Anno 2011
In un nostro precedente articolo abbiamo parlato della lotta che si sviluppava in Spagna[1]. Dopo di allora il contagio del suo esempio si è propagato fino alla Grecia e ad Israele[2]. In questo articolo vogliamo tirare le lezioni di questi movimenti e vedere quali prospettive se ne possono tirare di fronte a una situazione di fallimento del capitalismo e di attacchi feroci contro il proletariato e la grande maggioranza della popolazione mondiale.
Per comprenderli bisogna rifuggire categoricamente dal metodo immediatista ed empirico che predomina nella società attuale. Con questo metodo ogni avvenimento viene analizzato in sé, al di fuori di ogni contesto storico e isolandolo nel paese in cui si svolge. Questo metodo fotografico è un riflesso della degenerazione ideologica della classe capitalista, giacché “il solo progetto che questa classe è capace di offrire all’insieme della società è quello di resistere giorno per giorno, colpo su colpo, e senza speranza di riuscita, al crollo irrimediabile del modo di produzione capitalista”[3].
Una fotografia può mostrarci una persona che sfoggia un gran sorriso, ma questo non esclude che qualche secondo prima la stessa persona avesse un’aria angosciata. Non è in questa maniera che si possono capire i movimenti sociali. Si può comprenderli solo alla luce del passato che li ha fatti maturare e del futuro che essi annunciano; è necessario situarli nel quadro mondiale e non in quello nazionale in cui appaiono; e, soprattutto, essi devono essere compresi nella loro dinamica, non per quello che sono in un momento dato, ma per quello che possono diventare sulla base delle tendenze, delle forze e delle prospettive che essi contengono e che usciranno prima o poi alla superficie.
Il proletariato sarà capace di rispondere alla crisi del capitalismo?
All’inizio del 21° secolo abbiamo pubblicato una serie di due articoli dal titolo “All’alba del 21° secolo, perché il proletariato non ha ancora rovesciato il capitalismo?”[4]. In essi ricordavamo che la rivoluzione comunista non è una fatalità e che il suo avvento dipende dall’unione di due fattori, quello oggettivo e quello soggettivo. Il fattore oggettivo è dato dalla decadenza del capitalismo[5] e dallo sviluppo di una crisi aperta della società borghese che dimostri che i rapporti di produzione capitalisti devono essere rimpiazzati da altri rapporti di produzione[6]. Il fattore soggettivo è legato all’azione collettiva e cosciente del proletariato.
L’articolo riconosce che il proletariato ha mancato i suoi appuntamenti con la storia. Nel primo caso – La Prima Guerra mondiale – il tentativo di risposta con un’ondata rivoluzionaria mondiale nel 1917-23 fu sconfitto; nel secondo – la grande Depressione del 1929 – il proletariato fu assente come classe autonoma; nel terzo – la Seconda Guerra mondiale – non solo esso fu assente ma fu anche portato a credere che la democrazia e lo Stato assistenziale, questi miti manipolati dai vincitori, costituissero la sua vittoria. In seguito, con il ritorno della crisi alla fine degli anni ‘60, il proletariato “non mancò l’appuntamento (…) ma allo stesso tempo abbiamo potuto misurare la quantità di ostacoli ai quali si è scontrato e che hanno rallentato il suo cammino verso la rivoluzione proletaria”[7]. Questi freni si manifestarono in coincidenza di un nuovo avvenimento di primaria importanza – il crollo dei regimi cosiddetti “comunisti” nel 1989 - in cui non solo non fu un fattore attivo, ma in cui fu vittima di una formidabile campagna anticomunista che lo ha fatto retrocedere tanto a livello della sua coscienza che della sua combattività.
Quello che potremmo definire il “quinto appuntamento con la storia” si apre dal 2007. La crisi che si manifesta con più ampiezza dimostra il fallimento praticamente definitivo delle politiche che il capitalismo aveva messo in piedi per accompagnare l’emergere della sua crisi insolubile. L’estate 2011 ha messo in evidenza che le enormi somme immesse nel sistema non possono arrestare l’emorragia e che il capitalismo viene trascinato sulla china della Grande Depressione, ben più grave di quella del 1929[8].
Ma, in un primo tempo, e nonostante i colpi che piovono su di lui, il proletariato sembra comunque assente. Al nostro 18° Congresso Internazionale avevamo ipotizzato il verificarsi di una situazione di questo tipo: “Queste saranno probabilmente, in un primo tempo, lotte disperate e relativamente isolate, anche se possono beneficiare di una simpatia reale in altri settori della classe operaia. Perciò anche se, nel prossimo periodo, non si assisterà a una risposta poderosa della classe operaia di fronte agli attacchi, non bisognerà considerare questo fatto come una rinuncia a lottare in difesa dei propri interessi. Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che solo la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.”[9].
Gli attuali movimenti in Spagna, Israele e Grecia mostrano che il proletariato comincia ad assumere questo “quinto appuntamento con la storia”, a prepararsi per essere presente, a darsi i mezzi per vincere[10].
Negli articoli citati prima dicevamo che due dei pilastri su cui il capitalismo – almeno nei paesi centrali – si è appoggiato per tenere il proletariato sotto il suo controllo sono la democrazia e quello che viene definito lo “Stato assistenziale”. Quello che questi tre movimenti rivelano è che i pilastri cominciano ad essere contestati, anche se ancora confusamente, contestazione che sarà alimentata dall’evoluzione catastrofica della crisi.
La contestazione della democrazia
In questi tre movimenti si è manifestata la collera contro i politici e, in generale, contro la democrazia. Così come si è manifestata l’indignazione rispetto al fatto che i ricchi e il loro personale politico siano sempre più ricchi e corrotti, che la grande maggioranza della popolazione sia trattata come una merce al servizio dei privilegi scandalosi della minoranza sfruttatrice, merce gettata nella spazzatura quando i “mercati non vanno più bene”; anche i drastici programmi di austerità sono stati denunciati, programmi di cui nessuno parla mai al momento delle campagne elettorali e che poi diventano la principale occupazione di quelli che vengono eletti.
E’ evidente che questi sentimenti non sono nuovi: per esempio, parlar male dei politici è stata cosa comune in questi ultimi trent’anni. E’ chiaro anche che questi sentimenti possono essere deviati verso vicoli ciechi come hanno cercato di fare con perseveranza le forze della borghesia in azione in questi tre movimenti: “per una democrazia partecipativa”, per un “rinnovamento della democrazia”, ecc.
Ma quello che c’è di nuovo e che riveste un’importanza significativa è che questi temi che, lo si voglia o no, mettono in questione la democrazia, lo Stato borghese e i suoi apparati di dominio, sono l’oggetto di innumerevoli assemblee. Non si possono paragonare degli individui che rimuginano il loro disgusto da soli, atomizzati, passivi e rassegnati con questi stessi individui che lo esprimono liberamente in assemblee. Al di là degli errori, delle confusioni, dei momenti di stallo che vi si esprimono inevitabilmente e che devono essere discussi con la massima pazienza ed energia, l’essenziale sta proprio nel fatto che i problemi siano posti pubblicamente, cosa che contiene in potenza un’evidente politicizzazione delle grandi masse e, anche, l’inizio di una messa in discussione di questa democrazia che ha reso tanti servizi al capitalismo lungo tutto l’ultimo secolo.
La fine del presunto “Stato assistenziale”
Dopo la Seconda Guerra mondiale, il capitalismo istituì quello che fu chiamato “lo Stato assistenziale”[11]. Questo ha costituito uno dei principali pilastri del dominio capitalista nel corso degli ultimi 70 anni. Ha creato l’illusione che il capitalismo avesse superato gli aspetti più brutali della sua realtà: lo Stato assistenziale avrebbe garantito una sicurezza di fronte alla disoccupazione, la pensione, la gratuità delle cure mediche e dell’educazione, degli alloggi sociali, ecc.
Questo “Stato sociale”, complemento della democrazia politica, ha subito delle significative amputazioni nel corso degli ultimi 25 anni e va verso la pura e semplice sparizione. In Grecia, in Spagna o in Israele (dove è stata innanzitutto la penuria di alloggi a mobilitare i giovani), l’inquietudine creata dalla soppressione dei sussidi sociali è stata alla base delle lotte. E’ evidente che la borghesia ha cercato di deviare le mobilitazioni verso le “riforme della costituzione”, l’adozione di leggi che “garantiscano” queste prestazioni, e così via. Ma l’ondata crescente di inquietudine contribuirà a rimettere in discussione queste dighe che servono a controllare i lavoratori.
I movimenti degli Indignati, punto culminante di otto anni di lotte
Il cancro dello scetticismo domina l’attuale ideologia e infetta anche il proletariato e le sue minoranze rivoluzionarie. Come si è detto prima il proletariato ha mancato tutti gli appuntamenti che la storia aveva creato durante quasi un secolo di decadenza capitalista e da questo è nato un dubbio angosciante nelle sue fila circa la sua propria identità e le sue capacità, al punto che, anche durante delle manifestazioni di combattività, alcuni arrivano a rigettare il termine “classe operaia”[12]. Questo scetticismo è tanto più forte in quanto alimentato dalla decomposizione del capitalismo[13]: la disperazione, l’assenza di un progetto concreto per l’avvenire favoriscono l’incredulità e la diffidenza verso ogni prospettiva di azione collettiva.
I movimenti in Spagna, Israele e Grecia – nonostante tutte le debolezze che contengono – cominciano a fornire un rimedio efficace contro il cancro dello scetticismo, innanzitutto per la loro stessa esistenza e per quello che essi significano nella continuità delle lotte e degli sforzi di presa di coscienza che il proletariato mondiale sta realizzando dal 2003[14]. Essi non costituiscono un temporale a ciel sereno ma sono il risultato di una lenta condensazione di questi ultimi otto anni di piccole nuvole, di pioggerelle, di lampi timidi che è cresciuta fino a raggiungere una qualità nuova.
Dal 2003 il proletariato comincia a riprendersi dal lungo periodo di riflusso della sua coscienza e della combattività che aveva subito a partire dagli avvenimenti del 1989. Questo processo segue un ritmo lento, contraddittorio e molto tortuoso, che si manifesta attraverso:
- una successione di lotte molto isolate in diversi paesi, tanto al centro che alla periferia, caratterizzate da manifestazioni “cariche di futuro”: ricerca della solidarietà, tentativi di autorganizzazione, presenza di nuove generazioni, riflessioni sull’avvenire;
- uno sviluppo di minoranze internazionaliste alla ricerca di una coerenza rivoluzionaria, che si pongono tante questioni e cercano il contatto fra loro, discutono, tracciano prospettive…
Nel 2006 scoppiano due movimenti - la lotta contro il CPE in Francia[15] e lo sciopero massiccio dei lavoratori di Vigo in Spagna - che, nonostante la distanza, la differenza di condizioni e di età dei partecipanti, presentano tratti simili: assemblee generali, estensione ad altri settori, partecipazione di massa alle manifestazioni … E’ come una prima semina che, apparentemente, non ha seguito[16].
Un anno più tardi un embrione di sciopero di massa scoppia in Egitto a partire da una grande fabbrica tessile. All’inizio del 2008 scoppiano numerose lotte isolate le une dalle altre, ma contemporaneamente in un gran numero di paesi, dalla periferia al centro del capitalismo. Altri movimenti si fanno notare, come la proliferazione di rivolte della fame in 33 paesi durante il primo trimestre del 2008. In Egitto queste lotte sono sostenute e in gran parte prese in carico dal proletariato. Alla fine del 2008 scoppia la rivolta della gioventù operaia in Grecia, appoggiata da una parte del proletariato. Da ricordare ancora dei germi di reazioni internazionaliste nel 2009 a Lindsay (Gran Bretagna) e un esplosivo sciopero generalizzato nel sud della Cina (a giugno).
Dopo un primo indietreggiamento del proletariato di fronte al primo impatto della crisi, come visto prima, questo comincia a lottare in maniera ben più decisa e, nel 2010, la Francia è scossa da movimenti di massa di protesta contro la riforma delle pensioni, movimenti nel corso dei quali fanno la loro comparsa tentativi di assemblee intercategoriali; i giovani inglesi si rivoltano in dicembre contro l’aumento brutale delle tasse scolastiche. L’anno 2011 vede le grandi rivolte sociali in Egitto e Tunisia. Il proletariato sembra prendere lo slancio per un nuovo salto in avanti: il movimento degli Indignati in Spagna, poi in Grecia e in Israele.
Questo movimento appartiene alla classe operaia?
Questi tre ultimi movimenti non possono essere compresi al di fuori del contesto che stiamo analizzando. Essi costituiscono una specie di primo puzzle che unisce tutti gli elementi intervenuti lungo questi ultimi otto anni. Ma lo scetticismo è molto forte e molti si domandano: si può parlare di movimenti della classe operaia visto che questa non vi è presente come tale e che essi non sono rafforzati da scioperi o assemblee sui luoghi di lavoro?
Il movimento si chiama “Gli Indignati”, concetto sicuramente valido per la classe operaia[17], ma che non rivela immediatamente quello di cui è portatore dal momento che non si identifica direttamente con la sua natura di classe. Ci sono due elementi che gli conferiscono essenzialmente un’apparenza di rivolta sociale:
– la perdita dell’identità di classe
Il proletariato ha attraversato un lungo periodo di riflusso che gli ha inflitto danni significativi per quanto riguarda la fiducia in se stesso e la coscienza della propria identità: “dopo il crollo del blocco dell’Est e dei regimi cosiddetti ‘socialisti’, le assordanti campagne della borghesia sul “fallimento del comunismo”, la “vittoria definitiva del capitalismo liberale e democratico”, la “fine della lotta di classe” e della classe operaia stessa, portò ad un importante arretramento del proletariato, sia a livello della coscienza che della combattività. Questo arretramento fu profondo è durò più di dieci anni (…) D’altra parte, (la borghesia) è riuscita a creare in seno alla classe operaia un forte sentimento di impotenza legato alla sua incapacità a ingaggiare delle lotte di massa”[18]. Questo spiega in parte perché la partecipazione del proletariato come classe non è stata dominante, ma che è stato presente attraverso la partecipazione individuale di lavoratori (salariati, disoccupati, studenti, pensionati) che cercano di chiarificarsi, di implicarsi secondo il loro istinto, ma a cui mancano la forza, la coesione e la chiarezza che dà il fatto di agire collettivamente come classe.
Da questa perdita di identità deriva il fatto che il programma, la teoria, le tradizioni, i metodi del proletariato non sono riconosciuti come propri dall’immensa maggioranza dei lavoratori. Il linguaggio, le forme di azione, i simboli stessi che compaiono nel movimento degli Indignati si rifanno ad altre fonti. Questa è una debolezza pericolosa che deve essere pazientemente combattuta perché si realizzi una riappropriazione critica di tutto il patrimonio teorico, di esperienza, di tradizioni che il proletariato ha accumulato durante gli ultimi due secoli.
– la presenza di strati sociali non proletari
tra gli indignati c’è una forte presenza di strati sociali non proletari, in particolare di un ceto medio in via di proletarizzazione. Per quanto riguarda Israele il nostro articolo sottolineava: “Un’altra questione è quella di etichettare questo come un movimento della ‘classe media’. E’ vero che, come per tutti gli altri movimenti, siamo di fronte a una rivolta sociale ampia che può esprimere l’insoddisfazione di molti diversi strati sociali, dai piccoli imprenditori ai lavoratori nei punti di produzione, tutti colpiti dalla crisi economica mondiale, un divario crescente tra ricchi e poveri e, in un paese come Israele, dall’aggravamento delle condizioni di vita per le insaziabili esigenze dell’economia di guerra. Ma ‘classe media’ è diventata un’espressione vaga, onnicomprensiva che indica chiunque abbia un titolo di studio o un lavoro, e in Israele come in Nord Africa, Spagna o Grecia, un numero crescente di giovani istruiti sono spinti nei ranghi del proletariato, svolgendo lavori mal retribuiti e non qualificati, dove possono anche non trovare affatto alcun lavoro”[19].
Benché il movimento sembri vago e mal definito, questo non può bastare per rimettere in causa il suo carattere di classe, soprattutto se consideriamo le cose nella loro dinamica, nella prospettiva futura, come fanno anche i compagni del TPTG a proposito del movimento in Grecia: “Quello che inquieta i politici di ogni schieramento in questo movimento delle assemblee, è che la collera e l’indignazione crescenti dei proletari (e di strati piccolo-borghesi) non si esprime più attraverso il circuito mediatico dei partiti politici e dei sindacati. Per questo esso non è controllabile ed è potenzialmente pericoloso per il sistema rappresentativo del mondo politico e sindacale in generale”.[20]
La presenza del proletariato non è visibile come forza dirigente del movimento e nemmeno attraverso una mobilitazione a partire dai posti di lavoro. Essa sta invece nella dinamica di ricerca, di chiarificazione, di preparazione del terreno sociale, di riconoscimento della lotta che si prepara. Qui sta tutta la sua importanza, nonostante il fatto che resta un piccolo passo avanti estremamente fragile. Riferendosi alla Grecia, i compagni del TPTG dicono che il movimento “costituisce un’espressione della crisi dei rapporti di classe e della politica in generale. Nessun’altra lotta si è espressa in maniera così ambivalente ed esplosiva negli ultimi decenni”[21], e su Israele, un giornalista segnala che: “per quanto riguarda la comunità ebraica in Israele, non è mai stata l’oppressione che ha mantenuto l’ordine sociale. Se ne è incaricato l’indottrinamento – l’ideologia dominante, per utilizzare i termini preferiti dai teorici critici. E’ quest’ordine culturale che è stato sconvolto da questo turbinio di proteste. Per la prima volta una gran parte della classe media ebrea – è troppo presto per valutare l’importanza che questa rappresenta – ha riconosciuto che il suo problema non era verso altri israeliani, né verso gli arabi, e nemmeno con questo o quel politico, ma con l’ordine sociale nel suo complesso, con il sistema in quanto tale. Per questo esso costituisce un avvenimento inedito nella storia di Israele”[22].
Le caratteristiche delle lotte future
In questa ottica possiamo considerare i tratti di queste lotte come delle caratteristiche che le lotte future potranno riprendere con spirito critico e sviluppare a dei livelli superiori:
- l’entrata in lotta di nuove generazioni del proletariato con, tuttavia, una differenza importante con i movimenti del 1968: mentre la gioventù di allora tendeva a ripartire da zero e considerava i più anziani come “sconfitti e imborghesiti”, oggi vediamo una lotta unita di differenti generazioni della classe operaia;
- l’azione diretta delle masse: la lotta ha guadagnato la strada, le piazze sono state occupate. Gli sfruttati vi si sono ritrovati direttamente e hanno potuto vivere, discutere e agire insieme;
- l’inizio della politicizzazione: al di là delle false risposte che vengono o verranno date, è importante che grandi masse comincino a implicarsi direttamente e attivamente nelle grandi questioni della società, è l’inizio della loro politicizzazione come classe;
- le assemblee: queste sono legate alla tradizione proletaria dei consigli operai del 1905 e 1917 in Russia, che si estesero in Germania e ad altri paesi durante l’ondata rivoluzionaria del 1917-23. Esse riapparvero nel 1956 in Ungheria e nel 1980 in Polonia. Le assemblee sono l’arma dell’unità, dello sviluppo della solidarietà, della capacità di comprensione e di decisione delle masse operaie. Lo slogan “Tutto il potere alle assemblee!”, molto popolare in Spagna, esprime la nascita di una riflessione-chiave su questioni come lo Stato, il doppio potere, ecc.;
- la cultura del dibattito: la chiarezza che ispira la determinazione e l’eroismo delle masse proletarie non può essere decretata, né è il frutto di un indottrinamento da parte di una minoranza detentrice della “verità”: essa è il prodotto della combinazione dell’esperienza, della lotta e in particolare del dibattito. La cultura del dibattito è stata molto presente in questi tre movimenti: tutto è stato sottomesso alla discussione, niente di ciò che è politico, sociale, economico, umano, è sfuggito alla critica di queste immense agorà improvvisate. Come abbiamo detto nell’introduzione all’articolo dei compagni greci, questo fatto ha un’importanza enorme: “lo sforzo determinato per contribuire all’emergere di ciò che i compagni del TPTG chiamano ‘una sfera proletaria pubblica’ che renderà possibile ad un numero crescente di elementi della nostra classe non soltanto di operare per la resistenza agli attacchi capitalisti contro le nostre condizioni di vita ma anche per sviluppare le teorie e le azioni che insieme conducono ad un nuovo modo di vivere”[23];
- il modo di considerare la questione della violenza: il proletariato “è stato confrontato fin dall’inizio con la violenza estrema della classe sfruttatrice, con la repressione quando ha provato a difendere i suoi interessi, con la guerra imperialista ed anche con la violenza quotidiana dello sfruttamento. Contrariamente alle classi sfruttatrici, la classe portatrice del comunismo non porta in sé violenza, ed anche se non può fare a meno di usarla non deve mai identificarsi con essa. In particolare, la violenza di cui dovrà dare prova per rovesciare il capitalismo e di cui dovrà servirsi con determinazione, è necessariamente una violenza cosciente ed organizzata e dunque deve essere preceduta da tutto un processo di sviluppo della sua coscienza e della sua organizzazione attraverso le differenti lotte contro lo sfruttamento”[24]. Come in occasione del movimento degli studenti nel 2006, la borghesia ha tentato più volte di trascinare il movimento degli Indignati (soprattutto in Spagna) nella trappola degli scontri violenti contro la polizia in un contesto di dispersione e di debolezza, per poter così discreditare il movimento e rendere più facile il suo isolamento. Queste trappole sono state evitate ed è iniziata ad emergere una riflessione attiva sulla questione della violenza[25].
Debolezze e confusioni da combattere
Non vogliamo affatto glorificare questi movimenti. Niente è più estraneo al metodo marxista che fare di una determinata lotta, per importante e ricca che sia, un modello definitivo, concluso e monolitico che bisogna seguire alla lettera. Comprendiamo perfettamente le loro debolezze e difficoltà che vediamo con lucidità.
La presenza di un’ala democratica
Questa spinge alla realizzazione di una “vera democrazia”. Questa linea è rappresentata da diverse correnti, comprese alcune di destra come in Grecia. E’ evidente che i media ed i politici si appoggiano su quest’ala per fare in modo che l’insieme del movimento si identifichi con essa.
I rivoluzionari devono combattere energicamente tutte le mistificazioni, le false misure, gli argomenti fallaci di questa tendenza. Tuttavia bisogna chiedersi: perché esiste ancora una forte propensione a lasciarsi sedurre dal canto di sirena della democrazia, dopo tanti anni di inganni, di menzogne e di delusioni? Si possono dare tre motivazioni. La prima si trova nel peso degli strati sociali non proletari molto recettivi alle mistificazioni democratiche ed all’interclassismo. La seconda risiede nella potenza delle confusioni e delle illusioni democratiche ancora molto presenti nella classe operaia. Infine, la terza si trova nella pressione di quella che noi chiamiamo la decomposizione sociale e ideologica del capitalismo che favorisce la tendenza a cercare rifugio in un’entità “al di sopra delle classi e dei conflitti”, cioè lo Stato, che si presume potrebbe apportare un certo ordine, la giustizia e la mediazione.
Ma c’è una causa più profonda sulla quale è importante attirare l’attenzione. Ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx constata che “Le rivoluzioni proletarie (…) indietreggiano di nuovo costantemente davanti all’immensità infinita dei loro propri fini”[26]. Oggi, gli avvenimenti mettono in evidenza il fallimento del capitalismo, la necessità di distruggerlo e di costruire una nuova società. Per un proletariato che dubita delle proprie capacità, che non ha recuperato la propria identità, questo crea, e continuerà ancora a creare per un certo tempo, la tendenza ad aggrapparsi a dei rami marci, a delle false misure di “riforme” e di “democratizzazione”, anche se con tanti dubbi. Tutto questo, indiscutibilmente, dà un margine di manovra alla borghesia che le permette di seminare divisione e demoralizzazione e, di conseguenza, rendere ancora più difficile per il proletariato il recupero di questa fiducia in sé e di questa identità di classe.
Il peso dell’apoliticismo
Si tratta di una vecchia debolezza che si porta dietro il proletariato dal 1968 e che trova la sua origine nell’enorme delusione ed il profondo scetticismo provocato dalla controrivoluzione stalinista e social-democratica, che induce a credere che ogni opzione politica, comprese quelle che si richiamano al proletariato, non è che una vile menzogna che porta in sé la serpe del tradimento e dell’oppressione. Di questo approfittano largamente le forze della borghesia che, occultando la propria identità e imponendo la finzione di un intervento “in quanto liberi cittadini”, hanno operato nel movimento per prendere il controllo delle assemblee e sabotarle dall’interno. I compagni del TPTG lo mettono chiaramente in evidenza: “All’inizio c’era uno spirito comunitario nello sforzo di auto-organizzare l’occupazione della piazza e ufficialmente i partiti politici non erano tollerati. Tuttavia, i gauchisti e, in particolare, quelli che venivano da SYRIZA (coalizione della Sinistra radicale) furono rapidamente implicati nelle assemblee di Syntagma e conquistarono dei posti importanti nei gruppi che erano stati formati per gestire l’occupazione di piazza Syntagma e, più specificamente, nei gruppi per il ‘segretariato di sostegno’ e quello responsabile della ‘comunicazione’. Questi due gruppi sono i più importanti perché organizzano gli ordini del giorno delle assemblee e la tenuta delle discussioni. Bisogna notare che queste persone non facevano sapere della loro filiazione politica e apparivano come degli ‘individui’”[27].
Il pericolo del nazionalismo
Questo è più presente in Grecia e in Israele. Come denunciano i compagni del TPTG, “il nazionalismo (principalmente sotto la sua forma populista) è dominante, favorito sia dalle diverse cricche di estrema destra che da quelle di sinistra e gauchiste. Anche per molti proletari e piccolo-borghesi colpiti dalla crisi che non si sono affiliati a dei partiti politici, l’identità nazionale appare come un ultimo rifugio immaginario quando tutto il reso crolla rapidamente. Dietro le parole d’ordine contro ‘il governo venduto allo straniero’ o per ‘la salvezza del paese’, ‘la sovranità nazionale’, la rivendicazione di una ‘nuova costituzione’ essa appare come una soluzione magica e unificatrice”[28].
La riflessione dei compagni è tanto giusta quanto profonda. La perdita dell’identità e della fiducia del proletariato nella propria forza, il lento processo che attraversa la lotta nel resto del mondo, favoriscono la tendenza ad “aggrapparsi alla comunità nazionale” rifugio utopico di fronte ad un mondo ostile e pieno d’incertezze.
Così, ad esempio, le conseguenze dei tagli nella sanità e l’educazione, il problema concreto creato dall’indebolimento di questi servizi, vengono utilizzati per rinchiudere le lotte dietro le sbarre nazionaliste della rivendicazione di una “buona educazione” (perché questa ci rende competitivi sul mercato mondiale) e di una “sanità al servizio di tutti i cittadini”.
La paura e la difficoltà ad assumere lo scontro di classe
L’angosciante minaccia della disoccupazione, la precarietà di massa, la crescente frammentazione degli impiegati – divisi, nello stesso posto di lavoro, in una rete inestricabile di subappaltatori e attraverso un’incredibile varietà di modalità di assunzione – provocano un potente effetto intimidatorio e rendono più difficile il raggruppamento dei lavoratori per la lotta. Questa situazione non può essere superata con appelli volontaristici alla mobilitazione, tanto meno ammonendo i lavoratori per la loro supposta “vigliaccheria” o “servilismo”.
Pertanto, il passo verso la mobilizzazione massiccia dei disoccupati, dei precari, dei centri di lavoro e di studio, è reso più difficile di ciò che potrebbe sembrare a prima vista, difficoltà che causa a sua volta un’esitazione, un dubbio ed una tendenza ad aggrapparsi a delle “assemblee” che diventano ogni giorno più minoritarie e la cui “unità” favorisce soltanto le forze borghesi che agiscono al loro interno. Questo dà un margine di manovra alla borghesia per preparare i suoi colpi bassi destinati a sabotare le assemblee generali dall’interno. È ciò che denunciano giustamente i compagni del TPPG: “La manipolazione dell’assemblea principale in piazza Syntagma (ce ne sono molte altre in varie zone di Atene ed in altre città) da parte di membri ‘non dichiarati’ partiti e di organizzazioni di sinistra è evidente ed è un ostacolo reale ad una direzione di classe del movimento. Tuttavia, a causa della profonda crisi di legittimità del sistema politico di rappresentanza in generale, anche loro dovevano nascondere la loro identità politica e mantenere un equilibrio - non sempre riuscito – tra, da un lato, un discorso generale ed astratto su ‘l’autodeterminazione’, la ‘democrazia diretta’, ‘l’azione collettiva’, ‘l’antirazzismo’, il ‘cambiamento sociale’, ecc., e dall’altro contenere il nazionalismo estremo, il comportamento da delinquente di alcuni individui di estrema destra che partecipavano ai raggruppamenti in piazza”[29].
Guardare al futuro con serenità
Se è evidente che “perché viva l’umanità, il capitalismo deve morire”[30], il proletariato è ancora lontano dall’aver raggiunto la capacità di rendere esecutiva la sentenza. Il movimento degli Indignati pone una prima pietra.
Nella serie di nostri articoli citata prima, diciamo: “Una delle ragioni per le quali le previsioni dei rivoluzionari del passato sulla scadenza della rivoluzione non si sono realizzate è che loro hanno sottovalutato la forza della classe dirigente, in particolare la sua intelligenza politica”[31]. Questa capacità della borghesia di utilizzare la sua intelligenza politica contro le lotte è oggi più viva che mai! Ad esempio, i movimenti degli Indignati nei tre paesi sono stati completamente occultati altrove, eccetto quando se ne è data una versione light di “rinnovamento democratico”. Altro esempio, la borghesia britannica è stata capace di approfittare del malcontento per incanalarlo verso una rivolta nichilista che gli è servita da pretesto per rafforzare la repressione ed intimidire la benché minima risposta di classe[32].
I movimenti degli Indignati hanno posto una prima pietra nel senso che hanno fatto i primi passi perché il proletariato recuperi la fiducia in sé stesso e la sua identità di classe, ma quest’obiettivo resta ancora molto lontano perché richiede lo sviluppo di lotte di massa su un terreno direttamente proletario che metta in evidenza che la classe operaia, di fronte alla rovina del capitalismo, è capace di offrire un’alternativa rivoluzionaria agli strati sociali non sfruttatori.
Noi non sappiamo come raggiungeremo questa prospettiva e dobbiamo restare vigili verso le capacità e le iniziative delle masse, come quella del 15 maggio in Spagna. Ciò di cui siamo sicuri è che un fattore essenziale in questa direzione sarà l’estensione internazionale delle lotte.
Questi tre movimenti hanno piantato il germe di una coscienza internazionalista: il movimento degli Indignati in Spagna, diceva che la sua fonte d’ispirazione era stata piazza Tahrir in Egitto[33] ed ha cercato un’estensione internazionale della lotta, anche se ciò è stato fatto in modo molto confuso. Da parte loro, i movimenti in Israele ed in Grecia hanno dichiarato esplicitamente che seguivano l’esempio degli Indignati di Spagna. I dimostranti di Israele esibivano cartelli che dicevano: “Mubarak, Assad, Netanyahou: tutti uguali!”, cosa che mostra non soltanto un inizio di coscienza di chi è il nemico ma una comprensione almeno embrionale del fatto che la loro lotta si fa con gli sfruttati di questi paesi e non contro di loro nel quadro della difesa nazionale[34]. “A Jaffa, decine di manifestanti arabi ed ebrei portavano cartelli in ebraico e in arabo con la scritta ‘Arabi ed ebrei vogliono alloggi a prezzi accessibili”, e “Jaffa non vuole offerte per i soli ricchi”. (…) ci sono state proteste continue sia di ebrei che di arabi contro gli sfratti di questi ultimi dal quartiere di Sheikh Jarrah. A Tel Aviv, ci sono stati contatti con i residenti dei campi profughi nei territori occupati, che hanno fatto visita alle tendopoli e si sono impegnati in discussioni con i manifestanti”.[35]. I movimenti in Egitto ed in Tunisia, come quelli in Israele, cambiano le carte in tavola della situazione, in una parte del pianeta che è probabilmente il centro principale dello scontro imperialista nel mondo. Come dice il nostro articolo, “L’attuale ondata internazionale di rivolte contro l’austerità capitalista sta aprendo la porta a tutt’altra soluzione: la solidarietà di tutti gli sfruttati al di là di ogni divisione religiosa o nazionale; la lotta di classe in tutti i paesi con l’obiettivo finale di un mondo nuovo che sarà la negazione dei confini nazionali e degli Stati. Uno o due anni fa una tale prospettiva sarebbe sembrata completamente utopica ai più. Oggi, un numero crescente di persone si rende conto che una rivoluzione globale costituisce un’alternativa realistica al collasso dell’ordine del capitalista globale”[36].
Questi tre movimenti hanno contribuito alla cristallizzazione di un’ala proletaria: tanto in Grecia che in Spagna, ma anche in Israele[37], sta emergendo un’ala proletaria alla ricerca dell’auto-organizzazione, della lotta intransigente a partire da posizioni di classe e dalla lotta per la distruzione del capitalismo. I problemi ma anche le potenzialità e le prospettive di quest’ampia minoranza non possono essere affrontati nel quadro di quest’articolo. Ciò che è certo, è che essa costituisce un’arma vitale a cui il proletariato ha dato vita per preparare le sue battaglie future.
C. Mir, 23-9-2011
[1] Vedi “La mobilitazione degli "indignati" in Spagna e le sue ripercussioni nel mondo: un movimento portatore di avvenire” https://it.internationalism.org/node/1074 [1]. Nella misura in cui quest’articolo analizza in dettaglio quest’esperienza, non vi ritorneremo qui.
[2] Vedi https://it.internationalism.org/node/1055 [2], https://it.internationalism.org/node/1094 [3], https://it.internationalism.org/node/1113 [4].
[3] “Rivoluzione comunista o distruzione dell’umanità”, Manifesto del IX Congresso della CCI, 1991, https://it.internationalism.org/manifesto-91 [5].
[4] .Vedi Rivista Internazionale n. 103 e 104, in inglese, francese e spagnolo rispettivamente alle pagine: https://en.internationalism.org/booktree/2145 [6], https://fr.internationalism.org/booktree/2859 [7] e https://es.internationalism.org/booktree/2023 [8].
[5] Per approfondire questo concetto cruciale di decadenza del capitalismo vedi, tra gli altri, l’articolo dell’ultima Rivista Internazionale, 146 “per i rivoluzionari la Grande depressione conferma l’obsolescenza del capitalismo” disponibile al momento in inglese, https://en.internationalism.org/ir/146/great-depression [9], in spagnolo [10] e in francese https://fr.internationalism.org/rint146/pour_les_revolutionnaires_la_grande_depression_confirme_l_obsolescence_du_capitalisme.html [11].
[6] “ La seconda condizione della rivoluzione proletaria sta nello sviluppo di una crisi aperta della società borghese che dimostri chiaramente che i rapporti di produzione capitalisti devono essere sostituiti da altri rapporti di produzione”, Rivista Internazionale n. 103, vedi nota 4.
[7] Rivista Internazionale n. 104, “All’ alba del 21° secolo, perché il proletariato non ha ancora rovesciato il capitalismo?” II parte, vedi nota 4.
[8] “Crisi economica mondiale: una crisi micidiale”, https://it.internationalism.org/node/1075 [12].
[9] Vedi ICC online 2009: https://it.internationalism.org/node/808 [13].
[10] “Poiché è privo di qualsiasi punto d’appoggio economico nell’ambito del capitalismo, la sua sola vera forza, oltre al suo numero e la sua organizzazione, è la capacità di prendere chiaramente coscienza della natura, dei fini e dei mezzi della sua lotta”, Rivista internazionale n. 103, op. cit.
[11] “Le nazionalizzazioni, così come un certo numero di misure ‘sociali’ (ad esempio una maggiore presa in carico da parte dello Stato del sistema sanitario) sono misure perfettamente capitaliste (…) I capitalisti hanno tutto l’interesse a disporre di operai in buona salute (…) Eppure, queste misure capitaliste vengono presentate come “vittorie operaie’”, Rivista Internazionale n. 104, op. cit.
[12] Non possiamo sviluppare qui perché la classe operaia è la classe rivoluzionaria della società e neppure perché la sua lotta rappresenta il futuro per tutti gli strati sociali non sfruttatori, questione scottante come vedremo più avanti rispetto al movimento degli Indignati. Il lettore potrà trovare degli elementi di risposta per alimentare il dibattito su questa questione nella serie di due articoli pubblicati nei n. 73 e 74 della Rivista Internazionale, “Chi può cambiare il mondo?”, in inglese https://en.internationalism.org/node/2104 [14], spagnolo [15] e francese https://fr.internationalism.org/rinte73/proletariat.htm [16]
[13] “La decomposizione, fase ultima del capitalismo”, https://it.internationalism.org/node/976 [17]
[14] Vedi gli articoli di analisi della lotta di classe nella nostra Rivista Internazionale.
[15] Rivista Internazionale n. 125, “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”, https://it.internationalism.org/rint/28_tesi_studenti [18].
[16] La borghesia sta ben attenta a nascondere questi avvenimenti: le sommosse nichiliste delle banlieue parigine nel novembre 2005 in Francia sono molto più conosciute, anche negli ambienti politicizzati, rispetto al movimento cosciente degli studenti cinque mesi più tardi.
[17] L’indignazione non è né la rassegnazione né l’odio. Contro la dinamica insopportabile del capitalismo, la rassegnazione esprime una passività, una tendenza a respingere senza vedere come affrontare. L’odio, da parte sua, esprime una sensazione attiva poiché il rifiuto si trasforma in lotta, ma si tratta di un combattimento cieco, privo di prospettive e di riflessione per elaborare un progetto alternativo, esso è puramente distruttivo, che assembla una somma di risposte individuali ma che non generano nulla di collettivo. L’indignazione esprime la trasformazione attiva del rifiuto accompagnata dal tentativo di lottare coscientemente, ricercando l’elaborazione concomitante di un’alternativa, essa è dunque collettiva e costruttiva. “ … L’indignazione porta alla necessità di un rinnovamento morale, di un cambiamento culturale, le proposte che si fanno - anche se sembrano ingenue o peregrine -manifestano un’ansia, ancora timida e confusa, di voler ‘vivere in modo diverso’”, (“Da piazza Tahrir a Puerta del Sol”, ICC on-line, https://it.internationalism.org/node/1058 [19]).
[19] “Protesta in Israele: Mubarak, Assad, Netanyahu. Sono tutti uguali!”, Rivoluzione Internazionale n. 172, https://it.internationalism.org/node/1077 [21].
[20] ICC on-line, “Un contributo del TPTG sul movimento degli Indignati in Grecia”, https://fr.internationalism.org/node/4776 [22].
[21] Idem.
[22] “Rivolte sociali in Israele…” , op.cit.
[23] “Un contributo del TPTG”, op. cit.
[24] “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in France”, op. cit.
[25] CCI online, “Cosa c’è dietro la campagna contro ‘violenti’ attorno agli incidenti di Barcellona?”, https://fr.internationalism.org/icconline/2011/dossier_special_indignes/quyatil_derriere_la_campagne_contre_les_violents_autour_des_incidents_de_barcelone.html [23].
[26] Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte
[27] “Un contributo del TPTG… “, op. cit e anche “L’apoliticismo è una mistificazione pericolosa per la classe operaia”, in lingua francese su ICC online https://fr.internationalism.org/ri424/_apolitisme_une_mystification_dangereuse_pour_la_classe_ouvriere.html [24].
[28] idem
[29] Idem.
[30] Parola d’ordine della Terza Internazionale.
[31] Rivista Internazionale n. 140
[32] “Le rivolte in Gran Bretagna e la prospettiva senza futuro del capitalismo”, ICC online, https://it.internationalism.org/node/1092 [25].
[33] La “Plaza de Cataluña” è stata ribattezzata dall’Assemblea “Piazza Tahrir”, cosa che non soltanto afferma una volontà internazionalista ma costituisce anche un affronto al nazionalismo catalano che considera questa piazza il suo “pezzo forte”.
[34] Citato in “Rivolte sociali in Israele”, op. cit.: “Un manifestante intervistato al telegiornale di RT news network cui era stato chiesto se le proteste erano state ispirate dagli eventi nei paesi arabi ha risposto: “C’è una grande influenza di quello che è successo in piazza Tahrir ... C’è una grande influenza naturalmente. Questo è quando la gente capisce che hanno il potere, che possono organizzarsi da soli, che non hanno più bisogno di un governo che dica loro cosa devono fare, ma che loro possono cominciare a dire al governo quello che vogliono”.
[35] Idem.
[36] Idem.
[37] In questo movimento, “Alcuni hanno apertamente messo in guardia rispetto al pericolo che il governo possa provocare scontri militari o addirittura una nuova guerra per ripristinare l’“unità nazionale” e dividere così il movimento di protesta” (idem), cosa che, anche se ancora implicitamente, rivela una presa di distanza riguardo allo Stato israeliano di Unione nazionale al servizio dell’economia di guerra e della guerra.
In questi ultimi mesi si sono susseguiti, uno dopo l’altro, avvenimenti di grande portata che manifestano la gravità della situazione economica mondiale: incapacità della Grecia a far fronte ai suoi debiti; minacce analoghe per la Spagna e l’Italia; richiamo alla Francia per la sua estrema vulnerabilità di fronte ad un’eventuale cessazione di pagamento da parte della Grecia o dell’Italia; blocco alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti sul rialzo del tetto del debito dello Stato; perdita per questo paese della sua “tripla A” – valutazione massima che fin qui ha caratterizzato la garanzia di rimborso del suo debito; voci sempre più persistenti sul rischio di fallimento di alcune banche, le cui smentite non ingannano nessuno, considerando le massicce soppressioni di posti di lavoro già effettuate; prima conferma di queste voci con il fallimento della banca franco-belga Dexia. Ogni volta i dirigenti di questo mondo corrono ai ripari ma le falle che sembravano aver tappato si aprono di nuovo, qualche settimana o anche qualche giorno dopo. La loro impotenza a contenere la scalata della crisi non evidenzia tanto la loro incompetenza e la loro visione a breve termine, quanto piuttosto la dinamica attuale del capitalismo verso catastrofi che non possono essere evitate: fallimenti di istituti finanziari, fallimenti di Stati, caduta in una profonda recessione mondiale.
Conseguenze drammatiche per la classe operaia
Le misure di austerità prese dal 2010 sono implacabili e pongono sempre più la classe operaia - e gran parte del resto della popolazione – nell’incapacità di far fronte ai propri bisogni vitali. Enumerare tutte le misure di austerità che sono state attuate nella zona euro, o che sono in via di attuazione, porterebbe ad una lista lunghissima. Tuttavia è necessario menzionarne alcune che tendono a generalizzarsi e sono particolarmente significative rispetto alla sorte riservata a milioni di sfruttati. In Grecia, nel 2010 sono già state aumentate le tasse sui beni di consumo, l’età pensionabile è stata portata a 67 anni e gli stipendi dei funzionari pubblici sono stati ridotti brutalmente, a settembre 2011 è stato deciso di: mettere in cassa integrazione 30.000 impiegati del pubblico impiego con una diminuzione del 40% dello stipendio; ridurre del 20% l’importo delle pensioni che superano i 1.200 euro; tassare tutti i redditi superiori a 5.000 euro annui[1] In quasi tutti i paesi le tasse aumentano, l’età per la pensione viene innalzata e gli impieghi pubblici vengono soppressi a decine di migliaia. Ne risultano pesanti disfunzioni nei servizi pubblici, compresi quelli di vitale importanza. Ad esempio, in una città come Barcellona, sono state ridotte le ore di servizio delle sale operatorie e dei servizi di pronto intervento e sono stati eliminati in maniera massiccia i posti letto ospedalieri[2] a Madrid, 5.000 professori non di ruolo hanno perso il posto[3] e questo è stato compensato aumentando di 2 ore la settimana lavorativa ai professori di ruolo.
Le cifre della disoccupazione sono sempre più allarmanti: il 7,9% nel Regno Unito a fine agosto, il 10% in zona euro (il 20% in Spagna) a fine settembre[4] e 9,1% negli Stati Uniti nello stesso periodo. Per tutta l’estate i piani di licenziamento o di soppressione di posti di lavoro si sono susseguiti senza tregua: 6.500 presso Cisco, 6.000 alla Lockheed Martin, 10.000 all’HSBC, 30.000 alla Bank of America, e l’elenco non finisce qui. I redditi degli sfruttati crollano: secondo le cifre ufficiali, dall’inizio del 2011 in Grecia il salario reale è diminuito più del 10% in un anno, più del 4% in Spagna e, in misura minore, in Portogallo ed in Italia. Negli Stati Uniti 45,7 milioni di persone, ossia con un aumento del 12% in un anno[5], sopravvivono solo grazie al sistema di buoni pasto di 30 dollari a settimana rilasciati dall’Amministrazione.
Eppure, il peggio deve ancora venire.
Pertanto è sempre con più urgenza che si pone la necessità del capovolgimento del sistema capitalista prima che questo, nel suo crollo, trascini in rovina tutta l’umanità. I movimenti di protesta in reazione agli attacchi che sono iniziati nella primavera 2011 in un certo numero di paesi, qualunque siano le insufficienze o le debolezze che possono esprimere, costituiscono i primi passi di un’ampia risposta proletaria alla crisi del capitalismo (vedi su questo argomento l’articolo “Dall’indignazione alla preparazione delle battaglie di classe” in questo stesso numero della Rivista Internazionale).
Dal 2008 la borghesia non è riuscita ad arginare la tendenza alla recessione
All’inizio del 2010 poteva esserci l’illusione che gli Stati fossero riusciti a mettere il capitalismo al riparo da un prosieguo della recessione emersa nel 2008 ed all’inizio 2009 e che si era manifestata con una caduta vertiginosa della produzione. Per tale motivo, tutte le grandi banche centrali del mondo hanno fatto massicce iniezioni di moneta nell’economia. È in questa occasione che Ben Bernanke, il presidente della FED (all’origine del lancio dei piani di rilancio), venne soprannominato “Helicopter Ben” proprio perché sembrava annaffiare gli Stati Uniti di dollari da un elicottero. Tra il 2009 ed il 2010, secondo le cifre ufficiali, che notoriamente sono sempre sopravvalutate, il tasso di crescita è passato negli Stati Uniti dal 2,6% al +2,9% e nella zona euro dal 4,1% al +1,7%. I paesi emergenti, i cui tassi di crescita erano intanto diminuiti, sembrano ritrovare nel 2010 i valori antecedenti alla crisi finanziaria: il 10,4% in Cina, il 9% in India. Tutti gli Stati ed i loro media intonano allora la solfa della ripresa mentre in realtà la produzione dell’insieme dei paesi sviluppati non è mai riuscita a ritrovare i livelli del 2007. In altre parole, invece di ripresa, si può giusto parlare di un palliativo all’interno di un movimento di caduta della produzione. E questo palliativo è durato solo qualche trimestre:
- Nei paesi sviluppati, i tassi di crescita hanno ricominciato a cadere dalla metà del 2010. La crescita prevista negli Stati Uniti
per il 2011 è dello 0,8%. Ben Bernanke ha annunciato che la ripresa americana sta per “segnare il passo”. Peraltro, la crescita dei grandi paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito) è vicina allo zero e se i governi dei paesi del Sud Europa (Spagna, 0,6% nel 2011 dopo il - 0,1% nel 2010[6]; Italia, 0,7% nel 2011)[7] stanno ripetendoci in tutti i modi che il proprio paese “non è in recessione”, in realtà, tenuto conto dei piani di rigore che hanno subito e che dovranno ancora subire, la prospettiva che li aspetta non si allontana di molto da quella che attualmente conosce la Grecia, paese la cui caduta della produzione nel 2011 supererà il 5%.
- Per i paesi emergenti la situazione è lungi dall’essere brillante. Se hanno conosciuto dei tassi di crescita importanti nel 2010, l’anno 2011 si presenta molto meno favorevole. Il FMI aveva previsto che questi avrebbero conosciuto una crescita dell’8,4% annuale per il 2011[8], ma certi indici mostrano che l’attività in Cina sta rallentando[9]. Si prevede che la crescita del Brasile nel 2011 passerà dal 7,5% del 2010 al 3,7%[10]. Ed infine, i capitali stanno fuggendo dalla Russia[11]. In breve, contrariamente a ciò che da anni ci vanno ripetendo gli economisti e parecchi politici, i paesi emergenti non saranno la locomotiva che permetterà un ritorno della crescita mondiale. Al contrario, questi paesi soffriranno per primi la degradazione della situazione dei paesi sviluppati e vedranno una caduta delle loro esportazioni che fino ad ora hanno rappresentato il loro fattore di crescita.
Il FMI ha appena rivisto le sue previsioni che contavano su una crescita del 4% a livello mondiale per gli anni 2011 e 2012, segnalando, dopo aver precedentemente constatato che la crescita si era “indebolita considerevolmente”, “che non può essere esclusa”[12] una recessione per l’anno 2012. In altri termini, la borghesia sta prendendo coscienza fino a che punto l’attività economica va a contrarsi. Alla vista di una tale evoluzione non possiamo che domandarci: perché le banche centrali non hanno continuato ad annaffiare il mondo di moneta come hanno fatto alla fine dell’anno 2008 e nel 2009, aumentando così in modo considerevole la massa monetaria (è stata moltiplicata per 3 negli Stati Uniti e per 2 nella zona euro)? La ragione è che scaricare “moneta fasulla” sulle economie non risolve le contraddizioni del capitalismo. Il risultato più che un rilancio della produzione è l’inflazione e quest’ultima rasenta il 3% in zona euro, un poco di più negli Stati Uniti, il 4,5% nel Regno Unito, tra il 6% e 9% nei paesi emergenti.
L’emissione di carta moneta o elettronica permette che siano possibili nuovi prestiti … e che venga quindi aumentato l’indebitamento mondiale. Lo scenario non è nuovo, è proprio così che i grandi attori economici mondiali si sono indebitati ad un punto tale da non poter più adesso rimborsare il loro debito. In altri termini, oggi sono insolvibili e tra questi contiamo, niente meno, che gli Stati europei, lo Stato americano e l’insieme del sistema bancario.
Il cancro del debito pubblico
La zona euro
Gli Stati europei hanno sempre più difficoltà ad onorare il pagamento degli interessi del loro debito.
Se è nella zona euro che si sono manifestate per prime le insolvenze di pagamento di certi Stati è perché questi non avendo, come invece è per gli Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, la gestione dell’emissione della loro moneta, non hanno avuto la possibilità di stampare carta moneta per onorare con moneta fasulla le scadenze del loro debito. L’emissione di Euro è di competenza della Banca Centrale europea (BCE) che è sottoposta alla volontà dei grandi Stati europei, in particolare della Germania. E, come ognuno sa, moltiplicare la massa monetaria per due o per tre, mentre la produzione ristagna, non può che tradursi in uno sviluppo dell’inflazione. È per evitare ciò che la BCE ha sempre più espresso riluttanza ad assicurare il finanziamento degli Stati in difficoltà per non ritrovarsi, lei stessa, in una situazione di insolvenza.
È una delle ragioni essenziali per la quale i paesi della zona euro vivono, da un anno e mezzo, sotto la minaccia di mancato pagamento da parte dello Stato greco. In effetti, il problema che si pone alla zona euro non ha soluzione perché il suo rifiuto di finanziare il debito greco provocherebbe la cessazione di pagamento della Grecia e la sua uscita dalla zona euro. I creditori della Grecia, tra cui figurano alcuni Stati e banche europee importanti, incontrerebbero a loro volta delle difficoltà per far fronte ai propri impegni, e sarebbero loro stessi minacciati di fallimento. È l’esistenza stessa della zona Euro che si trova così messa in questione, mentre la sua esistenza è essenziale per i paesi esportatori situati a nord di questa, soprattutto la Germania.
È essenzialmente la Grecia che, da un anno e mezzo, ha polarizzato l’attenzione sulle questioni di insolvenza. Ma paesi come la Spagna e l’Italia si trovano in una situazione simile visto che non riusciranno mai prendere misure fiscali necessarie all’ammortamento di una parte del loro debito.
Un semplice sguardo sull’ampiezza del debito dell’Italia, la cui insolvenza a breve termine è molto probabile, mostra che la zona euro non potrà sostenere questo paese per permettergli di assumere i suoi impegni. Gli investitori credono sempre meno nelle sue capacità di rimborso ed è per tale motivo che si rifiutano di prestarle denaro se non a tassi molto elevati. La situazione della Spagna è abbastanza vicina a quella della Grecia.
Le prese di posizione dei governi e delle istanze della zona euro, in particolare del governo tedesco, traducono la loro incapacità a far fronte alla situazione creata dalla minaccia di fallimento di certi paesi. La maggior parte della borghesia della zona euro è cosciente che il problema non è più sapere se la Grecia è inadempiente: l’annuncio che le banche sarebbero intervenute per partecipare al salvataggio della Grecia relativo al 21% del suo debito è un riconoscimento di questa situazione, già confermato durante il vertice Merkel-Sarkozy del 9 ottobre dove è stato ammesso che ci sarebbe stato un default di pagamento della Grecia pari al 60% del suo debito.
Da allora il problema che si è posto alla borghesia è quello di trovare i mezzi per far sì che questo default provochi il minor danno possibile nella zona euro. Il che non è facile e rende la situazione particolarmente delicata provocando anche esitazioni e divisioni al suo interno. Infatti, i partiti politici al potere in Germania sono alquanto divisi sul fatto se bisogna aiutare finanziariamente la Grecia, come aiutarla e se è necessario aiutare anche gli altri Stati che si dirigono a grandi passi verso la stessa insolvenza che oggi riguarda questo paese. A titolo illustrativo, è notevole che il piano deciso il 21 luglio dalle autorità della zona euro per “salvare” la Grecia e che prevede un rafforzamento della capacità di prestito del Fondo europeo di Stabilità Finanziaria da 220 a 440 miliardi di euro (con l’evidente corollario di un aumento delle quote dei diversi Stati) sia stato rimesso in causa per settimane da una parte importante dei partiti al potere in Germania. E poi, alla fine è stato votato in massa dal Bundestag il 29 settembre! Allo stesso modo, fin da inizio agosto il governo tedesco si era opposto al fatto che la BCE ricomprasse titoli del debito sovrano dell’Italia e della Spagna. Considerando l’alto livello di degrado della situazione finanziaria di questi paesi, lo Stato tedesco ha alla fine accettato che a partire dal 7 agosto la BCE potesse ricomprare tali obbligazioni[13]. Tanto che tra il 7 agosto ed il 22 agosto, la BCE avrà ricomprato l’equivalente di 22 miliardi di debito sovrano di questi due paesi[14]! In effetti, queste contraddizioni ed indugi mostrano che anche una borghesia tanto importante internazionalmente come quella tedesca non sa quale politica portare avanti. In generale, l’Europa, spinta dalla Germania, ha scelto la via dell’austerità. Ciò non esclude di poter finanziare un minimo gli Stati e le banche attraverso l’istituzione del Fondo europeo di Solidarietà Finanziaria (che presuppone dunque anche l’aumento delle risorse finanziarie di questo organismo), né di autorizzare la BCE a creare sufficiente moneta per venire in aiuto ad uno Stato che non può più pagare più i suoi debiti, in modo che il fallimento non avvenga subito.
Certamente il problema non è della borghesia tedesca, ma di tutta la classe dominante perché è lei, nel suo insieme, che dalla fine degli anni 60 si è indebitata per evitare la sovrapproduzione, e ciò ad un punto tale che oggi è molto difficile non solo rimborsare le rate del debito alla scadenza ma anche onorare gli interessi di questo. Da qui il tentativo di fare risparmi adesso attraverso politiche di austerità draconiana che drenano tutti i redditi ma che, nello stesso tempo, non possono che provocare una diminuzione della domanda, accrescere la sovrapproduzione e accelerare la caduta nella depressione.
Gli Stati Uniti
Questo paese è stato confrontato allo stesso tipo di problema durante l’estate scorsa.
Il tetto del debito che era stato fissato nel 2008 a 14.294 miliardi di dollari, è stato raggiunto nel maggio 2011. Doveva essere innalzato affinché potesse consentire, come per i paesi della zona euro, di far fronte agli impegni, compresi quelli interni e cioè assicurare il funzionamento dello Stato. Anche se l’inverosimile arcaismo e la stupidità del Tea Party sono stati un fattore di aggravamento della crisi, questi non hanno costituito il fondo del problema che si è posto al Presidente ed al Congresso degli Stati Uniti. Il vero problema era proprio la scelta da fare di fronte all’alternativa che si poneva:
- o proseguire con la politica di indebitamento dello Stato federale, come chiedevano i democratici, cioè fondamentalmente chiedere alla FED di creare moneta con il rischio di provocare una caduta incontrollata del suo valore;
- o praticare una politica di austerità drastica come esigevano i repubblicani, in particolare attraverso la riduzione, su 10 anni, delle spese pubbliche da 4.000 a 8.000 miliardi di dollari. A titolo di paragone, il PIL degli Stati Uniti nel 2010 era di 14.624 miliardi di dollari, il che dà un’idea dell’ampiezza dei tagli di bilancio e dunque delle soppressioni di impieghi pubblici implicati in un tale piano.
Riassumendo, l’alternativa posta quest’estate negli Stati Uniti è stata la seguente: o correre il rischio di aprire la porta ad un’inflazione che poteva diventare galoppante, o praticare una politica d’austerità che non poteva che ridurre fortemente la domanda, provocando la caduta o anche la scomparsa dei profitti con, alla fin dei conti, la chiusura a catena di tutta una serie di imprese ed una caduta vertiginosa della produzione. Dal punto di vista degli interessi del capitale nazionale, sia la posizione dei Repubblicani che quella dei Democratici è legittima. Tormentate dalle contraddizioni che attaccano l’economia nazionale, le autorità americane di questo paese si sono ridotte a prendere delle mezze misure… contraddittorie ed incoerenti. Il Congresso si troverà dunque nuovamente confrontato alla necessità di realizzare migliaia di miliardi di dollari di risparmi di bilancio e contemporaneamente un nuovo piano di rilancio dell’impiego.
L’esito del conflitto tra repubblicani e democratici mostra che, contrariamente all’Europa, gli Stati Uniti hanno scelto l’aggravamento del debito poiché il tetto del debito federale è stato alzato a 2.100 miliardi di dollari fino al 2013 con, come contropartita, delle riduzioni di spese di bilancio di circa 2.500 miliardi nei prossimi dieci anni.
Ma, come per l’Europa, questa decisione mostra che lo Stato americano non sa quale politica condurre di fronte al vicolo cieco dell’indebitamento.
L’abbassamento in negativo dell’affidabilità del debito americano da parte dell’agenzia Standard and Poor's e le reazioni che esso ha provocato sono una dimostrazione di come la borghesia sappia perfettamente che è in un vicolo cieco e che non sa con quali mezzi uscirne. Contrariamente a ben altre decisioni delle agenzie di rating dall’inizio della crisi dei subprime, la decisione della Standard and Poor's di quest’estate appare coerente: l’agenzia mostra che non ci sono ricette sufficienti per compensare l’aumento dell’indebitamento accettato dal Congresso e che, quindi, la capacità degli Stati Uniti di rimborsare i propri debiti ha perso credibilità. In altri termini, per questa istituzione il compromesso che ha evitato una grave crisi politica negli Stati Uniti, aggravando l’indebitamento di questo paese, va ad aumentare l’insolvenza dello stesso Stato americano. La perdita di fiducia dei finanzieri del pianeta verso il dollaro che risulterà inevitabilmente dalla sentenza della Standard and Poor's abbasserà così il suo valore. Peraltro, se il voto dell’aumento del tetto del debito federale permette di evitare la paralisi all’amministrazione federale, i differenti Stati federati e le municipalità in fallimento non ne saranno risparmiati. Dal 4 luglio, lo Stato del Minnesota è in default e ha dovuto chiedere a 22.000 funzionari di restare a casa[15]. Un certo numero di città americane (tra le quali Central Falls e Harrisburg, capitale della Pennsylvania) sono nella stessa situazione; situazione che lo Stato della California - e non è il solo - sembra non potere evitare in un prossimo futuro.
Di fronte all’aggravamento della crisi dal 2007, tanto la politica economica della zona euro che quella degli Stati Uniti non hanno potuto evitare agli Stati di addossarsi i debiti che, all’origine, erano stati contratti dal settore privato. Questi nuovi debiti del settore pubblico non hanno fatto che accrescere il debito pubblico che, da parte sua, si sviluppava da decenni. Ne è risultato uno scadenzario di rimborsi ai quali gli Stati non possono far fronte. Negli Stati Uniti, come nella zona euro, questo si traduce in licenziamenti di massa nel settore pubblico, con l’abbassamento senza fine degli stipendi e l’aumento, anche senza fine, delle tasse.
La minaccia di un grave crisi bancaria
Nel 2008-2009, dopo il crollo di alcune banche come Bear Stearns e Northern Rock ed il fallimento puro e semplice di Lehman Brothers, gli Stati sono volati in soccorso di molte altre, ricapitalizzandole per evitare loro la stessa sorte. Come stanno oggi in salute degli istituti bancari? Di nuovo molto male. Innanzitutto, i libri dei conti bancari sono lontani dall’essersi liberati di tutta una serie di crediti irrecuperabili. Poi, molte banche sono esse stesse detentrici di una parte del debito di Stati oggi in difficoltà di pagamento. Il loro problema è che il valore del debito acquistato è notevolmente diminuito rispetto a prima.
La recente dichiarazione del FMI, che si basa sulla conoscenza delle difficoltà attuali delle banche europee e stipula che queste debbano aumentare i loro fondi di 200 miliardi, ha provocato di rinvio reazioni indispettite e dichiarazioni da parte di queste istituzioni secondo le quali per loro tutto andava bene. E questo mentre, nello stesso momento, tutto dimostrava il contrario:
- le banche americane non vogliono rifinanziare più in dollari le filiali americane delle banche europee e rimpatriano i fondi che avevano depositato in Europa;
- le banche europee effettuano sempre meno prestiti tra loro stesse perché sono sempre meno sicure di essere rimborsate e preferiscono porre, anche a tassi molto bassi, le loro liquidità alla BCE;
- conseguenza di questa mancanza di fiducia che si diffonde, i tassi dei prestiti tra banche continuano ad aumentare, anche se non hanno raggiunto ancora i livelli di fine 2008[16].
Il colmo è che, qualche settimana dopo che le banche avevano affermato il loro ottimo stato di salute, abbiamo assistito al fallimento ed alla liquidazione della banca franco-belga Dexia senza che nessun’altra banca sia stata interessata a correre in suo soccorso.
Aggiungiamo che le banche americane sono piazzate molto male per “far ruotare gli ingranaggi” di fronte alle loro consorelle europee: a causa delle difficoltà che incontrano, Bank of America ha appena soppresso il 10% dei suoi posti di lavoro e Goldman Sachs, la banca che è diventata il simbolo della speculazione mondiale, si appresta a licenziare 1.000 persone. E anch’esse preferiscono depositare le loro liquidità alla FED piuttosto che concedere prestiti ad altre banche americane.
La salute delle banche è essenziale per il capitalismo perché quest’ultimo non può funzionare senza un sistema bancario che l’approvvigiona in moneta. Ora, la tendenza alla quale assistiamo è quella che conduce al “Credit Crunch”, cioè una situazione nella quale le banche non vogliono più concedere prestiti appena c’è il minimo rischio di non rimborso. Alla fine ciò determina un blocco della circolazione del capitale, in altre parole il blocco dell’economia. Si comprende meglio, sotto quest’angolazione, perché il problema del rafforzamento dei fondi propri delle banche è diventato il primo punto all’ordine del giorno delle molteplici riunioni di vertice che hanno luogo al livello internazionale, anche prima della situazione della Grecia che, pertanto, resta sempre non risolta. In fondo, il problema delle banche mostra l’estrema gravità della situazione economica e di per sé illustra le difficoltà inestricabili alle quali il capitalismo deve far fronte.
Quando gli Stati Uniti hanno perso la qualifica AAA, il quotidiano economico francese Les Echos, l’8 agosto 2011, in prima pagina titolava: “L’America degradata, il mondo nell’ignoto”. Quando il primo media economico della borghesia francese esprime un tale disorientamento, una tale angoscia rispetto al futuro, non fa che esprimere il disorientamento della stessa borghesia. Dal 1945 il capitalismo occidentale (ed il capitalismo mondiale dopo il crollo dell’URSS) è basato sul fatto che la forza del capitale americano costituisce in ultima istanza il pegno estremo garantendo l’insieme dei dollari che assicurano in tutto il mondo la circolazione delle merci e dunque del capitale. Ora, l’immenso accumulo di debiti che la borghesia americana ha contratto per far fronte, dalla fine degli anni 60, al ritorno della crisi aperta del capitalismo, ha finito per costituire un fattore di accelerazione ed aggravamento di questa stessa crisi. Tutti quelli che detengono delle parti del debito americano, a cominciare dallo stesso Stato americano, hanno in realtà un bene… che vale sempre meno. La moneta nella quale viene valutato, non può a sua volta che indebolirsi così come… lo Stato americano.
La base della piramide sulla quale il mondo è costruito dal 1945 si disgrega. Nel 2007, all’epoca della crisi finanziaria, il sistema finanziario mondiale è stato salvato dalle banche centrali, cioè dagli Stati; adesso questi sono sull’orlo del fallimento ed è fuori questione che le banche possano andare a soccorrerli; da qualsiasi lato i capitalisti si girano, non esiste niente che possa permettere una reale ripresa economica. Infatti, una crescita anche molto debole presuppone l’emissione di nuovi debiti per creare una domanda che permetta di smerciare le merci; ora anche gli interessi dei debiti già contratti non sono più rimborsabili e gettano banche e Stati in bancarotta.
Come si è visto, decisioni date per irrevocabili sono rimesse in discussione dopo pochi giorni, certezze affermate sulla salute dell’economia o delle banche vengono smentite velocemente. In un tale contesto, gli Stati navigano sempre più a vista. È probabile, ma non certo proprio perché la borghesia è disorientata da una situazione inedita, che per far fronte all’immediato, per guadagnare un poco di tempo, questa continui ad annaffiare di moneta il capitale, sia esso finanziario, commerciale o industriale, anche se questo porta ad un’inflazione che è già cominciata, che continuerà a crescere e che diventerà incontrollabile. Ciò non impedirà il susseguirsi di licenziamenti, di abbassamenti di salari e di aumenti delle tasse; ma, in più, l’inflazione aggraverà ulteriormente la miseria della grande maggioranza degli sfruttati. Il giorno stesso in cui Les Echos titolava “L’America degradata, il mondo nell’ignoto”, un altro quotidiano economico francese, La tribune, titolava “Superati”, a proposito dei grandi del pianeta che hanno il potere di decidere, la cui foto era pure riportata la foto in prima pagina. Sì, quelli che ci hanno promesso monti e meraviglie, che poi ci hanno consolati quando era diventato evidente che di meraviglia c’era solo l’incubo che ci aspettava, adesso confessano che “sono superati”. E se “sono superati” è perché il loro sistema, il capitalismo, è definitivamente antiquato e sta trascinando la stragrande maggioranza della popolazione mondiale nella miseria più terribile.
Vitaz, 10-10-2011
[1] https://www.lefigaro.fr/conjoncture/2011/09/22/04016-20110922ARTFIG00699-la-colere-gronde-de-plus-en-plus-fort-en-grece.php [27]
[2] news.fr.msn.com/m6-actualite/monde/espagne-les-enseignants-manifestent-%C3%A0-madrid-contre-les-coupes-budg%C3%A9taires.
[4] Statistiche Eurostat
[5] Le Monde, 7-8 agosto 2011
[8] FMI, prospettive dell’economia mondiale, luglio 2010
[9] Le Figaro, 3 ottobre 2011
[10] Les Echos, 9 agosto 2011
[12] https://www.lefigaro.fr/flash-eco/2011/10/05/97002-20111005FILWWW00435-fmi-recession-mondiale-pas-exclue.php [32]
[13] Les Echos, agosto 2011
[14] Les Echos, 16 agosto 2011
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“Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”
“Non ridere, non piangere, né maledire ma comprendere” (“L’etica”, Spinoza)
I dibatti attuali nella CCI sulla solidarietà e sulla fiducia sono cominciati nel 1999 e nel 2000, in risposta ad una serie di debolezze su queste questioni centrali all’interno della nostra organizzazione. Dietro la mancanza concreta di espressioni di solidarietà nei confronti di compagni in difficoltà, è stata identificata una debolezza più profonda nello sviluppo di un atteggiamento permanente di solidarietà quotidiana tra i nostri militanti. Dietro il ripetersi di manifestazioni di immediatismo nell’analisi e nell’intervento all’interno della lotta di classe (in particolare il rifiuto di riconoscere tutta l’ampiezza del riflusso dopo il 1989) ed una tendenza marcata a consolarci attraverso delle “prove immediate” supposte confermare il corso storico, abbiamo messo in luce una mancanza fondamentale di fiducia nel proletariato e nel nostro stesso quadro di analisi. Dietro la degradazione del tessuto organizzativo che cominciava a concretizzarsi, in particolare nella sezione della CCI in Francia, siamo stati capaci di riconoscere una mancanza di fiducia tra differenti parti dell’organizzazione e nel nostro proprio modo di funzionamento.
Del resto, è il fatto che ci siamo trovati di fronte a diverse manifestazioni di mancanza di fiducia nelle nostre posizioni fondamentali, nella nostra analisi storica ed i nostri principi organizzativi, e tra compagni ed organi centrali, che ci ha obbligato ad andare al di là dei casi particolari e a porre queste questioni in maniera più generale e fondamentale, e dunque più teoriche e storiche.
Più in particolare, la riapparizione del clanismo[1] nel cuore stesso dell’organizzazione necessita l’approfondimento della nostra comprensione su queste questioni. Come è detto nella risoluzione di attività del 14° Congresso della CCI: “... la lotta degli anni ‘90 è stata necessariamente contro lo spirito di circolo ed i clan. Ma, come già detto all’epoca, i clan erano una falsa risposta ad un problema reale: quello della debolezza della fiducia e della solidarietà proletarie nella nostra organizzazione. È per tale motivo che l’abolizione dei clan esistenti non ha risolto in modo automatico il problema della creazione di uno spirito di partito e di una vera fraternità al nostro interno che possono essere il risultato solo di uno sforzo profondamente cosciente.
Mentre avevamo insistito, all’epoca, sul fatto che la lotta contro lo spirito di circolo è permanente, è rimasta l’idea secondo la quale, come fu il caso all’epoca della Prima e della Seconda Internazionale, questo problema restava legato principalmente ad una fase di immaturità che sarebbe stata superata.
In realtà, il pericolo dello spirito di circolo e del clanismo oggi è ben più permanente ed insidioso che all'epoca della lotta di Marx contro Bakunin, o di Lenin contro il menscevismo. In effetti, esiste un parallelo tra le difficoltà attuali della classe nel suo insieme a ritrovare la sua identità di classe ed i riflessi elementari di solidarietà con gli altri operai, e quelle dell’organizzazione rivoluzionaria a mantenere uno spirito di partito nel funzionamento quotidiano.
In questo senso, ponendo le questioni della fiducia e della solidarietà come questioni centrali del periodo, l’organizzazione ha ripreso la lotta del 1993, aggiungendovi una dimensione “in positivo”, ed andando dunque più in profondità per armarsi contro l’intrusione di scivolamenti organizzativi piccolo-borghesi”.
In questo senso, il dibattito attuale riguarda direttamente non solo la difesa ma anche la sopravvivenza stessa dell'organizzazione. Ma proprio per questa ragione, è essenziale sviluppare al massimo tutte le implicazioni teoriche e storiche di queste questioni. Così, rispetto ai problemi organizzativi ai quali siamo confrontati oggi, esistono due approcci fondamentali. La messa a nudo delle debolezze organizzative e delle incomprensioni che hanno permesso il risorgere del clanismo e l’analisi concreta dello sviluppo di questa dinamica sono il compito del rapporto che presenterà la Commissione di investigazione[2]. Il compito di questo Testo di Orientamento, invece, è essenzialmente quello di fornire un quadro teorico che permetta una comprensione storica più profonda ed una risoluzione di questi problemi.
In effetti, è essenziale comprendere che la battaglia per lo spirito di partito comporta necessariamente una dimensione teorica. È proprio la povertà del dibattito che c’è stata finora su fiducia e solidarietà che ha costituito un fattore determinante per lo sviluppo del clanismo. Il fatto stesso che questo Testo di Orientamento sia scritto non all’inizio ma oltre un anno dopo l’apertura di questo dibattito, manifesta le difficoltà che l’organizzazione ha avuto per riuscire ad avere un controllo su queste questioni. Ma la prova migliore di queste debolezze è il fatto che il dibattito sulla fiducia e la solidarietà è stato accompagnato da un deterioramento senza precedenti dei legami di fiducia e di solidarietà tra i compagni!
In realtà, noi siamo qui confrontati a delle questioni fondamentali del marxismo, che sono alla base stessa della nostra comprensione della natura della rivoluzione proletaria, che fanno parte integrante della piattaforma e degli statuti della CCI. In questo senso, la povertà del dibattito ci ricorda che il pericolo di atrofia teorica e di sclerosi è sempre presente per un’organizzazione rivoluzionaria.
La tesi centrale di questo Testo di Orientamento è che la difficoltà a sviluppare, nella CCI, una fiducia ed una solidarietà più profondamente radicate ha costituito un problema fondamentale durante tutta la storia dell’organizzazione. Questa debolezza è a sua volta il risultato delle caratteristiche essenziali del periodo storico che si è aperto nel 1968. È una debolezza non solo della CCI, ma di tutta la generazione proletaria coinvolta. Come riportato nella risoluzione del 14° Congresso: “È un dibattito che deve mobilitare la riflessione in profondità dell’insieme della CCI, perché contiene la capacità potenziale di approfondire non solo la nostra comprensione della costruzione di un’organizzazione che abbia una vita veramente proletaria, ma anche del periodo storico nel quale viviamo”.
In questo senso, le questioni in gioco vanno ben oltre la questione organizzativa in quanto tale. In particolare, la questione della fiducia tocca tutti gli aspetti della vita del proletariato e del lavoro dei rivoluzionari - così come la mancanza di fiducia nella classe si manifesta anche attraverso l’abbandono delle acquisizioni programmatiche e teoriche.
1. Gli effetti della controrivoluzione sulla fiducia in sé e le tradizioni di solidarietà delle generazioni contemporanee del proletariato
a) Nella storia del movimento marxista non troviamo un solo testo scritto sulla fiducia o sulla solidarietà. D’altronde, queste questioni sono al centro stesso di molti contributi fondamentali del marxismo, da “L’ideologia tedesca” e “Il Manifesto del Partito comunista” fino a “Riforma sociale o rivoluzione?” e “Stato e rivoluzione”. L’assenza di una discussione specifica su queste questioni nel movimento operaio del passato non è segno del loro carattere secondario. Tutto al contrario. Queste questioni erano così fondamentali ed evidenti che non venivano mai poste in quanto tali, ma sempre in risposta ad altri problemi sollevati.
Se oggi siamo obbligati a dedicare un dibattito specifico ed uno studio teorico a queste questioni è perché esse hanno perso il loro carattere di “evidenza”.
È la controrivoluzione iniziata negli anni 20 e la rottura della continuità organica delle organizzazioni politiche proletarie che hanno prodotto questo effetto. Per questa ragione, per quanto riguarda l’accumulo di fiducia e di solidarietà vivente all’interno del movimento operaio, è necessario distinguere due fasi nella storia del proletariato. Nella prima fase, che va dagli inizi della sua autoaffermazione come classe autonoma fino all’ondata rivoluzionaria del 1917-23, la classe operaia è stata capace, malgrado una serie di sconfitte spesso sanguinose, di sviluppare in maniera più o meno continua la fiducia in sé stessa e la sua unità politica e sociale. Le manifestazioni più importanti di questa capacità sono state, oltre alle stesse lotte operaie, lo sviluppo di una visione socialista, di una capacità teorica di un’organizzazione politica rivoluzionaria. Questo processo di accumulazione, opera di decenni e di generazioni, è stato interrotto e anche rovesciato dalla controrivoluzione. Solo delle minuscole minoranze rivoluzionarie sono state capaci di mantenere la loro fiducia nel proletariato durante i decenni che sono seguiti. Il risorgere storico della classe operaia nel 1968, mettendo fine alla controrivoluzione, ha cominciato a rovesciare di nuovo questa tendenza. Tuttavia, le nuove espressioni di fiducia in sé e di solidarietà di classe manifestate da questa nuova generazione proletaria non sconfitta sono rimaste in gran parte legate a delle lotte immediate. Non si basavano ancora, come nel periodo precedente alla controrivoluzione, su una visione socialista ed una formazione politica, su una teoria di classe e sulla trasmissione, da una generazione all’altra, di un’esperienza e di una comprensione accumulate. In altri termini, la fiducia in sé storica del proletariato e la sua tradizione di unità attiva e di lotta collettiva appartengono agli aspetti della sua lotta che hanno più sofferto della rottura della continuità organica. Allo stesso modo, esse fanno parte degli aspetti più difficili da ristabilire, poiché dipendono, più di molti altri, da una continuità politica e sociale vivente. Ciò a sua volta determina una particolare vulnerabilità delle nuove generazioni della classe e delle sue minoranze rivoluzionarie.
Innanzitutto, è la controrivoluzione stalinista che ha contribuito a sabotare la fiducia del proletariato nella sua missione storica, nella teoria marxista e nelle sue minoranze rivoluzionarie. Il risultato è che il proletariato, dopo il 1968, tende più delle generazioni non sconfitte del passato a soffrire del peso dell’immediatismo, di un’assenza di visione a lungo termine. Rubandogli gran parte del suo passato, la controrivoluzione e la borghesia di oggi privano il proletariato di una visione chiara del suo futuro senza la quale la classe non può sviluppare una fiducia più profonda nella propria forza.
Ciò che distingue il proletariato da tutte le altre classi nella storia è il fatto che, fin dalla sua prima apparizione come forza sociale indipendente, ha portato avanti un progetto di società futura, basato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione; come prima classe della storia il cui sfruttamento è basato sulla separazione radicale dei produttori dai mezzi di produzione e sulla sostituzione del lavoro individuale attraverso il lavoro socializzato, la sua lotta di liberazione si caratterizza per il fatto che la lotta contro gli effetti dello sfruttamento (che è comune a tutte le classi sfruttate), è sempre stato legato allo sviluppo di una visione del superamento di questo sfruttamento. Prima classe nella storia che produce in maniera collettiva, il proletariato è chiamato a rifondare la società su una base collettiva cosciente. Poiché è incapace, in quanto classe senza proprietà, di conquistare un potere qualsiasi all’interno alla società attuale, il significato storico della sua lotta di classe contro lo sfruttamento deve rivelare, a sé stesso e dunque alla società nel suo insieme, il segreto della sua propria esistenza come affossatore dello sfruttamento e dell’anarchia capitalista.
Per questa ragione, la classe operaia è la prima classe la cui fiducia nel proprio ruolo storico è inseparabile dalla soluzione che essa apporta alla crisi della società capitalista.
Questa posizione unica del proletariato in quanto unica classe della storia ad essere al tempo stesso sfruttata e rivoluzionaria comporta due conseguenze importanti:
In questo senso, la dialettica della rivoluzione proletaria è essenzialmente quella del rapporto tra lo scopo ed il movimento, tra la lotta contro lo sfruttamento e la lotta per il comunismo. L’immaturità naturale dei primi passi de “l’infanzia” della classe sulla scena storica si caratterizza per un parallelismo tra lo sviluppo di lotte operaie e quello della teoria del comunismo. L’interconnessione tra questi due poli all’inizio non è stata compresa dagli stessi partecipanti. Ciò si è riflesso, da un lato, nel carattere spesso cieco ed istintivo delle lotte operaie, e dall’altro, nell’utopismo del progetto socialista.
È la maturazione storica del proletariato che ha permesso a questi due elementi di congiungersi, cosa che si è concretizzata nelle rivoluzioni del 1848-49 e soprattutto attraverso la nascita del marxismo, la comprensione scientifica del movimento storico e dello scopo della classe.
Due decenni dopo, la Comune di Parigi, prodotto di questa maturazione, ha rivelato l’essenza della fiducia del proletariato nel suo proprio ruolo: l’aspirazione a prendere la direzione della società per trasformarla secondo la sua propria visione politica.
Che c’è all’origine di questa stupefacente fiducia in sé stessa da parte di una classe oppressa e spossessata, una classe che concentra tutta la miseria dell’umanità nei suoi ranghi e che si è rivelata dal 1871? Come per tutte le classi sfruttate, la lotta del proletariato comporta un aspetto spontaneo. Il proletariato non può che reagire alle costrizioni e agli attacchi che gli impone la classe dominante. Ma, contrariamente alle lotte di tutte le altre classi sfruttate, quella del proletariato ha anzitutto un carattere cosciente. I progressi della sua lotta sono fondamentalmente il prodotto del suo processo di maturazione politica. Il proletariato di Parigi era una classe educata politicamente che era passata per diverse scuole di socialismo, dal blanquismo al proudhonismo. È questa formazione politica durante i decenni precedenti che spiega, in grande misura, la capacità della classe a sfidare l’ordine dominante in tale modo, così come spiega le debolezze di questo movimento. Il 1871 è stato, allo stesso tempo, anche il risultato dello sviluppo di una tradizione cosciente di solidarietà internazionale che ha caratterizzato tutte le principali lotte degli anni 1860 in Europa occidentale.
In altri termini, la Comune è stata il prodotto di una maturazione sotterranea, caratterizzata in particolare da una più grande fiducia nella missione storica della classe e da una pratica più evoluta della solidarietà di classe. Una maturazione il cui punto culminante era la Prima internazionale.
Con l’entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza, il ruolo centrale della fiducia e della solidarietà si accentua, poiché la questione della rivoluzione proletaria si porta all’ordine del giorno della storia. Da un lato, il carattere spontaneo della lotta operaia è più sviluppato vista l’impossibilità della preparazione organizzativa delle lotte attraverso i partiti di massa e dei sindacati[3]. Dall’altro, la preparazione politica di queste lotte, attraverso il rafforzamento della fiducia e della solidarietà, diventa ancora più importante. I settori più avanzati del proletariato russo che, nel 1905, furono i primi a scoprire l’arma dello sciopero di massa e dei consigli operai, sono passati per la scuola di marxismo attraverso una serie di fasi: quella della lotta contro il terrorismo, la formazione di circoli politici, i primi scioperi e manifestazioni politiche, la lotta per la formazione del partito di classe e le prime esperienze di agitazione di massa. Rosa Luxemburg, che fu la prima a comprendere il ruolo della spontaneità all’epoca dello sciopero di massa, insisté sul fatto che, senza una tale scuola di socialismo, gli avvenimenti de1905 non sarebbero mai stati possibili.
Ma è l’ondata rivoluzionaria del 1917-23 e soprattutto la Rivoluzione di Ottobre che hanno rivelato chiaramente la natura delle questioni della fiducia e della solidarietà. La quintessenza della crisi storica era contenuta nella questione dell’insurrezione. Per la prima volta in tutta la storia dell’umanità, una classe sociale era nelle condizioni di cambiare in modo deliberato e cosciente il corso gli avvenimenti mondiali. I bolscevichi sono ritornati alla concezione di Engels su “l’arte dell'insurrezione”. Lenin ha dichiarato che la rivoluzione era una scienza. Trotskij parlava de “l’algebra della rivoluzione”. Attraverso lo studio della realtà sociale, attraverso la costruzione di un partito di classe in grado di superare l’esame della storia, attraverso la preparazione paziente e vigile del momento in cui le condizioni oggettive e soggettive per la rivoluzione saranno riunite, ed attraverso l’audacia rivoluzionaria necessaria per afferrare l’occasione, il proletariato e la sua avanguardia cominciarono, in un trionfo di coscienza e di organizzazione, a superare l’alienazione che condanna la società ad essere la vittima impotente di forze cieche. Allo stesso tempo, la decisione cosciente di prendere il potere in Russia e dunque di assumere tutte le prove di un tale atto nell’interesse della rivoluzione mondiale, ha costituito la più alta espressione della solidarietà di classe. È una nuova qualità nell’ascesa dell’umanità, l’inizio del salto dal regno della necessità al regno della libertà. Ed è l’essenza della fiducia del proletariato in sé stesso e della solidarietà al suo interno.
b) Uno dei più vecchi principi della strategia militare è la necessità di destabilizzare la fiducia e l’unità dell’esercito nemico. Allo stesso modo, la borghesia ha sempre compreso la necessità di combattere queste qualità nel proletariato. In particolare, con il crescere del movimento operaio durante la seconda metà del XIX secolo, la necessità di combattere l’idea della solidarietà operaia è diventata sempre più centrale nella visione del mondo della classe capitalista, come testimoniato dall’ascesa dell’ideologia del Darwinismo sociale, la filosofia di Nietzsche, il “socialismo” elitario del Fabianismo, ecc. Tuttavia, fino all’entrata del suo sistema in decadenza, la borghesia era incapace di trovare i mezzi per rovesciare l’avanzata di questi principi all’interno della classe operaia. In particolare, la repressione feroce che ha imposto al proletariato di Parigi nel 1848 e nel 1871, ed al movimento operaio in Germania sotto le leggi anti socialiste, pur provocando degli indietreggiamenti momentanei nel progresso del socialismo, non è riuscita a destabilizzare né la fiducia storica della classe operaia, né le sue tradizioni di solidarietà.
Gli avvenimenti della Prima guerra mondiale hanno rivelato che è il tradimento dei principi proletari attraverso parti della stessa classe operaia, soprattutto attraverso parti delle organizzazioni politiche della classe, a distruggere questi principi “dall'interno”. La liquidazione di questi principi all’interno della Socialdemocrazia era cominciata già all’inizio del XX secolo col dibattito sul “revisionismo”. Il carattere distruttore, pernicioso, di questo dibattito non si è rivelato solamente attraverso la penetrazione di posizioni borghesi e l’abbandono progressivo del marxismo, ma innanzitutto attraverso l’ipocrisia che esso ha introdotto nella vita dell’organizzazione. Benché, formalmente, sia stata adottata la posizione della Sinistra, il risultato principale di questo dibattito è stato in realtà di isolare completamente la Sinistra - soprattutto nel partito tedesco. Le campagne ufficiose di denigrazione di quella che era stata all’avanguardia della lotta contro il revisionismo, Rosa Luxemburg, descritta nei corridoi dei congressi del partito come un elemento estraneo e finanche come un’assetata di sangue, preparavano già il terreno al suo assassinio nel 1919.
In effetti, il principio fondamentale della controrivoluzione che è cominciata negli anni 20, è stato la demolizione dell’idea stessa di fiducia e di solidarietà. Il disprezzabile principio del “capro espiatorio”, una barbarie del Medioevo, riappare nel capitalismo industriale con la caccia alle streghe da parte della Socialdemocrazia contro gli spartachisti e del fascismo contro gli ebrei, minoranze “diaboliche” che da sole sarebbero state capaci di impedire il ritorno nell’Europa del dopoguerra ad uno stato di pacifica armonia. Ma è soprattutto lo stalinismo, cioè il ferro di lancia dell’offensiva borghese, che ha sostituito i principi di fiducia e di solidarietà con quelli della diffidenza e della denuncia nei giovani partiti comunisti, che ha screditato lo scopo del comunismo ed i mezzi per giungervi.
Tuttavia, l'annichilimento di questi principi non ha avuto luogo dall’oggi al domani. Anche durante la seconda guerra mondiale, decine di migliaia di famiglie operaie mostravano ancora abbastanza solidarietà da rischiare la loro vita nascondendo coloro che erano perseguitati dallo Stato. E la lotta del proletariato olandese contro la deportazione degli ebrei sta là a ricordarci che la solidarietà della classe operaia costituisce la sola solidarietà reale con l’insieme dell'umanità. Ma questo fu l’ultimo movimento di sciopero del ventesimo secolo nel quale i comunisti di sinistra abbiano avuto un’influenza significativa[4].
Come sappiamo, questa controrivoluzione fu superata nel 1968 da una nuova generazione non sconfitta di operai che recuperarono di nuovo la fiducia per intraprendere l’estensione della loro lotta e la solidarietà di classe, porre di nuovo la questione della rivoluzione e produrre nuove minoranze rivoluzionarie. Tuttavia, traumatizzata dal tradimento di tutte le principali organizzazioni operaie del passato, questa nuova generazione ha adottato un atteggiamento di scetticismo verso la politica, verso il proprio passato, la sua teoria di classe e la sua missione storica. Ciò non la protegge dal sabotaggio delle forze politiche della sinistra del capitale e le impedisce al tempo stesso di riallacciarsi alle radici della fiducia in sé stessa e di fare rivivere in modo cosciente la sua grande tradizione di solidarietà. Anche le minoranze rivoluzionarie sono profondamente colpite. Per la prima volta si crea una situazione in cui, mentre le posizioni rivoluzionarie assumono un’eco crescente nella classe, le organizzazioni che le difendono non sono riconosciute, anche tra gli operai più combattivi, come appartenenti alla classe.
Malgrado l'impertinenza e la sicurezza arrogante di questa nuova generazione del dopo 1968, che è riuscita all’inizio a prendere la classe dominante di sorpresa, dietro il suo scetticismo nei confronti della politica risiede una profonda mancanza di fiducia in sé. Non si era mai visto prima un tale contrasto tra, da un lato, questa capacità ad impegnarsi in lotte di massa in grande parte autorganizzate e, dall’altro, l’assenza di questa sicurezza elementare che ha caratterizzato il proletariato dagli anni 1848-50 fino al 1917-18. Questa mancanza di fiducia in sé segna ugualmente in maniera profonda le organizzazioni della Sinistra comunista. E non solo le nuove organizzazioni, come la CCI o la CWO, ma anche un gruppo come il PCI bordighista che, dopo essere sopravvissuto alla controrivoluzione, è poi esploso all’inizio degli anni 80 a causa della sua impazienza ad essere riconosciuto dalla classe nel suo insieme. Come sappiamo, il bordighismo ed il consiliarismo hanno teorizzato, durante la controrivoluzione, questa perdita di fiducia in sé stabilendo una separazione tra i rivoluzionari e la classe nel suo insieme, chiamando una parte della classe a diffidare dell'altra[5]. Inoltre, sia l’idea bordighista de “l’invarianza” che l’idea consiliarista di un “nuovo movimento operaio” erano, teoricamente, su questa questione, delle false risposte alla controrivoluzione. Ma la stessa CCI, che ha rigettato tali teorizzazioni, non era tuttavia esente dai danni causati alla fiducia in sé stesso del proletariato ed al restringimento della base di questa fiducia.
Così possiamo vedere come, in questo periodo storico, sono legati tra loro tutta una serie di elementi: la mancanza di fiducia della classe in sé stessa, degli operai nei rivoluzionari e reciprocamente, la mancanza di fiducia delle organizzazioni politiche in sé stesse, nel loro ruolo storico, nella teoria marxista e nei principi organizzativi ereditati dal passato, e la mancanza di fiducia dell’insieme della classe nella natura storica a lungo termine della sua missione.
In realtà, questa debolezza politica ereditata dalla controrivoluzione costituisce uno dei principali fattori dell’entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione. Privato della sua esperienza storica, delle sue armi teoriche e della visione del suo ruolo storico, il proletariato manca della fiducia necessaria per sviluppare una prospettiva rivoluzionaria. Con la decomposizione, questa mancanza di fiducia, di prospettiva diventa il destino dell’insieme della società, imprigionando l’umanità nel presente[6]. Non è una coincidenza dunque se il periodo storico di decomposizione è stato inaugurato dal crollo delle principali vestigia della controrivoluzione, quelle dei regimi stalinisti. Il risultato di questo nuovo discredito degli obiettivi della classe e delle principali armi politiche del movimento proletario è che quest’ultimo deve far fronte ancora una volta ad una situazione senza precedenti storici: una generazione non sconfitta di operai che perde in gran parte la sua identità di classe. Per uscire da questa crisi, essa dovrà riapprendere la solidarietà di classe, sviluppare di nuovo una prospettiva storica, riscoprire nel fuoco della lotta di classe la possibilità e la necessità per i diversi settori della classe di avere fiducia gli uni negli altri. Il proletariato non è stato sconfitto. Ha dimenticato ma non perso le lezioni delle sue lotte. Ciò che ha perso è innanzitutto la sua fiducia in sé stesso.
È perciò che le questioni della fiducia e della solidarietà sono tra le principali chiavi di lettura della situazione di impasse storico in cui ci troviamo. Esse sono centrali per tutto il futuro dell’umanità, per il rafforzamento della lotta operaia negli anni futuri, per la costruzione dell’organizzazione marxista, per la riapparizione concreta di una prospettiva comunista in seno alla lotta di classe.
2. Gli effetti delle debolezze sulla fiducia e la solidarietà all’interno della CCI
a) Come dimostra il Testo di orientamento del 1993[7], tutte le crisi, le tendenze e le scissioni nella storia della CCI hanno le loro radici nella questione organizzativa. Anche quando esistevano importanti divergenze politiche, non c’era accordo su queste questioni tra i membri delle “tendenze”, e queste divergenze non giustificavano certo una scissione, di sicuro non il tipo di scissione irresponsabile e prematura che è diventata la regola generale all’interno della nostra organizzazione.
Come dimostra il Testo di orientamento del ‘93, tutte queste crisi avevano dunque per origine lo spirito di circolo ed in particolare il clanismo. Da ciò, possiamo concludere che attraverso tutta la storia della CCI, il clanismo ha sempre costituito la principale manifestazione della perdita di fiducia nel proletariato e la causa principale della messa in discussione dell’unità dell’organizzazione. Inoltre, come è stato spesso confermato dalla loro ulteriore evoluzione al di fuori della CCI, i clan hanno costituito i principali portatori del germe della degenerazione programmatica e teorica al nostro interno[8].
Questo fatto, messo in luce 8 anni fa, è tuttavia così stupefacente che merita una riflessione storica. Il 14° Congresso della CCI ha già cominciato questa riflessione, mostrando che nel movimento operaio del passato, il peso predominante dello spirito di circolo e del clanismo si è limitato essenzialmente agli inizi del movimento operaio, mentre la CCI è stata tormentata da questo problema per tutta la sua lunga esistenza. La verità, è che la CCI è la sola organizzazione nella storia del proletariato nella quale la penetrazione di un’ideologia estranea si é manifestata così regolarmente ed in modo predominante attraverso i problemi relativi alla organizzazione.
Questo problema senza precedenti deve essere compreso nel contesto storico degli ultimi tre decenni. La CCI si considera l’erede della più alta sintesi dell’eredità del movimento operaio e della Sinistra comunista in particolare. (...) Ma la storia mostra che la CCI ha assimilato la sua eredità programmatica ben più facilmente di quella organizzativa. Ciò è dovuto principalmente alla rottura della continuità organica causata dalla controrivoluzione. Innanzitutto perché è più facile assimilare le posizioni politiche attraverso lo studio di testi del passato che comprendere le questioni organizzative che sono molto più una tradizione vivente, dipendenti, per essere trasmesse, dal legame tra le generazioni. In secondo luogo perché, come già detto, il colpo portato dalla controrivoluzione alla fiducia in sé della classe ha colpito principalmente la sua fiducia nella sua missione storica e nelle sue organizzazioni politiche. Così, mentre la validità delle nostre posizioni programmatiche è stata spesso confermata in modo spettacolare dalla realtà (e dal 1989, questa validità è confermata anche da nuovi gruppi emergenti), la nostra costruzione organizzativa non ha avuto lo stesso clamoroso successo. Nel 1989, fine del periodo del dopoguerra, la CCI non aveva compiuto alcun passo decisivo in termini di crescita numerica, nella diffusione della sua stampa, a livello di impatto nella lotta di classe né di riconoscimento dell’organizzazione da parte della classe nel suo insieme. Era dunque una situazione storica paradossale. Da un lato, la fine della controrivoluzione e l’apertura di un nuovo corso storico hanno favorito lo sviluppo delle nostre posizioni: la nuova generazione non sconfitta era più o meno apertamente diffidente verso la sinistra del capitale, le elezioni borghesi, il sacrificio per la nazione, ecc. Ma, dall’altro, la nostra militanza comunista era forse meno rispettata - da un punto di vista generale - che all’epoca di Bilan. Questa situazione storica ha portato a dei dubbi profondamente radicati nei confronti del ruolo storico dell’organizzazione. Questi dubbi sono talvolta affiorati a livello politico generale attraverso lo sviluppo di concezioni apertamente consiliariste, moderniste o anarchiche, capitolazioni più o meno aperte all’ideologia dominante. Ma soprattutto, si sono espresse in modo più vergognoso al livello organizzativo.
A questo dobbiamo aggiungere che nella storia della lotta della CCI per lo spirito di partito, sebbene ci siano delle somiglianze con delle organizzazioni del passato – l’eredità dei principi di funzionamento dei nostri predecessori ed il loro ancoraggio attraverso una serie di lotte organizzative - vi sono anche delle grandi differenze. La CCI è la prima organizzazione che forgia lo spirito di partito non in condizioni di illegalità, ma in un’atmosfera impregnata di illusioni democratiche. Su questa questione, la borghesia ha imparato dalla storia: la migliore arma della liquidazione organizzativa non è la repressione ma lo sviluppo di un’atmosfera di diffidenza. Ciò che è vero per l’insieme della classe lo è anche per i rivoluzionari: è il tradimento dei principi dall'interno che distrugge la fiducia proletaria.
Il risultato è che la CCI non è stata mai capace di sviluppare il tipo di solidarietà vivente che nel passato si è sempre forgiato nella clandestinità e che costituisce una delle principali componenti dello spirito di partito. Inoltre, il democraticismo costituisce il concime ideale per la cultura del clanismo poiché è l’antitesi vivente del principio proletario secondo cui ciascuno dà il meglio delle sue capacità alla causa comune; favorisce inoltre l’individualismo, l'informalismo e l’oblio dei principi. Non dobbiamo dimenticare che i partiti della Seconda internazionale furono in larga parte distrutti dal democraticismo, e che anche il trionfo dello stalinismo è stato democraticamente legittimato, come l'ha sottolineato la Sinistra italiana (…).
b) È evidente che il peso di tutti questi fattori negativi si è moltiplicato con l'apertura del periodo di decomposizione. Non ripeteremo ciò che la CCI ha già detto a questo argomento. Ciò che è importante qui è che, come risultato del fatto che la decomposizione tende a erodere le basi sociali, culturali, politiche, ideologiche della comunità umana, in particolare intaccando la fiducia e la solidarietà, c’è una tendenza spontanea nella società attuale a raggrupparsi in clan, cricche e bande. Questi raggruppamenti, quando non sono basati su degli interessi commerciali o altri interessi materiali, hanno spesso un carattere puramente irrazionale, basato su delle lealtà personali all’interno del gruppo ed un odio spesso insensato verso dei nemici, reali o immaginari. In realtà, questo fenomeno costituisce in parte un ritorno, nel contesto attuale, a delle forme ataviche completamente pervertite di fiducia e di solidarietà, riflettendo la perdita di fiducia nelle strutture sociali esistenti, ed un tentativo di trovare sicurezza di fronte all’anarchia crescente della società. Va da sé che questi raggruppamenti, lungi dal rappresentare una risposta alla barbarie della decomposizione, ne sono essi stessi un’espressione. È significativo che oggi, anche le due principali classi ne siano colpite. In effetti, per il momento, solo i settori più forti della borghesia sembrano essere più o meno capaci di resistere al loro sviluppo. Per il proletariato, il livello raggiunto da questo fenomeno nella sua vita quotidiana è espresso innanzitutto dal danno causato alla sua identità di classe e dalla necessità che ne risulta di riappropriarsi della sua propria solidarietà di classe.
Come è stato detto al 14° Congresso della CCl: a causa della decomposizione, la lotta contro il clanismo non è alle nostre spalle ma davanti a noi.
c) Il clanismo ha costituito dunque la principale espressione della perdita di fiducia nel proletariato nella storia della CCI. Ma la forma che esso prende è la sfiducia aperta non verso l’organizzazione, ma verso una sua parte. Tuttavia il significato della sua esistenza è, in realtà, la messa in discussione dell’unità dell’organizzazione e dei suoi principi di funzionamento. È per questo che il clanismo, sebbene possa prendere origine da una preoccupazione corretta, e con una fiducia più o meno intatta, sviluppa necessariamente della diffidenza verso tutti quelli che non sono dalla sua parte, degenerando in paranoia aperta. In generale, quelli che sono vittime di questa dinamica sono completamente incoscienti di questa realtà. Ciò non vuole dire che un clan non abbia una certa coscienza di ciò che fa. Ma è una falsa coscienza che serve solo a ingannare se stessi e gli altri.
Il Testo d’orientamento del ‘93 spiegava già le ragioni di questa vulnerabilità che ha, nel passato, colpito militanti come Martov, Plekhanov o Trotskij: il peso particolare del soggettivismo nelle questioni organizzative. (...)
Nel movimento operaio, il clanismo ha avuto quasi sempre per origine la difficoltà di diverse personalità a lavorare insieme. In altri termini, rappresenta una sconfitta di fronte alla prima tappa di costruzione di una comunità. È per questo che gli atteggiamenti clanici appaiono spesso in momenti in cui arrivano nuovi membri, o quando si formalizzano e si sviluppano strutture organizzative. Nella Prima Internazionale, è stata l’incapacità dell’ultimo arrivato, Bakunin, a “trovare il suo posto” nell’organizzazione a cristallizzare dei risentimenti preesistenti verso Marx. Nel 1903, al contrario, è la preoccupazione di preservare lo statuto della “vecchia guardia” che ha prodotto quello che, nella storia, è diventato il menscevismo. Evidentemente ciò non ha impedito ad un nuovo venuto come Lenin di difendere lo spirito di partito, o ad un nuovo venuto che aveva provocato il maggiore risentimento nei suoi confronti – come Trotskij - di mettersi a fianco di coloro che avevano avuto paura di lui[9].
Proprio perché supera l'individualismo, lo spirito di partito è capace di rispettare la personalità e l’individualità di ciascuno dei suoi membri. L’arte della costruzione dell’organizzazione non fa a ameno di prendere in considerazione tutte queste differenti personalità in modo da armonizzarle al massimo e permettere a ciascuna di dare il meglio di sé alla collettività. Il clanismo si cristallizza al contrario proprio attorno ad una diffidenza nei confronti di personalità e al loro differente peso. È per questo che è così difficile identificare una dinamica clanica all’inizio. Anche se molti compagni avvertono il problema, la realtà del clanismo è così sordida e ridicola che occorre del coraggio per dichiarare che “Il Re é nudo”. Che imbarazzo!
Come è stato sottolineato da Plekhanov, nel rapporto tra la coscienza e le emozioni, sono queste ultime a giocare un ruolo conservatore. Ma ciò non vuol dire che il marxismo condivida il disprezzo del razionalismo borghese verso il loro ruolo. Ci sono delle emozioni che servono ed altre che recano danno alla causa del proletariato. Ed è certo che la missione storica di quest’ultimo non può riuscire senza uno sviluppo gigantesco di passione rivoluzionaria, una volontà incrollabile di vincere, uno sviluppo inaudito di solidarietà, di disinteresse e di eroismo senza i quali la prova della lotta per il potere e della guerra civile non potrebbe mai essere sopportata. E senza la cultura cosciente dei tratti sociali ed individuali della vera umanità, una società nuova non può essere fondata. Queste qualità non sono delle precondizioni. Come diceva Marx, devono essere forgiate durante la lotta.
3. Il ruolo della fiducia e della solidarietà nell’ascesa dell'umanità
Contrariamente all’atteggiamento della borghesia rivoluzionaria per la quale il punto di partenza del suo radicalismo era il rigetto del passato, il proletariato ha sempre basato, in modo cosciente, la sua prospettiva rivoluzionaria su tutte le acquisizioni della storia dell’umanità che l’ha preceduto. Fondamentalmente, il proletariato è capace di sviluppare una tale visione storica perché la sua rivoluzione non difende nessun interesse particolare in opposizione a quelli dell’insieme dell’umanità. Dunque, il punto di vista del marxismo è sempre stato, per quel che riguarda tutte le questioni teoriche poste da questa missione, di prendere come punto di partenza tutte le acquisizioni che gli sono state trasmesse. Per noi, non solo la coscienza del proletariato, ma anche quella dell’umanità nel suo insieme, è qualche cosa che si accumula e si trasmette attraverso la storia. Tale era la visione di Marx ed Engels riguardante la filosofia tedesca classica, l'economia politica inglese o il socialismo utopico francese.
Allo stesso modo, dobbiamo comprendere che la fiducia e la solidarietà proletarie costituiscono delle concretizzazioni specifiche dell’evoluzione generale di queste qualità nella storia umana. Su queste due questioni, il compito della classe operaia è di andare al di là di ciò che è stato già realizzato. Ma per farlo, la classe deve basarsi su ciò che è già stato compiuto.
Le questioni poste qui sono di un’importanza storica fondamentale. Senza una solidarietà di base minima, la società umana diventa impossibile. E senza un minimo di fiducia reciproca, nessuno progresso sociale è possibile. Nella storia, la rottura di questi principi ha sempre condotto ad una barbarie senza limiti.
a) La solidarietà è un’attività pratica di sostegno reciproco tra gli esseri umani nella lotta per l’esistenza. È un’espressione concreta della natura sociale dell’umanità. Contrariamente agli impulsi come la carità o il sacrificarsi, che presuppongono l’esistenza di un conflitto di interessi, la base materiale della solidarietà è una comunità di interessi. È per questo che la solidarietà non è un ideale utopico, ma una forza materiale vecchia quanto la stessa umanità. Ma questo principio, rappresentando il mezzo più efficace ma anche collettivo nella difesa dei propri “sordidi” interessi materiali, può dar luogo agli atti più disinteressati, compreso il sacrificio della propria vita. Questo fatto, che l’utilitarismo borghese non è stato mai capace di spiegare, risulta dalla semplice realtà secondo la quale a partire dal momento in cui esistono degli interessi comuni, le parti sono sottomesse ... al bene comune. La solidarietà è dunque il superamento non dell’“l’egoismo”, ma dell’individualismo e del particolarismo nell’interesse dell’insieme. È per questo che la solidarietà è sempre una forza attiva, caratterizzata dall’iniziativa, e non dall’atteggiamento di aspettare la solidarietà degli altri. Là dove regna il principio borghese del calcolo dei vantaggi e degli svantaggi, non c’è solidarietà possibile.
Benché nella storia dell’umanità, la solidarietà tra i membri della società sia stata anzitutto un riflesso istintivo, più la società umana diventa complessa e conflittuale, più alto è il livello di coscienza necessario al suo sviluppo. In questo senso, la solidarietà di classe del proletariato costituisce la forma più alta di solidarietà umana fino a questo momento.
Tuttavia, l’estensione della solidarietà non dipende solo dalla coscienza in generale, ma anche dalla cultura delle emozioni sociali. Per svilupparsi, la solidarietà richiede un quadro culturale ed organizzativo che favorisca la sua espressione. Dato un tale quadro all’interno di un raggruppamento sociale, è possibile sviluppare delle abitudini, delle tradizioni e delle regole “non scritte” di solidarietà che possono trasmettersi da una generazione all’altra. In questo senso, la solidarietà non ha solamente un impatto immediato ma anche storico.
Ma a dispetto di tali tradizioni, la solidarietà ha sempre un carattere volontario. È per questo che l’idea che lo Stato sarebbe l’incarnazione della solidarietà, come è stato propagandato in particolare dalla Socialdemocrazia e dallo stalinismo, è una delle più grandi menzogne della storia. La solidarietà non può mai essere imposta contro la volontà. Essa è possibile solo se coloro che esprimono la solidarietà e quelli che la ricevono sono tutti convinti della sua necessità. La solidarietà è il cemento che tiene assieme un gruppo sociale, che trasforma un gruppo di individui in una sola forza unita.
b) Come la solidarietà, la fiducia è un’espressione del carattere sociale dell’umanità. Come tale, anch’essa presuppone una comunità di interessi. Per cui essa non può esistere che in relazione con altri esseri umani, con degli scopi e delle attività condivise. Da ciò conseguono i suoi due aspetti principali: la fiducia reciproca dei partecipanti e la fiducia nello scopo condiviso. Le basi principali della fiducia sociale sono dunque sempre un massimo di chiarezza e di unità.
Tuttavia, la differenza essenziale tra il lavoro umano e le attività animali, tra il lavoro dell’architetto e la costruzione di un alveare, come dice Marx, risiede nella premeditazione di questo lavoro sulla base di un piano[10]. È per tale motivo che la fiducia è sempre legata al futuro, a qualche cosa che nel presente esiste solo sotto forma di un’idea o di una teoria. Allo stesso tempo, è per questo che la fiducia reciproca è sempre concreta, basata sulle capacità di una comunità a compiere un compito dato.
Così, contrariamente alla solidarietà che è un'attività che esiste solo nel presente, la fiducia è anzitutto un’attività diretta verso il futuro. È questo che le dà il suo carattere particolarmente enigmatico, difficile da definire o da identificare, difficile da sviluppare o da mantenere. Non c’è quasi nessuna altra area della vita umana nei confronti della quale c’è tanto inganno ed auto-inganno. In effetti la fiducia è basata sull’esperienza, l’apprendimento attraverso dei tentennamenti, per stabilire degli scopi realistici e sviluppare dei mezzi appropriati. Ma poiché il suo compito è di rendere possibile la nascita di ciò che non esiste ancora, non perde mai il suo aspetto “teorico”. Nessuna delle grandi realizzazioni dell’umanità sarebbe stata mai possibile senza questa capacità di perseverare in un compito realistico ma difficile in assenza di successo immediato. È l’estensione del raggio della coscienza che permette una crescita della fiducia, mentre l’azione delle forze cieche ed incoscienti nella natura, nella società e nell'individuo tende a distruggere questa fiducia. Non è tanto l’esistenza di pericoli che mina la fiducia umana, ma piuttosto l’incapacità a comprenderli. Ma poiché la vita ci espone costantemente ai nuovi pericoli, la fiducia è una qualità particolarmente fragile, che richiede anni per svilupparsi ma che può essere distrutta dall’oggi al domani.
Come la solidarietà, la fiducia non può né essere decretata, né essere imposta, ma richiede una struttura ed un’atmosfera adeguate per il suo sviluppo. Ciò che rende così difficili le questioni della solidarietà e della fiducia è che esse non hanno a che fare solo con la testa ma anche col cuore. È necessario “sentirsi fiduciosi”. L’assenza di fiducia implica a sua volta il regno della paura, dell’incertezza, dell’esitazione e la paralisi delle forze collettive coscienti.
c) Mentre l’ideologia borghese si sente oggi rafforzata dalla pretesa “morte del comunismo” nella sua convinzione che è l’eliminazione dei deboli nella lotta competitiva per la sopravvivenza ad assicurare la perfezione della società, in realtà sono proprio queste forze collettive e coscienti che costituiscono la base dell’ascesa della specie umana.
Già i predecessori dell’umanità appartenevano a queste specie animali altamente sviluppate a cui gli istinti sociali davano un vantaggio decisivo nella lotta per la sopravvivenza. Queste specie portavano già i segni rudimentali della forza collettiva: i deboli erano protetti e la forza di ogni membro individuale diventava la forza di tutti. Questi aspetti sono stati cruciali nella nascita della specie umana la cui prole resta senza difesa per molto più tempo che qualunque altra specie. Con lo sviluppo della società umana e delle forze produttive, questa dipendenza dell’individuo verso la società non ha mai smesso di crescere; gli istinti sociali (che Darwin chiama “altruistici”) che esistevano già nel mondo animale, prendono un carattere sempre più cosciente. Il disinteresse, il coraggio, la lealtà, la devozione alla comunità, la disciplina e l’onestà sono glorificate nelle prime espressioni culturali della società, le prime espressioni di una solidarietà veramente umana.
Ma l’uomo è soprattutto la sola specie che utilizza gli attrezzi che ha fabbricato. È questo modo di acquisire dei mezzi di sussistenza che dirige l’attività umana verso il futuro.
“Nell’animale, l’azione segue in modo immediato. Esso cerca la sua preda o il suo cibo ed immediatamente, balza, acchiappa, mangia, o fa ciò che è necessario per afferrare, e questo è ereditato come istinto.... Tra l’impressione e l’azione dell’uomo, invece, una lunga catena di pensieri e di considerazioni passa per la sua testa. Da dove nasce questa differenza? Non è difficile vedere che essa è strettamente legata all’uso di strumenti. Come i pensieri nascono tra le impressioni dell’uomo e le sue azioni, lo strumento nasce tra l’uomo e ciò che quest'ultimo cerca di ottenere. Inoltre, come lo strumento si trova tra l’uomo e gli oggetti esterni, il pensiero deve nascere tra l’impressione e la realizzazione. Prende uno strumento, dunque la sua mente deve fare anch’essa lo stesso percorso, non seguire la prima impressione”.[11]
Imparare a “non seguire la prima impressione”, è una buona descrizione del salto dal mondo animale al genere umano, dal regno dell’istinto a quello della coscienza, dalla prigione immediatista del presente all’attività orientata verso il futuro. Ogni sviluppo importante nella prima società umana si è accompagnato con un rafforzamento di questo aspetto. Ancora, con l'apparizione delle società agricole sedentarie, i vecchi non sono più uccisi ma amati teneramente come coloro che possono trasmettere l’esperienza.
In quello che chiamiamo comunismo primitivo, questa fiducia embrionale nella potenza della coscienza per dominare le forze della natura era estremamente tenue mentre era potente la forza della solidarietà in seno ad ogni gruppo. Ma fino all’apparizione delle classi, della proprietà privata e dello Stato, queste due forze, per quanto impari siano state, si rafforzavano reciprocamente.
La società di classe fa esplodere questa unità, accelerando la lotta per il dominio sulla natura, ma sostituendo la solidarietà sociale con la lotta di classe all’interno di una stessa società. Sarebbe falso credere che questo principio sociale generale sia stato sostituito dalla solidarietà di classe. Nella storia delle società di classe, il proletariato è la sola classe capace di una reale solidarietà. Mentre le classi dominanti sono sempre state delle classi sfruttatrici per le quali la solidarietà non va mai oltre l’opportunità del momento, il carattere necessariamente reazionario delle classi sfruttate del passato significava che la loro solidarietà aveva necessariamente un carattere furtivo, utopico come “la comunità dei beni” dei primi cristiani e delle sette del Medio Evo. La principale espressione della solidarietà sociale all’interno della società di classe prima dell’avvento del capitalismo è quella che derivava dalle vestigia dell’economia naturale, ivi compresi i diritti ed i doveri che legavano ancora le classi opposte tra loro. Tutto ciò fu distrutto alla fine dalla produzione di merci e dalla sua generalizzazione sotto il capitalismo.
“Se, nella società attuale, gli istinti sociali hanno ancora conservato una certa forza, è solo grazie al fatto che la produzione generalizzata di merce costituisce ancora un fenomeno nuovo, appena vecchio di un secolo, e che nella misura in cui il comunismo democratico primitivo sparisce e che (...) smette dunque di essere la fonte di istinti sociali, una nuova fonte e ben più forte sorge, la lotta di classe delle classi ascendenti popolari e sfruttate”.
Con lo sviluppo delle forze produttive, la fiducia della società nella sua capacità di dominare le forze della natura è cresciuta in maniera accelerata. Il capitalismo è stato il periodo che ha dato, di gran lunga, il principale contributo in questo senso, con un picco nel XIX secolo, il secolo del progresso e dell’ottimismo. Ma, allo stesso tempo, mettendo gli uomini l’uno contro l’altro nello scontro della concorrenza ed acuendo la lotta di classe ad un livello mai raggiunto, ha minato ad un livello senza precedenti un altro pilastro della fiducia in sé della Società, quello dell’unità sociale. Inoltre, per liberare l’umanità dalle forze cieche della natura, l’ha sottomessa al dominio delle nuove forze cieche in seno alla stessa società: quelle scatenate dalla produzione di merci le cui leggi operano al di fuori del controllo o anche della comprensione – “alle spalle” - della società. Ciò ha portato a sua volta al 20° secolo, il più tragico della storia, che ha spinto una grande parte dell'umanità in una disperazione indicibile.
Nella sua lotta per il comunismo, la classe operaia si basa non solo sullo sviluppo delle forze produttive generate dal capitalismo, ma fonda anche una parte della sua fiducia nell’avvenire sulle realizzazioni scientifiche e le visioni teoriche apportate in precedenza dall’umanità. Allo stesso modo, l’eredità della classe nella sua lotta per una solidarietà effettiva integra tutta l’esperienza dell’umanità fino ai nostri giorni nella creazione di legami sociali, l’unità di scopo, i legami di amicizia, gli atteggiamenti di rispetto e di attenzione per i compagni di lotta, ecc.
[1] Per ulteriori elementi sull’analisi fatta dalla CCI sulle questioni della trasformazione dello spirito di circolo in clanismo, sui clan esistiti nella nostra organizzazione e sulla nostra lotta condotta a partire dal 1993 contro queste debolezze, vedere il nostro testo “La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI” ed il nostro articolo “La battaglia per la difesa dei principi organizzativi” rispettivamente nei numeri 109 e 110 della Rivista Intenazionale (in lingua inglese, francese e spagnola).
[2] Si tratta della Commissione di investigazione nominata dal 14° congresso della CCI. Vedere a questo proposito il nostro articolo della Rivista Intenazionale n°110 (in lingua inglese, francese e spagnola).
[3] Su questo argomento, vedi il nostro articolo “La lotta del proletariato nella decadenza del capitalismo” nella Rivista Intenazionale n°23 (in lingua inglese, francese e spagnola). In questo articolo, mettiamo in evidenza le ragioni per cui, contrariamente alle lotte del XIX secolo, quelle del XX secolo non potevano appoggiarsi su un’organizzazione prestabilita della classe.
[4] A febbraio del 1941, le misure antisemite delle autorità di occupazione tedesca provocarono una mobilitazione di massa degli operai olandesi. Scoppiato ad Amsterdam il 25 febbraio, lo sciopero si estese all’indomani in numerose città, in particolare a L’Aia, Rotterdam, Groningen, Utrecht, Hilversum, Haarlem e fino in Belgio, prima di essere represso selvaggiamente dalle autorità, in particolare dalle SS. Vedi a questo riguardo il nostro libro su “La Sinistra olandese”, pagina 247.
[5] La concezione consiliarista sulla questione del partito sviluppata dalla Sinistra comunista olandese e la concezione bordighista, un avatar della Sinistra italiana, all’inizio sembrano radicalmente opposte: la seconda ritiene che il ruolo del partito comunista sia quello di prendere il potere ed esercitare la dittatura in nome del proletariato, anche opponendosi all’insieme della classe, mentre la prima ritiene che ogni partito, compreso un partito comunista, costituisca un pericolo per la classe essendo necessariamente destinato ad usurpare il potere a detrimento degli interessi della rivoluzione. In realtà, le due concezioni si congiungono in quanto stabiliscono entrambe una separazione, o finanche un’opposizione, tra il partito e la classe e manifestano una mancanza di fiducia di base verso quest’ultima. Per i bordighisti, l’insieme della classe non ha la capacità di esercitare la dittatura ed è per tale motivo che spetta al partito di prendere in carico questo compito. Malgrado le apparenze, il consiliarismo non manifesta una fiducia maggiore verso il proletariato poiché considera che quest’ultimo sia destinato a lasciarsi privare del suo potere da un partito dal momento che questo dovesse sorgere.
[6] Sulla nostra analisi della decomposizione, vedi in particolare “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [17]” nella Rivista Internazionale n°14 (in lingua italiana).
[7] Testo pubblicato nella Rivista Internazionale n°109 (in lingua inglese, francese o spagnola) sotto il titolo “La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI”.
[8] È così perché “In una dinamica di clan, i percorsi comuni non partono da un reale accordo politico ma da legami di amicizia, di fedeltà, dalla convergenza di interessi personali specifici o da frustrazioni condivise. (…) Quando una tale dinamica appare, i membri o i simpatizzati del clan non si determinano più, nei loro comportamenti o nelle decisioni che prendono, in funzione di una scelta cosciente o ragionata basata sugli interessi generali dell’organizzazione, ma in funzione del punto di vista e degli interessi del clan, che tendono a porsi in contraddizione con quelli del resto dell’organizzazione”. (“La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI”, Revue Internationale n°109, pp29-30). Dal momento che dei militanti adottano un tale atteggiamento, sono portati a voltare la schiena ad un pensiero rigoroso, al marxismo, finendo per farsi i portatori di una tendenza alla degenerazione teorica e programmatica. Per citare solo un esempio, ricordiamo che il raggruppamento clanico che era apparso nella CCI nel 1984 e che avrebbe formato la “Frazione Esterna della CCI”, ha finito per rimettere totalmente in causa la nostra piattaforma, di cui si presentava peraltro come il migliore difensore, e per rigettare l’analisi della decadenza del capitalismo che era il patrimonio dell’Internazionale Comunista e della Sinistra comunista.
[9] Quando, nell’autunno 1902, arriva in Europa occidentale dopo la sua evasione dalla Siberia, Trotskij viene preceduto da una reputazione di redattore di elevato talento (uno degli pseudonimi che gli sono stati dati è "Pero", la penna). In poco tempo diventa un collaboratore di primo piano dell'Iskra, giornale pubblicato da Lenin e Plekhanov. Nel marzo 1903, Lenin scrive a Plekhanov per proporgli di cooptare Trotsky nella redazione dell'Iskra, ma cozza contro il suo rifiuto: in realtà, Plekhanov teme che il talento di questo giovane militante, di soli 23 anni, possa mettere in ombra il suo prestigio. È una delle prime manifestazioni della deriva di colui che era stato il principale artefice della penetrazione del marxismo in Russia e che, dopo avere raggiunto i menscevichi, finirà la sua carriera come socialsciovinista al servizio della borghesia.
[10] “Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo tempo stesso, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. E questa subordinazione non è un atto singolo e isolato. Oltre lo sforzo degli organi che lavorano, è necessaria per tutta la durata del lavoro, la volontà conforme allo scopo, che si estrinseca come attenzione (…)”. Il Capitale, libro I, Tomo I, III sezione, cap.5.
[11] Pannekoek: Marxism and Darwinism.
- Gli effetti della controrivoluzione sulla fiducia in sé e le tradizioni di solidarietà delle generazioni contemporanee del proletariato;
- Gli effetti delle debolezze nella fiducia e nella solidarietà all’interno della CCI;
- Il ruolo della fiducia e della solidarietà nello sviluppo dell'umanità.
4. La dialettica della fiducia in sé della classe operaia: passato, presente, futuro
Poiché il proletariato è la prima classe della società che abbia una visione storica cosciente, si capisce come mai le basi della sua fiducia nella sua missione siano anch’esse storiche, incorporando la totalità del processo che gli ha dato nascita. E’ per questo, in particolare, che questa fiducia si basa in modo decisivo sul futuro e dunque su una comprensione teorica. Ed è sempre per tale motivo che il rafforzamento della teoria costituisce l’arma privilegiata per superare le debolezze congenite della CCI riguardanti il problema della fiducia. Quest’ultima, per definizione, è sempre la fiducia nell’avvenire. Il passato non può essere cambiato, dunque non ci può essere una fiducia orientata verso quest’ultimo.
Ogni classe rivoluzionaria in ascesa basa la sua fiducia nella propria missione storica non solo sulla sua forza attuale ma anche sulle sue esperienze e le sue realizzazioni passate così come sui suoi obiettivi futuri. Tuttavia, la fiducia delle classi rivoluzionarie del passato, e della borghesia in particolare, era principalmente radicata nel presente - nel potere economico e politico che esse avevano già conquistato all’interno della società esistente. Poiché il proletariato non potrà mai avere un tale potere nella società capitalista, non potrà mai avere una tale predominanza del presente. Senza la capacità di apprendere dalla sua esperienza storica e senza una chiarezza ed una convinzione reale degli obiettivi che ha come classe, non può mai acquisire fiducia in sé stesso per superare l’attuale società di classe. In questo senso, il proletariato è, più di qualunque altra classe sociale che l'abbia preceduto, una classe storica nel senso pieno del termine. Il passato, il presente ed il futuro sono le tre componenti indispensabili della fiducia in sé stesso. E’ perciò che il marxismo, l'arma scientifica della rivoluzione proletaria, è stato chiamato dai suoi fondatori: materialismo storico o dialettico.
a) Questa preminenza del futuro non elimina affatto il ruolo del presente nella dialettica della lotta di classe. Proprio perché il proletariato è una classe sfruttata, ha bisogno di sviluppare la sua lotta collettiva affinché la classe nel suo insieme diventi cosciente della sua forza reale e del suo potenziale futuro. Questa necessità che la classe nel suo insieme prenda fiducia in sé stessa costituisce un problema completamente nuovo nella storia della società di classi. La fiducia in sé delle classi rivoluzionarie del passato, che erano delle classi sfruttatrici, si basava sempre su una chiara gerarchia all’interno di ciascuna di queste classi e all’interno della società nel suo insieme. Si basava sulla capacità di comandare, di sottomettere altre parti della società alla propria volontà, e dunque sul controllo dell’apparato produttivo e dell’apparato dello Stato. In effetti, è caratteristico della borghesia il fatto che essa trovava, anche nella sua fase rivoluzionaria, altre categorie sociali disposte a battersi al suo servizio e che, una volta al potere, “delegava” sempre più i suoi compiti a dei servitori retribuiti.
Il proletariato non può delegare a nessuno il proprio compito storico. È per questo che è necessario che la classe sviluppi la fiducia in sé stessa. Ed è per questo che la fiducia nel proletariato è sempre necessariamente una fiducia nella classe nel suo insieme, mai solo in una sua parte.
Proprio perché il proletariato è una classe sfruttata, la fiducia in sé ha un carattere fluttuante e finanche erratico, con degli alti e dei bassi in funzione dell’andamento della lotta di classe. Inoltre, le stesse organizzazioni politiche rivoluzionarie sono profondamente influenzate da queste fluttuazioni, nella misura in cui il modo in cui si organizzano, si raggruppano ed intervengono nella classe dipende in grande parte da questo movimento. E come sappiamo, nei periodi di profonda sconfitta, solo minuscole minoranze sono capaci di conservare la loro fiducia nella classe.
Ma queste fluttuazioni nella fiducia non sono legate soltanto alle vicissitudini della lotta di classe. In quanto classe sfruttata, il proletariato può essere in ogni momento vittima di una crisi di fiducia, anche nel fuoco di lotte rivoluzionarie. La rivoluzione proletaria “interrompe costantemente il suo proprio corso, ritornando su ciò che aveva apparentemente già compiuto per ricominciare d’accapo”, ecc. In particolare “indietreggia continuamente davanti all’immensità dei suoi propri scopi”, come scriveva Marx[2].
La rivoluzione russa del 1917 mostra chiaramente che non solo la classe nel suo insieme ma anche il partito rivoluzionario può essere colto da tali esitazioni. Infatti, tra febbraio ed ottobre 1917, i bolscevichi hanno attraversato parecchie crisi di fiducia nella capacità della classe a portare avanti i compiti del momento, crisi che sono culminate nel panico che ha interessato il comitato centrale del partito bolscevico di fronte all’insurrezione.
La rivoluzione russa è dunque la migliore illustrazione del fatto che le radici più profonde della fiducia nel proletariato, contrariamente a quella della borghesia, non possono risiedere mai nel presente. Durante questi mesi drammatici, è innanzitutto Lenin che ha personificato la fiducia incrollabile nella classe, fiducia senza la quale nessuna vittoria è possibile. Ed egli l’ha fatto perché non ha mai abbandonato il metodo teorico e storico proprio del marxismo.
Tuttavia, la lotta di massa del proletariato è un momento indispensabile allo sviluppo della fiducia rivoluzionaria. Oggi, è una chiave di tutta la situazione storica. Permettendo il recupero dell’identità di classe, è una condizione preliminare affinché la classe nel suo insieme assimili di nuovo le lezioni del passato e sviluppi una prospettiva rivoluzionaria.
Così, come per la questione della coscienza di classe alla quale è legata intimamente, dobbiamo distinguere due dimensioni di questa fiducia: da una parte l’accumulo storico, teorico, programmatico e organizzativo della fiducia, rappresentato dalle organizzazioni rivoluzionarie e, più largamente, dal processo storico di maturazione sotterranea in seno alla classe, dall’altra il grado e l’estensione della fiducia in sé all’interno della classe nel suo insieme ad un dato momento.
b) Il contributo del passato a questa fiducia non è meno indispensabile. In primo luogo perché la storia contiene delle prove inconfutabili del potenziale rivoluzionario della classe operaia. La stessa borghesia comprende l'importanza di questi esempi passati per il suo nemico di classe, ed è per tale motivo che attacca costantemente questa eredità e, soprattutto, la rivoluzione di Ottobre 1917.
In secondo luogo, uno dei fattori più adatti a rassicurare il proletariato dopo una sconfitta consiste nella sua capacità di correggere i suoi errori passati e di trarre delle lezioni dalla storia. Contrariamente alla rivoluzione borghese che va di vittoria in vittoria, la vittoria finale del proletariato si prepara attraverso una serie di sconfitte. Il proletariato è dunque capace di trasformare le sue sconfitte passate in elementi di fiducia nel futuro. E’ stato questo tipo di fiducia che ha permesso principalmente a Bilan di tenere nel periodo di controrivoluzione più profonda. In effetti, più la fiducia nella classe è profonda, più i rivoluzionari hanno il coraggio di criticare senza sconti le loro debolezze e quelle della classe, meno hanno bisogno di consolarsi e più si distinguono per una sobria lucidità e l’assenza di euforia insensata. Come ripetuto tante volte da Rosa, il compito dei rivoluzionari è di dire ciò che è.
In terzo luogo, la continuità, in particolare la capacità di trasmettere le lezioni da una generazione all’altra, è sempre stata fondamentale per lo sviluppo della fiducia dell’umanità in sé stessa. Gli effetti devastatori della controrivoluzione del XX secolo sul proletariato ne costituiscono una prova in negativo. E’ tanto più importante per noi studiare oggi le lezioni della storia, perché occorre trasmettere la nostra esperienza e quella di tutta la classe operaia alle generazioni di rivoluzionari che ci succederanno.
c) Ma è la prospettiva futura che offre la base più profonda per la nostra fiducia nel proletariato. Ciò può sembrare paradossale. Come è possibile fondare la fiducia su qualche cosa che non esiste ancora? Ma questa prospettiva è ben presente. Esiste come obiettivo cosciente, come costruzione teorica, nello stesso modo in cui esiste l’edificio da costruire nella testa dell’architetto. Prima ancora di realizzarlo praticamente, il proletariato è l’architetto del comunismo.
Abbiamo già visto che nello stesso momento in cui il proletariato è apparso come forza indipendente nella storia, è apparsa la prospettiva del comunismo: la proprietà collettiva non dei mezzi di consumo, ma dei mezzi di produzione. Quest’idea era il prodotto della separazione dei produttori dai mezzi di produzione, attraverso il lavoro salariato e la socializzazione del lavoro. In altri termini, era il prodotto del proletariato, della sua posizione nella società capitalista. O, come Engels scrive ne L’Anti-Dühring: la principale contraddizione nel cuore del capitalismo è quella tra due principi sociali, un principio collettivo alla base della produzione moderna, rappresentato dal proletariato, ed un principio individuale, anarchico, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, rappresentato dalla borghesia.
La prospettiva comunista era sorta già prima che le lotte del proletariato avessero rivelato il loro potenziale rivoluzionario. Ciò che questi avvenimenti hanno dunque chiarito è che solo le lotte operaie possono condurre al comunismo. Ma la prospettiva esisteva già prima e si basava principalmente sulle lezioni passate e contemporanee della lotta proletaria. E anche negli anni 1840, quando Marx ed Engels hanno cominciato a trasformare il socialismo da utopia in scienza, la classe non aveva ancora dato molte prove delle sue capacità rivoluzionarie.
Ciò vuole dire che, fin dall’inizio, la teoria era essa stessa un’arma della lotta di classe. E fino alla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria, come abbiamo detto, questa visione del suo ruolo storico era cruciale per dare fiducia alla classe per scontrarsi con il capitale.
Dunque, assieme alla lotta immediata e alle lezioni del passato, la teoria rivoluzionaria è per il proletariato un fattore indispensabile di fiducia, in particolare del suo sviluppo in profondità, ma a lungo termine anche della sua estensione. Poiché la rivoluzione è necessariamente un atto cosciente, non può essere vittoriosa se la teoria rivoluzionaria non viene fatta propria dalle masse.
Nella rivoluzione borghese, la prospettiva non era molto più di una proiezione dello spirito dell’evoluzione presente e passata: la conquista graduale del potere all’interno della vecchia società. Nella misura in cui la borghesia ha sviluppato delle teorie del futuro, esse si sono rivelate per delle grossolane mistificazioni che hanno per compito principale di infiammare le passioni rivoluzionarie. Il carattere irrealistico di queste visioni non portava pregiudizio alla causa che servivano. Per il proletariato, al contrario, è il futuro il punto di partenza. Nella misura in cui non può costruire gradualmente il suo potere di classe all’interno del capitalismo, la chiarezza teorica diventa una delle sue armi più importanti.
“La filosofia idealista classica ha sempre postulato che l’umanità vive in due mondi differenti, il mondo materiale in cui domina la necessità e quello dello spirito o dell’immaginazione in cui regna la libertà.
A dispetto della necessità di rigettare i due mondi ai quali, secondo Platone o Kant, l’umanità appartiene, è invece corretto che gli esseri umani vivano simultaneamente in due mondi differenti (...). I due mondi in cui vive l’umanità sono il passato ed il futuro. Il presente è la frontiera tra i due. Ogni sua esperienza risiede nel passato (...). L’umanità non può cambiare il passato, tutto ciò che può fare è accettare la sua necessità. Perciò il mondo dell’esperienza, il mondo della conoscenza è anche quello della necessità. E’ diverso per il futuro. Io non ne ho la minima esperienza. Esso si presenta apparentemente libero davanti a me, come un mondo che non posso esplorare sulla base della conoscenza, ma nel quale devo affermarmi con l’azione. (...) Agire vuol sempre dire scegliere tra diverse possibilità, ed anche se la scelta è solo tra agire o non agire, ciò vuole dire accettare e rigettare, difendere ed attaccare. (…) Ma il sentimento di libertà non è solo una condizione preliminare dell’azione, è anche uno scopo dato. Se il mondo del passato è governato dai rapporti tra la causa e l’effetto (causalità), quello dell’azione, del futuro lo è per la determinazione (teleologia)”[3].
Già prima di Marx, è Hegel che ha risolto, dal punto di vista teorico, il problema del rapporto tra la necessità e la libertà, tra il passato ed il futuro. La libertà consiste nel fare ciò che è necessario, diceva Hegel. In altri termini, non è rivoltandosi contro le leggi di evoluzione del mondo, ma comprendendole ed utilizzandole ai suoi propri fini che l’uomo ingrandisce il suo spazio di libertà. “La necessità è cieca solamente nella misura in cui essa non è compresa”[4]. Allo stesso modo, è necessario per il proletariato comprendere le leggi di evoluzione della storia per essere capace di comprendere e dunque di compiere la sua missione storica. Perciò, se la scienza - e con essa la fiducia della borghesia - era in grande misura basata su una comprensione crescente delle leggi della natura, la scienza e la fiducia della classe operaia sono basate sulla comprensione della società e della storia.
Come mostrato da MC in un contributo di difesa classica del marxismo su questa questione[5], è il futuro che deve predominare sul passato ed il presente in un movimento rivoluzionario perché è esso che ne determina la direzione. Il predominio del presente conduce invariabilmente a delle esitazioni, creando una vulnerabilità enorme verso l’influenza della piccola borghesia, personificazione dell’esitazione. Il predominio del passato conduce all’opportunismo e dunque all’influenza della borghesia come bastione della reazione moderna. Nei due casi, è la perdita della visione a lungo termine che conduce alla perdita della direzione rivoluzionaria.
Come diceva Marx, “la rivoluzione sociale del 19° secolo non può trarre la sua poesia del passato, ma solamente dal futuro”[6].
Da ciò dobbiamo concludere che l’immediatismo è il principale nemico della fiducia in sé del proletariato, non solo perché la strada verso il comunismo è lunga e tortuosa, ma anche perché questa fiducia si radica nella teoria e nel futuro, mentre l’immediatismo è una capitolazione di fronte al presente, l’adorazione dei fatti immediati. Attraverso la storia, l’immediatismo ha costituito il fattore dominante del disorientamento nel movimento operaio. È stato alla radice di tutte le tendenze che hanno posto “il movimento prima del fine”, come diceva Bernstein, e dunque dell’abbandono dei principi di classe. Che prenda la forma dell’opportunismo (come nel caso dei revisionisti alla svolta del secolo XIX o dei trotskisti negli anni ’30) o dell’avventurismo (come per gli Indipendenti nel 1919 e il KPD nel 1921 in Germania), questa impazienza politica piccolo-borghese riporta sempre al tradimento del futuro per un piatto di lenticchie, per riprendere l’immagine biblica. Alla radice di questo atteggiamento assurdo, c’è sempre una perdita di fiducia nella classe operaia.
Nell'ascesa storica del proletariato, passato, presente e futuro formano un’unità. Allo stesso tempo, ciascuno di questi “mondi” ci avverte di un pericolo specifico. Il pericolo che riguarda il passato è quello di dimenticare le sue lezioni. Il pericolo del presente è di essere vittima delle apparenze immediate, della superficie delle cose. Il pericolo del futuro è trascurare e indebolire gli sforzi teorici.
Questo ci ricorda che la difesa e lo sviluppo delle armi teoriche della classe operaia costituiscono il compito specifico delle organizzazioni rivoluzionarie, e che queste ultime hanno una responsabilità particolare nella salvaguardia della fiducia storica nella classe.
5. La fiducia, la solidarietà e lo spirito di partito non sono mai delle esperienze definitive
Come abbiamo detto, la chiarezza e l’unità sono le principali basi dell’azione sociale fiduciosa. Nel caso della lotta di classe del proletariato internazionale, questa unità evidentemente non è che una tendenza che potrà un giorno realizzarsi attraverso un consiglio operaio a scala mondiale. Ma politicamente, le organizzazioni unitarie che sorgono nella lotta sono già l’espressione di questa tendenza. Anche al di fuori di queste espressioni organizzate, la solidarietà operaia – anche quando si esprima ad un livello individuale - manifesta lo stesso questa unità. Il proletariato è la prima classe al cui interno non ci sono interessi economici divergenti; in questo senso, la sua solidarietà annuncia la natura della società per la quale lotta.
Tuttavia, l'espressione più importante e permanente dell’unità di classe è l’organizzazione rivoluzionaria ed il programma che essa difende. Per tale motivo, quest’ultima è l’incarnazione più evoluta della fiducia nel proletariato - ed anche la più complessa.
Come tale, la fiducia è al cuore stesso della costruzione di una tale organizzazione. Qui, la fiducia nella missione del proletariato si esprime direttamente nel programma politico della classe, nel metodo marxista, nella capacità storica della classe, nel ruolo dell’organizzazione verso la classe, nei suoi principi di funzionamento, nella fiducia dei militanti e delle differenti parti dell’organizzazione in sé stessi e degli uni verso gli altri. In particolare, è l’unità dei differenti principi politici ed organizzativi che essa difende e l’unità tra le differenti parti dell’organizzazione che sono le espressioni più dirette della fiducia nella classe: unità di scopo e d’azione, dello scopo della classe e dei mezzi per giungervi.
I due principali aspetti di questa fiducia sono la vita politica ed quella organizzativa. Il primo aspetto si esprime nella lealtà ai principi politici, ma anche nella capacità di sviluppare la teoria marxista in risposta all’evoluzione della realtà. Il secondo aspetto si esprime nella lealtà ai principi di funzionamento proletario e alla capacità di sviluppare una fiducia ed una solidarietà reali all’interno dell’organizzazione. Il risultato di un indebolimento della fiducia nei confronti dell’uno o dell’altro di questi due livelli sarà sempre una rimessa in causa dell'unità - e dunque dell’esistenza – dell’organizzazione.
A livello organizzativo, l'espressione più evoluta di questa fiducia, di questa solidarietà e di questa unità è ciò che Lenin ha chiamato lo spirito di partito. Nella storia del movimento operaio vi sono tre esempi celebri di messa in opera di un tale spirito di partito: il partito tedesco degli anni 1870 e 1880, i bolscevichi a partire dal 1903 fino alla rivoluzione, il partito italiano e la frazione che ne è uscita dopo l’ondata rivoluzionaria. Questi esempi ci aiuteranno a mostrare la natura e la dinamica di questo spirito di partito ed i pericoli che lo minacciano.
a) Ciò che ha caratterizzato il partito tedesco su questo piano è che esso ha basato il suo modo di funzionamento sui principi organizzativi stabiliti dalla Prima internazionale nella sua lotta contro il bakuninismo (ed il lassallismo), che questi principi sono stati ancorati in tutto il partito attraverso una serie di lotte organizzative e che, nella lotta per la difesa dell’organizzazione contro la repressione statale, si è costruita una tradizione di solidarietà tra i militanti e le differenti parti dell’organizzazione. In effetti, è durante il periodo “eroico” di clandestinità che il partito tedesco ha sviluppato le tradizioni di difesa senza concessione dei principi, di studio teorico e di unità organizzativa che ne hanno fatto il dirigente naturale del movimento operaio internazionale. La solidarietà quotidiana nei suoi ranghi era un potente catalizzatore di tutte queste qualità. Tuttavia, alla svolta del secolo, lo spirito di partito era quasi completamente morto al punto che Rosa Luxemburg poteva dichiarare che c’era più umanità in un villaggio siberiano che in tutto il partito tedesco[7]. In realtà, molto prima del suo tradimento programmatico, la scomparsa della solidarietà annunciava il tradimento a venire.
b) Ma la bandiera dello spirito di partito è stata ripresa dai bolscevichi. Là ancora troviamo le stesse caratteristiche. I bolscevichi hanno ereditato i loro principi organizzativi dal partito tedesco, li hanno radicati in ogni sezione ed in ogni membro attraverso una serie di lotte organizzative, hanno forgiato una solidarietà vivente attraverso anni di lavoro illegale. Senza queste qualità, il partito non avrebbe potuto mai superare il test della rivoluzione. Sebbene tra agosto 1914 ed ottobre 1917 il partito abbia subito una serie di crisi politiche, ed abbia anche dovuto rispondere, in modo ripetuto, alla penetrazione di posizioni apertamente borghesi nei suoi ranghi e nella sua direzione (come il sostegno alla guerra nel 1914 e dopo il febbraio 1917), l’unità dell’organizzazione, la sua capacità a chiarire le sue divergenze, a correggere i suoi errori ed ad intervenire nella classe non sono state mai messe in questione.
c) Come sappiamo, molto prima del trionfo finale dello stalinismo, nel partito di Lenin lo spirito di partito era completamente rifluito. Ma ancora una volta, la bandiera è stata ripresa prima dal partito italiano e dopo dalla Frazione di fronte alla controrivoluzione stalinista. Il partito italiano è diventato l’erede dei principi organizzativi e delle tradizioni del bolscevismo. Ha sviluppato la sua visione della vita di partito nella lotta contro lo stalinismo, arricchendola più tardi con la visione ed il metodo della Frazione. E ciò ha avuto luogo nelle più terribili condizioni oggettive, di fronte alle quali, ancora una volta, bisognava forgiare una solidarietà vivente.
Alla fine della 2a guerra mondiale, la Sinistra italiana a sua volta ha abbandonato i principi organizzativi che avevano costituito la sua caratteristica. In effetti, né la parodia semi-religiosa di vita collettiva di partito sviluppata dal bordighismo nel dopoguerra, né l’informalismo federalista di Battaglia hanno a che vedere con la vita organizzativa della Sinistra italiana degli anni ‘20 e ‘30. In particolare, tutta la concezione della Frazione è stata abbandonata.
È la Sinistra comunista di Francia che ha recuperato l’eredità di questi principi organizzativi e di lotta per lo spirito di partito. E tocca oggi alla CCI perpetuare e far vivere questa eredità.
d) Lo spirito di partito non è mai un’acquisizione definitiva. Le organizzazioni e le correnti del passato che l’hanno meglio incarnato, hanno finito tutte per perderlo completamente e definitivamente. (...)
In ciascuno degli esempi dati, le circostanze in cui lo spirito di partito è sparito erano molto differenti. L’esperienza della lenta degenerazione di un partito di massa o dell’integrazione di un partito nell’apparato statale di un bastione operaio isolato non si ripeteranno probabilmente mai più. Tuttavia, ci sono delle lezioni generali da trarre. In ogni caso:
· lo spirito di partito è sparito in un momento di svolta storica: in Germania, tra l’ascesa e le decadenza del capitalismo; in Russia con il riflusso della rivoluzione; e per la Sinistra italiana, tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Oggi, è l’entrata nella fase di decomposizione che minaccia lo spirito di partito.
· l’illusione che le realizzazioni passate possono essere definitive ha impedito la vigilanza necessaria. La malattia infantile di Lenin è un perfetto esempio di questa illusione. Oggi, la sopravvalutazione della maturità organizzativa della CCI contiene lo stesso pericolo.
· sono l’immediatismo e l'impazienza che hanno aperto la porta all’opportunismo programmatico ed organizzativo. L’esempio della Sinistra italiana è particolarmente sorprendente poiché storicamente è il più vicino a noi. È il desiderio di riuscire infine ad estendere la propria influenza ed a reclutare dei nuovi membri che ha spinto la Sinistra italiana nel 1943-45 ad abbandonare le lezioni della Frazione ed il PCI bordighista nel 1980-81 ad abbandonare alcuni dei suoi principi programmatici. Oggi, la CCl a sua volta è confrontata a simili tentazioni legate all’evoluzione della situazione storica.
· questo abbandono è stato l'espressione a livello organizzativo della perdita di fiducia nella classe operaia che si è espressa inevitabilmente anche al livello politico (perdita della chiarezza programmatica). Fino ad oggi ciò non ha mai riguardato la CCI come tale. Ma ha sempre riguardato le differenti “tendenze” che si sono scisse dalla CCI, (come la FECCI o il “Circolo di Parigi” che hanno rigettato l’analisi della decadenza.
Durante gli ultimi mesi, è soprattutto la simultaneità di un indebolimento dei nostri sforzi teorici e della vigilanza, una certa euforia rispetto alla progressione dell’organizzazione e dunque un accecamento nei confronti delle nostre difficoltà ed il riemergere del clanismo che rivelano il pericolo della perdita dello spirito di partito, di una degenerazione organizzativa e di sclerosi teorica. Il fatto che la fiducia nei nostri ranghi sia stata minata e l’incapacità di fare dei passi avanti decisivi nello sviluppo della solidarietà hanno costituito i fattori dominanti in questa tendenza che può, potenzialmente, condurre al tradimento programmatico o alla scomparsa dell’organizzazione.
6. Non c’è spirito di partito senza una responsabilità individuale
Dopo la lotta del 1993-96 contro il clanismo, sono cominciati ad emergere degli atteggiamenti di diffidenza verso i rapporti politici e sociali dei compagni al di fuori del quadro formale delle riunioni e delle attività programmate. L’amicizia, i rapporti amorosi, i legami e le attività sociali, i gesti di solidarietà personale, le discussioni politiche ed altro tra i compagni sono stati talvolta trattati, nella pratica, come un male necessario, di fatto come il terreno privilegiato per lo sviluppo del clanismo. Al contrario, si è cominciato a considerare che le strutture formali delle nostre attività potessero offrire, in qualche modo, una garanzia contro il ritorno del clanismo.
Tali reazioni contro il clanismo rivelano di per sé un’insufficiente assimilazione della nostra analisi e ci disarmano di fronte a questo pericolo. Come abbiamo detto, il clanismo è in parte sorto come una falsa risposta ad un reale problema di mancanza di fiducia e di solidarietà al nostro interno. Inoltre, la distruzione dei rapporti di fiducia e di solidarietà reciproci che realmente esistevano tra i compagni, è dovuta principalmente al lavoro del clanismo e ha costituito un precondizione per un nuovo sviluppo di questo. È prima di tutto il clanismo che ha minato lo spirito di amicizia: la reale amicizia non è mai diretta contro una terza persona e non esclude mai la critica reciproca. Il clanismo ha distrutto la tradizione indispensabile di discussioni politiche e di legami sociali tra i compagni convertendoli in “discussioni informali” alle spalle dell’organizzazione. Accrescendo l’atomizzazione e demolendo la fiducia, intervenendo in modo eccessivo ed irresponsabile nella vita personale dei compagni isolandoli socialmente dall’organizzazione, il clanismo ha minato la solidarietà naturale che deve esprimere il “dovere di rispetto” dell’organizzazione verso le difficoltà personali che possono incontrare i suoi militanti.
È impossibile combattere il clanismo utilizzando le sue armi. Non è la diffidenza verso il pieno sviluppo della vita politica e sociale al di fuori del semplice quadro formale delle riunioni di sezione, ma la vera fiducia in questa tradizione del movimento operaio che ci rende più resistenti al clanismo.
Sullo sfondo di questa diffidenza ingiustificata verso la vita “informale” di un’organizzazione operaia risiede l’utopia piccolo-borghese di una garanzia contro lo spirito di circolo che può condurre solamente al dogma illusorio del catechismo contro il clanismo. Un tale comportamento tende a trasformare gli statuti in leggi rigide, il “dovere di rispetto” in sorveglianza e la solidarietà in un rituale vuoto.
Uno dei modi in cui la piccola borghesia esprime la sua paura del futuro è un dogmatismo morboso che sembra offrire protezione contro il pericolo dell’imprevedibile. È ciò che ha portato la “vecchia guardia” del partito russo ad accusare costantemente Lenin di abbandonare i principi e le tradizioni del bolscevismo. È un tipo di conservatorismo che mina lo spirito rivoluzionario. Nessuno è esente da questo pericolo, come lo dimostra il dibattito nell’Internazionale Socialista sulla questione polacca in cui non solo Wilhem Liebknecht, ma in parte anche Engels hanno adottato un tale atteggiamento quando Rosa Luxemburg ha affermato la necessità di rimettere in causa la vecchia posizione di sostegno dell’indipendenza della Polonia.
In realtà il clanismo, proprio perché è un’emanazione di strati intermedi, instabili, senza futuro, è non solo capace ma anche condannato a prendere delle forme e delle caratteristiche sempre mutevoli. La storia mostra che il clanismo non prende solamente la forma dell’informalismo del bohémien e delle strutture parallele così apprezzate dai declassati, ma che è anche capace di utilizzare le strutture ufficiali dell’organizzazione e l’apparenza del formalismo e della routine piccolo-borghese per promuovere la sua politica parallela. Mentre in un’organizzazione in cui lo spirito di partito è debole e lo spirito di contestazione forte, un clan informale ha più chance di successo, in un’atmosfera più rigorosa dove esiste una grande fiducia negli organi centrali, l’apparenza formale e l’adozione di strutture ufficiali può rispondere perfettamente ai bisogni del clanismo.
In realtà, il clanismo contiene le due facce della medaglia. Storicamente, è condannato a vacillare tra questi due poli che apparentemente si escludono reciprocamente. Nel caso della politica di Bakunin, troviamo i due aspetti contenuti in una “sintesi superiore”: la libertà individuale anarchica assoluta, proclamata dall’alleanza ufficiale, e la fiducia e l’ubbidienza cieca chiesta dall’alleanza segreta:
“Come i gesuiti, non allo dell’asservimento ma dell’emancipazione popolare, ciascuno di essi ha rinunciato alla sua propria volontà. Nel Comitato, come in tutta l'organizzazione, non è l’individuo che pensa, che vuole ed agisce, ma la collettività” scrive Bakunin. Ciò che caratterizza questa organizzazione, continua, è “la fiducia cieca che gli offrono delle personalità conosciute e rispettate”[8].
I rapporti sociali che ci possiamo aspettare che si sviluppino in una tale organizzazione sono chiari: “Tutti i sentimenti di affetto, sentimenti che rammolliscono di parentela, di amicizia, d’amore, di riconoscenza devono essere soffocati dalla passione unica e fredda dell’opera rivoluzionaria”[9]
Qui possiamo vedere chiaramente che il monolitismo non è un’invenzione dello stalinismo, ma è già contenuto nella mancanza di fiducia clanica nel compito storico, nella vita collettiva e nella solidarietà proletaria. Per noi, non c'è niente di nuovo né di sorprendente in ciò. È la paura piccolo-borghese ben nota nei riguardi della responsabilità individuale che, oggigiorno, porta un gran numero di personaggi molto individualisti nelle braccia delle diverse sette in cui possono smettere di pensare e di agire per proprio conto.
È veramente un’illusione credere che si possa combattere il clanismo senza la responsabilizzazione dei singoli membri dell’organizzazione. E sarebbe paranoico pensare che la sorveglianza “collettiva” potrebbe sostituirsi alla convinzione ed alla vigilanza individuale in questa lotta. In realtà, il clanismo incorpora la mancanza di fiducia sia nella vita collettiva reale che nella possibilità di una responsabilità individuale reale.
Quale è la differenza tra le discussioni tra compagni al di fuori delle riunioni e le “discussioni informali” del clanismo? È il fatto che le prime e non le seconde sarebbero rapportate all’organizzazione? Sì, sebbene non sia possibile riportare formalmente ogni discussione. Ma più importante ancora, ciò che fa la differenza è l’atteggiamento con il quale una tale discussione viene condotta. È lo spirito di partito che dobbiamo tutti sviluppare perché nessuno lo farà per noi. Questo spirito di partito resterà sempre lettera morta se i militanti non possono imparare ad avere fiducia gli uni negli altri. Ugualmente non può esserci solidarietà vivente senza un impegno personale di ogni militante su questo piano.
Se la lotta contro lo spirito di circolo dipendesse unicamente dalla salute delle strutture collettive formali, non ci sarebbe mai problema di clanismo nelle organizzazioni proletarie. I clan si sviluppano a causa dell’indebolimento della vigilanza e del senso di responsabilità a livello individuale. È per questo che una parte del Testo di orientamento del 1993[10] è dedicata all’identificazione degli atteggiamenti contro cui ogni compagno deve armarsi. Questa responsabilità individuale è indispensabile, non solo nella lotta contro il clanismo, ma nello sviluppo positivo di una vita proletaria sana. In una tale organizzazione, i militanti hanno imparato a pensare per proprio conto, e la loro fiducia è radicata in una comprensione teorica, politica ed organizzativa della natura della causa proletaria, non nella lealtà o la paura nei confronti di questo o quel compagno o comitato centrale.
“Il ‘corso nuovo’ deve avere come primo risultato di fare sentire a tutti che nessuno oserà mai più terrorizzare il Partito. La nostra gioventù non deve limitarsi a ripetere le nostre formule. Deve conquistarle, assimilarle, formarsi una sua opinione, una sua fisionomia ed essere capace di lottare per la loro vita col coraggio che danno una convinzione profonda ed un’intera indipendenza di carattere. Fuori dal Partito l’ubbidienza passiva che fa seguire meccanicamente il passo dei capi: fuori dal Partito l’impersonalità, il servilismo, il carrierismo! Il bolscevico non è solamente un uomo disciplinato: è un uomo che, in ogni caso e su ogni questione, si forgia un’opinione ferma e la difende coraggiosamente, non solo contro i suoi nemici, ma anche all’interno del suo stesso partito”[11].
E Trotsky aggiunge: “L’eroismo supremo, nell’arte militare come nella rivoluzione, sono la veracità ed il sentimento di responsabilità"[12].
La responsabilità collettiva e la responsabilità individuale, lungi dall’escludersi reciprocamente, dipendono l’una dall’altra e si condizionano a vicenda. Come sviluppato da Plekhanov, l’eliminazione del ruolo dell’individuo nella storia è legata ad un fatalismo incompatibile col marxismo. “Se certi soggettivisti, nei loro sforzi per attribuire a ‘l’individuo’ il massimo di importanza nella storia, rifiutavano di tenere in conto che l’evoluzione storica dell’umanità è un processo che obbedisce a delle leggi, alcuni dei loro più recenti avversari, nel loro sforzo di sottolineare al massimo le leggi che reggono questa evoluzione, sono apparsi sul punto di dimenticare che la storia è fatta dagli uomini e che, di conseguenza, l’azione degli individui non può essere privata di importanza”[13].
Un tale rigetto della responsabilità individuale è ugualmente legata al democraticismo piccolo borghese, al desiderio di rimpiazzare il nostro principio “del ciascuno secondo i propri mezzi” con l’utopia reazionaria dell’egualitarismo dei membri di un corpo collettivo. Questo progetto, già condannato nel Testo di Orientamento del 1993, non costituisce né un obiettivo dell’organizzazione oggi né quello della futura società comunista.
Uno dei compiti che abbiamo tutti, è di apprendere dall’esempio di tutti i grandi rivoluzionari (quelli celebri e tutti i combattenti anonimi della nostra classe) che non hanno tradito i nostri principi programmatici ed organizzativi. Ciò non ha niente a che vedere con un qualsiasi culto della personalità. Come si legge nella conclusione di Plekhanov nel celebre saggio sul ruolo dell’individuo: “Non è solo per quelli che cominciano, non è solo per i “grandi” uomini, che si apre un largo campo d’azione. Esso è aperto a tutti gli uomini, a tutti quelli che hanno degli occhi per vedere, degli orecchi per sentire ed un cuore per amare il loro prossimo. La nozione di grandioso è relativa. Nel senso morale, e citando Il nuovo testamento, è grande qualunque uomo che dà la propria vita per i suoi amici”.
A mo’ di conclusione
Da ciò segue che l’assimilazione e l’approfondimento delle questioni che abbiamo cominciato a discutere da più di un anno costituiscono oggi una priorità assoluta.
Il compito della coscienza è di creare il quadro politico e organizzativo che favorisca al meglio lo sviluppo della fiducia e della solidarietà. Questo compito è centrale nella costruzione dell’organizzazione, arte o scienza tra le più difficili. Alla base di questo lavoro si trova il rafforzamento dell’unità dell’organizzazione, principio che è il più “sacro” del proletariato. E come per ogni comunità collettiva, la sua premessa è l’esistenza di regole di comportamento comuni. Concretamente, gli Statuti, i testi del 1981 sulla funzione e il funzionamento e del 1993 sul tessuto organizzativo danno già degli elementi per un tale quadro. È necessario ritornare, in maniera ripetuta, su questi testi, e soprattutto quando l’unità dell’organizzazione è in pericolo. Essi devono essere il punto di partenza di una vigilanza permanente.
A questo livello, l’incomprensione principale nei nostri ranghi è l’idea che queste questioni siano facili e semplici. Secondo questo atteggiamento, basta decretare la fiducia perché questa esista. E poiché la solidarietà è un’attività pratica, basta “just go and do it” (solo metterla in opera). Niente è più falso di questo! La costruzione dell’organizzazione è un’impresa estremamente complicata ed anche delicata. E non esiste alcun prodotto della cultura umana che sia così difficile e fragile come la fiducia. Nessuna cosa è più difficile da costruire e così facile da distruggere. È per questo che, di fronte a questa o quella mancanza di fiducia da parte di questa o quella parte dell’organizzazione, la prima questione che deve essere posta sempre è ciò che può essere fatto, collettivamente, per ridurre la diffidenza o anche la paura al nostro interno. Lo stesso vale per la solidarietà: benché questa sia “pratica” e anche “naturale” per la classe operaia, quest’ultima vive nella società borghese ed è circondata da fattori che lavorano contro tale solidarietà. Inoltre, la penetrazione di un’ideologia straniera porta alle concezioni aberranti su questa questione, come il recente atteggiamento di considerare il rifiuto di pubblicare i testi di compagni come un’espressione di solidarietà, o di trovare come base valida per un dibattito sulla fiducia la spiegazione delle origini di certe divergenze politiche nella vita personale dei compagni (…)[14].
In particolare nella lotta per la fiducia, la nostra parola d'ordine deve essere prudenza e ancora prudenza.
La teoria marxista è la nostra arma principale nella lotta contro la perdita di fiducia. In generale, è il mezzo privilegiato per resistere all’immediatismo e per difendere una visione a lungo termine. È la sola base possibile per una fiducia reale, scientifica nel proletariato che è a sua volta la base della fiducia di tutte le differenti parti della classe in sé e delle une nelle altre. Specificamente, solo un approccio teorico ci permette di andare alle radici più profonde dei problemi organizzativi che devono essere trattati a pieno titolo come questioni teoriche e storiche. Allo stesso modo, in assenza di una tradizione vivente su questa questione e in assenza finora della prova del fuoco della repressione, la CCI deve basarsi su uno studio del movimento operaio del passato nello sviluppo volontario e cosciente di una tradizione di solidarietà attiva e di una vita sociale al suo interno.
Se la storia ci ha reso particolarmente vulnerabili nei confronti dei pericoli del clanismo, ci ha anche dato i mezzi per superarli. In particolare, non dobbiamo mai dimenticare che il carattere internazionale dell’organizzazione e la creazione di commissioni di informazioni sono i mezzi indispensabili per restaurare la fiducia reciproca nei momenti di crisi quando questa fiducia è stata danneggiata e persa.
Il vecchio Liebknecht ha detto di Marx che lui trattava la politica come un argomento di studio[15]. Come abbiamo detto, è l’allargamento della zona della coscienza nella vita sociale che libera l’umanità dall'anarchia delle forze cieche, rendendo possibili la fiducia, la solidarietà e la vittoria del proletariato. Per superare le difficoltà presenti e risolvere le questioni poste, la CCI deve studiarle perché, come diceva il filosofo, “l’ignorantia non est argumentum” (L’ignoranza non è un argomento). (“L'etica”, Spinoza)
CCI 15 giugno 2001
[1] Per maggiori informazioni su questa Conferenza vedi l’articolo “La lotta per la difesa dei principi organizzativi” (Rivista Internazionale n°110, in lingua inglese, francese o spagnola).
[2] Il 18 Brumaio
[3] Kautsky, La concezione materialistista della storia.
[4] Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche.
[5] MC è il nostro compagno Marc Chirik, morto nel 1990. Lui aveva conosciuto direttamente la Rivoluzione del 1917 nella sua città di Kichinev in Moldavia. Era stato membro fin dall’età di 13 anni del partito comunista di Palestina da cui era stato espulso a causa del suo disaccordo con le posizioni dell’Internazionali comunista sulla questione nazionale. Immigrato in Francia, era entrato nel PCF prima di esserne espulso contemporaneamente all’insieme delle opposizioni di Sinistra. Era stato membro della Ligue communiste (trotskista) poi dell’Union Communiste (UC) che aveva lasciato nel 1938 per raggiungere la Frazione italiana della Sinistra comunista internazionale (GCI), di cui condivideva la posizione sulla guerra di Spagna contro quella dell’UC. Durante la guerra e l’occupazione tedesca, ha dato impulso alla ricostituzione della Frazione italiana intorno al nucleo di Marsiglia dopo che il Bureau internazionale della GCI, animato da Vercesi, aveva considerato che le frazioni non avessero più ragione di continuare il loro lavoro durante la guerra. Nel maggio 1945 si è opposto all’autoscioglimento della Frazione italiana la cui conferenza aveva deciso l’integrazione individuale dei suoi militanti nel Partito comunista internazionalista fondato poco prima. Ha raggiunto la Frazione francese della Sinistra comunista che si era costituita nel 1944 e che in seguito si è ribattezzata Sinistra comunista di Francia (GCF). A partire dal 1964 in Venezuela e dal 1968 in Francia, MC ha sostenuto un ruolo decisivo nella formazione dei primi gruppi da cui avrebbe avuto origine la CCI alla quale ha apportato l’esperienza politica ed organizzativa che aveva acquisito nelle diverse organizzazioni comuniste di cui era stato precedentemente membro. Si troveranno ulteriori elementi sulla biografia politica del nostro compagno nel nostro opuscolo La Gauche communiste de France e nell’articolo che la Rivista Internazionale (in lingua inglese, francese e spagnola) gli ha dedicato, nei numeri 65 e 66.
Il testo di MC qui evocato è un contributo al dibattito interno della CCI intitolato Marxismo rivoluzionario e centrismo nella realtà presente ed il dibattito attuale nella CCI, pubblicato a marzo 1984.
[6] Il 18 Brumaio
[7] Corrispondenza con K. Zetkin.
[8] Bakunin, “Appello agli ufficiali dell’esercito russo” (traduzione francese ne La prima internazionale T.11, da Giacomo Freymont, Ginevra 1962).
[9] Bakunin, Il catechismo rivoluzionario (Ibid)
[10] Si tratta del testo “La questione del funzionamento dell’organizzazione nella CCI” pubblicato nella Rivista internazionale n°109 (in lingua inglese, francese o spagnola).
[11] Trotskv, Corso nuovo
[12] Sul routinisme nell’esercito ed altrove.
[13] “A proposito del ruolo dell’individuo nella storia”, Opere filosofiche, Volume II, Éditions du Progrès.
[14] Questo passaggio fa riferimento principalmente a fatti che abbiamo già evocato nel nostro articolo “La lotta per la difesa dei principi organizzativi” (Rivista Internationale n°110, in lingua inglese, francese o spagnola) che riporta la nostra Conferenza straordinaria del marzo 2002 e le difficoltà organizzative che avevano motivato la sua tenuta: “Che delle parti dell’organizzazione facessero delle critiche ad un testo adottato dall’organo centrale della CCI non aveva mai costituito un problema per quest'ultima. Al contrario, la CCI ed il suo organo centrale hanno sempre insistito affinché ogni divergenza, ogni dubbio si esprimesse apertamente all’interno dell’organizzazione per fare la massima chiarezza possibile. L’atteggiamento dell’organo centrale, quando si trovava di fronte a dei disaccordi, era di rispondervi con la massima serietà possibile. Ora, a partire dalla primavera 2000, la maggioranza dell’SI (Segreteriato internazionale, la commissione permanente dell’organo centrale della CCI) ha adottato un atteggiamento completamente opposto. Piuttosto che sviluppare delle argomentazioni serie, ha adottato un atteggiamento totalmente contrario a quello lo aveva caratterizzato in passato. Nella sua mente, se una piccola minoranza di compagni faceva delle critiche ad un testo dell’SI, ciò doveva esprimere necessariamente spirito di contestazione, o anche il fatto che uno di loro aveva dei problemi familiari, che l’altro era colpito da una malattia psichica. (...) La risposta data agli argomenti dei compagni in disaccordo non era dunque basata su altri argomenti, ma su delle denigrazioni di questi compagni o decisamente sul tentativo di non pubblicare alcuni dei loro contributi con l’argomento che questi ultimi andavano “a buttare merda sull’organizzazione”, o ancora che una delle compagne che era toccata dalla pressione che si sviluppava intorno a lei “non avrebbe sopportato” le risposte che altri militanti della CCI avrebbero fatto ai suoi testi. Insomma, la maggioranza dell’SI, in maniera totalmente ipocrita, sviluppava una politica di soffocamento dei dibattimenti in nome della solidarietà.
[15] K Wilhem Liebknecht, Karl Marx
La CCI ha tenuto il suo 19° congresso lo scorso maggio. Il congresso costituisce, in generale, il momento più importante della vita delle organizzazioni rivoluzionarie e, dal momento che queste sono parti integranti della classe operaia, è loro compito portare a conoscenza di quest’ultima le principali conclusioni del loro congresso. E’ quello che ci proponiamo con questo articolo. La prima cosa da segnalare subito è che lo stesso congresso ha messo in pratica questa volontà di apertura verso l’esterno dell’organizzazione visto che, oltre alle delegazioni delle sezioni della CCI erano presenti non solo dei suoi simpatizzanti o membri di circoli di discussione ai quali militanti della CCI partecipano, ma anche delle delegazioni di altri gruppi con cui la CCI è in contatto e in discussione, due gruppi della Corea e Opop del Brasile[1]. Altri gruppi erano stati invitati e avevano accettato l’invito, ma non sono potuti venire a causa degli ostacoli sempre più severi che la borghesia europea oppone ai cittadini dei paesi non europei.
Secondo gli statuti della nostra organizzazione:
«Il Congresso internazionale è l’organo sovrano della CCI. Come tale esso ha per compiti di:
- elaborare le analisi e gli orientamenti generali dell’organizzazione, in particolare per quanto riguarda la situazione internazionale;
- esaminare e fare il bilancio delle attività dell’organizzazione dopo il congresso precedente;
- definire le sue prospettive di lavoro per il futuro.»
E’ a partire da questi elementi che si può tirare il bilancio e gli insegnamenti del 19° congresso.
Il primo punto che è importante affrontare è quello delle nostre analisi e discussioni sulla situazione internazionale. In effetti se l’organizzazione non è capace di elaborare una comprensione chiara di questa situazione, essa non è capace di intervenirvi in maniera appropriata. La storia ci ha insegnato come può essere catastrofica una valutazione sbagliata della situazione internazionale da parte delle organizzazioni rivoluzionarie. Come caso più drammatico si può ricordare la sottovalutazione del pericolo di guerra da parte della maggioranza della II Internazionale alla vigilia della prima carneficina imperialista mondiale, laddove nel periodo precedente, sotto l’impulso della Sinistra dell’Internazionale, i suoi congressi avevano correttamente messo in guardia contro questo pericolo e avevano chiamato il proletariato alla mobilitazione contro di esso.
Un altro esempio è quello dell’analisi fatta da Trotsky durante gli anni trenta, quando lui vedeva negli scioperi operai in Francia del 1936 o nella guerra civile in Spagna le premesse di una nuova ondata rivoluzionaria internazionale. Questa analisi lo portò a fondare, nel 1938, una «IV Internazionale» che doveva, di fronte alla «politica conservatrice dei partiti comunisti e socialisti», prendere il loro posto alla testa «delle masse di milioni di uomini [che] si impegnano senza tregua sulla via della rivoluzione». Questo errore contribuì fortemente al passaggio delle sezioni della IV Internazionale nel campo borghese nel corso della Seconda Guerra Mondiale : volendo ad ogni costo «restare incollati alle masse», esse si sono infognate nelle politiche della «Resistenza» condotte dai partiti socialisti e «comunisti», cioè nel sostegno al campo imperialista degli Alleati.
Per venire più vicini a noi, si è visto come certi gruppi che si richiamavano alla Sinistra Comunista siano rimasti ai margini dello sciopero generale del Maggio ’68 in Francia e dell’insieme del movimento internazionale di lotte operaie che l’hanno seguito, perché lo consideravano un «movimento di studenti». Si è anche assistito al triste destino di altri gruppi, che, considerando che il maggio ’68 fosse una «rivoluzione», sono caduti nella disperazione e sono infine scomparsi quando questo movimento non ha mantenuto le promesse che essi vi avevano visto.
Oggi è della più grande importanza per i rivoluzionari elaborare un’analisi corretta delle prospettive della situazione internazionale perché queste prospettive hanno acquisito, negli ultimi tempi, un’importanza tutta particolare.
Poiché in questo stesso numero pubblichiamo la risoluzione adottata dal Congresso non è necessario ritornare sui punti trattati in essa. Vogliamo sottolinearne solo gli aspetti più importanti.
Il primo, il più fondamentale è il passo decisivo fatto dalla crisi del capitalismo con la crisi del debito statale di certi Stati europei come la Grecia.
"Nei fatti, questo fallimento potenziale di un numero crescente di Stati costituisce una nuova tappa nello sprofondamento del capitalismo nella sua crisi irrisolvibile. Esso mette in rilievo i limiti delle politiche con cui la borghesia è riuscita a frenare l’evoluzione della crisi capitalista da diversi decenni. (…) le misure adottate dal G20 di marzo 2009 per evitare una nuova «grande depressione» sono significative della politica condotta da diversi decenni da parte della classe dominante : essa si riassume nell’iniezione nelle economie di masse considerevoli di crediti. Queste misure non sono nuove. Nei fatti da più di 35 anni esse costituiscono il cuore delle politiche portate avanti dalla classe dominante per cercare di sfuggire alla contraddizione principale del modo di produzione capitalista: la sua incapacità a trovare dei mercati solvibili capaci di assorbire la sua produzione (…) Il potenziale fallimento del sistema bancario e la recessione hanno obbligato tutti gli Stati a iniettare delle somme considerevoli nelle loro economie mentre le vendite erano in caduta libera per la riduzione della produzione. Per questo motivo i deficit pubblici hanno conosciuto, nella gran parte dei paesi, un aumento considerevole. Per i più esposti tra questi, come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo, ciò ha significato una situazione di potenziale fallimento, l’incapacità di pagare i loro funzionari e di rimborsare i loro debiti. (…) I “piani di salvataggio” di cui esse hanno beneficiato da parte della Banca europea e del Fondo monetario internazionale costituiscono dei nuovi debiti il cui rimborso si aggiunge a quello dei debiti precedenti. E’ più che un circolo vizioso, è una spirale infernale. (…) La crisi del debito sovrano dei PIIGS (Portogallo, Islanda, Irlanda, Grecia, Spagna) costituisce solo una parte infima del terremoto che minaccia l’economia mondiale. Non è certo perché beneficiano ancora per il momento del rating AAA come indice di fiducia delle agenzie di rating … che le grandi potenze industriali se la cavano molto meglio… la prima potenza mondiale corre il rischio di vedersi ritirata la fiducia “ufficiale” sulla sua capacità di rimborsare i suoi debiti, se non con un dollaro fortemente svalutato…per tutti i paesi, la situazione é solo peggiorata nonostante i diversi piani di rilancio…Pertanto il fallimento dei PIIGS costituisce solo la punta di un iceberg che nasconde il fallimento di un’economia mondiale che deve la sua sopravvivenza ormai da decenni alla disperata fuga in avanti nell’indebitamento. (…) la crisi dell’indebitamento marca l’entrata del modo di produzione capitalista in una nuova fase della sua crisi acuta in cui si aggravano ulteriormente la violenza e l’estensione delle sue convulsioni. Non c’è via di “uscita dal tunnel” per il capitalismo. Questo sistema può solo condurre la società in una crescente barbarie.”
Il periodo successivo al congresso ha confermato questa analisi. Da una parte, la crisi dei debiti sovrani dei paesi europei, che adesso è chiaro che non riguarda solo i «PIIGS» (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) ma minaccia tutta la zona Euro, ha cominciato ad occupare l’attualità in maniera sempre più insistente. E non è il presunto «successo» del vertice europeo del 22 luglio sulla Grecia che cambierà granché le cose. Tutti i precedenti vertici avevano preteso di aver risolto in maniera duratura le difficoltà incontrate da questo paese, e oggi vediamo con che efficacia!
D’altra parte, nello stesso momento, con le difficoltà incontrate da Obama per far adottare la sua politica economica, i mezzi di informazione «scoprono» che anche gli Stati Uniti sono afflitti da un debito sovrano colossale, il cui livello (130% del PIL) non ha niente da invidiare a quello dei PIIGS. Questa conferma delle analisi che erano state fatte al congresso non deriva da nessun merito speciale della nostra organizzazione. Il solo «merito» che noi rivendichiamo è quello di essere fedeli alle analisi classiche del movimento operaio che hanno sempre, dopo lo sviluppo della teoria marxista, messo in avanti il fatto che il modo di produzione capitalista, come i precedenti, non era che transitorio e che esso non potrà, alla fine, superare le sue contraddizioni economiche. E’ in questo quadro dell’analisi marxista che si è sviluppata la discussione al congresso. Si sono anche espressi diversi punti di vista, in particolare sulle cause ultime delle contraddizioni del capitalismo (che richiamano in gran parte quelli espressi nel nostro dibattito sul boom economico del dopoguerra[2]) o anche sulla possibilità che l’economia mondiale cada nell’iperinflazione a causa dell’utilizzazione sfrenata da parte degli Stati della stampa di carta moneta, in particolare gli Stati Uniti. Ma c’è stata una omogeneità reale nel sottolineare tutta la gravità della situazione attuale, come affermato nella risoluzione approvata all’unanimità.
Il congresso ha anche discusso sull’evoluzione dei conflitti imperialisti, come riportato nella risoluzione. Su questo piano i due anni che ci separano dal precedente congresso non hanno portato elementi fondamentalmente nuovi, se non una conferma del fatto che , malgrado tutti i suoi sforzi militari, la prima potenza mondiale si mostra incapace di ristabilire la leadership che aveva esercitato al momento della Guerra Fredda e che il suo impegno in Iraq e in Afganistan non hanno potuto stabilire una «Pax americana» sul mondo, al contrario: «Il “nuovo ordine mondiale” predetto 20 anni fa da Georg Bush padre, e che lui sognava sotto l’egida degli Stati Uniti, non può che presentarsi sempre più come un “caos mondiale”, un caos che le convulsioni dell’economia capitalista non potranno che aggravare ancora. “ (punto 8 della risoluzione).
Era naturalmente importante che il congresso si occupasse in particolare dell’attuale evoluzione della lotta di classe, dal momento che, al di là dell’importanza primaria che questa questione ha per i rivoluzionari, il proletariato si confronta oggi in tutti i paesi a degli attacchi senza precedenti alle sue condizioni di esistenza. Questi attacchi sono particolarmente brutali nei paesi messi sotto tutela dalla Banca Europea e dal Fondo Monetario Internazionale, come la Grecia. Ma essi si scatenano in tutti i paesi con l’esplosione della disoccupazione e soprattutto a seguito della necessità per tutti i governi di ridurre i deficit di bilancio.
La risoluzione adottata al precedente congresso metteva avanti che: “la forma principale che prende oggi questo attacco,quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti [lotte di massa] . Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.”
Il 19° congresso ha constatato che: “I due anni che ci separano dal precedente congresso hanno ampiamente confermato questa previsione. Questo periodo non ha conosciuto lotte ampie contro i licenziamenti di massa e contro la crescita senza precedenti della disoccupazione subiti dalla classe operaia nei paesi più sviluppati. Al contrario, è a partire dagli attacchi portati direttamente dai governi in applicazione dei piani di “risanamento dei conti pubblici” che hanno cominciato a svilupparsi delle lotte significative.”
Tuttavia il Congresso ha dovuto constatare che: “Questa risposta è ancora molto timida, particolarmente là dove questi piani di austerità hanno preso le forme più violente, in paesi come la Grecia o la Spagna per esempio dove, tuttavia, la classe operaia aveva dato prova nel recente passato di una combattività relativamente importante. In un certo modo sembra che la brutalità stessa degli attacchi provochi un sentimento d’impotenza nei ranghi operai, tanto più che questi attacchi sono condotti da governi “di sinistra”.
In seguito la classe operaia ha mostrato in questi stessi paesi che essa non si rassegnava. Lo si è visto in particolare in Spagna,dove il movimento degli «Indignati» è diventato per parecchi mesi una specie di «faro» per gli altri paesi d’Europa o di altri continenti.
Questo movimento è cominciato nel momento stesso in cui si svolgeva il congresso e questo non ha potuto, evidentemente, discuterne. Viceversa il congresso si è soffermato sui movimenti sociali che avevano toccato i paesi arabi alla fine dello scorso anno. In proposito non c’è stata una omogeneità totale, anche per il loro carattere inedito, ma l’insieme del congresso si è ritrovato sull’analisi che si trova nella risoluzione: «i movimenti più di massa che si sono conosciuti nel corso dell’ultimo periodo non sono venuti dai paesi più industrializzati ma dai paesi della periferia del capitalismo, particolarmente in un certo numero di paesi del mondo arabo, e specificamente la Tunisia e l’Egitto dove, alla fine, dopo aver tentato di soffocarli con una feroce repressione, la borghesia è stata costretta a licenziare i dittatori del posto. Questi movimenti non erano delle lotte operaie classiche come ce n’erano state in questi stessi paesi in un recente passato (vedi ad esempio le lotte a Gafsa in Tunisia nel 2008 o gli ampi scioperi nell’industria tessile in Egitto, durante l’estate del 2007, che ricevettero la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori). Infatti hanno preso spesso la forma di rivolte sociali in cui si trovavano associati ogni sorta di settore della società: lavoratori del settore pubblico e privato, disoccupati, ma anche dei piccoli commercianti, degli artigiani, le professioni libere, la gioventù scolarizzata, ecc. E’ per questo che il proletariato, il più delle volte, non è comparso direttamente in maniera distinta (come è apparso, per esempio, negli scioperi in Egitto verso la fine delle rivolte), ancor meno assumendo il ruolo di forza dirigente. Tuttavia, all’origine di questi movimenti (cosa che si rifletteva in molte delle rivendicazioni portate avanti) si trovano fondamentalmente le stesse cause che sono all’origine delle lotte operaie negli altri paesi: l’aggravamento considerevole della crisi, la miseria crescente che questa provoca all’interno di tutta la popolazione non sfruttatrice. E se in generale il proletariato non é apparso direttamente come classe in questi movimenti, la sua impronta era ben presente in questi paesi dove ha avuto un peso notevole, particolarmente attraverso la profonda solidarietà che si è manifestata nelle rivolte, la loro capacità di evitare di lanciarsi in atti di violenza cieca e disperata malgrado la terribile repressione che hanno dovuto affrontare. In fin dei conti, se la borghesia in Tunisia e in Egitto si é finalmente decisa, spinta anche dai buoni consigli della borghesia americana, a sbarazzarsi dei vecchi dittatori, è in gran parte a causa della presenza della classe operaia in questi movimenti.”
Questo riemergere della classe operaia nei paesi della periferia del capitalismo ha portato il congresso a tornare all’analisi elaborata dalla nostra organizzazione al momento dello sciopero di massa del 1980 in Polonia: «Allora la CCI aveva messo avanti, basandosi sulle posizioni elaborate da Marx ed Engels, che è dai paesi centrali del capitalismo, e in particolare dai vecchi paesi industriali dell’Europa occidentale, che verrà il segnale della rivoluzione proletaria mondiale, grazie alla concentrazione del proletariato in questi paesi, e più ancora per la sua esperienza storica, che gli danno le migliori armi per smascherare finalmente le trappole ideologiche più sofisticate messe in atto da lungo tempo da parte della borghesia. Così una delle tappe fondamentali del movimento della classe operaia mondiale nel futuro sarà costituita non solo dallo sviluppo di lotte di massa nei paesi dell’Europa occidentale, ma anche per la loro capacità a smascherare le trappole democratiche e sindacali, in particolare attraverso la presa in mano delle lotte da parte dei lavoratori stessi. Questi movimenti costituiranno un faro per la classe operaia mondiale, ivi compresa quella della principale potenza capitalista, gli Stati Uniti, la cui caduta in una miseria crescente, una miseria che tocca già decine di milioni di lavoratori, sta per trasformare il ‘sogno americano’ in un vero incubo.»
Questa analisi ha conosciuto una prima verifica con il recente movimento degli ‘Indignati’. Mentre i manifestanti di Tunisi o del Cairo imbracciavano la bandiera nazionale come emblema della loro lotta, le bandiere nazionali erano assenti nella maggior parte delle città europee alla fine della scorsa primavera (in Spagna in particolare). Certo, il movimento degli ‘indignati’ è ancora fortemente intriso di illusioni democratiche, ma esso ha il merito di mettere in evidenza che ogni Stato, anche il più ‘democratico’ e anche se vestito di ‘sinistra’, è un nemico feroce degli sfruttati.
Come si è ricordato prima, la capacità delle organizzazioni rivoluzionarie di analizzare correttamente la situazione storica in cui esse si trovano, anche sapendo eventualmente rimettere in discussioni delle analisi che sono state inficiate dalla realtà dei fatti, condiziona la qualità, nella forma come nel contenuto, del loro intervento in seno alla classe operaia, cioè, in fin dei conti, della loro capacità di essere all’altezza delle responsabilità per cui quest’ultima le ha fatte sorgere.
Il 19° congresso della CCI, sulla base dell’esame della crisi economica, dei terribili attacchi che questa scatenerà contro la classe operaia e sulla base delle prime risposte di questa a questi attacchi, ha considerato che noi stiamo entrando in un periodo di sviluppo di lotte proletarie ben più intense e massicce di quelle che si sono avute dal 2003 ad oggi. In questo campo, forse ancora più che in quello dell’evoluzione della crisi che lo condiziona fortemente, è difficile fare delle previsioni a breve termine. Sarebbe illusorio cercare dove e quando si svilupperanno le prossime lotte importanti della classe. Quello che è importante fare, piuttosto, è tracciare una tendenza generale ed essere particolarmente vigilanti di fronte all’evoluzione della situazione per poter reagire rapidamente ed in modo appropriato quando questa lo richiederà sia in termini di prese di posizione che di intervento diretto nelle lotte.
Il 19° congresso ha valutato che il bilancio dell’intervento della CCI dopo il precedente congresso era indiscutibilmente positivo. Tutte le volte che è stato necessario, e spesso in maniera molto rapida, prese di posizione sono state pubblicate in numerose lingue sul nostro sito internet e sulla nostra stampa cartacea dei diversi paesi. Nella misura delle nostre deboli forze, questa è stata diffusa largamente nelle manifestazioni che hanno accompagnato i movimenti sociali che ci sono stati nello scorso periodo, in particolare al momento del movimento contro la riforma delle pensioni nell’autunno 2010 in Francia o al momento delle mobilitazioni della gioventù scolarizzata contro gli attacchi che toccavano in particolare gli studenti provenienti dalla classe operaia (come l’aumento consistente delle tasse di iscrizione nelle università britanniche alla fine del 2010). Parallelamente la CCI ha tenuto delle riunioni Pubbliche in numerosi paesi e su diversi continenti sui movimenti sociali in corso. Ancora, dei militanti della CCI sono intervenuti, ogni volta che è stato possibile, nelle assemblee, nei comitati di lotta, nei circoli di discussione, nei forum Internet per sostenere le analisi e le posizioni dell’organizzazione e partecipare al dibattito internazionale che questi movimenti avevano suscitato.
Questo bilancio non è un atto propagandistico destinato a consolare i militanti o ingannare quelli che leggeranno questo articolo. Esso può essere verificato, e contestato, da tutti quelli che hanno seguito le attività della nostra organizzazione, dal momento che stiamo parlando di attività pubbliche.
Il congresso ha anche tirato un bilancio positivo del nostro intervento verso elementi e gruppi che difendono delle posizioni comuniste o che si avvicinano a queste posizioni.
In effetti, la prospettiva di uno sviluppo significativo delle lotte operaie porta con sé quella della formazione di minoranze rivoluzionarie. Prima ancora che il proletariato mondiale non si sia impegnato in lotte di massa, si è potuto constatare (come era stato riscontrato già nella risoluzione adottata dal 17° congresso[3]) che questa formazione cominciava a intravedersi, come conseguenza del fatto che a partire dal 2003 la classe operaia aveva cominciato a superare il riflusso che aveva subito in seguito al crollo del cosiddetto blocco ‘socialista’ nel 1989 e alle forti campagne sulla ‘fine del comunismo’, se non addirittura ‘fine della lotta di classe’. In seguito, anche se in maniera ancora timida, questa tendenza si è confermata, il che ha portato allo stabilirsi di contatti e discussioni con elementi e gruppi in un numero significativo di paesi. «Questo fenomeno di sviluppo di contatti riguarda sia paesi in cui la CCI non ha sezioni, che altri in cui è già presente. Tuttavia l’afflusso dei contatti non è immediatamente riscontrabile a livello di ogni paese in cui la CCI esiste. Si può anche dire che le sue manifestazioni più evidenti sono ancora riservate a una minoranza delle sezioni della CCI.» (Presentazione al congresso del rapporto sui contatti).
Nei fatti, molto spesso, i nuovi contatti della nostra organizzazione sono apparsi in paesi in cui non esiste (o non esiste ancora) una sua sezione. E’ quello che si è potuto constatare per esempio al momento della conferenza ‘panamericana’ che si è tenuta nel novembre 2010 e in cui erano presenti, oltre ad Opop e altri compagni del Brasile, dei compagni del Perù, di S. Domingo e dell’Equador[4]. Per lo sviluppo di questi contatti «il nostro intervento verso questi ultimi ha conosciuto una accelerazione molto importante, che ha richiesto un investimento militante e finanziario superiore a quanto avevamo fatto nel passato per questa attività, cosa che ha permesso che abbiano avuto luogo gli incontri e le discussioni più numerose e ricche della nostra esistenza» (Rapporto sui contatti presentato al congresso).
Questo rapporto «mette l’accento sulle novità della situazione riguardante i contatti, in particolare la nostra collaborazione con gli anarchici. Noi siamo riusciti, in certe occasioni, a fare causa comune nelle lotte con elementi o gruppi che si trovano nel nostro stesso campo, quello dell’internazionalismo.» (Presentazione del rapporto al congresso). Questa collaborazione con elementi e gruppi che si richiamano all’anarchismo ha suscitato al nostro interno numerose e ricche discussioni che ci hanno permesso di conoscere meglio i diversi aspetti di questa corrente e in particolare di capire tutta l’eterogeneità esistente al suo interno (dal puro gauchisme, pronto a sostenere ogni tipo di movimenti o ideologie borghesi, come il nazionalismo, fino ad elementi chiaramente proletari e difensori di un internazionalismo irreprensibile).
«Un’altra novità è a nostra collaborazione, a Parigi, con elementi che si richiamano al trotskysmo (…) Essenzialmente questi elementi (…) erano molto attivi [durante la mobilitazione contro la riforma delle pensioni] nel senso di favorire la presa in carico da parte della classe operaia delle sue lotte, al di fuori del quadro sindacale e favorivano lo sviluppo della discussione tra i lavoratori, proprio come avrebbe fatto la CCI. Perciò noi avevamo tutte le ragioni per associarci ai loro sforzi. Che poi il loro atteggiamento fosse in contraddizione con la pratica classica del trotzkismo, non può che andarci bene.» (Presentazione del rapporto)
Così il congresso ha potuto tirare un bilancio positivo della politica della nostra organizzazione verso gli elementi che difendono le posizioni rivoluzionarie o che si stanno avvicinando ad esse. Questa è una parte importante del nostro intervento verso la classe operaia, quella che partecipa alla futura costituzione di un partito rivoluzionario, indispensabile per il trionfo della rivoluzione comunista[5].
Ogni discussione sulle attività di una organizzazione rivoluzionaria deve puntare al bilancio del suo funzionamento. E’ su questo piano che il congresso, sulla base dei differenti rapporti, ha constatato le più grandi debolezze nella nostra organizzazione. Abbiamo già trattato pubblicamente, nella nostra stampa o anche in riunioni pubbliche, delle difficoltà organizzative che la CCI ha potuto conoscere per il passato. Non è esibizionismo, ma una pratica classica del movimento operaio. Il congresso si è lungamente soffermato su queste difficoltà e in particolare sullo stato a volte degradato del tessuto organizzativo e del lavoro collettivo che pesa su un certo numero di sezioni. Noi non pensiamo che la CCI conosce oggi una crisi come fu il caso nel 1981, 1993 o 2001. Nel 1981 ci fu l’abbandono da parte di una fetta significativa dell’organizzazione dei principi politici e organizzativi su cui essa era stata fondata, cosa che provocò convulsioni abbastanza serie e in particolare la perdita della metà della nostra sezione in Gran Bretagna. Nel 1993 e nel 2001, la CCI ha dovuto affrontare delle difficoltà di tipo clanico che avevano provocato il rigetto della lealtà organizzativa e nuove perdite di militanti (in particolare dei membri della sezione di Parigi nel 1995 e dei membri dell’organo centrale nel 2001)[6]. Tra le cause di queste due ultime crisi, la CCI ha identificato il peso delle conseguenze del crollo del blocco ‘socialista’, che ha provocato un riflusso importante nella coscienza del proletariato mondiale, e più in generale della decomposizione sociale che affligge oggi la moribonda società capitalista. Le cause delle difficoltà attuali sono in parte dello stesso ordine, ma esse non comportano fenomeni di perdita di convinzione o di slealtà. Tutti i militanti delle sezioni in cui queste difficoltà si manifestano sono fermamente convinti della validità della lotta condotta dalla CCI, sono totalmente leali verso di essa e continuano a manifestare la loro devozione nei suoi confronti. Mentre la CCI ha dovuto far fronte al periodo più nero conosciuto dalla classe operaia dalla fine della controrivoluzione marcata dal botto del Maggio 1968 in Francia, quello di un riflusso generale della sua coscienza e della sua combattività a partire dall’inizio degli anni ’90, questi militanti sono rimasti «fedeli al loro posto». Molto spesso questi compagni si conoscono e militano insieme da più di trenta anni. Per questo spesso ci sono tra di loro legami di amicizia e fiducia solidi. Ma i piccoli difetti, le piccole debolezze, le differenze di carattere che ognuno deve poter accettare presso gli altri hanno spesso condotto allo sviluppo di tensioni o di una difficoltà crescente a lavorare insieme per decine di anni in piccole sezioni che non sono state irrigate di ‘sangue nuovo’, di nuovi militanti, proprio a causa del riflusso generale subito dalla classe operaia. Oggi questo ‘sangue nuovo’ comincia ad alimentare certe sezioni della CCI, ma è chiaro che questi nuovi membri non potranno essere correttamente integrati se non con un miglioramento del suo tessuto organizzativo. Il congresso ha discusso con molta franchezza di queste difficoltà, cosa che ha spinto qualcuno dei gruppi invitati a parlare anch’esso delle proprie difficoltà organizzative. Tuttavia non è stata apportata nessuna ‘soluzione miracolosa’ a queste difficoltà che erano state già in precedenti congressi. La risoluzione sulle attività che il congresso ha adottato ricorda il comportamento che l’organizzazione ha già adottato e chiama l’insieme dei militanti e sezioni a prenderlo in carico con più sistematicità:
«A partire dal 2001, la CCI si è impegnata in un progetto teorico ambizioso che è stato concepito, tra l’altro, per spiegare e sviluppare cosa è la militanza comunista (e quindi lo spirito di partito). C’è voluto uno sforzo creativo per capire a livello più profondo:
· le radici della solidarietà e della fiducia proletaria;
· la morale e la dimensione etica del marxismo;
· la democrazia e il democraticismo e la loro ostilità verso la militanza comunista;
· la psicologia e l’antropologia e il loro rapporto con il progetto comunista;
· il centralismo e il lavoro collettivo;
· la cultura del dibattito proletario;
· il marxismo e la scienza
In breve, la CCI si è impegnata in uno sforzo per ristabilire una migliore comprensione della dimensione umana dell’obiettivo comunista e dell’organizzazione comunista, per riscoprire l’ampiezza della visione della militanza che si è quasi perduta nel corso della controrivoluzione e quindi per premunirsi contro la riapparizione di circoli, di clan che si sviluppano in un’atmosfera di ignoranza o di negazione di queste questioni più generali di organizzazione e di militanza.» (Punto 10)
«La realizzazione dei principi unitari dell’organizzazione – il lavoro collettivo – richiede lo sviluppo di tutte le qualità umane in legame con lo sforzo teorico per comprendere la militanza comunista in maniera positiva come esposto nel punto 10. Ciò significa che il rispetto reciproco, la solidarietà, i riflessi alla cooperazione, uno spirito caloroso di comprensione e di simpatia per gli altri, i legami sociali e la generosità devono svilupparsi.» (Punto 15)
Una delle insistenze delle discussioni e della risoluzione adottata dal congresso è stata sulla necessità di approfondire gli aspetti teorici delle questioni a cui siamo confrontati. E’ perciò che, come nel precedente congresso, anche questo ha consacrato un punto del suo ordine del giorno a una questione teorica: «Marxismo e scienza» che costituisce anche l’occasione, come abbiamo fatto per la maggior parte delle altre questioni teoriche discusse al nostro interno, per la pubblicazione di uno o più documenti. Perciò non riporteremo qui gli elementi della discussione, che faceva seguito a numerose discussioni che si erano tenute prima all’interno delle sezioni. Quello che vogliamo segnalare è la grande soddisfazione che le delegazioni hanno avuto da questa discussione, soddisfazione che deve molto ai contributi di uno scienziato, Chris Knight[7], che noi abbiamo invitato a partecipare a una parte del congresso. Non è la prima volta che la CCI invitava uno scienziato ad un suo congresso. Due anni fa, Jean Louis Dessalles era venuto a presentare le sue riflessioni sull’origine del linguaggio, cosa che aveva provocato delle discussioni partecipate e interessanti[8]. Come prima cosa vogliamo ringraziare Chris Knight di aver accettato il nostro invito e ci teniamo a salutare la qualità dei suoi interventi, insieme al loro carattere vivace ed accessibile a dei non specialisti come lo sono la maggior parte dei militanti della CCI. Chris Knight è intervenuto in tre occasioni[9]. Ha preso la parola nel dibattito generale e tutti i partecipanti sono stati impressionati non solo dalla qualità dei suoi argomenti, ma anche dalla notevole disciplina che ha saputo dimostrare, rispettando strettamente il tempo per l’intervento e il quadro del dibattito (disciplina che a volte si fa fatica ad imporre a molti membri della CCI). In seguito egli ha presentato, in maniera molto evocativa, un riassunto della sua teoria sull’origine della civilizzazione e del linguaggio umano, evocando la prima delle ‘rivoluzioni’ conosciute dall’umanità, in cui le donne hanno giocato un ruolo motore (idea che egli riprende da Engels), rivoluzione che è stata seguita da molte altre, consentendo così ogni volta alla società di progredire. Egli vede la rivoluzione comunista come punto culminante di questa serie di rivoluzioni e considera che, come in precedenza, l’umanità dispone dei mezzi per portarla a termine.
Il terzo intervento di Chris Knight è stato un saluto molto simpatico che egli ha indirizzato al nostro congresso.
Dopo il congresso, l’insieme delle delegazioni ha valutato che la discussione su ‘Marxismo e scienza’, e la partecipazione di Chris Knight ad essa, hanno costituito uno dei momenti più interessanti e soddisfacenti del congresso, un momento che incoraggia l’insieme delle sezioni a proseguire e approfondire l’interesse per le questioni teoriche.
Prima di passare alla conclusione di questo articolo, dobbiamo segnalare che i partecipanti al 19° congresso della CCI (delegazioni, gruppi e compagni invitati), che si è tenuto 140 anni, quasi negli stessi giorni, dopo la settimana di sangue che mise fine alla Comune di Parigi, ci hanno tenuto a salutare la memoria dei combattenti di questo primo tentativo rivoluzionario del proletariato[10].
Noi non tiriamo un bilancio trionfalistico del 19° congresso della CCI, soprattutto per il fatto che questo congresso ha dovuto prendere atto delle difficoltà organizzative che la nostra organizzazione sta incontrando, difficoltà che essa dovrà superare se vuole continuare ad essere presente agli appuntamenti che la storia dà alle organizzazioni rivoluzionarie. Quello che ci attende è quindi una battaglia lunga e difficile. Ma questa prospettiva non la avanziamo per scoraggiarci. Dopo tutto, anche la lotta dell’insieme della classe operaia è lunga e difficile, seminata di trappole e di sconfitte. Quello che questa prospettiva deve ispirare ai militanti è la ferma volontà di portare fino in fondo questa lotta. D’altra parte una delle caratteristiche fondamentali di ogni militante comunista è di essere un combattente.
CCI (31/07/2011)
[1] Opop era già presente ai due precedenti congressi della CCI. Per la sua presentazione, vedere gli articoli dedicati al 17° e 18° congresso della CCI nel numero 29 della Rivista Internazionale e sul nostro sito in italiano alla pagina ICC on line 2009.
[2] Vedere in merito l’articolo in italiano sulla Rivista Internazionale n° 30 nonché le Revue Internationale n° 133, 135, 136, 138 e 141.
[3] “Oggi, come nel 1968, la ripresa delle lotte della classe è accompagnata da una riflessione in profondità di cui l'emergere di nuovi elementi che che si avvicinano alle posizioni della Sinistra Comunista costituisce la punta emergente dell'iceberg” (punto 17).
[4] Vedere l'articolo 5ª Conferencia Panamericana de la Corriente Comunista Internacional - Un paso importante hacia la unidad de la clase obrera [39].
[5] Il congresso ha discusso e fatta sua una critica contenuta nel rapporto sui contatti riguardante la seguente formulazione contenuta nella risoluzione sulla situazione internazionale del 16° Congresso della CCI: «la CCI costituisce già lo scheletro del futuro partito». In effetti, «non è possibile definire fin da adesso la forma che prenderà la partecipazione organizzativa della CCI alla formazione del futuro partito, perché questo dipenderà dallo stato generale e dalla configurazione del nuovo ambiente internazionalista ma anche della nostra stessa organizzazione». Chiarito questo, la CCI ha la responsabilità di mantenere vivo e di arricchire il patrimonio che ha ereditato dalla Sinistra Comunista per poterla consegnare alle generazioni attuali e future di rivoluzionari, e quindi al futuro partito. In altri termini, essa ha la responsabilità di partecipare alla funzione di ponte fra l'ondata rivoluzionaria degli anni '17-23 e la futura ondata rivoluzionaria.
[6] Questi elementi che abbandonano la loro lealtà verso l'organizzazione sono spesso trascinati in una traiettoria che noi abbiamo definita «parassitaria»: pur avendo la pretesa di continuare a difendere le «vere posizioni dell’organizzazione», essi consacrano l'essenziale dei loro sforzi a denigrarla e a cercare di discreditarla. Noi abbiamo dedicato un documento al fenomeno del parassitismo politico (Vedere «Costruzione dell’organizzazione dei rivoluzionari: tesi sul parassitismo» sulla Rivista Internazionale n° 22). Bisogna notare che certi compagni della CCI, pur riconoscendo questo tipo di comportamento e rivendicando la necessità di difendere fermamente l’organizzazione contro di essi, non condividono questa analisi del parassitismo, disaccordo che si è espresso al congresso.
[7] Chris Knight è un universitario britannico che ha insegnato Antropologia fino al 2009 al London East College. E’ in particolare l’autore di Blood Relations, Menstruation and the Origins of Culture di cui abbiamo reso conto sul nostro sito in inglese (https://en.internationalism.org/2008/10/Chris-Knight [40]) e che si appoggia in maniera molto fedele sulla teoria dell’evoluzione di Darwin così come sui lavori di Marx e soprattutto di Engels (in particolare L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Si dice 100% marxista in antropologia. E’ anche un militante politico che anima il gruppo Radical Antropology che ha come uno dei suoi principali modi di intervento l’organizzazione di rappresentazioni di teatro di strada che denunciano e ridicolizzano le istituzioni capitaliste. E’ stato escluso dall’Università per aver organizzato delle manifestazioni contro la tenuta del G20 a Londra nel marzo 2009. In particolare è stato accusato di «istigazione all’omicidio» per aver appeso un manichino rappresentante banchieri e aver esposto un cartello che diceva «Eat the banquers» (Mangiate i banchieri). Noi non condividiamo una certo numero di posizioni politiche o dei modi di azione di Chris Knigt ma, avendo discusso con lui per un certo tempo, ci teniamo ad affermare la nostra convinzione della sua totale sincerità, della sua reale devozione alla causa dell’emancipazione del proletariato e della sua accanita convinzione che la scienza e la conoscenza sono delle armi fondamentali di questa. Per questo vogliamo indirizzargli la nostra calorosa solidarietà di fronte alle misure repressive di cui è stato oggetto (licenziamento, arresto).
[8] Vedere l’articolo sul 18° congresso della CCI citato sopra.
[9] Pubblicheremo sul nostro sito internet degli estratti degli interventi di Chris Knight.
[10] I partecipanti al 19° Congresso della CCI dedicano questo congresso alla memoria dei combattenti della Comune di Parigi, caduti, esattamente 140 anni fa, di fronte alla borghesia scatenata che ha fatto pagare loro la volontà di partire all’«assalto del cielo».
Nel maggio 1871, per la prima volta nella Storia, il proletariato ha fatto tremare la classe dominante. E’ questa paura della borghesia di fronte ai becchini del capitalismo che spiega la furia e la barbarie della sanguinosa repressione degli insorti della Comune.
L'esperienza della Comune di Parigi ha apportato delle lezioni fondamentali alle successive generazioni della classe operaia. Lezioni che le hanno permesso di impegnarsi nella Rivoluzione russa nel 1917.
I combattenti della Comune di Parigi, caduti sotto la mitraglia del capitale, non avranno versato il loro sangue inutilmente se nelle lotte future la classe operaia sarà capace di ispirarsi alla Comune di Parigi per rovesciare il capitalismo.
"La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti." (Karl Marx, La guerra civile in Francia).
Crisi economica
1. La risoluzione adottata dal precedente congresso della CCI metteva subito in evidenza la pungente smentita inflitta dalla realtà alle previsioni ottimiste dei dirigenti della classe borghese all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, particolarmente dopo il crollo di questo “Impero del male” che costituiva il blocco imperialista detto “socialista”. Essa citava in particolare l’ormai famosa dichiarazione del presidente George Bush senior del marzo 1991 che annunciava la nascita di un “Nuovo ordine mondiale” basato sul “rispetto del diritto internazionale” e sottolineava il suo carattere surrealista di fronte al caos crescente in cui sprofonda oggi la società capitalista. Venti anni dopo questi discorsi “profetici”, e particolarmente dopo l’inizio di questo nuovo decennio, mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, il mondo aveva mostrato un volto così caotico. A poche settimane di distanza abbiamo assistito ad una nuova guerra in Libia, che viene ad aggiungersi alla lista di tutti i conflitti sanguinosi che hanno toccato il pianeta nel corso dell’ultimo periodo, a dei nuovi massacri in Costa d’Avorio ed ancora alla tragedia che ha toccato uno dei paesi più potenti e moderni del mondo, il Giappone. Il terremoto che ha devastato una parte di questo paese ha sottolineato ancora una volta che non esistono “catastrofi naturali” ma solo delle conseguenze catastrofiche a dei fenomeni naturali. Ha mostrato che la società dispone oggi dei mezzi necessari per costruire edifici capaci di resistere ai terremoti e che permetterebbero di evitare tragedie come quelle di Haiti l’anno scorso. Ma ha anche mostrato tutta l’imprevidenza di cui ha dato prova uno Stato pur così avanzato come il Giappone: il terremoto in sé ha provocato ben poche vittime ma lo tsunami che l’ha seguito ha falciato circa 30 000 esseri umani in pochi minuti. Ma non basta: provocando una nuova Chernobyl, ha messo in luce non solo l’imprevidenza della classe dominante, ma anche il suo incedere da apprendista stregone, incapace di controllare le forze che essa stessa ha messo in movimento. L’impresa Tepco, che sfruttava l’energia della centrale atomica di Fukushima, non è la prima né tanto meno l’unica responsabile della catastrofe. E’ il sistema capitalista nel suo insieme, basato com’è sulla ricerca sfrenata del profitto e sulla competizione tra settori nazionali e non sulla soddisfazione dei bisogni dell’umanità, che è fondamentalmente responsabile delle catastrofi presenti e future subite dalla specie umana. In fin dei conti, la Chernobyl giapponese costituisce una nuova illustrazione del fallimento ultimo del modo di produzione capitalista, un sistema la cui sopravvivenza costituisce una minaccia crescente per la stessa sopravvivenza dell’umanità.
2. Evidentemente è la crisi che subisce attualmente il capitalismo mondiale che esprime più direttamente il fallimento storico di questo modo di produzione. Due anni fa la borghesia di tutti i paesi era presa da un timor panico di fronte alla gravità della situazione economica. L’OCSE non esitava a scrivere: “L’economia mondiale é in preda alla sua recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni” (Rapporto intermedio del marzo 2009). Tenendo conto di tutta la moderazione con cui questa venerabile istituzione si esprime abitualmente, ci si può fare un’idea del terrore che avvertiva la classe dominante di fronte al fallimento potenziale del sistema finanziario internazionale, il crollo brutale del commercio mondiale (più del 13% nel 2009), la brutalità della recessione delle principali economie, l’ondata dei fallimenti che toccano o minacciano imprese emblematiche dell’industria come la General Motors o la Chrysler. Questo terrore della borghesia l’aveva condotta a convocare i vertici del G20 di cui quello del marzo 2009 a Londra decideva in particolare il raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale e l’iniezione massiccia di liquidità nell’economia da parte degli Stati allo scopo di salvare un sistema bancario in difficoltà e rilanciare la produzione. Lo spettro della “Grande depressione degli anni ‘30” ossessionava gli spiriti cosa che conduceva la stessa OCSE a scongiurare tali demoni scrivendo: “Benché talvolta questa severa recessione mondiale sia stata qualificata come una ‘grande recessione’, siamo lontani da una nuova ‘grande depressione’ come quella degli anni ‘30, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente” (Ibid.). Ma, come riportato nella risoluzione del 18° congresso[1], “una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri” e lo stesso rapporto intermedio dell’OCSE della primavera 2011 esprime un vero sollievo di fronte al ripristino della situazione del sistema bancario e alla ripresa economica. La classe dominante non può fare altrimenti. Incapace di avere una visione lucida, globale e storica, sulle difficoltà che incontra il suo sistema perché tale visione la porterebbe a scoprire l’impasse definitiva in cui questo si trova, essa è costretta a commentare giorno per giorno le fluttuazioni della situazione immediata cercando di trovare in queste dei motivi di consolazione. Così facendo, essa viene spinta a sottovalutare la situazione anche se, di tanto in tanto, i mass-media adottano un tono allarmista a proposito del significato del principale fenomeno che è emerso negli ultimi due anni: la crisi del debito sovrano di un certo numero di Stati europei. Di fatto, il fallimento potenziale di un numero crescente di Stati costituisce una nuova tappa dell’inabissamento del capitalismo nella sua crisi insanabile. Essa mette in evidenza i limiti delle politiche con cui la borghesia é riuscita a frenare l’evoluzione della crisi capitalista degli ultimi decenni.
3. Sono ormai più di 40 anni che il sistema capitalista fa fronte alla crisi. Il Maggio 68 in Francia e l’insieme delle lotte proletarie che l’hanno seguito a livello internazionale hanno avuto una tale portata perché erano alimentati da un peggioramento globale delle condizioni di vita della classe operaia, peggioramento conseguente ai primi sintomi della crisi capitalista, tra cui l’aumento della disoccupazione. Questa crisi ha poi conosciuto una brutale accelerazione nel 1973-75 con la prima grande recessione internazionale del dopoguerra. In seguito, nuove recessioni ogni volta più profonde ed estese hanno sconvolto l’economia mondiale fino a culminare in quella del 2008-2009 che ha riportato alla mente lo spettro degli anni ’30. Le misure adottate dal G20 del marzo 2009 per evitare una nuova “Grande Depressione” sono significative della politica condotta da diversi decenni dalla classe dominante: esse si riassumono nell’iniezione nelle economie di masse considerevoli di crediti. Tali misure non sono nuove. Di fatto, da oltre 35 anni, queste costituiscono il cuore delle politiche condotte dalla classe dominante per cercare di scappare alla principale contraddizione del modo di produzione capitalista: l’incapacità a trovare dei mercati solvibili capaci di assorbire la sua produzione. La recessione del 1973-75 era stata superata attraverso massicci crediti ai paesi del Terzo Mondo ma, dall’inizio degli anni ‘80, con la crisi del debito di questi paesi, la borghesia dei paesi più avanzati aveva dovuto rinunciare a questo polmone per la sua economia. Sono quindi gli Stati dei paesi più avanzati, e primo fra tutti gli Stati Uniti, che hanno preso il posto di “locomotive” dell’economia mondiale. La “reaganomics” (politica neoliberale dell’Amministrazione Reagan) dell’inizio degli anni 80, che aveva permesso un rilancio significativo dell’economia di questo paese, era basata sulla creazione di deficit budgetari inediti e considerevoli nello stesso momento in cui Ronald Reagan dichiarava che “lo Stato non è la soluzione ma il problema”. Contemporaneamente, i deficit commerciali anch’essi considerevoli di questa potenza permettevano alle merci prodotte dagli altri paesi di trovare uno sbocco. Nel corso degli anni ‘90, le “tigri” e i “dragoni” asiatici (Singapore, Taiwan, Corea del Sud, ecc.) hanno accompagnato per un certo tempo gli Stati Uniti in questo ruolo di “locomotiva”: i loro spettacolari tassi di crescita ne facevano una destinazione importante per le merci dei paesi più industrializzati. Ma questa “storia di successo” è stata costruita a prezzo di un indebitamento considerevole che ha condotto questo paese a delle convulsioni importanti nel 1997 così come la Russia “nuova” e “democratica” che si è ritrovata insolvente, cosa che ha amaramente deluso quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera durevole l’economia mondiale. All’inizio degli anni 2000 l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, particolarmente grazie all’enorme sviluppo dei mutui ipotecari per la costruzione in diversi paesi, in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva dell’economia mondiale”, ma al prezzo di una crescita abissale dei debiti, – particolarmente tra la popolazione americana – debiti basati su ogni sorta di “prodotti finanziari” ritenuti capaci di scongiurare il rischio di cessazione dei pagamenti. In realtà, la dispersione dei crediti sospetti non ha assolutamente abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario essa ha fatto accumulare nel capitale delle banche gli “attivi tossici” che sono stati all’origine del loro crollo a partire dal 2007 e della brutale recessione mondiale del 2008-2009.
4. Come riportato nella risoluzione adottata al precedente congresso, “non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento - che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione - non può proseguire all’infinito. Prima o poi, l’“economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.” Dopo il vertice del G20 del marzo 2009 questa stessa risoluzione precisava che “la fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono.”.
La crisi dei debiti sovrani che si propaga oggi, il fatto che gli Stati siano incapaci di onorare i loro debiti, costituisce un’illustrazione spettacolare di questa realtà. Il potenziale fallimento del sistema bancario e la recessione hanno obbligato tutti gli Stati a iniettare delle somme considerevoli nelle loro economie mentre le vendite erano in caduta libera per la riduzione della produzione. Per questo motivo i deficit pubblici hanno conosciuto, nella gran parte dei paesi, un aumento considerevole. Per i più esposti tra questi, come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo, ciò ha significato una situazione di potenziale fallimento, l’incapacità di pagare i loro funzionari e di rimborsare i loro debiti. Le banche si rifiutano ormai di consentire nuovi prestiti, se non a dei tassi esorbitanti poiché non hanno più alcuna garanzia di poter essere rimborsate. I “piani di salvataggio” di cui esse hanno beneficiato da parte della Banca europea e del Fondo monetario internazionale costituiscono dei nuovi debiti il cui rimborso si aggiunge a quello dei debiti precedenti. E’ più che un circolo vizioso, è una spirale infernale. La sola “efficacia” di questi piani consiste nell’attacco senza precedenti contro i lavoratori, contro i dipendenti pubblici i cui salari ed il cui numero vengono ridotti in maniera drastica, ma anche contro l’insieme della classe operaia attraverso sia i tagli nei settori dell’educazione, della salute e delle pensioni che l’aumento di tasse ed imposte. Ma tutti questi attacchi antioperai, tagliando selvaggiamente il potere d’acquisto dei lavoratori, non potranno che contribuire ad un’ulteriore nuova recessione.
5. La crisi del debito sovrano dei PIIGS (Portogallo, Islanda, Irlanda, Grecia, Spagna) costituisce solo una parte infima del terremoto che minaccia l’economia mondiale. Non è certo perché beneficiano ancora per il momento del rating[2] AAA[3] come indice di fiducia delle agenzie di rating (le stesse agenzie che, fino alla vigilia dello scompiglio delle banche del 2008, avevano accordato loro il rating massimo) che le grandi potenze industriali se la cavano molto meglio. Alla fine di aprile 2011, l’agenzia Standard and Poor’s emetteva un’opinione negativa di fronte alla prospettiva di un Quantitative Easing n°3, cioè di un terzo piano di rilancio dello Stato federale americano destinato a sostenere l’economia. In altri termini, la prima potenza mondiale corre il rischio di vedersi ritirata la fiducia “ufficiale” sulla sua capacità di rimborsare i suoi debiti, se non con un dollaro fortemente svalutato. Di fatto, in maniera ufficiosa, questa fiducia comincia a mancare con la decisione della Cina e del Giappone, dopo l’autunno scorso, di effettuare massicci acquisti di oro e di materie prime piuttosto che dei buoni del Tesoro americani, cosa che ha condotto la Banca federale americana a comprarne per il 70-90% alla loro emissione. Questa perdita di fiducia si giustifica perfettamente quando si constati l’incredibile livello di indebitamento dell’economia americana: nel gennaio 2010, l’indebitamento pubblico (Stato federale, singoli Stati federati, comuni, ecc.) rappresentava già all’incirca il 100% del PIL, ma questo costituiva solo una parte dell’indebitamento totale del paese (che comprende anche i debiti delle famiglie e delle imprese non finanziarie) che raggiungeva il 300% del PIL. E la situazione non era migliore per gli altri grandi paesi dove il debito totale ammontava nello stesso periodo al 280% del PIL per la Germania, 320% per la Francia, 470% per la Gran Bretagna ed il Giappone. In questi ultimi paesi, il debito pubblico ha da solo raggiunto il 200% del PIL. Successivamente, per tutti i paesi, la situazione é solo peggiorata nonostante i diversi piani di rilancio.
Pertanto il fallimento dei PIIGS costituisce solo la punta di un iceberg che nasconde il fallimento di un’economia mondiale che deve la sua sopravvivenza ormai da decenni alla disperata fuga in avanti nell’indebitamento. Gli Stati che dispongono della propria moneta come la Gran Bretagna, il Giappone e naturalmente gli USA hanno potuto mascherare questo fallimento stampando banconote a tutta forza (al contrario di quelli della zona Euro, come la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, che non dispongono di questa possibilità). Ma questa frode permanente degli Stati che sono diventati dei veri contraffattori, con a capo della gang lo Stato americano, non potrà proseguire indefinitamente così come non potevano proseguire le manipolazioni del sistema finanziario, come lo ha dimostrato la crisi di questo nel 2008 che non riuscita però a farlo esplodere. Uno dei segni visibili di questa realtà è l’attuale accelerazione dell’inflazione mondiale. Spostandosi dalla sfera delle banche a quella degli Stati, la crisi dell’indebitamento marca l’entrata del modo di produzione capitalista in una nuova fase della sua crisi acuta in cui si aggravano ulteriormente la violenza e l’estensione delle sue convulsioni. Non c’è via di “uscita dal tunnel” per il capitalismo. Questo sistema può solo condurre la società in una crescente barbarie.
6. La guerra imperialista costituisce la massima manifestazione della barbarie verso cui il capitalismo decadente precipita la società umana. La storia tragica del 20° secolo ne costituisce la manifestazione più evidente: di fronte al vicolo cieco in cui si trova il suo modo di produzione, di fronte all’esacerbazione delle rivalità commerciali fra Stati, la classe dominante è spinta verso una fuga in avanti nelle politiche di guerra, negli scontri militari. Per la maggior parte degli storici, compresi quelli che non si richiamano al marxismo, è chiaro che la Seconda Guerra Mondiale è figlia della grande Depressione degli anni ’30. Analogamente, l’aggravamento delle tensioni imperialiste della fine degli anni ’70 e dell’inizio degli anni ’80 tra i due blocchi di allora, quello americano e quello russo (invasione dell’Afganistan da parte dell’URSS nel 1979, crociata contro “l’Impero del male” da parte dell’amministrazione Reagan) derivavano in gran parte dal ritorno della crisi aperta dell’economia capitalista alla fine degli anni sessanta. Tuttavia, la storia ha mostrato che questo legame tra l’aggravarsi degli scontri imperialisti e crisi economica del capitalismo non è diretto o immediato. L’intensificazione della “guerra fredda” si è alla fine conclusa con la vittoria del blocco occidentale e l’implosione del blocco avversario, che ha poi portato alla disgregazione del primo. Ma pur sfuggendo alla minaccia di una nuova guerra generalizzata che poteva portare alla sparizione della specie umana, il mondo non è stato risparmiato da un’esplosione delle tensioni e degli scontri militari: la fine dei blocchi rivali ha significato la fine della disciplina che essi riuscivano ad imporre nei loro rispettivi territori. Da allora, l’arena imperialista planetaria è dominata dal tentativo della prima potenza mondiale di mantenere la propria leadership sul mondo, e in primo luogo sui suoi antichi alleati. La 1a Guerra del Golfo, nel 1991, aveva già questo obiettivo, ma la storia degli anni ’90, in particolare la guerra in Jugoslavia, ha mostrato il fallimento di questa ambizione. La “guerra contro il terrorismo mondiale” dichiarata dagli Stati Uniti in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 voleva essere un nuovo tentativo per riaffermare la loro leadership, ma il loro esaurimento in Afganistan e in Iraq ha sottolineato ancora una volta l’incapacità di ristabilire questa leadership.
7. Questi fallimenti degli Stati Uniti non li hanno scoraggiati dal proseguire la politica offensiva che portano avanti dall’inizio degli anni ’90 e che fa degli USA il principale fattore di instabilità sulla scena mondiale. Come riportato nella risoluzione del precedente congresso: “Di fronte a questa situazione, Obama e la sua amministrazione non potranno fare altro che proseguire la politica bellicista dei loro predecessori (…); se Obama aveva previsto di ritirare le forze americane dall’Iraq, era per poter rafforzare l’intervento in Afghanistan e in Pakistan”. E’ quello che si è prodotto recentemente con l’esecuzione di Bin Laden da parte di un commando americano in territorio pakistano. Questa operazione “eroica” aveva evidentemente uno scopo elettorale ad un anno e mezzo dalle prossime elezioni presidenziali. Essa voleva in particolare contrastare le critiche dei repubblicani che rimproveravano ad Obama la sua debolezza nell’affermazione della preminenza degli Stati Uniti sul piano militare, critiche che si erano radicalizzate al momento dell’intervento in Libia in cui la leadership dell’operazione era stata lasciata al tandem franco-britannico. L’uccisione di Bin Laden voleva anche significare che, dopo aver fatto giocare a questi il ruolo del cattivo della storia per quasi 10 anni, era tempo di sbarazzarsene per evitare di sembrare impotenti. Facendo così, la potenza americana dava prova di essere la sola ad avere i mezzi militari, tecnologici e logistici per portare a termine questo tipo di operazione, giusto nel momento in cui la Francia e la Gran Bretagna facevano fatica a condurre a buon fine la loro operazione anti-Gheddafi. Essa voleva indicare al mondo che gli USA non esitano nemmeno a violare la “sovranità nazionale” di un “alleato”, che essi intendono fissare le regole del gioco ovunque lo ritengano necessario. Infine, questa uccisione è riuscita ad obbligare la maggior parte dei governi del mondo a salutare, spesso a malincuore, il valore di questa operazione.
8. Ciò detto, il colpo spettacolare riuscito ad Obama in Pakistan non può in alcun modo permettergli di stabilizzare la situazione nella regione, in particolare nello stesso Pakistan dove questo schiaffo assestato alla sua “fierezza nazionale” rischia di attizzare i vecchi conflitti tra diversi settori della borghesia e dell’apparato statale. Analogamente, la morte di Bin Laden non permetterà agli Stati Uniti e agli altri paesi impegnati in Afghanistan di riprendere il controllo del paese e di consolidare l’autorità del governo Karzai completamente minato dalla corruzione e dalle divisioni tribali. Più in generale, essa non permetterà per niente di mettere un freno alle tendenze al “ciascuno per sé” e alla contestazione dell’autorità della prima potenza mondiale che si continuano a manifestare, come si è recentemente visto con la costituzione di una serie di alleanze puntuali sorprendenti: riavvicinamento tra Turchia e Iran, alleanza tra Iran, Brasile e Venezuela (strategica e anti-USA), tra India e Israele (militare e come rottura dell’isolamento), tra Cina e Arabia Saudita (militare e strategica), ecc. In particolare, essa non potrebbe scoraggiare la Cina dal portare avanti le ambizioni imperialiste che il suo recente statuto di grande potenza industriale le permette. E’ chiaro che questo paese, malgrado la sua importanza demografica ed economica, non ha assolutamente i mezzi militari o tecnologici, né è pronto ad averli, per costituire la testa di un nuovo blocco. Tuttavia esso ha i mezzi per disturbare ancora di più le ambizioni americane – che sia in Africa, in Iran, nella Corea del Nord, in Birmania – e di dare il suo contributo all’instabilità crescente che caratterizza i rapporti imperialisti. Il “nuovo ordine mondiale” predetto 20 anni fa da Georg Bush padre, e che lui sognava sotto l’egida degli Stati Uniti, non può che presentarsi sempre più come un “caos mondiale”, un caos che le convulsioni dell’economia capitalista non potranno che aggravare ancora.
9. Di fronte al caos che investe la società borghese su tutti i piani - economico, guerriero ed anche ambientale - come abbiamo potuto vedere recentemente in Giappone – solo il proletariato può apportare un soluzione, la sua soluzione, la rivoluzione comunista. La crisi insolubile dell’economia capitalista, le convulsioni crescenti che la caratterizzano, costituiscono le condizioni oggettive di questa rivoluzione. E ciò da una parte obbligando la classe operaia a sviluppare sempre più le sue lotte di fronte agli attacchi drammatici che essa subisce da parte della classe sfruttatrice. Dall’altra permettendole di comprendere che queste lotte assumono tutto il loro significato come momenti di preparazione del suo scontro decisivo con un modo di produzione ormai condannato dalla storia - il capitalismo – in vista del suo rovesciamento.
Tuttavia, come riportato nella risoluzione del precedente congresso internazionale: “Il cammino che porta alle lotte rivoluzionarie e al rovesciamento del capitalismo é ancora lungo e difficile. (…) Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia, é necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa.” Più nell’immediato la risoluzione precisava che “la forma principale che prende oggi questo attacco, quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. (…) Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più”.
10. I due anni che ci separano dal precedente congresso hanno ampiamente confermato questa previsione. Questo periodo non ha conosciuto lotte ampie contro i licenziamenti di massa e contro la crescita senza precedenti della disoccupazione subiti dalla classe operaia nei paesi più sviluppati. Al contrario, è a partire dagli attacchi portati direttamente dai governi in applicazione dei piani di “risanamento dei conti pubblici” che hanno cominciato a svilupparsi delle lotte significative. Questa risposta è ancora molto timida, particolarmente là dove questi piani di austerità hanno preso le forme più violente, in paesi come la Grecia o la Spagna per esempio dove, tuttavia, la classe operaia aveva dato prova nel recente passato di una combattività relativamente importante. In un certo modo sembra che la brutalità stessa degli attacchi provochi un sentimento d’impotenza nei ranghi operai, tanto più che questi attacchi sono condotti da governi “di sinistra”. Paradossalmente é proprio là dove questi attacchi sembrano meno violenti, come in Francia, che la combattività operaia si è espressa più massicciamente, con il movimento contro la riforma delle pensioni dell’autunno 2010.
11. Allo stesso tempo i movimenti più di massa che si siano conosciuti nel corso dell’ultimo periodo non sono venuti dai paesi più industrializzati ma dai paesi della periferia del capitalismo, particolarmente in un certo numero di paesi del mondo arabo, e specificamente la Tunisia e l’Egitto dove, alla fine, dopo aver tentato di soffocarli con una feroce repressione, la borghesia è stata costretta a licenziare i dittatori del posto. Questi movimenti non erano delle lotte operaie classiche come ce n’erano state in questi stessi paesi in un recente passato (vedi ad esempio le lotte a Gafsa in Tunisia nel 2008 o gli ampi scioperi nell’industria tessile in Egitto, durante l’estate del 2007, che ricevettero la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori). Infatti hanno preso spesso la forma di rivolte sociali in cui si trovavano associati ogni sorta di settore della società: lavoratori del settore pubblico e privato, disoccupati, ma anche dei piccoli commercianti, degli artigiani, le professioni libere, la gioventù scolarizzata, ecc. E’ per questo che il proletariato, il più delle volte, non è comparso direttamente in maniera distinta (come è apparso, per esempio, negli scioperi in Egitto verso la fine delle rivolte), ancor meno assumendo il ruolo di forza dirigente. Tuttavia, all’origine di questi movimenti (cosa che si rifletteva in molte delle rivendicazioni portate avanti) si trova fondamentalmente le stesse cause che sono all’origine delle lotte operaie negli altri paesi: l’aggravamento considerevole della crisi, la miseria crescente che questa provoca all’interno di tutta la popolazione non sfruttatrice. E se in generale il proletariato non é apparso direttamente come classe in questi movimenti, la sua impronta era ben presente in questi paesi dove ha avuto un peso notevole, particolarmente attraverso la profonda solidarietà che si è manifestata nelle rivolte, la loro capacità di evitare di lanciarsi in atti di violenza cieca e disperata malgrado la terribile repressione che hanno dovuto affrontare. In fin dei conti, se la borghesia in Tunisia e in Egitto si é finalmente decisa, spinta anche dai buoni consigli della borghesia americana, a sbarazzarsi dei vecchi dittatori, è in gran parte a causa della presenza della classe operaia in questi movimenti. Una delle prove, in negativo, di questa realtà, é l’involuzione che hanno conosciuto i movimenti in Libia: non il rovesciamento del vecchio dittatore Gheddafi ma lo scontro militare tra cricche borghesi dove gli sfruttati sono stati arruolati come carne da cannone. In questo paese, una gran parte della classe operaia era costituita da lavoratori immigrati (egiziani, tunisini, cinesi, subsahariani, bengalesi) la cui reazione principale è stata di fuggire di fronte alla repressione che si è abbattuta con ferocia dai primi giorni.
12. La degenerazione in conflitto armato del movimento in Libia, con l’entrata in gioco dei paesi della NATO, ha permesso alla borghesia di promuovere delle campagne di mistificazione nei confronti degli operai dei paesi avanzati la cui reazione spontanea era stata di sentirsi solidali con i manifestanti di Tunisi e del Cairo e di salutare il loro coraggio e la loro determinazione. In particolare, la presenza massiccia delle giovani generazioni nel movimento, specialmente della gioventù scolarizzata il cui avvenire si presenta sotto gli auspici sinistri della disoccupazione e della miseria, faceva eco ai recenti movimenti che hanno animato la gioventù studentesca in numerosi paesi europei nell’ultimo periodo: movimento contro il CPE in Francia della primavera del 2006, rivolte e scioperi in Grecia alla fine del 2008, manifestazioni e scioperi degli studenti di scuola e università in Gran Bretagna alla fine 2010, movimenti studenteschi in Italia nel 2008 e negli Stati Uniti nel 2010, ecc.). Queste campagne borghesi per snaturare, agli occhi dei lavoratori degli altri paesi, il significato delle rivolte in Tunisia ed in Egitto, sono state evidentemente facilitate dalle illusioni che pesano fortemente sulla classe operaia di questi paesi: le illusioni nazionaliste, democratiche e sindacaliste in particolare, come fu d’altra parte il caso nel 1980-81 con la lotta del proletariato polacco.
13. Questo movimento di trent’anni fa aveva permesso alla CCI di elaborare la sua analisi critica della teoria dell’anello debole sviluppata particolarmente da Lenin al momento della rivoluzione in Russia. La CCI, basandosi sulle posizioni elaborate da Marx ed Engels, aveva messo avanti a questo punto l’idea che fosse dai paesi centrali del capitalismo, e particolarmente dai vecchi paesi industrializzati dell’Europa occidentale, che venisse il segnale della rivoluzione proletaria mondiale, per la concentrazione del proletariato di questi paesi, e più ancora per la sua esperienza storica, e che gli danno le armi migliori per evitare finalmente le trappole ideologiche più sofisticate messe in atto da tempo dalla borghesia. Così, una delle tappe fondamentali del movimento della classe operaia mondiale nell’avvenire sarà costituita non solo dallo sviluppo delle lotte di massa nei paesi centrali dell’Europa occidentale, ma anche dalla loro capacità di evitare le trappole democratiche e sindacali, in particolare attraverso una presa in mano di queste lotte da parte dei lavoratori stessi. Questi movimenti costituiranno un faro per la classe operaia mondiale, compresa quella della principale potenza capitalistica, gli Stati Uniti, la cui caduta in una miseria crescente, una miseria che tocca già decine di milioni di lavoratori, sta trasformando il “sogno americano” in un vero incubo.
CCI (maggio 2011)
[2] Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese (vedi anche modelli di rating IRB [41] secondo Basilea 2 [42]) in base alla loro rischiosità. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio (https://it.wikipedia.org/wiki/Rating [43]).
[3] AAA = indice di rating che corrisponde ad una situazione di elevata capacità di ripagare il debito.
Links
[1] https://it.internationalism.org/content/la-mobilitazione-degli-indignati-spagna-e-le-sue-ripercussioni-nel-mondo-un-movimento
[2] https://it.internationalism.org/content/1055/la-lotta-degli-indignati-spagna-il-contagio-delle-lotte-sociali-dal-nord-africa-si
[3] https://it.internationalism.org/content/israele-le-proteste-continuano-nonostante-le-tensioni-della-guerra
[4] https://it.internationalism.org/content/occupazione-di-wall-street-e-proprio-il-sistema-capitalista-il-nemico-da-abbattere
[5] https://it.internationalism.org/manifesto-91
[6] https://en.internationalism.org/booktree/2145
[7] https://fr.internationalism.org/booktree/2859
[8] https://es.internationalism.org/booktree/2023
[9] https://en.internationalism.org/ir/146/great-depression
[10] https://es.internationalism.org/revista-internacional/201108/3170/decadencia-del-capitalismo-x-para-los-revolucionarios-la-gran-depr
[11] https://fr.internationalism.org/rint146/pour_les_revolutionnaires_la_grande_depression_confirme_l_obsolescence_du_capitalisme.html
[12] https://it.internationalism.org/content/crisi-economica-mondiale-unestate-micidiale
[13] https://it.internationalism.org/content/xviii-congresso-della-cci-risoluzione-sulla-situazione-internazionale
[14] https://en.internationalism.org/node/2104
[15] https://es.internationalism.org/revista-internacional/199307/1964/quien-podra-cambiar-el-mundo-i-el-proletariado-es-la-clase-revoluc
[16] https://fr.internationalism.org/rinte73/proletariat.htm
[17] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[18] https://it.internationalism.org/rint/28_tesi_studenti
[19] https://it.internationalism.org/content/da-piazza-tahrir-alla-puerta-del-sol
[20] https://it.internationalism.org/rint29/risoluzioneinternazionale
[21] https://it.internationalism.org/content/proteste-israele-mubarak-assad-netanyahu-sono-tutti-uguali
[22] https://fr.internationalism.org/node/4776
[23] https://fr.internationalism.org/icconline/2011/dossier_special_indignes/quyatil_derriere_la_campagne_contre_les_violents_autour_des_incidents_de_barcelone.html
[24] https://fr.internationalism.org/ri424/_apolitisme_une_mystification_dangereuse_pour_la_classe_ouvriere.html
[25] https://it.internationalism.org/content/le-rivolte-gran-bretagna-e-la-prospettiva-senza-futuro-del-capitalismo
[26] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[27] https://www.lefigaro.fr/conjoncture/2011/09/22/04016-20110922ARTFIG00699-la-colere-gronde-de-plus-en-plus-fort-en-grece.php
[28] https://www.rfi.fr/fr/europe/20110921-manifestations-enseignants-lyceens-espagne
[29] http://www.finance-economie.com/blog/2011/10/10/chiffres-cles-espagne-taux-de-chomage-pib-2010-croissance-pib-et-dette-publique
[30] https://globalix.fr/la-dynamique-de-la-dette-italiennela-dynamique-de-la-dette-italienne/
[31] http://www.lecourrierderussie.com/2011/10/12/poutine-la-crise-existe
[32] https://www.lefigaro.fr/flash-eco/2011/10/05/97002-20111005FILWWW00435-fmi-recession-mondiale-pas-exclue.php
[33] https://www.rfi.fr/fr/ameriques/20110702-faillite-le-gouvernement-minnesota-cesse-activites
[34] https://www.gecodia.fr/Le-stress-interbancaire-en-Europe-s-approche-du-pic-post-Lehman_a2348.html
[35] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[36] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[37] https://it.internationalism.org/en/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria
[38] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[39] https://es.internationalism.org/revolucion-mundial/201012/3027/5-conferencia-panamericana-de-la-corriente-comunista-internacional-un
[40] https://en.internationalism.org/2008/10/Chris-Knight
[41] https://it.wikipedia.org/wiki/Internal_rating_based
[42] https://it.wikipedia.org/wiki/Basilea_2
[43] https://it.wikipedia.org/wiki/Rating
[44] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso