Di fronte al fallimento sempre più evidente del capitalismo … una sola prospettiva, la lotta di classe!

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PRESENTAZIONE ALLE RIUNIONI PUBBLICHE DELLA CCI IN APRILE 2010

Mai il fallimento di questo sistema era stato così evidente. Mai erano stati pianificati attacchi così massicci contro la classe operaia. Quali sviluppi della lotta di classe ci si può attendere?

La gravità della crisi non permette più alla borghesia di nasconderne la realtà

La crisi dei fondi “spazzatura” nel 2008 è sfociata in una crisi aperta di dimensioni mondiali che ha causato la più grave caduta dell’attività economica dal 1929 con:

  • Fallimento di numerosissime imprese finanziarie, alcune delle quali molto grandi
  • Chiusura di fabbriche con centinaia di migliaia di licenziamenti in tutto il mondo.

Gli strumenti messi in opera dalla borghesia per evitare che il crollo fosse ancora più brutale non hanno avuto niente di nuovo. Non sono diversi dalle politiche applicate in successione dall’inizio degli anni ’70, cioè un ricorso sempre più importante al credito. Così, ancora una volta è stata raggiunta una nuova tappa nell’indebitamento mondiale, facendo raggiungere al debito mondiale vette mai toccate. Ma oggi il livello di questo debito mondiale è tale che si sente normalmente parlare di “crisi dell’indebitamento” per caratterizzare l’attuale fase della crisi economica.

La borghesia ha certamente evitato il peggio, per il momento. Ciò detto, non solo non c’è stata una vera ripresa, ma un certo numero di paesi presentano dei rischi seri di insolvenza, con tassi di indebitamento superiori al 100% del PIL. Tra questi vi sono la Grecia, la Spagna (4a economia dell’UE), l’Islanda. La Gran Bretagna, anche se non raggiunge questi livelli di indebitamento, presenta dei segni che gli specialisti definiscono molto inquietanti. Altri paesi dell’UE, tra cui Italia e Francia, non sono molto distanti.

In questo contesto, l’insolvibilità di un paese, incapace di rimborsare i suoi debiti, può provocare una reazione a catena causando l’insolvibilità di numerosi altri agenti economici (banche, imprese, paesi). Così, per esempio, le banche francesi sarebbero messe in seria difficoltà dalla sospensione, da parte della Grecia, del rimborso dei suoi debiti.

Di fronte al livello di gravità raggiunto dalla crisi di sovrapproduzione, la borghesia non dispone che di una sola soluzione: indebitarsi ancora di più! Ma questo non solo non fa che spostare il problema più in là, ma è anche sempre più difficile da praticare e con dei rischi crescenti di un rinnovamento ancora più distruttivo della crisi dei subprime.

Così facendo, le ragioni storiche della crisi economica tendono a diventare sempre più evidenti. Contrariamente al passato, la borghesia non può più mascherare la realtà della sua crisi. Tutt’al più riesce ancora a deviare in parte l’attenzione dai veri problemi dell’economia polarizzando l’opinione sul «comportamento asociale» degli speculatori. Anche se è vero che alcuni di questi ci sembrano delle carogne ripugnanti, non è là il fondo del problema.

La finanza folle, cioè l’indebitamento senza limiti e la speculazione a tutto spiano, è stata favorita dal capitalismo come tale, come mezzo per ritardare le conseguenze della recessione, al punto che l’indebitamento e la speculazione sono oggi profondamente legati e inseparabili dalla sua esistenza. Il problema reale sta nella natura stessa del capitalismo, incapace di sopravvivere senza nuove iniezioni di crediti sempre più massicci.

Oggi, la borghesia ci presenta, come rimedi alla crisi dell’indebitamento, i piani di austerità. In Grecia la borghesia sta provando a farne passare uno. Un altro è in preparazione in Spagna. In Francia si pianificano nuovi attacchi alle pensioni, e così via.

I piani di austerità possono contribuire ad allentare la stretta della crisi?

Questi piani permetteranno una nuova ripresa? Permetteranno di ristabilire, almeno parzialmente, le condizioni di vita così attaccate negli ultimi due anni?

La borghesia mondiale non può permettersi di lasciare collassare un paese come la Grecia, senza correre il rischio di conseguenze analoghe per alcuni suoi creditori, e il solo aiuto che sa accordarle sono nuovi crediti a tassi “accettabili”. Ma, in cambio, sono richieste garanzie di rigore nel bilancio. L’assistito deve dimostrare che non costituisce un pozzo senza fondo che spreca “l’aiuto internazionale”. Perciò alla Grecia è richiesto di “ridurre il suo tenore di vita” per ridurre il ritmo di crescita dei suoi deficit e del suo indebitamento. Così, il mercato mondiale dei capitali darà di nuovo fiducia alla Grecia che potrà di nuovo attirare prestiti e investimenti stranieri solo a condizione che siano duramente attaccate le condizioni di vita della classe operaia.

Qui emerge un altro paradosso: la fiducia che si è pronti ad accordare alla Grecia non dipende dalla sua capacità di arrestare il suo debito, cosa impossibile, ma semplicemente di ridurre il suo ritmo di crescita. Questo vuol dire che la solvibilità di questo paese rispetto al mercato mondiale dei capitali è legato a un aumento del suo debito che non sia “troppo consistente”. In altri termini, un paese dichiarato insolvente a causa del suo debito può diventare solvibile anche se questo indebitamento continua a crescere. Morale della favola: nel mondo iper-indebitato attuale, la solvibilità è essenzialmente basata non su una realtà obbiettiva, ma su una fiducia … non realmente fondata.

Ma i capitalisti sono costretti a crederci, altrimenti dovrebbero anche smettere di credere alla perennità del loro sistema di sfruttamento. C’è da pensare che non è semplice fare i capitalisti di questi tempi!

Per mantenere la fiducia cieca nel sistema, in tutti i paesi deve essere applicata una riduzione drastica del costo della forza lavoro, visto che tutti, anche se a livelli diversi, sono confrontati al problema di deficit enormi.

Questa politica che, nel quadro del capitalismo, non conosce reali alternative, può evitare un’ondata di panico. Essa può, eventualmente, favorire una miniripresa fondata sulla sabbia, ma certamente non può sanare il sistema finanziario mondiale. Ma se i capitalisti sono costretti a credere che ci vogliono delle cure di austerità per uscire dalla crisi, questo non è vero per gli operai!

Con quale stato di spirito la classe operaia affronta questa nuova ondata di attacchi?

Il discorso della borghesia di “accettare di stringere la cinghia perché domani andrà meglio” ormai già da tempo non fa più presa sugli operai, sicuramente a partire dall’inizio del nuovo secolo, anche se ci sono differenze tra un paese e l’altro.

Tuttavia, si può constatare come il recente aggravamento della crisi non si sia tradotto, almeno finora, in una crescita delle mobilitazioni della classe. Da poco più di un anno la tendenza sembra piuttosto essere l’inverso. Letteralmente stordita dalla valanga di attacchi, la classe operaia resta incerta, con singole reazioni puntuali. Ma questo non vuol dire che sia rassegnata alla sorte che le riserva il capitalismo.

La natura di certi attacchi, ed in particolare i licenziamenti in massa, hanno reso la risposta più difficile. In effetti di fronte a questi:

  • i padroni e i governi si difendono con un argomento “decisivo”: “Se la disoccupazione aumenta e voi siete licenziati, noi non c’entriamo: è colpa della crisi”;
  • l’arma dello sciopero diventa inutile accentuando il sentimento di impotenza dei lavoratori.

Anche se queste difficoltà pesano ancora fortemente sulla classe operaia, la situazione non è bloccata. Ci sono segni di un cambiamento nello stato di spirito della classe operaia e un fremito della lotta di classe:

  • l’esasperazione e la collera si approfondiscono e si generalizzano tra i lavoratori. Esse sono alimentate da una indignazione profonda e intensa prodotta da una situazione scandalosa e sempre più intollerabile: la sopravvivenza stessa del capitalismo che ha l’effetto di opporre due “mondi differenti” all’interno della stessa società. Da un lato si trova l’immensa maggioranza della popolazione che subisce tutte le ingiustizie e la miseria. Dall’altro, quello della classe dominante, si fa uno sfoggio indecente e arrogante di potenza e di ricchezza, con comportamenti che ricordano sempre più i costumi decomposti della classe dominante nella decadenza dell’impero romano.
  • si diffonde l’idea che “le banche ci hanno spinto in un pantano da cui non si può uscire”. Questa idea non coglie evidentemente il fondo del problema, ma catalizza la collera contro il sistema. Il cosiddetto “scandalo delle banche” ricopre di fango l’insieme del sistema che ispira un crescente sentimento di rigetto da parte dei lavoratori. I partiti di sinistra del capitale, che hanno il compito di inquadrare ideologicamente la classe operaia, devono provare a stare dietro a questo rigetto del capitalismo. Così, per esempio, il PCF[1] ha tirato fuori la formula “uscire dal capitalismo”, senza dire né come né per andare dove.
  • lotte di grande ampiezza grande tornano di nuovo sulla scena sociale, come di recente in Algeria e in Turchia.
    • In Algeria, lo scorso gennaio, ci sono stati avvenimenti importanti anche se il black-out dei mezzi di informazione non ha fatto circolare le notizie:
      • manifestazioni di disoccupati ad Annaba (all’est del paese) e di senza tetto un po’ dappertutto nel paese;
      • scioperi operai ad Orano, Mostaganem, Costantina e soprattutto nella periferia industriale di Algeri, che è stata attraversata da agitazioni importanti;
      • in questa regione la lotta per i salari, per la difesa delle pensioni, contro i licenziamenti, si è diffusa a macchia d’olio, toccando sia le aziende pubbliche che quelle private.
    • In Turchia, a dicembre e gennaio scorsi, la lotta degli operai della Tekel ha costituito un faro per la lotta di classe, nel paese ma sfortunatamente poco al di là a causa del black-out:
      • essa ha unito nella stessa lotta operai turchi e curdi;
      • ha mostrato una volontà tenace di estendere la lotta ad altri settori;
      • si è opposta con determinazione al sabotaggio dei sindacati.
  • Anche nel centro del capitalismo, sebbene un inquadramento sindacale più potente e sofisticato permetta ancora di impedire l’esplosione di lotte altrettanto importanti come quelle in Algeria e in Turchia, si assiste a una ripresa della combattività: 
    • In Francia, per esempio, dall’inizio dell’anno, si susseguono fermate di lavoro, manifestazioni e scioperi sia nel settore pubblico che in quello privato: insegnamento, ospedali, raffinerie, controllori di volo, magazzini IKEA, Philips, ecc.
  • C’è il ritorno, in forma più esplicita, di caratteristiche della lotta di classe che avevano segnato certe mobilitazioni a partire dal 2003. E’ il caso in particolare della solidarietà operaia, che tende di nuovo ad imporsi come punto di forza della lotta, dopo essere stata tanto snaturata e deprezzata durante gli anni novanta. Attualmente, essa si manifesta sotto la forma di iniziative (anche se ancora molto minoritarie) volte ad unire nella stessa lotta operai di diversi settori, etnie e nazionalità. La solidarietà sbocca in un internazionalismo di fatto.
    • Lo si è visto nelle lotte operaie alla Tekel in Turchia.
    • Ma anche in Spagna, a Vigo.
      • Là i lavoratori attivi dei cantieri navali e i disoccupati hanno manifestato assieme, raggruppando altri lavoratori fino ad ottenere il fermo di tutto il settore navale.
      • Quello che c’è di più notevole in questa azione è che l’iniziativa è partita dai lavoratori licenziati dei cantieri navali che erano stati rimpiazzati da lavoratori immigrati: “che dormono nei parcheggi e mangiano giusto un panino al giorno”.
      • Lungi dal suscitare reazioni xenofobe da parte degli operai indigeni, questi hanno solidarizzato contro le condizioni di sfruttamento inumano riservate ai lavoratori immigrati.
      • Questo fatto costituisce la ripetizione di quello che era già successo in Gran Bretagna alla raffineria di Lindsey da parte di operai edili nel gennaio2009 o in Spagna, ai cantieri navali di Sestao nell’aprile 2009.
  • Una settimana di black-out sulle lotte sociali in Grecia contro le misure del piano di austerità: questo fatto la dice lunga sulla paura della borghesia di veder propagarsi a livello internazionale il cattivo esempio della determinazione operaia a non lasciarsi schiacciare e della sua capacità a sviluppare la lotta malgrado gli ostacoli. A febbraio i movimenti di sciopero hanno avuto un grande seguito, fino al 90% ed esiste una forte diffidenza rispetto ai sindacati. Si possono aggiungere le mobilitazioni importanti che ci sono state in Spagna (dove la CCI è intervenuta con un volantino), e più recentemente in Portogallo.

Attualmente ci troviamo in una situazione in cui, oltre ai licenziamenti nelle aziende in difficoltà, gli Stati devono portare avanti in prima persona gli attacchi contro la classe operaia per scaricare su di essa il costo del debito. Così il responsabile degli attacchi, lo Stato, è questa volta molto più facilmente identificabile che nel caso dei licenziamenti. Questo è evidentemente un fattore che favorisce lo sviluppo della lotta di classe, della sua unità e della sua politicizzazione perché è il guardiano supremo degli interessi del capitale, lo Stato, che si mostra chiaramente come il primo difensore degli interessi di tutta la classe capitalista contro l’insieme della classe operaia.

Tutti gli elementi della situazione attuale e dell’immediato futuro costituiscono gli ingredienti per l’esplosione di future lotte di massa. Ma quello che sarà l’elemento scatenante di queste lotte è sicuramente l’accumulazione dell’esasperazione, della collera e dell’indignazione. L’applicazione da parte della borghesia dei differenti piani di austerità pianificati in diversi paesi costituisce un’occasione di esperienze di lotta e una lezione per la classe operaia. Quanto al segnale dello scoppio delle lotte di massa, una volta presenti le loro condizioni, esso può venire da un qualsiasi “pretesto” che darà fuoco alle polveri.

Le lotte di massa, una tappa futura importante per lo sviluppo della lotta di classe, ... ma non l'ultima

Il crollo dello stalinismo e, soprattutto, il suo sfruttamento ideologico da parte della borghesia hanno lasciato tracce presenti ancora oggi nella classe operaia.

Di fronte alle “evidenze” avanzate dalla borghesia secondo cui “il comunismo non funziona, la prova sta nel fatto che esso è stato abbandonato a favore del capitalismo dalle popolazioni che l’avevano conosciuto”, fondate sulla più grande menzogna del secolo che ha identificato i regimi stalinisti al socialismo, gli operai non potevano che allontanarsi dal progetto di una società alternativa al capitalismo.

La situazione che ne è uscita è, da questo punto di vista, molto differente da quella conosciuta alla fine degli anni sessanta. All’epoca, il carattere di massa delle lotte operaie, in particolare l’enorme sciopero del Maggio ’68 in Francia e l’Autunno caldo in Italia del 1969, avevano messo in evidenza che la classe operaia può costituire una forza di primo piano nella vita della società. L’idea che essa avrebbe potuto un giorno rovesciare il capitalismo non apparteneva al campo dei sogni irrealizzabili, contrariamente ad oggi.

La difficoltà ad entrare in lotta in massa, manifestata dal proletariato dopo gli anni novanta, deriva da una mancanza di fiducia in se stesso, che non si è dissolto con la ripresa delle lotte che si è avuta a partire dal 2003.

E’ solo lo sviluppo delle lotte di massa che permetterà al proletariato di recuperare la fiducia nelle sue proprie forze e di mettere di nuovo in avanti la sua prospettiva.

Per importante che sia questa tappa futura della lotta di classe, essa non significherà tuttavia la fine delle esitazioni del proletariato ad ingaggiarsi risolutamente sulla strada che porta alla rivoluzione.

Già Marx metteva in evidenza (all’inizio del 1852) il corso difficile della rivoluzione proletaria. C’era, secondo lui, una differenza con le rivoluzioni borghesi che “come quelle del 18° secolo, si precipitano rapidamente di successo in successo[2].

Questa differenza nel corso della lotta di classe tra proletariato e borghesia rivoluzionaria deriva dalle differenze che esistono tra le condizioni della rivoluzione borghese e quelle della rivoluzione proletaria.

La presa del potere politico da parte della classe capitalista aveva costituito il punto di arrivo di tutto un processo di trasformazione economica all’interno della società feudale. Nel corso di questo gli antichi rapporti di produzione feudali sono stati progressivamente soppiantati dai rapporti di produzione capitalisti. E sono stati proprio questi a costituire un punto d’appoggio essenziale per la borghesia nella sua conquista del potere politico.

Il processo della rivoluzione proletaria è completamente differente. I rapporti di produzione comunisti, che non sono rapporti mercantili, non possono svilupparsi in seno alla società capitalista dominata dai rapporti mercantili e diretta dalla borghesia. Per il fatto che essa è la classe sfruttata del modo di produzione capitalista, che essa è per definizione privata di ogni mezzo di produzione, la classe operaia non dispone, in seno al capitalismo, e non può disporre, di punti di appoggio economici per la conquista del potere politico.

Contrariamente a quando il capitalismo soppiantava il feudalesimo, il primo atto della trasformazione comunista della società deve consistere in un atto cosciente e deliberato: la presa del potere politico su scala mondiale da parte dell’insieme del proletariato organizzato in consigli operai.

L’immensità di questo compito è evidentemente tale da far esitare, da far dubitare.

Questa è una delle ragioni per cui è responsabilità dei rivoluzionari partecipare pienamente a favorire la capacità della classe operaia:

  • ad iscrivere le proprie lotte nella loro dimensione storica,
  • a concepirle come un momento della lunga lotta storica del proletariato contro lo sfruttamento e per la sua abolizione.

CCI, aprile 2010



[1] PCF, partito “comunista” francese, residuato dello stalinismo nei paesi occidentali.

[2] Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Rosa Luxemburg riprese la stessa idea "la rivoluzione  [proletaria] è la sola forma di «guerra» (…) in cui la vittoria finale non potrà essere ottenuta che attraverso una serie di ‘sconfitte'. (...) Le rivoluzioni... non ci hanno portato finora che delle sconfitte, ma queste sconfitte inevitabili sono esattamente la cauzione ripetuta della vittoria finale."


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