i vostri diritti, come quelli degli altri popoli della Russia, sono sotto l'alta protezione della Rivoluzione e dei suoi organi, i Soviet degli operai, dei soldati e dei contadini".
Una tale politica significava un cambiamento radicale rispetto a quelle zariste che avevano tentato, in modo sistematico e con la forza (spesso con violenza), di assimilare le popolazioni musulmane, dopo la conquista dell'Asia centrale, a partire dal sedicesimo secolo. Nessuna sorpresa dunque che, per reazione, le popolazioni musulmane di queste regioni si siano aggrappate all'Islam, loro eredità religiosa e culturale. A parte qualche rilevante eccezione, i musulmani dell'Asia centrale non parteciparono attivamente alla Rivoluzione di Ottobre che fu essenzialmente un fatto russo: "Le organizzazioni nazionali musulmane rimasero spettatrici indifferenti alla causa bolscevica"[16]. Sultan Galiev, il "comunista musulmano" che giocò un ruolo importante, dichiarò alcuni anni dopo la Rivoluzione: "Facendo il bilancio della Rivoluzione di Ottobre e della partecipazione dei Tartari, dobbiamo ammettere che le masse lavoratrici e gli strati diseredati tatari non vi hanno preso alcuna parte"[17].
L'atteggiamento dei Bolscevichi verso i musulmani dell'Asia centrale fu determinato da imperativi di ordine interno ed esterno. Da una parte, il nuovo regime doveva adattarsi a questa situazione: le terre del vecchio impero degli Zar erano nella stragrande maggioranza musulmana. I Bolscevichi erano convinti che queste terre dell'Asia centrale fossero essenziali, strategicamente ed economicamente, alla sopravvivenza della Russia rivoluzionaria. Quando alcuni nazionalisti musulmani si rivoltarono contro il nuovo Governo di Mosca, la risposta delle autorità, nella maggior parte dei casi, fu l'adozione di misure brutali. In seguito a una ribellione in Turkistan, per esempio, la risposta delle unità militari del Soviet di Tashkent fu quella di radere al suolo la città di Koland. Lenin vi inviò una commissione speciale nel novembre 1919 per, a suo dire, "istaurare relazioni corrette tra il regime sovietico e i popoli del Turkistan"[18].
Un esempio di quest’approccio verso i problemi posti da queste regioni musulmane, fu la creazione da parte dei Bolscevichi dell'organizzazione Zhendotel (Dipartimento delle donne operaie e contadine) per lavorare tra le donne musulmane in Asia centrale sovietica. Zhendotel concentrò in particolare la sua azione sul problema della religione in questa regione economicamente arretrata. È da notare che inizialmente Zhendotel si approcciò con molta pazienza e sensibilità verso i delicati problemi cui doveva far fronte. Le donne dell'organizzazione, durante le discussioni con le donne musulmane indossavano anche il paranja, un velo Islamico che copre completamente la testa e il volto.
Mentre qualche organizzazione nazionaliste musulmana si unì per un certo tempo alla controrivoluzione durante la guerra civile del 1918-1920, la maggior parte di esse accettò, sebbene a malincuore, il regime bolscevico. Quest’ultimo, paragonato alle violenze subite in precedenza da parte degli eserciti bianchi di Denikin, appariva loro come un male minore. Molti di questi "nazionalisti musulmani" raggiunsero il Partito comunista, e numerosi furono quelli che occuparono posti di alto rango nel governo. Tuttavia solo un piccolo numero sembrò essere convinto della validità del marxismo. Il celebre tartaro Sultan Galiev fu rappresentante bolscevico al Commissariato centrale musulmano, formato nel gennaio 1918, membro del Collegio interno del Commissariato del popolo alle nazionalità (Narkomnats), capo redattore della rivista Zhin" Natsional'nostey, professore all'università dei Popoli dell'Est, e dirigente dell'ala sinistra dei "Nazionalisti musulmani". Ma anche questa figura emblematica, reclutata tra i nazionalisti musulmani, fu nella migliore delle ipotesi un "comunista nazionale", come si definì lui stesso nel giornale tartaro Qoyash (Il Sole), nel 1918, spiegando la sua adesione al Partito bolscevico nell'ottobre 17 in questi termini: "Ho raggiunto il Bolscevismo per amore del mio popolo che pesa così gravemente sul mio cuore”[19].
D'altra parte, i Bolscevichi compresero che la loro rivoluzione, per sopravvivere, aveva bisogno dell’intervento rivoluzionario degli operai degli altri paesi. L'insuccesso delle rivoluzioni nei paesi occidentali sviluppati, in particolare in Germania, li condusse a orientarsi sempre più verso la possibilità di un'ondata "nazionalista rivoluzionaria" in Oriente. Questa politica non aveva niente di proletario, ma appena i primi segni di un indietreggiamento dell'ondata rivoluzionaria si facero sentire, e tenuto conto dell'isolamento crescente della rivoluzione russa, i Bolscevichi declinarono sempre più verso questa visione opportunista, pensando che essa avrebbe portato a una rivoluzione proletaria. Tuttavia nell’immediato, la "questione d'Oriente" - il sostegno alle lotte di "liberazione nazionale" in Medio Oriente e in Asia- era vista come il mezzo di liberare la Russia sovietica dalla presa dell'imperialismo britannico.
In questo contesto i Bolscevichi furono portati a fare evolvere l'atteggiamento dell'Internazionale comunista verso i movimenti panislamici. Al secondo congresso nel 1920, l'IC manifestò l’inizio di un suo indebolimento per le enormi pressioni esercitate dalle forze controrivoluzionarie, sia interne che esterne alla Russia. Furono fatte delle concessioni alla linea opportunista nella vana speranza di diminuire l'ostilità del mondo capitalista verso la società sovietica. I comunisti furono obbligati a organizzarsi all’interno dei sindacati borghesi, a unirsi ai partiti socialisti e laburisti, apertamente pro-imperialisti, e ad appoggiare i cosiddetti "movimenti di liberazione nazionale" nei paesi sottosviluppati. Le "Tesi sulla questione nazionale e coloniale" -che servirono a giustificare il sostegno ai "movimenti di liberazione nazionale"- furono preparate da Lenin per il congresso e adottate con solo tre astensioni.
Tuttavia, il secondo congresso tracciò le grandi linee della collaborazione con i musulmani. Nelle sue "Tesi”, Lenin dichiarava: "È necessario lottare contro i movimenti panislamici e pan-asiatici, e altre tendenze similari che tentano di combinare la lotta di liberazione contro l'imperialismo europeo e americano col rafforzamento del potere dell'imperialismo turco e giapponese così come dei tiranni locali, grandi proprietari, alti dignitari religiosi, ecc.”[20].
Sebbene avesse votato la risoluzione, Sneevliet, rappresentante delle Indie orientali olandesi, (l'attuale Indonesia), affermò che un'organizzazione di massa Islamica e radicale esisteva. Sneevliet dichiarò che Sarekat Islam (L'unione Islamica) aveva acquisito un "carattere di classe", adottando un programma anticapitalista. Insisteva sul fatto che questi "hadji comunisti" (hadji: quelli che hanno fatto il pellegrinaggio a La Mecca) erano necessari alla rivoluzione comunista[21]. Questa non era che la continuazione della politica sviluppata dalla vecchia Unione socialdemocratica indonesiana (ISDV) che più tardi costituirà il grosso del Partito comunista indonesiano (PKI), formato nel maggio 1920. Fin dall'inizio i marxisti indonesiani ebbero una relazione ambigua con l'Islam radicale, come già sottolineato dalla CCI:
"Alcuni membri indonesiani dell'ISDV, erano allo stesso tempo membri e anche dirigenti del movimento Islamico. Durante la guerra (prima guerra mondiale), l'ISDV reclutò un numero considerevole di indonesiani membri del Sarekat Islam, che ne contava circa 20.000. Questa politica prefigurava, sotto una forma embrionale, la politica adottata in Cina dopo il 1921 -con l'incoraggiamento da parte di Sneevliet e dell'internazionale comunista- di formare un fronte unito, che portava anche alla fusione di organizzazioni nazionaliste e comuniste (il Kuomintang e il PC cinese) (...) È significativo che all'interno dell'Internazionale comunista, Sneevliet rappresentava al tempo stesso il PKI e l'ala sinistra di Sarekat Islam. Questa alleanza con la classe borghese indigena musulmana durerà fino al 1923"[22].
La prima applicazione di queste "Tesi sulla questione nazionale e coloniale" fu quello che si chiamò il Congresso dei popoli d'Oriente, tenuto a Baku (Azerbaigian) nel settembre 1920, poco dopo la chiusura del secondo congresso dell'Internazionale comunista. Almeno un quarto dei delegati alla conferenza non era comunista, e tra loro c'erano borghesi nazionalisti e panislamisti, apertamente anticomunisti. A questa conferenza, presieduta da Zinoviev, si farà appello alla "guerra santa" (termini di Zinoviev) contro gli oppressori stranieri e interni, da parte dei governi operai "e contadini" attraverso il Medio Oriente e l'Asia, allo scopo di indebolire l'imperialismo, in particolare quello britannico.
L'obiettivo dei Bolscevichi era creare una "incrollabile alleanza" con questi elementi disparati, principalmente allo scopo di allentare l'accerchiamento della Russia da parte dell'imperialismo. Tutta la sostanza opportunista di questa politica fu esposta da Zinoviev alla sessione di apertura del congresso, quando descrisse l'insieme dei delegati alla conferenza, e con essi i movimenti e gli Stati che rappresentavano, come la "seconda spada" della Russia, e che la Russia "considerava come fratelli e compagni di lotta"[23]. Fu la prima conferenza "anti-imperialistica" (e cioè interclassista) tenuta in nome del comunismo.
John Reed, pioniere del comunismo negli Stati Uniti, partecipando a questo congresso stette malissimo. Angelica Balabanova[24] racconta nel suo libro la "Mia vita da ribelle", come "Jack, John Reed, parlò con amarezza della demagogia e dell'apparato che avevano caratterizzato il congresso di Bakou, così come del modo con cui erano state trattate le popolazioni indigene e i delegati d'Estremo Oriente"[25]. Nell'edizione in francese dei lavori del congresso uscì un "Appello del partito comunista dei Paesi Bassi ai popoli dell'Oriente rappresentati a Baku" che fu certamente distribuito ai delegati. Questo appello affermava che "migliaia di indonesiani" si erano trovati "riuniti nella lotta comune contro gli oppressori olandesi" attraverso il movimento pan-Islamico Sarekat Islam e che questo movimento si univa a lui nel salutare il congresso.
Durante il congresso, Radek, del Partito bolscevico, rievocò apertamente l'immagine degli eserciti conquistatori dei vecchi sultani ottomani musulmani, dichiarando: "Noi facciamo appello compagni [sic!], ai sentimenti guerrieri che un tempo ispirarono i popoli dell'Oriente, quando, guidati dai loro grandi conquistatori, avanzarono verso l'Europa"[26]. A meno di tre mesi dal congresso di Baku, in cui venne salutato il nazionalista turco Mustapha Kemal (Kemal Atatürk), quest’ultimo assassinava tutti i dirigenti del Partito comunista turco. Al suo quarto congresso, l'Internazionale comunista spingerà ancora oltre la revisione del suo programma. Introducendo le "Tesi sulla questione d'Oriente" che fu adottata all'unanimità, il delegato olandese van Ravensteyn, dichiarò che "l'indipendenza dell'insieme del mondo orientale, l'indipendenza dell'Asia, dei popoli musulmani significava di per sé la fine dell'imperialismo occidentale". In precedenza, durante il congresso, Malaka, delegato delle Indie orientali olandesi, aveva dichiarato che i comunisti avevano lavorato in questa regione in stretto legame con Sarekat Islam, fino a che dei dissensi li divisero nel 1921. Malaka affermò che l'ostilità verso il movimento pan-Islamico, espressa dalle Tesi del secondo congresso, aveva indebolito le posizioni dei comunisti. Aggiungendo il suo sostegno alla collaborazione stretta con il movimento pan-Islamico, il delegato della Tunisia notò che, contrariamente ai PC inglesi e francesi che non facevano niente sulla questione coloniale, almeno i pan-Islamisti unificavano i musulmani contro i loro oppressori[27].
La svolta opportunista dei Bolscevichi e dell'Internazionale comunista sulla questione coloniale si basava, in larga parte, sull'idea che bisognava trovare degli alleati per lottare contro l'accerchiamento della Russia sovietica da parte dell'imperialismo. I sinistroidi, apologeti di questa politica, sostengono ancora oggi che questa ha aiutato l'Unione Sovietica a sopravvivere; ma, come riconosciuto dalla Sinistra comunista italiana negli anni 30, il prezzo pagato da questa sopravvivenza è stato il completo stravolgimento di ciò che rappresentava il potere dei Soviet: da bastione della rivoluzione mondiale, era ora diventato un attore nel gioco imperialistico mondiale. Le alleanze con le borghesie delle colonie gli hanno permesso di integrarsi in questo gioco, ma ciò è avvenuto a spese degli sfruttati e degli oppressi di queste regioni: e questo è dimostrato chiaramente dal fallimento della politica dell'Internazionale comunista in Cina nel 1925-1927.
In effetti, l'abbandono del rigore del metodo marxista su questa questione dell'Islam fu solo un aspetto di un percorso più generale verso l'opportunismo. Esso ancora oggi è apertamente utilizzato dal gauchismo moderno come una giustificazione teorica all'atteggiamento controrivoluzionario che continua a presentarci Khomeini, Bin Laden e consorti come dei combattenti contro l'imperialismo, anche se la forma della loro battaglia e delle loro idee sono un po' sbagliate.
Bisogna anche notare come questo tentativo di lusinga versi i nazionalisti musulmani sia stato combinato a un falso radicalismo per cercare di sdradicare la religione attraverso delle campagne demagogiche. Questa è una caratteristica particolare dello stalinismo all'epoca della sua "svolta a sinistra" alla fine degli anni 20.
Durante questo periodo, la pazienza e la sensibilità di cui aveva dato prova Zhendotel furono abbandonate e trasformate in campagne furibonde in favore del divorzio e contro il velo. Nel 1927, secondo un rapporto di Trotsky: "Si tennero riunioni di massa nel corso delle quali migliaia di partecipanti scandivano: "Abbasso il paranja!", laceravano il loro velo che inzuppavano di paraffina e bruciavano. Protette dalla polizia, gruppi di donne povere percorrevano le strade, strappando il velo delle donne più ricche, cercando cibo nascosto e puntando il dito su quelle o quelli che restavano aggrappati alle pratiche tradizionali che venivano dichiarati allora criminali. Il giorno seguente, queste azioni settarie e brutali furono pagate col prezzo del sangue: centinaia di donne senza veli furono massacrate dalle loro famigli, e questa reazione fu inasprita dal clero musulmano che vide nei recenti terremoti la punizione di Allah per il rifiuto di portare il velo. Vecchi ribelli Basmachi si radunarono in un'organizzazione segreta controrivoluzionaria, il Tash Kuran, che si sviluppò grazie al loro impegno a preservare i valori e i costumi locali (il Narkh)"[28].
Tutto questo era tanto lontano dai metodi originari della Rivoluzione di Ottobre quanto lo era il congresso di Baku con il suo linguaggio farraginoso sulla Guerra santa. La grande forza dei Bolscevichi nel 1917 fu costituita dal loro impegno nella lotta contro le ideologie estranee al proletariato, sviluppando la sua coscienza di classe e le sue organizzazioni. E questa resta l'unica base per bloccare l'influenza della religione e delle altre ideologie reazionarie.
Da ciò che si è detto, abbiamo visto come il problema de "l'Islam politico" non sia stata una novità per il proletariato.
In effetti, tutti i gruppi Islamici "moderni" trovano le loro radici nel movimento dei Fratelli musulmani (Ikhwan al-Muslimuun), la prima organizzazione Islamica moderna importante che fu fondata in Egitto nel 1928, e che da allora si è estesa in più di settanta paesi. Il loro fondatore, Hassan al-Banna, proclamò la necessità per i musulmani di "tornare sulla diritta strada" dell'Islam sunnita ortodosso, sia come antidoto alla corruzione crescente del califfato degli Omeyyadi, sia per "liberare" il mondo musulmano dal dominio occidentale. Questa lotta avrebbe potuto portare alla nascita di un autentico Stato Islamico, il solo capace di resistere contro l'Occidente.
I Fratelli pretendevano di seguire le tracce di Ahmed ibn Taymiyyah (1260-1327) che si oppose ai tentativi dei pensatori musulmani ellenici di ridurre l'Islam e le sue regole di governo a semplici funzioni della ragione umana. Secondo Ibn Taymiyyah, un dirigente musulmano aveva l'obbligo, se necessario, di imporre ai suoi sudditi le leggi di Dio. L'Islam di Ibn Taymiyyah pretendeva di essere molto puro, sgombro da tutte le aggiunte moderne. I Fratelli musulmani modellarono il loro movimento su quello dei Salafiyyah (purificazione) puritani del diciassettesimo e diciannovesimo secolo, che anche loro tentarono di applicare le idee di Ibn Taymiyyah.
In effetti, la chiave del successo dei Fratelli musulmani sta nella loro estrema flessibilità tattica, essendo pronti a lavorare con qualsiasi istituzione (parlamento, sindacato) o organizzazione (stalinisti, liberali) che possa far avanzare i loro progetti di "re-islamizzazione" della società. Per Al-Banna, era comunque chiaro che lo Stato Islamico ricercato dal suo movimento, avrebbe vietato tutte le organizzazioni politiche. Sayyed Qoutb, che successe ad Al-Banna come leader del movimento nel 1948[29], denunciava allo stesso modo "l'idolatria socialista e capitalista", e cioè il fatto di anteporre gli obiettivi politici alle leggi di Dio. Inoltre affermava: "È necessario rompere con la logica e i costumi della società che ci circonda, costruire il prototipo della futura società Islamica con i "veri credenti", poi, al momento opportuno, impegnare la battaglia contro la nuova jahiliyya".
Verso il 1948, il movimento si era notevolmente sviluppato contando solo in Egitto tra i trecentomila e seicentomila militanti. sopravvisse a una feroce repressione dello Stato, tra la fine del 48 e l’inizio del 49, e si ricostituì. Per un breve periodo fu alleato di Nasser e del suo Movimento degli Ufficiali Liberi che fomenterà un colpo di stato nel luglio 1952. Una volta al potere, Nasser incarcerò molti Fratelli musulmani e mise il movimento fuorilegge. Nonostante ciò, il movimento ha potuto mandare dei deputati al parlamento e controllare un certo numero di organizzazioni non governative Islamiche. Ha, inoltre, trovato un sostegno crescente presso le masse urbane più povere proponendo dei servizi sociali non forniti dallo Stato.
Il successo dei Fratelli musulmani è un costante riferimento per i gruppi "fondamentalisti" più recenti - la maggior parte dei quali però se ne è separata, dicendo che questi hanno moderato i loro discorsi da quando hanno guadagnato il supporto delle masse e dei seggi in parlamento. Gruppi che comunque si ispirano a loro esistono ovunque nel "mondo musulmano" -non solo in Medio Oriente ma anche in Indonesia e nelle Filippine, e finanche in altri paesi dove i musulmani non costituiscono la maggioranza della popolazione. Tuttavia, questi gruppi in genere somigliano più ai Fratelli musulmani delle origini (nell’esaltazione della violenza terroristica) che non alla forza relativamente moderata che oggi sono diventati. E, in ogni caso, questi gruppi possono esistere solamente grazie al sostegno materiale fornito da questo o quello Stato che li manipola a favore dei loro obiettivi in materia di politica estera. È così che a Gaza fu fondato Hamas (Movimento della Resistenza Islamica) da parte di Israele che sperava di farne un contrappeso all'OLP. Ma sia Hamas che e l'organizzazione della Djihad Islamica hanno cooperato con l'OLP e con altre organizzazioni nazionaliste palestinesi - a loro volta manipolate da potenze straniere come la Siria o la vecchia Unione Sovietica. In Algeria, il GIA (Gruppo Islamico armato) riceve più o meno apertamente fondi e altri aiuti dagli Stati Uniti che tentano, in questo modo, di indebolire la concorrenza fatta dalla Francia alla sola superpotenza rimasta. Recentemente, in Indonesia alcuni gruppi Islamici sono stati manipolati dalle frazioni politico-militari prima per mettere in piedi e poi per rovesciare il Presidente. Ancora più nota è la creazione in Pakistan da parte degli Stati Uniti del movimento dei Talebani d'Afghanistan, i quali vennero addestrati con successo contro i loro vecchi alleati Islamici, le diverse frazioni moudjahidin che stavano trascinando l'Afghanistan nel caos totale. Gli Stati Uniti hanno aiutato attivamente Osama Bin Laden nella sua lotta contro l'imperialismo russo, fornendo un supporto al gruppo ora conosciuto con il nome di Al Qaïda.
Altre varianti del modello originale sono fornite da gruppi i cui membri sono usciti dalla setta musulmana Chi'a. Stato sciita più popolato, l'Iran è stato la fonte di queste varianti che includono gruppi presenti in numerosi paesi, in particolare in Libano e in Iraq. L'Iran spesso si è auto descritto come uno Stato dove il "fondamentalismo è al potere", ma è falso, perché il regime è nato più per colmare un vuoto che per l'azione di un gruppo "Islamico". Sicuramente nei suoi primi anni, il regime di Khomeini ha fornito con successo, attraverso azioni di massa, un supporto popolare allo Stato, proponendo un impossibile "ritorno" alle condizioni dell'Arabia del settimo secolo. Tuttavia è importante comprendere che i mullah iraniani (il clero) hanno raggiunto il potere solo grazie all'estrema debolezza del proletariato iraniano: gli operai dell'industria petrolifera, per esempio, sono stati in sciopero per un totale di sei mesi, paralizzando questa industria chiave per l'Iran, allo scopo di abbattere il regime dello Scià. I mullah, unica forza di opposizione con obiettivi politici chiari e in grado di funzionare nella legalità, hanno preso il controllo della mobilitazione confusa contro lo Scià. Bisogna però notare che i sostenitori di Khomeini hanno preso il potere solo dopo una deformazione fondamentale della dottrina sciita: secondo l'ultimo dirigente sciita, scomparso parecchi secoli fa, i credenti sciiti devono opporsi risolutamente a ogni potere politico temporale[30].
Una volta al potere, nel febbraio 1979, i mullah hanno colto ogni occasione per estendere la loro influenza verso gli altri paesi, armando e fornendo una base ai gruppi islamici sciiti che agivano in questi paesi, come la milizia degli Hezbollah (partito di Dio) nel Libano, che per il suo sostegno a Khomeini è stata compensata con un sostanzioso aiuto materiale dell'Iran, a partire dal 1979, e della Siria suo alleato.
L'Afghanistan ha fornito altre varianti, almeno una per ogni gruppo etnico importante che compone questo paese. Sebbene tutti questi gruppi afgani condividano la nozione di uno Stato unitario Islamico, è stato loro estremamente difficile restare uniti per molto tempo, anche e soprattutto dopo l'eliminazione di concorrenti comuni. Le lotte intestine mortali che hanno seguito il crollo del regime pro-russo nel 1992, hanno convinto l'imperialismo USA a smettere di sostenerli e creare una nuova forza più unitaria, i Talebani, che avrebbero potuto costituire un regime stabile pro-USA. Tutte queste disparate frazioni Islamiche dell'Afghanistan si sono rese colpevoli di massacri di massa, dei più orribili atti di crudeltà, come stupri, torture, mutilazioni e massacri di bambini, senza dimenticare il loro ruolo nel commercio internazionale di droga che ha fatto dell'Afghanistan il più grande esportatore di oppio grezzo nel mondo.
Non è possibile, per mancanza di spazio, descrivere la totalità di questi gruppi e tutte le loro sfaccettature. Ma come abbiamo visto, i Fratelli musulmani hanno costituito il paradigma, il modello per il "fondamentalismo Islamico" moderno. Esistono differenti versioni di questo movimento, sia sciite che sunnite, ma nessuna di esse si oppone veramente al capitalismo e all'imperialismo: esse sono parte integrante del mondo "civilizzato".
Di fronte alla propaganda borghese che ci parla di uno "scontro di civiltà”, di una lotta a morte tra "l’occidente" e "l'Islam militante", propaganda veicolata sia dagli occidentali che dai sostenitori di Bin Laden, è importante mostrare che l'Islamismo attuale è un puro prodotto della società capitalista in piena epoca della sua decadenza.
Tanto più che la vera natura dei movimenti Islamici non è neanche compresa del tutto dai gruppi del campo politico proletario. In un recente articolo[31] della sua rivista Revolutionary Perspectives, il BIPR sostiene che l'Islamismo è il riflesso dell'incapacità del capitalismo a eliminare completamente le vestigia precapitaliste, e anche che non c'è stata mai una reale "rivoluzione borghese" nel mondo musulmano. L'articolo continua così: "Contrariamente a certe ipotesi secondo cui l'Islamismo è solamente un puro riflesso del modo di produzione capitalista, esso non lo è affatto. È l'espressione confusa della coesistenza di almeno due modi di produzione".
Sempre secondo questo articolo, l'Islamismo "è diventato un'ideologia capace di mantenere l'ordine capitalista con misure ideologiche e culturali non capitaliste". Viene affermato che: "Contrariamente al Cristianesimo, l'Islam non ha seguito un lungo processo di secolarizzazione e di illuminismo. Il mondo musulmano è restato relativamente immutato in senso storico, ed è riuscito, anche all'era del capitalismo, a conservare la sua vecchia identità, perché il capitalismo non ha potuto nè voluto eliminare le strutture precapitaliste della società: di conseguenza, Dio non è morto in Oriente".
Come prova a queste affermazioni, l'articolo parla della perpetuazione di ciò che chiama "la vecchia comunità del clero che mantiene dei legami stretti con il Bazar'" che è "riuscita a non lasciarsi scuotere" dalla pressione della modernità. Perciò, l'articolo sostiene che "il mondo musulmano deve contenere nel suo seno due modi di produzione e due culture". L'Islamismo trae la sua forza da questo dualismo che gli permette di apparire come un'alternativa al capitalismo di Stato. Pur essendo "un elemento chiave dell'ordine capitalista", l'Islamismo, aggiunge l'articolo, "a certi livelli, è ironicamente in contraddizione con questo stesso ordine". Questo è un errore. È vero che nessun modo di produzione esiste in modo totalmente puro. Solo due esempi: la schiavitù è esistita in differenti epoche, in tutte le forme di società di classe: l'Inghilterra, il più vecchio Stato capitalista, non ha ancora del tutto messo fine alla sua "aristocrazia". È anche vero che la penetrazione del capitalismo nelle regioni dominate dalla religione musulmana è avvenuta tardivamente e in modo incompleto, e che queste non hanno conosciuto l'equivalente di una rivoluzione borghese. Ma, quali che siano le vestigia del passato rimaste e che pesano in queste regioni, queste sono totalmente sottoposte al dominio dell'economia capitalista mondiale, e ne fanno parte.
Il Bazar, nel mondo musulmano, non è un'istituzione fuori dal capitalismo, non più di quella reliquia vivente che è la Regina di Inghilterra o di quell’altro resto del feudalesimo che è Papa Giovanni Paolo II. In effetti, i bazaristi, i commercianti capitalisti del Bazar di Teheran, se pur hanno dato un appoggio importante alla spinta di Khomeini nel 1978-1979 in Iran, restano una frazione capitalista di importanza vitale. I disaccordi - che talvolta si esprimono in modo violento - tra i bazaristi e altre frazioni del regime iraniano, più secolarizzate o influenzate dall'Occidente, rappresentano delle contraddizioni in seno al capitalismo. Sebbene questi conflitti possano indebolire l'economia capitalista del paese, per la borghesia nel suo insieme sono un immenso beneficio politico, perché deviano il proletariato iraniano dal suo campo di classe, verso questa falsa alternativa: appoggiare la frazione "riformista" o la frazione "radicale" del capitale iraniano. Siamo ben lontani dalle "misure ideologiche e culturali non capitaliste" di cui parla l'articolo del BIPR.
Inoltre, in Iran, le relazioni tra i bazaristi e i dirigenti politici sono più forti di quanto non lo siano quelle in qualsiasi altra parte e questo è dovuto alla storia di questo paese e alla forma di Islam che vi è praticata, pertanto non si può utilizzare questo esempio per provare che l'Islamismo ha qualche cosa di "precapitalista". Al contrario, il punto comune dei paesi musulmani è l’utilizzo molto efficace di quegli aspetti sociali provienti da un passato precapitalista al servizio dei bisogni estremamente attuali dei capitalisti moderni. È per tale motivo che la famiglia reale saudita, Gamal Nasser, le frazioni politiche indonesiane e altri rappresentanti della ricca classe capitalista, hanno utilizzato e rigettato uno dopo l'altro i vari gruppi Islamici, completamente capitalisti sebbene reazionari, e che, a parole, volevano reintrodurre la società precapitalista, per preparare la loro strada verso il potere. E non può essere diversamente. Dappertutto, le frazioni capitaliste non si sono mai fatte scrupolo di mobilitare gli elementi più retrogradi per raggiungere i loro obiettivi, ben moderni, e ciò a maggior ragione nel periodo di decomposizione. Il capitalismo tedesco l'ha fatto utilizzando Hitler. Proprio come i Fratelli musulmani, i sostenitori di Khomeini e di Osama Bin Laden, così come Adolf Hitler, hanno costituito una mescolanza confusa di vecchi resti reazionari precapitalisti per servire gli interessi della loro classe dominante. Sotto questo aspetto l'Islamismo non è diverso. L'Islamismo somiglia enormemente all'ideologia nazista, in particolare nell’adottare senza riserve l'idea di una cospirazione ebraica mondiale. In più, questi tanfi di razzismo accentuano la contraddizione tra l'Islamismo e gli insegnamenti originari del Corano che predicava la tolleranza verso gli altri "Popoli del Libro".
Sotto tutte le sue forme, l'Islamismo non è per niente in contraddizione con il capitale. Certamente è il riflesso del ritardo economico e sociale dei paesi musulmani, ma fa parte integrante del sistema capitalista e, soprattutto, della sua decadenza e della sua decomposizione. Possiamo aggiungere anche che, lungi dall'essere in opposizione al capitalismo di Stato, l'idea di uno Stato Islamico che giustifica l'intervento dello Stato in ogni aspetto della vita sociale, è un vettore ideale per il capitalismo di Stato totalitario che è la forma caratteristica che prende il capitale nell'epoca della decadenza.
Il fondamentalismo Islamico si è sviluppato come ideologia di una parte della borghesia e della piccola borghesia nella loro lotta contro le potenze coloniali e i loro galoppini. È rimasto un movimento minoritario fino alla fine degli anni 70, in quanto all’epoca sulla scena principale imperversavano movimenti nazionalisti impregnati di ideologia stalinista. Questi movimenti hanno raggiunto una forza reale nei paesi dove la classe operaia è relativamente poco numerosa, di più recente formazione e quindi inesperta. Gli Islamici si autoproclamano "difensori dei popoli oppressi" (Khomeini). In Iran, per esempio, alla fine degli anni 70, i sostenitori di Khomeini sono riusciti ad attirare la massa povera dei tuguri di Tehran nel loro movimento, proclamandosi in modo menzognero i difensori dei loro interessi e definendosi mustazifin, un termine religioso che designa i miseri e gli oppressi. Il capitalismo decadente, sprofondando ancora più nella miseria della decomposizione, non ha fatto che esacerbare le condizioni di vita di questi strati. L'iniziale emarginazione degli Islamici gioca adesso a loro favore ed essi possono apparire più credibili quando proclamano che se tutte le ideologie non religiose (dalla democrazia al marxismo passando per il nazionalismo) sono fallite, è perché le masse hanno ignorano le leggi di Dio. La stessa ragione è stata rievocata dagli Islamici in Turchia per "spiegare" il terremoto dell'agosto 1999, e ancora prima dagli Islamici egiziani per un terremoto negli anni 80.
Questo genere di mistificazione attira facilmente gli strati della popolazione più colpiti dalla povertà e dalla disperazione. Ai piccoli borghesi rovinati, agli abitanti dei tuguri senza speranza di lavoro e agli stessi elementi della classe operaia, offre il miraggio di un "ritorno" verso quello Stato perfetto che la leggenda attribuisce a Maometto, che si supponeva proteggesse i poveri e impediva ai ricchi di fare troppi profitti. In altri termini, questo Stato è presentato come l'ordine sociale "anticapitalista" per eccellenza. Pertanto, i gruppi Islamici pretendono di essere né capitalisti né socialisti, ma "Islamici” che combattono per l’instaurazione di uno Stato Islamico sul modello del vecchio Califfato. Tutta questa argomentazione si basa su una falsificazione della storia: questo Stato musulmano originario è esistito molto prima dell'epoca capitalista. Era fondato su una forma di sfruttamento di classe ma, questo, come il feudalismo occidentale, non ha permesso lo sviluppo delle forze produttive come l'ha fatto il capitalismo. Ma oggi, ogni volta che un gruppo Islamico radicale prende il controllo di uno Stato, non ha altra alternativa che diventare il custode incaricato di mantenere le relazioni sociali capitaliste e di tentare di massimizzare il profitto dello Stato-nazione. I mullah iraniani, come i Talebani, non hanno potuto sfuggire a questa legge ferrea.
Questo falso "anticapitalismo" si accompagna a un altrettanto falso "internazionalismo musulmano": i gruppi Islamici radicali pretendono spesso di non dare fedeltà a nessuna nazione in particolare e chiamano alla fratellanza e all'unità dei musulmani nel mondo. Questi gruppi si descrivono, e quelli che vi si oppongono fanno lo stesso, come qualche cosa di unico - come un'ideologia e un movimento che trascendono le frontiere nazionali per formare un nuovo "blocco" spaventoso, che minaccia l'occidente come lo faceva il vecchio blocco "comunista". Questo è dovuto in parte al fatto che sono legati alle reti della criminalità internazionale: commercio delle armi (incluso certamente dei mezzi di distruzioni di massa come le armi chimiche o nucleari) e traffico di droga: l'Afghanistan, come abbiamo visto, ne è un perno. In questo contesto, Bin Laden, "Signore della guerra imperialista", può essere visto da qualcuno come il nuovo rampollo della "globalizzazione", e cioè del superamento delle frontiere nazionali. Ma ciò è vero solamente come espressione di una tendenza alla disintegrazione delle unità nazionali più deboli. Lo Stato "globale" musulmano non esisterà mai, perché andrà sempre a infrangersi sullo scoglio della competizione tra le borghesie musulmane. È per questo motivo che, nella loro lotta per inseguire questa chimera, i mujaheddin sono costretti a unirsi sempre al grande gioco imperialistico che rimane il terreno di scontro degli Stati nazionali.
Dietro la "guerra santa", alla quale chiamano le bande Islamiche, si nasconde in realtà la guerra tradizionale, che di "santo" non ha niente e che si combatte tra le potenze imperialiste rivali. I veri interessi degli sfruttati e degli oppressi del mondo intero non si trovano in una mitica fratellanza musulmana, ma nella guerra di classe contro lo sfruttamento e l'oppressione in tutti i paesi. Non si trovano in un ritorno al governo di Dio né dei Califfi, ma nella creazione rivoluzionaria della prima società realmente umana della storia.
Dawson (6/1/2002)
[1] Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Marx 1844
[2] Ibid.
[3] 1966, edizioni Ann Harbor.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] Anton Pannekoek, Lenin filosofo
[8] ibid.
[9] L'Hegiaz , è la regione nord-occidentale della Penisola araba, oggi parte dell'Arabia Saudita. Le sue città hanno avuto un ruolo fondamentale nella nascita e nello sviluppo del primo Islam: Mecca, Medina e Ta'if. Wikipedia [58])
[10] L'Impero sasanide o Impero persiano sasanide fu l'ultimo impero persiano preislamico, governato dalla dinastia sasanide [59] dal 224 al 651.
[11] M. Rodinson, Mohammed, Ed. Penguin, 1983
[12] Ibid.
[13] Ibid.
[14] Lettera di Engels a Marx, 6 giugno 1853
[15] Saladino non solo era più colto di Riccardo Cuor di Leone, ma anche più misericordioso verso i non combattenti di quanto non lo furono i Crociati, che si distinsero per il massacro di popolazioni intere, soprattutto degli ebrei. Benché, sia gli amici che i nemici paragonano Bin Laden a Saladino, è piuttosto ai Crociati che bisognerebbe paragonarlo, lui che ha dichiarato, dopo il primo attentato contro il World Trade Center: “Uccidere gli americani e i loro alleati, civili o militari, è un dovere per ogni musulmano”. Così furono giustificati i massacri dell'11 settembre 2001 e gli attentati/suicidi contro i civili israeliani.
[16] Alexandra Bennigsen e Chantal Lemercier, Islam in the Soviet Union, Pall Mall Press, 1967.
[17] Alexandra Bennigsen et Chantal Lemercier, Sultan Galiev, Le Père de la révolution tiers-mondiste, Ed. Fayard, 1986
[18] Alexandra Bennigsen e Chantal Lemercier, Islam in the Soviet Union, Pall Mall Press, 1967
[19] Alexandra Bennigsen et Chantal Lemercier, Sultan Galiev, Le Père de la révolution tiers-mondiste, Ed. Fayard, 1986.
[20] Jane Degras, The Communist International 1919-1943, vol. 1, Franck Cass & Co, 1971.
[21] The Second Congress of the Communist International, New Park, 1977.
[22] La Gauche Hollandaise, opuscolo della CCI
[23] Baku Congress of the Peoples of the East, New Park, 1977.
[24] Angelica Balabanova, My Life as a Rebel.
[25] E.H. Carr, Storia della Russia sovietica, Einaudi.
[26] Baku Congress of the Peoples of the East, New Park, 1977.
[27] Jane Degras, The Communist International 1919-1943, vol.1, Franck Cass & Co, 1971.
[28] Alessandra Bennigsen e Chantal Lemercier, Islam in the Soviet Union, Pall Mall Press, 1967.
[29] Hassan al Banna fu assassinato dalla polizia segreta egiziana il 12 febbraio 1949, dopo l'assassinio da parte dei Fratelli musulmani del primo ministro, il 28 dicembre 1948.
[30] Khomeini pretendeva che un religioso, discendente diretto di Maometto, avrebbe potuto servire da reggente di uno Stato sciita Islamico, aspettando il 'ritorno' eventuale del dodicesimo Iman.
[31] Revolutionary Perspectives, organo del BIPR, n°23
Perchè milioni di rifugiati fuggono dalla Siria, l'Iraq, l'Afganistan, la Libia e altri paesi del Medio Oriente, dell'Asia centrale e dell'Africa? Perchè la popolazione è disperata e cerca di scappare a uno stato di guerra permanente, a una spirale infernale di sanguinosi conflitti tra molteplici protagonisti, che vanno dagli eserciti governativi ufficiali e quelli delle bande terroriste. La Siria è l'espressione più “avanzata” della crescita del caos. Il governo Assad , che si è dimostrato pronto a ridurre la Siria in rovine piuttosto che lasciare il potere, attualmente non controlla più del 17% del territorio. Intere regioni del nord e dell'est del paese sono sotto il controllo dei fanatici jihadisti dello Stato islamico. Altri spazi sono tra le mani di quelli che i mezzi di informazione occidentali chiamano a volte gli oppositori “moderati”, ma che sono essi stessi sempre più dominati da forze jihadiste come al-Nusra, filiale di Al-Qaida: i ribelli “laici e moderati” dell'Esercito siriano libero, che sono stati apertamente sostenuti dagli Usa e dalla Gran Bretagna, sembrano avere una influenza sempre più marginale. Tra le forze anti-Assad c'è un gioco senza fine di alleanze, tradimenti e lotte armate.
Ma la situazione in Siria, come per le altre guerre nella regione, significa anche un confronto tra le grandi potenze internazionali, sottomesse all'effetto e alle conseguenze dell'intervento diretto degli aerei da guerra russi. Fin dall'inizio, la Russia ha sostenuto il regime di Assad con l'appoggio dei suoi “consiglieri”. Oggi i suoi militari bombardano degli obiettivi “terroristi” perchè il regime di Assad ha le spalle al muro e perchè c'è la minaccia che la base russa di Tartus, unico accesso navale sul Mediterraneo per la Russia, possa essere invasa dallo Stato islamico. Per la Russia tutte le forze di opposizione, comprese quelle sostenute dagli Stati Uniti, sono terroriste e i suoi recenti bombardamenti aerei hanno colpito più i ribelli che gli jihadisti. Gli Stati Uniti, che potrebbero salutare l'aiuto russo e le sue campagne di bombardamenti contro gli jihadisti in Siria e in Iraq, si rendono ben conto che l'obiettivo numero uno della Russia non è tanto quello di battere lo Stato islamico, quanto sostenere Assad. Queste due potenze agiscono dunque in uno stesso paese con interessi opposti, anche se non si affrontano direttamente. Per quanto riguarda la Francia, anch'essa si è implicata apertamente attraverso i suoi bombardamenti aerei. Se questi possono avere una efficacia immediata e relativa, alla fine non fanno che aggiungere tensioni e contribuiscono pienamente alla infernale spirale del caos. Esattamente come l'azione più spettacolarmente grossolana della Russia. Le azioni della Russia in Siria segnano così chiaramente un crescendo, ma un crescendo nel caos. Esse si oppongono alle possibilità prospettate dalle altre grandi potenze di arrivare per proprio conto a un regolamento politico di quattro anni di guerra in Siria e quindi ad ogni speranza di ridurre la marea di rifugiati che fuggono dal paese. Come dopo l'invasione americana in Iraq, le grandi potenze non ridaranno stabilità nella regione, ma aumentano l'instabilità. La loro mancanza di soluzione politica non fa che aprire ancora di più le porte alle ambizioni delle potenze regionali. Nello Yemen, per esempio, il regime saudita ha sostenuto il governo, in lotta contro i ribelli sostenuti dall'Iran che ha, a sua volta, inviato forze in Siria per sostenere Assad. Sulla frontiera turco-siro-irachena, la Turchia ha utilizzato il pretesto della lotta contro Daesh per intensificare i suoi attacchi contro il PKK curdo. La Turchia sostiene anche il gruppo Ahar al-Sham in Siria, mentre il Qatar e l'Arabia Saudita hanno i propri protetti islamici di cui alcuni hanno anche ricevuto il sostegno della CIA.
Per decenni dopo la Seconda Guerra mondiale, il mondo ha vissuto sotto la minaccia di distruzione nucleare da parte dei due blocchi imperialisti controllati dagli Stati Uniti e l'URSS. Questa "guerra fredda" implicava una certa disciplina, un certo ordine, dovendo la maggioranza dei paesi di minore importanza e le forze nazionaliste ubbidire ai diktat dell' uno o l'altro blocco. Il crollo del blocco russo all'inizio degli anni 1990 ha provocato lo sfaldamento veloce del blocco americano ed i tentativi ulteriori degli Stati Uniti per imporre il proprio ordine su queste tendenze centrifughe hanno avuto per risultato quello di accelerarle. I suoi scacchi in Afghanistan ed in Iraq sono una prova chiara di ciò, soprattutto oggi che i talebani, cacciati dal potere dall'invasione americana del 2001, si rafforzano in Afghanistan, che regioni intere dell'Iraq crollano a profitto dello Stato islamico o cadono sotto l'influenza dell'Iran che non è un amico degli Stati Uniti a dispetto dei recenti tentativi di avvicinamento. Dopo queste esperienze molto negative, gli Stati Uniti restano reticenti all'idea di intervenire mandando apertamente delle "truppe di terra". Ma l'ascesa in potenza dello Stato islamico li ha costretti a ricorrere alle forze aeree ed a rafforzare il loro sostegno ai combattenti locali come il PKK (precedentemente considerato un gruppo terroristico) che ha mostrato la sua efficacia nella lotta contro lo Stato islamico. Questa strategia ha così spinto la Turchia ad alzare il tiro nella sua guerra contro i curdi. L'intervento americano in Siria rischia anche di stimolare indirettamente il regime di Assad e le ambizioni russe nella regione. Le contraddizioni si amplificano senza che nessuna soluzione si prospetti all'orizzonte.
Insomma, nessuno "gendarme del mondo" è in grado di imporsi. L'irrazionalità della guerra capitalista è sempre più evidente: le guerre che devastano il pianeta portano dei benefici a breve termine ad una minoranza di capitalisti e di gangster, ma pesano fortemente sul sistema e non portano nessuna prospettiva di riorganizzazione del dopoguerra e di ricostruzione, come avvenne dopo la Seconda Guerra mondiale. Tuttavia, nessuna delle forze capitaliste, dai potenti Stati Uniti al più insignificante signore della guerra, può permettersi di rimanere fuori da questo sprofondamento nel militarismo e la guerra. Gli imperativi della concorrenza capitalista ed imperialista sono troppo forti. Il costo finanziario di un intervento militare può essere esorbitante, ma niente è peggiore che perdere terreno a profitto dei rivali. E dei rivali ci saranno sempre.
Per la popolazione di queste regioni, il prezzo che paga è quello della sua carne e del suo sangue, in numero di civili bombardati, violentati e decapitati dagli eserciti governativi e dalle milizie dell'opposizione, in abitazioni in rovina, in secoli di patrimonio culturale e storico volati in fumo, nella scelta tra le carestie nei campi profughi alla frontiera delle zone di guerra o intraprendere il viaggio pericoloso per l'Europa, verso un supposto "rifugio di sicurezza". Per l'umanità nel suo insieme, sembra non esistere altra prospettiva che la propagazione del caos militare attraverso il mondo, la fuga in avanti verso un punto fatidico di non ritorno.
Ma questo punto non è stato ancora raggiunto. Se l'Europa appare ancora come un'oasi di pace per i profughi del mondo intero, non è sicuramente a causa della bontà della borghesia europea, ma perché la classe operaia di questi paesi è sempre una forza sulla quale bisogna contare. La classe dominante non è in grado di stritolarla al punto di sprofondarla nell'estrema povertà o di mobilitarla per la guerra come avvenne negli anni 1930 quando la borghesia si trovò di fronte una classe operaia vinta. La situazione in Siria illustra la barbarie della classe dominante quando la classe operaia è debole ed incapace di resistere alla brutalità dello Stato. Il problema per la classe operaia dei paesi centrali è che essa non riconosce più la sua forza, non ha più fiducia nella sua capacità a rispondere, non ha ritrovato ancora una prospettiva indipendente capace di offrire un avvenire agli sfruttati ed agli oppressi. Ma questa prospettiva, quella della lotta di classe oltre le frontiere per una nuova società, resta la sola vera speranza per l'umanità.
Da World Revolution, organo di stampa della CCI in GB, 4 ottobre 2015
Links
[1] https://en.internationalism.org/international-review/201608/14087/brexit-trump-setbacks-ruling-class-nothing-good-proletariat
[2] https://it.internationalism.org/rint/28_tesi_studenti
[3] https://it.internationalism.org/rziz/2006/rint_28
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[5] https://www.treccani.it/vocabolario/eslege/
[6] https://www.treccani.it/enciclopedia/taylorismo/
[7] https://www.theguardian.com/world/2016/oct/03/russia-media-coverage-syria-war-selective-defensive-kremlin
[8] https://www.theguardian.com/world/2016/oct/04/yemen-famine-feared-as-starving-children-fight-for-lives-in-hospital
[9] https://secure.avaaz.org/campaign/en/protect_syrian_civilians_loc/?slideshow
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[11] https://fr.internationalism.org/icconline/201511/9277/attentats-a-paris-a-bas-terrorisme-a-bas-guerre-a-bas-capitalisme
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/3/54/terrorismo
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/4/71/germania
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/4/82/unione-europea
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/2/33/la-questione-nazionale
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[17] https://en.internationalism.org/node/3865
[18] https://fr.internationalism.org/rinte95/berlin1948.htm
[19] https://www.coe.int/web/history-education/
[20] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[21] https://it.internationalism.org/content/immigrazione-e-movimento-operaio
[22] https://fr.internationalism.org/french/brochures/introduction_fascisme_et_democratie
[23] https://www.lemonde.fr/eelv/
[24] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[25] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/lettere-dei-lettori
[26] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[27] https://it.internationalism.org/node/666
[28] https://it.wikipedia.org/wiki/Direttorato_politico_dello_Stato
[29] https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Sovietica
[30] https://it.internationalism.org/en/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria
[31] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[32] https://fr.internationalism.org/rinte32/pci.htm
[33] https://fr.internationalism.org/rint/32_PCInt
[34] https://fr.internationalism.org/rinte9/italie
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[36] https://fr.internationalism.org/rinte109/fonctionnement.htm
[37] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
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[40] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[41] https://it.internationalism.org/cci/201601/1349/islamismo-un-sintomo-della-decomposizione-del-capitalismo
[42] https://it.internationalism.org/en/tag/3/52/religione
[43] https://en.internationalism.org/node/2939
[44] https://it.internationalism.org/content/1316/conferenza-internazionale-straordinaria-della-cci-la-notizia-della-nostra-scomparsa-e
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[46] https://en.internationalism.org/node/3105
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[48] https://en.internationalism.org/node/2962
[49] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[50] https://en.internationalism.org/ir/109_functioning
[51] https://fr.internationalism.org/revue-internationale/201409/9121/chemin-vers-trahison-social-democratie-allemande
[52] https://en.internationalism.org/node/3116
[53] https://it.internationalism.org/rint/22_parassitismo
[54] https://it.internationalism.org/en/tag/7/109/sinistra-comunista
[55] https://it.internationalism.org/en/tag/3/51/partito-e-frazione
[56] https://dandurand.uqam.ca/
[57] https://www.fool.com
[58] https://it.wikipedia.org/wiki/Hegiaz
[59] https://it.wikipedia.org/wiki/Re_di_Persia