Crollo economico, catastrofi "naturali", caos imperialista, ... Il capitalismo è un sistema in fallimento che bisogna abbattere

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Dalla crisi del sistema finanziario nel 2008, sembra che non ci sia più niente che possa mistificare la profondità della crisi storica che sta vivendo il capitalismo. Mentre piovono gli attacchi contro la classe operaia, si diffonde a macchia d’olio la miseria, si acuiscono le tensioni imperialiste, la fame continua a colpire parecchie centinaia di milioni di persone, le catastrofi naturali diventano sempre più mortali. E la stessa borghesia non può negare l'ampiezza delle difficoltà né additare un chimerico orizzonte per sperare in un avvenire migliore sotto il suo dominio. Anche nei suoi mezzi di propaganda è costretta ad ammettere che la crisi attuale è la più grave che abbia conosciuto il capitalismo da quella degli anni 1930 e che di conseguenza lo sviluppo della miseria è un male con cui bisognerà "imparare a vivere". Ma la borghesia è una classe che dispone di numerose capacità di adattamento: se ha necessità di ammettere, un poco costretta dall'evidenza della situazione, molto più per calcolo politico, che le cose vanno male e che non sono previsti miglioramenti, essa sa, nello stesso tempo, presentare i problemi in un modo sufficientemente falsificato, per non incolpare il sistema capitalista come un tutto. Le banche falliscono trascinando nella loro scia l'economia mondiale? La colpa è degli operatori di borsa! L'indebitamento di certi Stati è tale da fargli dichia-rare fallimento? La colpa è dei governi corrotti! La guerra devasta una parte del pianeta? È colpa di una mancanza di volontà politica! Le catastrofi ambientali si moltiplicano cau-sando sempre più vittime? La colpa è della natura! Se esistono divergenze nelle molteplici analisi proposte dalla borghesia, esse comunque convergono tutte su un punto essenziale con-sistente nel denunciare questa o quella forma di gestione ma non il capitalismo come modo di produzione. In realtà, l'insieme delle calamità che si abbattono sulla classe operaia è il risultato delle contraddizioni che, ogni giorno di più, stran-golano la società qualunque sia il suo governo, liberista o statalista, democratico o dittatoriale. Per mistificare meglio il fallimento del suo sistema, la borghesia pretende anche che la crisi economica iniziata nel 2008 stia leggermente rifluendo. Questa ultima non solo è lungi dall'essere finita ma, sempre più esplicitamente, esprime lo sprofondamento della crisi storica del capitalismo.

Il capitalismo sprofonda nella crisi

La borghesia si rianima quando sente le prospettive positive annunciate talvolta dagli indicatori economici, in particolare dalle cifre della crescita che timidamente sembrano ripartire verso l’alto. Ma dietro queste "buone notizie", la realtà è molto diversa. Fin dal 2008, per evitare lo scenario catastrofico della crisi degli anni 30, la borghesia ha speso miliardi per sostenere le banche in  difficoltà e ha messo in opera misure keynesiane. Queste misure consistono, in particolare, nel diminuire i tassi d'interesse delle banche centrali che determinano il prezzo del credito, e, per lo Stato, nell’impegnare risorse per il rilancio economico, spesso finanziate con l'indebitamento. Una tale politica è supposta avere per effetto benefico lo sviluppo di una forte crescita. Oggi, ciò che a colpo d’occhio colpisce, è l'estrema lentezza della crescita mondiale in rapporto alle astronomiche spese di rilancio ed all'aggressività delle politiche inflazionistiche. Gli Stati Uniti si trovano intanto in una situazione che gli economisti borghesi, mancando loro un'analisi marxista, non comprendono: lo Stato americano si è indebitato per parecchie centinaia di miliardi di dollari ed il tasso d'interesse della FED è vicino allo zero; tuttavia, la crescita dovrebbe innalzarsi solo del 1,6% nel 2010, contro il 3,7% sperati. Come dimostra il caso americano, se, dal 2008, la borghesia è riuscita ad evitare momentaneamente il peggio indebitandosi massicciamente, ciò non ha tuttavia prodotto una ripresa. Incapace di comprendere che il sistema capitalista è un modo di produzione transitorio, prigioniero di schemi  sclerotizzati, l'economista borghese non vede l'evidenza: il keynesianismo ha dimostrato il suo insuccesso storico dagli anni 1970 perché le contraddizioni del capitalismo sono oramai insolubili, ivi compreso il barare attraverso l’indebitamento con le leggi fondamentali del capitalismo.

L'economia capitalista si mantiene faticosamente da numerosi decenni gonfiando prodigiosamente il debito di tutti i paesi del mondo per creare un mercato artificiale destinato ad assorbire una parte della sovrapproduzione cronica. Ma la relazione del capitalismo all'indebitamento somiglia all'oppiomania: più si consuma, meno la dose è sufficiente. In altri termini, la borghesia ha mantenuto la testa fuori dall'acqua aggrappandosi ad un'ancora di salvezza putrefatta, la quale alla fine del 2008 si è sgretolata. È così che alla patente inefficacia dei deficit di bilancio si aggiunge il rischio di insolvenza di numerosi paesi, come la Grecia, l'Italia, l'Irlanda o la Spagna. In questo contesto, i governi di tutti i paesi sono ridotti a procedere alla giornata, modificando le loro politiche economiche dal rilancio al rigore in funzione degli avvenimenti, senza che niente possa migliorare durevolmente la situazione. Lo Stato, ultimo ricorso contro la crisi storica che strangola il capitalismo, in definitiva, non è più in grado di nascondere la sua impotenza.

Ovunque, nel mondo, continuano ad abbattersi attacchi senza precedenti contro la classe operaia che viaggiano alla stessa velocità con cui aumentano i tassi di disoccupazione. I governi, di destra come di sinistra, impongono ai proletari delle riforme e dei tagli di bilancio di una brutalità inusuale, come in Spagna dove, tra l’altro, quest’anno i dipendenti pubblici hanno visto il loro stipendio diminuito del 5% dal governo socialista di Zapatero, il quale già oggi ne promette il blocco per il 2011. In Grecia, è proprio l'età media per andare in  pensione ad aver subito un aumento di 14 anni mentre i valori delle pensioni sono congelate fino al 2012. In Irlanda, paese che la borghesia ancora recentemente vantava per il suo dinamismo, il tasso ufficiale di disoccupazione è aumentato al 14%, mentre gli stipendi dei dipendenti pubblici sono stati alleggeriti anche dal 5% al 15%, così come le indennità dei disoccupati o i sussidi familiari. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, il numero di disoccupati nel mondo è passato da 30 milioni nel 2007 a 210 milioni di oggi[1]. Gli esempi si potrebbero moltiplicare perché, su tutti i continenti, la borghesia fa pagare alla classe operaia il pesante prezzo della crisi. Ma dietro i piani di austerità, ipocritamente chiamati riforme, dietro i licenziamenti e le chiusure di fabbrica, intere famiglie sprofondano nella povertà. Negli Stati Uniti, secondo un rapporto del Census Bureau circa 44 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, ossia un aumento di 6,3 milioni di poveri in due anni che vanno ad aggiungersi al già forte sviluppo della povertà conosciuto nei tre anni precedenti. Del resto, negli Stati Uniti il decennio è stato segnato da una forte diminuzione del valore dei bassi redditi.

Non è solo nei “paesi ricchi” che la crisi viene pagata con la miseria. Recentemente, l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, meglio conosciuta sotto la sigla FAO, si rallegrava nell’osservare nel 2010 un arretramento della malnutrizione che colpisce particolarmente l'Asia con 578 milioni di persone e l'Africa con 239 milioni, per un totale di 925 milioni di persone nel mondo. Ciò che le statistiche non rivelano allo stesso tempo, è che questa cifra resta largamente superiore a quella pubblicata nel 2008, prima che gli effetti dell’inflazione speculativa dei prezzi dei prodotti alimentari si erano fatti sentire fino a provocare una serie di sommosse in numerosi paesi. La diminuzione significativa dei prezzi agricoli ha modestamente "ridotto la fame nel mondo" ma la tendenza su parecchi anni, quella cioè che resta indipendente da una congiuntura economica immediata, è innegabilmente in aumento. Del resto, le canicole estive in Russia, in Europa dell'Est e, recentemente, in America latina hanno diminuito molto sensibilmente il rendimento dei raccolti mondiali, ciò che, in un contesto di aumento dei prezzi, accrescerà inevitabilmente per il prossimo anno la malnutrizione. Non è solo a livello economico che il capitalismo si esprime: le irregolarità climatiche e la gestione borghese delle catastrofi ambientalistiche costituiscono una causa crescente di mortalità e di miseria.

Il capitalismo distrugge il pianeta

Quest’estate, violente catastrofi si sono abbattute ovunque sulle popolazioni nel mondo: le fiamme hanno arroventato la Russia, il Portogallo e numerosi altri paesi; monsoni devastatori hanno sprofondato il Pakistan, l'India, il Nepal e la Cina nel fango. In primavera, il Golfo del Messico ha conosciuto la peggiore catastrofe ecologica della storia in seguito all'esplosione di una piattaforma petrolifera. L'elenco delle catastrofi dell'anno 2010 è ancora lungo. La moltiplicazione di questi fenomeni e la loro gravità crescente non sono il frutto del caso perché dall'origine delle catastrofi fino alla loro gestione, il capitalismo ne porta una pesante responsabilità.

Recentemente, il crollo di una vasca di ritenzione di una fabbrica di produzione di alluminio ha generato una catastrofe industriale ed ecologica in Ungheria: più di un milione di metri cubi di "fango rosso" tossico si sono sparsi intorno alla fabbrica, causando parecchi morti e numerosi feriti. I danni ambientali e sanitari sono enormi. Gli industriali, per "minimizzare gli impatti" di questi rifiuti, trattano il fango rosso nel seguente modo: ne rigettano in mare migliaia di tonnellate o lo depositano in una immensa vasca di ritenzione, come quella che è crollata in Ungheria, mentre da molto tempo esistono tecnologie per riciclare tali rifiuti, in particolare nell'edilizia e nell'orticoltura.

La distruzione del pianeta da parte della borghesia non si limita tuttavia alle innumerevoli catastrofi industriali che colpiscono ogni anno numerose regioni. Secondo il parere di numerosi scienziati, il riscaldamento del pianeta ha un ruolo principale nella moltiplicazione dei fenomeni climatici estremi: "Sono avvenimenti che sono destinati a riprodursi e ad intensificarsi in un clima perturbato dall'inquinamento dei gas ad effetto serra" secondo il vicepresidente del Gruppo di esperti intergovernativi sull'evoluzione del clima (Giec). E per tale motivo dal 1997 al 2006, mentre la temperatura del pianeta non ha smesso di aumentare, il numero di catastrofi, sempre più devastatrici, è aumentato del 60% rispetto al decennio precedente, trascinando nella loro scia sempre più nuove vittime. Da ora al 2015, il numero di vittime di catastrofi meteorologiche dovrebbe aumentare più del 50%.

Gli scienziati delle compagnie petrolifere possono agitarsi come vogliono nel dichiarare che il riscaldamento planetario non è il risultato di un inquinamento massiccio dell'atmosfera, ma l'insieme delle ricerche scientifiche serie dimostra una correlazione evidente tra la liberazione dei gas ad effetto serra, il riscaldamento climatico e la moltiplicazione delle catastrofi naturali. Tuttavia, gli scienziati si sbagliano quando affermano che basterebbe un minimo di volontà politica dei governi per potere cambiare le cose. Il capitalismo è incapace di limitare il rilascio di gas ad effetto serra perché dovrebbe andare contro le sue leggi, quelle del profitto, della produzione a costi minimi e della concorrenza. È la necessaria sottomissione a queste leggi che costringe la borghesia ad inquinare con, tra altri esempi, la sua industria pesante, o che fa percorrere inutilmente alle sue merci migliaia di chilometri.

Del resto, la responsabilità del capitalismo sull'ampiezza di queste catastrofi non si limita all’inquinamento atmosferico ed all'irregolarità climatica. La distruzione metodica degli ecosistemi, attraverso, per esempio, la deforestazione massiccia, lo stoccaggio dei rifiuti nelle zone naturali di drenaggio, o l'urbanizzazione anarchica, talvolta fino nel letto dei fiumi prosciugati ed al centro di zone a forte rischio d'incendio, ha aggravato di molto l'intensità delle catastrofi.

La serie di incendi che ha colpito la Russia in piena estate, in particolare una larga regione intorno a Mosca, è significativa dell'incuria della borghesia e della sua impotenza a dominare questi fenomeni. Le fiamme hanno arroventato centinaia di migliaia di ettari causando un numero indeterminato di vittime. Per parecchi giorni, un denso fumo, le cui conseguenze sulla salute sono state catastrofiche al punto da raddoppiare il tasso quotidiano di mortalità, ha invaso la capitale. E per non essere da meno, enormi rischi nucleari e chimici minacciano ancora le popolazioni al di là delle frontiere russe a causa, soprattutto, degli incendi su delle terre contaminate dall'esplosione della centrale di Chernobyl e dei magazzini di armi e di prodotti chimici più o meno dimenticati nella natura.

Un elemento essenziale per comprendere le responsabilità della borghesia relativamente alla violenza degli incendi è lo stupefacente stato di abbandono delle foreste. La Russia è un paese immenso dotato di un parco forestale molto importante e denso, che necessita di una cura particolare per circoscrivere velocemente gli inizi di incendi allo scopo di evitare la loro estensione non più controllabile. Ora, numerosi ed estesi boschi russi non sono dotati neanche di vie d'accesso, tanto che i camion dei vigili del fuoco sono incapaci di raggiungere il cuore della maggior parte degli incendi. Del resto, la Russia conta solo 22.000 vigili del fuoco, ossia meno di un piccolo paese come la Francia, per lottare contro le fiamme, ed i governatori regionali, notevolmente corrotti, preferiscono adoperare i magri mezzi di cui dispongono per la gestione delle foreste per acquistare automobili di lusso, come  hanno rivelato i numerosi scandali.

Lo stesso cinismo vale per i famosi fuochi di torbiera, zone il cui suolo è costituito da materia organica in decomposizione particolarmente infiammabile: oltre a lasciare le torbiere in abbandono, la borghesia russa ha favorito la costruzione di abitazioni su queste zone dove degli incendi già avevano imperversato con forza nel 1972. Il calcolo è molto semplice: su questi pericolosi settori, i promotori immobiliari hanno potuto acquistare dei campi, dichiarati edificabili dalla legge, ad un prezzo irrisorio.

È in tal modo che il capitalismo trasforma dei fenomeni naturali umanamente dominabili in vere catastrofi. Ma, in materia di orrore,  la borghesia  non si ferma davanti  a niente. È così che intorno alle devastanti inondazioni che hanno colpito il Pakistan, si è giocata una delle più immonde lotte imperialiste.

Per parecchie settimane, piogge torrenziali si sono abbattute sul Pakistan, causando enormi inondazioni, smottamenti di terreni, migliaia di vittime, più di 20 milioni di sinistrati e danni materiali considerevoli. La carestia e la propagazione di malattie, come il colera, hanno peggiorato una situazione già disperata. Per più di un mese, nel mezzo di questo orribile quadro, la borghesia pakistana ed il suo esercito hanno mostrato solo un'incompetenza ed un cinismo allucinante, accusando l'implacabilità della natura, mentre, come in Russia, tra urbanizzazione anarchica e servizi di soccorsi impotenti, le leggi del capitalismo appaiono come l'elemento essenziale per comprendere l'ampiezza della catastrofe.

Ma un aspetto particolarmente nauseante di questa tragedia è il modo con cui le potenze imperialiste hanno ancora una volta tentato di trarre profitto dalla situazione, a scapito delle vittime, utilizzando le operazioni umanitarie come alibi. Infatti, gli Stati Uniti sostengono, nella cornice della guerra con il confinante Afghanistan, il governo molto contestato di Youssouf  Raza Gilani, e hanno approfittato con una certa urgenza degli avvenimenti per dispiegare un importante contingente "umanitario" costituito da portaelicotteri, da navi di assalto anfibie, ecc. Col pretesto di impedire un sollevamento dei terroristi di Al-Qaida, favorito dalle inondazioni, gli Stati Uniti frenano, per quanto è possibile, l’arrivo dell' “aiuto internazionale” proveniente da altri paesi, "aiuto umanitario" anche questo costituito da militari, diplomatici ed investitori senza scrupoli.

Come per ogni catastrofe di grande portata, tutti i mezzi sono messi in opera da tutti gli Stati per fare valere i loro interessi imperialisti. Tra questi, la promessa di doni è diventata un'operazione sistematica: tutti i governi annunciano ufficialmente una sostanziosa manna finanziaria che è accordata ufficiosamente solamente se si soddisfano le ambizioni dei donatori. Per esempio, attualmente, solo il 10% dell'aiuto internazionale promesso nel gennaio 2010 dopo il terremoto ad Haiti è stato versato effettivamente alla borghesia haitiana. Ed il Pakistan non farà certamente eccezione alla regola; i milioni promessi saranno versati solamente a titolo di commissione di Stato contro servizi resi. 

I fondamenti del capitalismo, la ricerca del profitto, la concorrenza, ecc., sono dunque, a tutti i livelli, al centro della problematica ambientalista. Ma le lotte intorno al Pakistan illustrano anche le tensioni imperialiste crescenti che devastano una parte del pianeta.

Il capitalismo semina il caos e la guerra

L'elezione di Barack Obama alla testa della prima potenza mondiale ha suscitato molte illusioni sulla possibilità di pacificare i rapporti internazionali. In realtà, la nuova amministrazione americana ha solamente confermato la dinamica imperialista iniziata col crollo del blocco dell'Est. L'insieme delle nostre analisi secondo cui "la disciplina rigida dei blocchi imperialisti" doveva, in seguito al crollo del blocco dell'Est, cedere il posto all'indisciplina, ad un caos strisciante ed ad una lotta generalizzata di tutti contro tutti con una moltiplicazione incontrollabile dei conflitti militari locali, è stato pienamente verificato. Il periodo aperto dalla crisi e l'aggravamento considerevole della situazione economica non hanno fatto che acuire le tensioni imperialistiche tra le nazioni. Secondo L'Istituto Internazionale Peace Research di Stoccolma non meno di 1531 miliardi di dollari sarebbero stati spesi nei bilanci militari di tutti i paesi nel 2009, ossia un aumento del 5,9% rispetto al 2008 e del 49% rispetto al 2000. Ed ancora, queste cifre non tengono conto del traffico illegale delle armi. Anche se la borghesia di certi Stati si trova costretta, obbligata dalla crisi, a ridurre le sue spese militari, fondamentalmente la militarizzazione crescente del pianeta è il riflesso del solo futuro che viene riservato all'umanità: la moltiplicazione dei conflitti imperialisti.

Gli Stati Uniti, con i loro 661 miliardi di spese militari nel 2009, beneficiano di una superiorità militare assolutamente incontestabile. Tuttavia, dal crollo del blocco dell'Est, il paese è sempre meno in grado di mobilitare altre nazioni dietro di sè, come lo ha dimostrato la guerra dell'Iraq iniziata nel 2003 dove, a dispetto del ritiro annunciato recentemente, le truppe americane contano ancora parecchie decine di migliaia di soldati. Non solo gli Stati Uniti non sono stati in grado di raggruppare altre potenze sotto la loro bandiera, in particolare la Russia, la Francia, la Germania e la Cina ma, in più, altre si sono disimpegnate poco a poco dal conflitto, come la Gran Bretagna e la Spagna. Soprattutto, la borghesia americana sembra sempre meno capace di assicurare la stabilità di un paese conquistato (il pantano afgano ed iracheno sono sintomatici di questa impotenza) o di una regione, come lo dimostra il modo con cui l'Iran sfida gli Stati Uniti senza timore di rappresaglia. L'imperialismo americano è nettamente declinante e cerca di riconquistare la sua leadership persa da parecchi anni attraverso le guerre che, alla fine, l'indeboliscono considerevolmente.

Di fronte agli Stati Uniti, la Cina tenta di fare prevalere le sue ambizioni imperialiste attraverso lo sforzo di armamento (100 miliardi di dollari di spese militari nel 2009, con aumenti annui a due cifre dagli anni 90) e sul campo. In Sudan, per esempio, come in molti altri paesi, la Cina si stabilisce economicamente e militarmente. Il regime sudanese e le sue milizie, armate dalla Cina, massacrano le popolazioni accusate di sostenere i ribelli del Darfour, armati a loro volta dalla Francia, tramite il Ciad, e dagli Stati Uniti, vecchio avversario della Francia nella regione. Tutte queste manovre nauseanti hanno determinato la morte di centinaia di migliaia di persone e l'esodo di parecchi milioni d'altre.

Tuttavia, non sono solo Gli Stati Uniti e la Cina a portare la responsabilità del caos guerriero sul pianeta. In Africa, per esempio, la Francia, direttamente o attraverso milizie interposte, tenta di salvare ciò che le è possibile della sua influenza, principalmente in Ciad, in Costa d'Avorio, in Congo ecc. Le cricche palestinesi ed israeliane, sostenute dai rispettivi padrini perseguono una guerra interminabile. La decisione israeliana di non prolungare la moratoria sulle costruzioni nei territori occupati, mentre sono in atto "negoziati di pace" organizzati dagli Stati Uniti, mostra del resto il vicolo cieco della politica di Obama che voleva distinguersi da quella di Bush attraverso una maggiore diplomazia. La Russia, con la guerra in Georgia e l'occupazione della Cecenia tenta di ricreare una sfera di influenza attorno a sé. La litania dei conflitti imperialisti è troppo lunga per poterla esporre qui in modo esauriente. Tuttavia, ciò che la moltiplicazione dei conflitti rivela, è che tutte le frazioni nazionali della borghesia, potenti o non, non hanno altra alternativa da proporre se non spargimenti di sangue in difesa dei loro interessi imperialisti.

La classe operaia riprende la strada della lotta

Di fronte alla profondità della crisi nella quale affonda il capitalismo, palesemente la combattività operaia non è all’altezza degli attacchi, le sconfitte del proletariato esercitano ancora una pesante pressione sulla coscienza della nostra classe. Ma le armi della rivoluzione si fabbricano nel cuore delle lotte che la crisi comincia a sviluppare significativamente. Da parecchi anni numerose lotte aperte sono esplose, talvolta simultaneamente a livello internazionale. La combattività operaia si esprime simultaneamente sia a livello dei paesi "ricchi" - in Germania, in Spagna, negli Stati Uniti, in Grecia, in Irlanda, in Francia, in Giappone, ecc. - che nei paesi "poveri". La borghesia dei paesi ricchi diffonde l'immonda e menzognera idea che i lavoratori dei paesi poveri si appropriano dei posti di lavoro dei paesi ricchi, ma mette molta cura ad imporre quasi un blackout sulle lotte di questi operai perché li farebbe apparire vittime degli stessi attacchi che il capitalismo in crisi impone in tutti i paesi.

In Cina, in un paese dove la parte dei salari nel PIL è passata dal 56% nel 1983 al 36% nel 2005, gli operai di parecchie fabbriche hanno cercato di liberarsi dei sindacati, malgrado con forti illusioni sulla possibilità di un sindacato libero. Soprattutto, gli operai cinesi sono riusciti a coordinare da soli la loro azione e ad al-largare la loro lotta al di là della fabbrica. A Panama, il 1 luglio, è esploso uno sciopero nelle piantagioni di banane della provincia di Bocas di Toro per richiedere il pagamento degli stipendi ed opporsi ad un riforma antisciopero. Là anche, malgrado un viva repressione poliziesca ed i molteplici sabotaggi sindacali, i lavoratori hanno cercato immediatamente, e con successo, di estendere il loro movimento. La stessa solidarietà e la stessa volontà di battersi hanno animato collettivamente un movimento di sciopero selvaggio in Bangladesh, violentemente represso dalla polizia.

Nei paesi centrali, la reazione operaia è proseguita attraverso nu-merose lotte in Grecia e in particolare in Spagna dove gli scioperi si moltiplicano contro le misure draconiane di austerità. Lo sciopero organizzato dai lavoratori della metropolitana di Madrid è significativo della volontà degli operai di estendere la loro lotta e di organizzarsi collettivamente attraverso le assemblee generali. È perciò che esso è stato il bersaglio di una campagna denigratoria orchestrata dal governo socialista di Zapatero e dai suoi media. In Francia, se i sindacati riescono ad inquadrare gli scioperi e le manifestazioni, la riforma che mira ad innalzare l'età pensionabile provoca la mobilitazione di un larga frangia della classe operaia e dà luogo ad espressioni che, per quanto minoritarie, sono anche molto significative di una volontà di organizzarsi fuori dai sindacati attraverso le assemblee generali sovrane e di estendere le lotte.

Evidentemente, la coscienza del proletariato mondiale è ancora insufficiente e queste lotte, sebbene simultanee, non sono immediatamente in grado di creare le condizioni di un’unica lotta a livello internazionale. Tuttavia, la crisi nella quale affonda il capitalismo, le cure di austerità e la miseria crescente vanno a produrre inevitabilmente ed in maniera crescente  una moltiplicazione di lotte massicce attraverso cui gli operai svilupperanno poco a poco la loro identità di classe, la loro unità, la loro solidarietà, la loro volontà di battersi collettivamente. Questo campo è il concime di una politicizzazione cosciente del combattimento operaio per la sua emancipazione. La strada verso la rivoluzione è ancora lunga ma, come scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto comunista: "La borghesia non ha forgiato solamente le armi che la metteranno a morte; ha prodotto anche gli uomini che maneggeranno queste armi, gli operai moderni, i proletari".

V. (08/10/10)



[1] Queste statistiche mettono in evidenza un aumento generale  della disoccupazione che la borghesia con i suoi giochetti di pre-stigio non può più dissimulare. Bisogna essere tuttavia coscienti che queste cifre sono lungi dal riflettere l'ampiezza del fenomeno poiché, in tutti i paesi, compresi quelli in cui la borghesia si è do-vuta impegnare per mettere in opera un dispositivo di ammortiz-zatori sociali, il fatto di non ritrovare lavoro ha per conseguenza che dopo un certo tempo non si è più considerati disoccupati.