Suicidi e sofferenze al lavoro: un crimine del capitalismo (dalle riunioni pubbliche del mese di marzo)

Printer-friendly version

Nel mese di marzo la nostra organizzazione ha tenuto delle Riunioni Pubbliche sul tema “Al suicidio e alla sofferenza sul posto di lavoro, una sola risposta: la solidarietà di classe[1].

In essa si metteva innanzitutto in evidenza come il fenomeno dei suicidi sul posto di lavoro o comunque legati a questioni di lavoro si sono moltiplicati negli ultimi mesi, e non solo in Italia; anzi, in alcuni paesi e in alcune fabbriche, come la Telecom francese, il numero di lavoratori spinti al suicidio ha raggiunto un livello assolutamente inedito e clamoroso. I motivi di questi suicidi possono sembrare a volte diversi: in alcuni casi, come a France Telecom, è soprattutto il clima pesante che si vive al lavoro (controlli, spostamenti, ritmi sostenuti, ecc.) che creano uno stress che ha spinto un certo numero di lavoratori al suicidio; in altri casi è la perdita del lavoro la causa scatenante di questi gesti estremi. Ma a guardare più da vicino, al di là della fenomenologia immediata, la causa di questi suicidi è come si vive il lavoro in questa fase della storia del capitalismo: non più soltanto come una fatica, uno sfruttamento e una alienazione (per non poter godere pienamente del frutto del proprio lavoro), ma come una vera e propria sofferenza, una sofferenza che giunge fino a diventare tanto insopportabile da spingere a farla finita direttamente con la vita.

Questo fenomeno è stato studiato anche da psicologi che confermano come questa sofferenza non abbia niente di “esistenziale”, di personale, ma sia legato alle condizioni che si vivono oggi sul posto di lavoro.

Nelle discussioni che si sono avute nelle diverse riunioni tenute da noi su questo tema, ci sono state diverse testimonianze a conferma di questo clima. Ma, più interessanti ancora, sono state le riflessioni che, a partire dalla nostra introduzione, si sono sviluppate nelle discussioni, sempre vivaci e partecipate.

Una di queste ha riguardato come considerare queste persone che si suicidano: sono i più deboli, cioè quelli che crollano per una loro debolezza personale, o sono quelli più sensibili, che risentono più fortemente questa situazione, che non vogliono accettare e che, in questa fase particolare, esprimono la loro rabbia, la loro ribellione con un gesto eclatante, che possa spingere altri a riflettere, o che comunque venga sbattuta in faccia ai responsabili di questa situazione. Nella discussione la maggioranza degli intervenuti, se non tutti, hanno optato per questa seconda spiegazione, che più si lega ad una analisi oggettiva della società attuale, rispetto all’altra che rischia di ridurre un fenomeno ormai sociale ad una questione individuale.

Se questo grido di ribellione assume questa forma è per le difficoltà attuali della lotta di classe, per l’isolamento che questi lavoratori sentono, per la mancanza di quella solidarietà che possa trasformare questa volontà di ribellione in lotta aperta e collettiva (che a sua volta dà coraggio e sviluppa ulteriormente il senso di solidarietà, fino all’estremo limite di aprire una prospettiva di una diversa società). L’esistenza di queste difficoltà non vuol dire che non esistono le lotte o che in queste lotte non si manifestino anche esempi di solidarietà:

-    In Turchia, a dicembre e gennaio scorsi, ci sono state lotte operaie alla Teckel che hanno unito operai turchi e curdi, e hanno mostrato una volontà tenace di estendere la lotta ad altri settori[2];

-    in Spagna, a Vigo, i lavoratori attivi dei cantieri navali e i disoccupati hanno manifestato insieme, raggruppando altri lavoratori fino ad ottenere il fermo di tutto il settore navale[3];

-    e questo costituisce la ripetizione di quello che era già successo in Gran Bretagna alla raffineria di Lindsey da parte di operai edili nel gennaio2009 o in Spagna, ai cantieri navali di Sestao nell’aprile 2009[4].

Il punto è che queste lotte sono ancora troppo poche o poco estese e quindi non all’altezza di contrastare le conseguenze anche psicologiche della crisi.

La questione della solidarietà è veramente al centro dei problemi attuali che i lavoratori incontrano sul posto di lavoro, ma è anche un sentimento che attraversa la società tutta intera, toccando non solo gli strati popolari (quelli che, per le loro condizioni materiali, sono più portati alla ricerca della solidarietà). Nella discussione alle riunioni pubbliche sono stati fatti diversi esempi in cui si mostrava come all’origine di alcuni suicidi ci fosse stato un sentimento di profondo sconforto nell’essere costretti ad assumere un ruolo di vessazione rispetto ad altri. E’ il caso di quei piccoli imprenditori, ex operai, che provano ripugnanza a ricorrere ai licenziamenti a causa della crisi, o dei dirigenti che sono indignati da quello che bisogna fare agli operai a causa della crisi: è successo, ad esempio, pochi mesi fa vicino Napoli, dove il direttore di un supermercato sull’orlo del fallimento si è suicidato perché il padronato, a fronte dei mesi di salari arretrati vantati dagli operai, gli aveva ordinato di dare a questi l’elemosina di duecento euro: piuttosto che rendersi complice di questa umiliazione per i suoi ex compagni di lavoro, il direttore si è suicidato, esprimendo in questa maniera estrema la sua volontà di ribellarsi alla barbarie di questo sistema.

Questi episodi dimostrano che il senso della solidarietà è insito nell’essere umano, al punto da coinvolgere anche persone che non fanno parte (o non fanno più parte) della classe operaia. Un altro esempio lo si è avuto di recente con quell’imprenditore che ha pagato, al posto di quei genitori che non avevano potuto farlo, le rette per la mensa scolastica a dei bambini a cui il sindaco aveva tagliato il cibo, scrivendo anche una lettera in cui spiegava che a spingerlo era stato lo schifo verso il razzismo insito nella decisione del sindaco.

Da questi esempi la discussione nelle riunioni pubbliche ha anche sviluppato l’idea che è in corso una proletarizzazione dei ceti medi che allarga il numero di persone interessate ad opporsi a questo sistema: altro che scomparsa della classe operaia! (Da sempre erroneamente identificata con gli operai di fabbrica). La crisi storica e insormontabile di questo sistema allarga sempre più la forbice fra chi possiede di gran lunga più di quanto gli serve per vivere (una stretta minoranza della popolazione, anche nei pesi “ricchi”) e chi è ormai ridotto alla miseria, o alla soglia di questa anche quando ha un lavoro.

Un ulteriore punto, contenuto nella relazione e non sviluppato a sufficienza nelle discussioni, vale la pena di riprendere qui: è la questione del significato sociale del lavoro, anche quello alienato dell’operaio. I lavoratori che si sono suicidati perché licenziati, non lo hanno fatto solo perché così veniva a mancare il mezzo di sostentamento per sé e la propria famiglia, ma anche perché con la perdita del lavoro essi si sentivano inutili socialmente. In questo aspetto tragico e negativo c’è tuttavia, almeno implicitamente, il senso dell’importanza che i lavoratori danno al loro lavoro, anche quello alienato e sfruttato che ci offre il capitalismo. In effetti è il lavoro degli sfruttati che fa funzionare la società, e non certo il capitale o i suoi funzionari (che economicamente sono dei semplici funzionari del capitale e socialmente dei parassiti). Questo sentimento è fondamentale e se oggi la perdita del lavoro può portare al suicidio, la comprensione piena e cosciente di questa importanza è anche uno degli elementi che porterà la classe operaia a proporsi per la direzione e la trasformazione della società: è il sudore e il sangue dei lavoratori che produce la ricchezza di questa società, ricchezza che viene però loro strappata, è per questo che gli operai non hanno che da perdere le loro catene, e hanno un mondo da conquistare.

Helios


[1] La presentazione della riunione è scaricabile dal nostro sito dal nostro sito.

[2] Vedi articolo sul nostro sito web nella sezione ICConline.

[3] Vedi articolo in questo stesso numero.

Vita della CCI: