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Questo articolo, pubblicato nell’autunno 1979 nel n°19 della nostra Rivista Internazionale trimestrale nelle tre lingue francese, inglese e spagnolo, appare oggi anche in lingua italiana. Si tratta di un testo per noi di grande importanza perché dà un quadro a nostro avviso ampio e profondo della questione dell’imperialismo. Il tempo intercorso dal momento in cui questo articolo è stato scritto ci impone tuttavia di fare alcune precisazioni per guidare il lettore nella comprensione del testo.
Anzitutto si vedrà che lo scenario storico al quale l’articolo fa riferimento è quello definito dall’immediato dopoguerra, con la divisione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti che, come ormai tutti sappiamo, non è più lo scenario attuale nella misura in cui tali blocchi sono venuti meno in seguito al crollo del muro di Berlino. Ma, tenuto conto di ciò, l’analisi resta del tutto valida.
In secondo luogo nell’articolo, a proposito della “spiegazione del modo con cui il capitalismo decadente ha prolungato la sua esistenza in assenza di fatto di questa sfera non capitalista”, si invita con la nota 7 il lettore a leggere il nostro opuscolo La decadenza del capitalismo. Il lettore deve però sapere che, nel frattempo, la nostra organizzazione ha sviluppato una discussione proprio su questo punto relativo alla “ricostruzione” dell’economia dando luogo ad un dibattito interno molto serrato da cui é scaturita una serie di articoli che noi riportiamo nella stessa nota 7 citata prima. Per il resto pensiamo che l’articolo conservi per intero la sua forza e la sua coerenza. Buona lettura.
Marxismo e imperialismo
Con tutta la proliferazione di lotte di “liberazione nazionale” per tutto il pianeta; con il numero crescente di guerre locali tra Stati capitalisti; con l’accelerazione dei preparativi dei due grandi blocchi imperialisti in vista di uno scontro finale - tutti fenomeni che esprimono la decomposizione irreversibile dell’economia capitalista mondiale - diventa sempre più importante per i rivoluzionari sviluppare una comprensione chiara del significato dell’imperialismo. Da settanta anni a questa parte, i marxisti hanno riconosciuto che viviamo nell’epoca della decadenza imperialista, e hanno tentato di trarne tutte le conseguenze per la lotta di classe del proletariato.
Ma, particolarmente con la controrivoluzione che si è abbattuta sul proletariato negli anni 20, il compito storico di definire e comprendere l’imperialismo è stato duramente ostacolato dal trionfo pressoché totale dell’ideologia borghese sotto tutte le sue forme. Così, il vero significato della parola imperialismo è stato deformato e svuotato del suo contenuto. Il lavoro di mistificazione è stato condotto su diversi fronti: dagli ideologi borghesi tradizionali che proclamano che l’imperialismo si è concluso con la trasformazione de “l’Impero” britannico in “Commonwealth” o con l’abbandono delle loro colonie da parte delle grandi potenze; dalle legioni di sociologi, economisti ed altri accademici che rivaleggiano a colpi di tonnellate di letteratura illeggibile sul “terzo Mondo”, di “studi sullo sviluppo” o il “risveglio nazionalista nelle colonie”, ecc.; e soprattutto dagli pseudo-marxisti della sinistra del capitale che danno addosso ai crimini dell’imperialismo americano pretendendo al tempo stesso che la Russia o la Cina siano delle potenze antimperialiste ed anche anticapitaliste. Questa distinzione avvilente non ha risparmiato neanche il movimento rivoluzionario. Alcuni rivoluzionari, colpiti dalle “scoperte” degli accademici borghesi, hanno abbandonato ogni riferimento agli intrighi imperialisti del capitalismo e considerano l’imperialismo come un fenomeno antiquato, superato nella storia del capitalismo. Altri, nei loro sforzi di resistenza alle trappole dell’ideologia borghese, non hanno fatto che trasformare gli scritti dei marxisti antecedenti in sacra scrittura. È il caso dei bordighisti per esempio che applicano meccanicamente “le cinque caratteristiche fondamentali dell’imperialismo” di Lenin al mondo moderno ignorando tutta l’evoluzione che si è prodotta in questi ultimi sessanta anni.
Ma i marxisti non possono né ignorare la tradizione teorica a partire della quale si sono formati, né trasformarla in dogma. La questione è assimilare in maniera critica i classici del marxismo e applicarne i contributi più importanti ad un’analisi della realtà attuale. Lo scopo di questo testo è mettere in luce il significato reale e contemporaneo della formulazione elementare: l’imperialismo domina l’intero pianeta nella nostra epoca; di spiegare il contenuto dell’affermazione espressa nella piattaforma della CCI: “l’imperialismo, politica alla quale è costretta ogni nazione per sopravvivere, quale che sia la sua grandezza”; di mostrare che, nel capitalismo moderno, tutte le guerre hanno una natura imperialista, tranne una: la guerra civile del proletariato contro la borghesia. Ma per questo, è innanzitutto necessario ritornare ai primi dibattiti sull’imperialismo all’interno del movimento operaio.
Marxismo contro revisionismo
Nel periodo che ha condotto alla prima guerra mondiale, la questione “teorica” dell’imperialismo ha costituito una frontiera che ha separato l’ala rivoluzionaria, internazionalista della socialdemocrazia, da tutti gli elementi riformisti e revisionisti del movimento operaio. Una volta aperta la guerra, la posizione sull’imperialismo determinava da che lato della barricata ci si trovava. Era una questione eminentemente pratica poiché è da essa che dipendeva tutto l’atteggiamento verso la guerra imperialista e verso le convulsioni rivoluzionarie che la guerra aveva provocato.
Esistevano dei punti nodali su questa questione su cui tutti i marxisti rivoluzionari erano d’accordo. Questi punti restano la base di ogni definizione marxista dell’imperialismo oggi.
1) I marxisti, secondo i quali l’imperialismo era definito come un prodotto specifico della società capitalista, attaccavano vigorosamente le ideologie borghesi più apertamente reazionarie che parlavano dell’imperialismo come di un bisogno biologico, un’espressione del desiderio dell’uomo di territori e di conquiste (questa sorta di teoria che rifiorisce oggigiorno nella nozione di “imperativo territoriale” è sostenuta dagli zoologi sociali del genere di Robert Ardrey e Desmond Monis). I marxisti si battevano con altrettanta fermezza contro i temi razzisti relativi al “compito civilizzatore dell’Uomo Bianco” e contro tutti gli amalgami confusi di tutte le politiche di conquista e di annessione di ogni tipo di formazione sociale. Come diceva Bucharin, questa:
“(…) ultima “teoria” largamente diffusa dell’imperialismo definisce questo come una politica di conquista in generale. Da questo punto di vista, si può dire altrettanto dell’imperialismo di Alessandro di Macedonia e dei conquistatori spagnoli, di Cartagine e di re Giovanni III, dell’antica Roma e dell’America moderna, di Napoleone e di Hindenburg.
Per quanto semplice possa essere questa teoria, ciò non toglie che essa sia assolutamente falsa. È falsa perché “spiega” tutto, e cioè proprio niente.
(…) È evidente che si può dire altrettanto della guerra. La guerra è un mezzo di riproduzione di certi rapporti di produzione. La guerra di conquista è un mezzo di riproduzione allargata di questi rapporti. Ora, dare alla guerra la semplice definizione di guerra di conquista, è del tutto insufficiente per la buona ragione che non è indicato l’essenziale, e cioè, quali sono i rapporti di produzione che questa guerra consolida ed estende e quale è la base che una “politica di rapina” data è chiamata ad allargare”. (N. Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo).
Anche se Lenin diceva che “politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso. Roma fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale ed attuò l’imperialismo”, egli concordava con Bucharin quando aggiungeva:
“Ma le considerazioni “generali” sull’imperialismo, che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità o in rodomontate …”. (Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 633).
2) In secondo luogo i marxisti definivano l’imperialismo come una necessità per il capitalismo, come il risultato diretto del processo di accumulazione, delle leggi inerenti al capitale. Ad un certo stadio dello sviluppo del capitale, era il solo mezzo che permetteva al sistema di prolungare la sua esistenza. Era dunque irreversibile. Benché la spiegazione dell’imperialismo come espressione dell’accumulazione del capitale sia più chiara in certi marxisti che in altri (punto sul quale torneremo), tutti i marxisti rigettavano le tesi di Hobson, Kautsky e di altri che consideravano l'imperialismo come una semplice “politica” scelta dal capitalismo o piuttosto da frazioni particolari del capitalismo. Queste tesi si accompagnavano logicamente all’idea secondo la quale si poteva provare che l’imperialismo era una politica cattiva, costosa e miope, e che si potevano almeno convincere i settori più illuminati della borghesia del fatto che potevano trarre vantaggio da una politica generosa, non imperialista. Tutto ciò apriva chiaramente la via ad ogni tipo di ricette riformiste, pacifiste, miranti a rendere il capitalismo meno brutale e meno aggressivo. Kautsky arrivò a sviluppare l’idea che il capitalismo evolvesse gradatamente e pacificamente verso una fase di “ultra-imperialismo”, sfociando in un solo grande trust senza antagonismi, in cui le guerre sarebbero state solo un ricordo del passato. Contro questa visione utopistica (che trovò eco durante il boom seguito alla II guerra mondiale presso Paul Cardan ed altri) i marxisti insistevano sul fatto che, lungi dal rappresentare un superamento degli antagonismi capitalisti, l’imperialismo esprimeva l’esasperazione degli antagonismi al loro massimo livello. L’epoca imperialista era inevitabilmente un’epoca di crisi mondiale, di dispotismo politico e di guerra mondiale; confrontato a questa prospettiva catastrofica, il proletariato non poteva che rispondere con la distruzione rivoluzionaria del capitalismo.
3) L’imperialismo era quindi considerato come una fase specifica dell’esistenza del capitale. La sua fase ultima e finale. Sebbene si possa parlare di imperialismo britannico e francese nella prima metà del diciannovesimo secolo, la fase imperialista del capitale in quanto sistema mondiale non comincia veramente che a partire dagli anni 1870, momento in cui diversi capitali nazionali altamente centralizzati e concentrati cominciano ad entrare in concorrenza per i possedimenti coloniali, le sfere di influenza ed il dominio del mercato mondiale. Come ha detto Lenin:
“Uno dei tratti essenziali dell'imperialismo è la rivalità tra diverse grandi potenze all’inseguimento dell’egemonia” (Imperialismo, cap. 7). L’imperialismo è dunque essenzialmente un rapporto di concorrenza tra gli Stati capitalisti ad un certo stadio dell’evoluzione del capitale mondiale. Per andare più lontano, l’evoluzione di questo rapporto può essa stessa essere divisa in due fasi distinte che sono direttamente legate ai cambiamenti della situazione globale nella quale ha luogo la competizione imperialista.
“Il primo periodo dell’imperialismo si situa nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo e fa seguito all’epoca delle guerre nazionali attraverso le quali si era cementata la costituzione dei grandi Stati nazionali e di cui la guerra franco-tedesca segna pressappoco il termine estremo. Se il lungo periodo di depressione economica che seguì la crisi del 1873 portava già in germe la decadenza del capitalismo, questo poté ancora utilizzare le corte riprese che caratterizzavano questa depressione per, in qualche modo, completare lo sfruttamento dei territori e dei popoli ritardatari. Il capitalismo, alla ricerca arida e febbrile di materie prime e di acquirenti che non fossero né capitalisti, né salariati, rubò, decimò ed assassinò le popolazioni coloniali. Questa fu l’epoca della penetrazione e dell’estensione dell'Inghilterra in Egitto ed in Africa del Sud, della Francia in Marocco, a Tunisi e nel Tonchino, dell’Italia nell’Africa orientale, sulle frontiere dell’Abissinia, della Russia zarista in Asia Centrale ed in Manciuria, della Germania in Africa ed in Asia, degli USA nelle Filippine ed a Cuba, infine del Giappone sul continente asiatico.
Ma una volta finita la spartizione tra questi grandi raggruppamenti capitalisti di tutte le buone terre, di tutte le ricchezze sfruttabili, di tutte le zone di influenza, in breve di tutti gli angoli del mondo dove può essere rubato del lavoro che, trasformato in oro, andava ad accumularsi nelle banche nazionali delle metropoli, allora termina anche la missione progressiva del capitalismo... è certo che allora si sarebbe aperta la crisi generale del capitalismo” (Il problema della guerra, 1935, JEHAN, un militante della sinistra comunista in Belgio).
La fase iniziale dell’imperialismo, pure dando un assaggio della decadenza del capitalismo apportando miseria e massacri alle popolazioni delle regioni coloniali, aveva ancora un aspetto progressivo perché stabiliva il dominio del capitale a livello mondiale, condizione necessaria alla rivoluzione comunista. Ma una volta conclusasi questa spartizione del mondo, il capitalismo smette di essere un sistema progressivo, ed i flagelli che aveva fatto subire ai popoli coloniali rimbalzano allora nel cuore del sistema, come viene confermato dallo scoppio della prima guerra mondiale.
“L’attuale imperialismo non è, come nello schema di Bauer, il primo atto dell’espansione del capitale, ma solo l’ultimo capitolo del suo processo storico di espansione; è il periodo della lotta generale e acutizzata di concorrenza fra gli stati capitalistici per gli ultimi resti di ambiente non-capitalistico sopravvissuti nel mondo. La catastrofe economica e politica è, in questa fase conclusiva, elemento di vita, forma normale di esistenza del capitale come lo fu nell’“accumulazione primitiva” della sua fase iniziale. Come la scoperta dell’America e della via d’acqua per l’India fu non soltanto un’opera prometeica del genio umano e della civiltà quale appare nella leggenda liberale, ma, inseparabilmente, una serie di massacri perpetuati sui popoli primitivi del Nuovo Mondo e di grandiosi commerci di schiavi coi popoli d’Africa e d’Asia, così nella fase finale imperialistica l’espansione economica del capitale è inseparabile dalla serie di conquiste coloniali e di guerre mondiali, che oggi viviamo. Il segno caratteristico dell’imperialismo come estrema lotta di concorrenza per la dominazione mondiale capitalistica non è soltanto la particolare energia e multilateralità dell’espansione, ma – sintomo specifico che il cerchio dell’evoluzione comincia a chiudersi! - il rifluire della lotta decisiva per l’espansione dai territori che ne formano l’oggetto sui luoghi di origine. L’imperialismo riconduce così la catastrofe, come forma specifica della sua esistenza, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di partenza. Dopo di aver gettato per quattro secoli in preda a ininterrotte convulsioni e distruzioni in massa l’esistenza e la civiltà di tutti i popoli non-capitalistici in Asia, Africa, America e Australia, l’espansione del capitale precipita oggi gli stessi popoli civili d’Europa in una serie di catastrofi, il cui risultato finale non può essere che il crollo della stessa civiltà o il trapasso al modo di produzione socialistico”. (Rosa Luxemburg, “Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica”, in “L'accumulazione del capitale”, pagg.585-586, Einaudi Editore).
Il capitalismo nella sua fase imperialista finale entra nell’“era di guerre e di rivoluzioni”, come affermò l’Internazionale Comunista, un’era in cui l’umanità è confrontata con l’alternativa: socialismo o barbarie. Per la classe operaia quest’epoca significa l’erosione di tutte le riforme conquistate nel diciannovesimo secolo ed un attacco crescente al suo livello di vita attraverso le politiche di austerità e la guerra. Politicamente, significa la distruzione, o il recupero da parte della borghesia, delle sue organizzazioni precedenti e l’oppressione spietata da parte dello Stato-Leviatano imperialista, Stato costretto dalla logica della concorrenza imperialista e dalla decomposizione dell’edificio sociale a farsi carico di tutti gli aspetti della vita sociale, economica e politica. E’ perciò che, confrontata al disastro della I guerra mondiale, la sinistra rivoluzionaria trae la conclusione che il capitalismo aveva concluso definitivamente il suo ruolo storico e che il compito immediato della classe operaia internazionale era trasformare la guerra imperialista in guerra civile, di rovesciare il capitalismo attaccando la radice del male: il sistema capitalista mondiale. Naturalmente ciò significava una rottura totale con i traditori della Socialdemocrazia che, come Scheideman, Millerand ed altri, erano diventati apertamente difensori sciovinisti della guerra imperialista, o con i “Socialpacifisti” come Kautsky che continuavano a spargere l’illusione che il capitalismo poteva esistere senza imperialismo, senza dittatura, terrore o guerra.
Fin qui non potevano esserci disaccordi tra i marxisti, ed in effetti questi punti di base erano sufficienti per il raggruppamento dell’avanguardia rivoluzionaria nell’Internazionale Comunista. Ma i disaccordi che esistevano allora e che esistono ancora oggi nel movimento rivoluzionario emersero quando i marxisti tentarono di fare un’analisi più precisa delle forze motrici dell’imperialismo e delle sue manifestazioni concrete e quando tirarono le conseguenze politiche di questa analisi. Questi disaccordi tendevano a corrispondere alle differenti teorie della crisi del capitalismo e del declino storico del sistema, dato che l’imperialismo era un tentativo del capitale di superare le sue contraddizioni mortali, ciò su cui tutti erano d’accordo. Così Bucharin e Luxemburg, per esempio, che insistevano su delle contraddizioni differenti nelle loro teorie delle crisi, spiegavano in maniera differente la forza motrice dell’espansione imperialista. Questo dibattito fu complicato ulteriormente dal fatto che gran parte del lavoro di Marx sulle questioni economiche era stato scritto prima che l’imperialismo si fosse veramente impiantato, e questo buco nel suo lavoro diede adito a differenti interpretazioni sul modo con cui gli scritti di Marx potevano essere applicati all’analisi dell’imperialismo. Non è possibile in questo testo ritornare su tutti questi dibattiti sulla crisi e l’imperialismo la maggior parte dei quali oggi non è stata ancora risolta; ciò che vogliamo fare è esaminare brevemente le due grandi definizioni dell’imperialismo sviluppate all’epoca, la tesi di Lenin/Bucharin e quella della Luxemburg, e vedere come si adattano le due definizioni sia all’epoca in cui furono formulate che oggi. Così facendo, tenteremo di precisare la nostra stessa concezione dell’imperialismo oggi.
La concezione dell’imperialismo di Lenin
Per Lenin, i tratti caratteristici dell’imperialismo sono:
1) La concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un'oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.”
(da Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Lenin, Opere Scelte, pagg. 638-639, Editori Riuniti).
Sebbene la definizione dell’imperialismo di Lenin contenga un numero di indicazioni importanti, la sua principale debolezza è di essere più una descrizione di certi effetti dell’imperialismo che un’analisi delle radici dell’imperialismo nel processo di accumulazione. L’evoluzione organica o intensiva del capitale verso delle unità sempre più concentrate e lo sviluppo geografico o estensivo del campo di attività del capitale (la ricerca di colonie, la divisione territoriale del globo) sono fondamentalmente delle espressioni del suo processo interno di accumulazione. È la composizione organica crescente del capitale, con l’abbassamento tendenziale del tasso di profitto ed il restringimento del mercato interno che costringono il capitale a cercare nuovi sbocchi redditizi per l’investimento di capitale e ad estendere continuamente il mercato per le sue merci.
Ma benché la dinamica profonda dell’imperialismo non cambi, le manifestazioni esteriori di questa dinamica subiscono delle modifiche tali che numerosi aspetti della definizione di Lenin dell’imperialismo risultano inadeguati oggi, ed anche al tempo in cui li aveva elaborati. Così, il periodo in cui il capitale sembrava essere dominato da un’oligarchia del “capitale finanziario” e da alcuni “raggruppamenti di monopoli internazionali” apriva già la via ad una nuova fase durante la I guerra mondiale; l’era del capitalismo di Stato, dell’economia di guerra permanente. In un’epoca di rivalità interimperialiste permanenti sul mercato mondiale, il capitale intero tende a concentrarsi intorno all’apparato dello Stato che subordina e disciplina tutte le frazioni particolari del capitale ai bisogni di sopravvivenza militare/economica. Il riconoscimento del fatto che il capitalismo era entrato in una fase di lotte violente tra i “trust capitalisti di Stato” nazionali era molto più chiaro in Bucharin che in Lenin (vedi “L’economia mondiale e l’imperialismo”), sebbene Bucharin sia ancora prigioniero del rapporto imperialismo-capitale finanziario, il che fa sì che il suo “trust capitalista di Stato” sia in gran parte presentato come uno strumento dell’oligarchia finanziaria, mentre lo Stato è in realtà l’organo dirigente supremo nella nostra epoca. Inoltre, come sottolineava Bilan:
“Definire l’imperialismo come “prodotto del capitale finanziario”, come fa Bucharin, significa stabilire una falsa filiazione e soprattutto significa perdere di vista l’origine comune di questi due aspetti del processo capitalista: la produzione di plusvalore”, (Bilan, n°11, pag. 387).
L’incapacità di Lenin di comprendere il significato del capitalismo di Stato avrà delle gravi conseguenze politiche in un certo numero di campi: le illusioni sulla natura progressiva di certi aspetti del capitalismo di Stato che sono stati applicati, con conseguenze disastrose, dai bolscevichi nella rivoluzione russa; l’incapacità di vedere l’integrazione delle vecchie organizzazioni operaie nello Stato, e la confusa teoria della “aristocrazia operaia”, dei “partiti operaio-borghesi” e dei “sindacati reazionari” ma distinti dalla macchina statale (il problema con queste organizzazioni essendo limitato a qualche dirigente traditore che era stato corrotto dai “superprofitti imperialisti” piuttosto che riconoscere che tutto l’apparato era ormai diventato un apparato dello Stato). Le conclusioni tattiche tirate da queste teorie erronee sono ben note: fronte unito, lavoro sindacale, etc. Allo stesso modo, l’insistenza di Lenin sul fatto che i possedimenti coloniali erano un tratto distintivo ed anche indispensabile dell’imperialismo non ha retto alla prova del tempo. Malgrado la previsione che la perdita delle colonie, provocata dalle rivolte nazionali in queste regioni, avrebbe scosso il sistema imperialista fin nelle sue fondamenta, l’imperialismo si è adattato completamente e facilmente alla “decolonizzazione”. La decolonizzazione non ha fatto che esprimere il declino delle vecchie potenze imperialiste ed il trionfo dei giganti imperialisti che non erano ostacolati da un gran numero di colonie al momento della I guerra mondiale. E’ per tale motivo che gli Stati Uniti e l’URSS poterono sviluppare una cinica politica “anticoloniale” per perseguire i loro obiettivi imperialisti, appoggiandosi sui movimenti nazionali e trasformarli immediatamente in guerre interimperialiste per “popoli” interposti.
La teoria dell'imperialismo di Lenin diventò la posizione ufficiale dei bolscevichi e dell’Internazionale Comunista, in particolare in connessione con la questione nazionale e coloniale, ed è qui che le carenze teoriche avranno le conseguenze più serie. Se l’imperialismo è definito essenzialmente da caratteristiche sovrastrutturali, diventa facile dividere il mondo in nazioni imperialiste, che opprimono, e nazioni non imperialiste, oppresse, ed anche per certe potenze imperialiste di “smettere” improvvisamente di essere imperialiste, quando esse perdono una o più di queste caratteristiche. Nello stesso tempo, si è sviluppata una tendenza ad annegare le differenze di classe nelle “nazioni oppresse” ed a sostenere che il proletariato - come campione nazionale di tutti gli oppressi - doveva radunare le nazioni oppresse sotto la sua bandiera rivoluzionaria. Questa posizione si applicava principalmente alle colonie, ma Lenin, nella sua critica a la “Juniusbrochure”, difende l’idea che anche i paesi capitalisti sviluppati dell’Europa moderna potrebbero, in certe circostanze, combattere una guerra legittima per l’indipendenza nazionale. Durante la prima guerra mondiale questa idea ambigua non ebbe conseguenze grazie alla valutazione corretta di Lenin secondo la quale il contesto imperialista globale della guerra non permetteva al proletariato di sostenere una politica di indipendenza nazionale di qualsivoglia belligerante. Ma le debolezze di questa teoria furono dimostrate in maniera eclatante dopo la guerra: innanzitutto, con il declino dell’ondata rivoluzionaria e l’isolamento dello Stato russo. L’idea di un carattere “antimperialista” delle “nazioni oppresse” fu smentita dai fatti in Finlandia, in Europa dell’est, in Persia, in Turchia ed in Cina, dove i tentativi di condurre politiche di “autodeterminazione nazionale” e di “fronti unici antimperialisti” non furono in grado di impedire alle borghesie locali di allearsi con le potenze imperialiste e di schiacciare ogni iniziativa in favore della rivoluzione comunista.[1] La più grottesca applicazione delle idee avanzate da Lenin nel suo “A proposito della Juniusbrochure” fu forse l’esperienza “nazional bolscevica” in Germania nel 1923: secondo questo concetto senza fondamento, la Germania avrebbe improvvisamente smesso di essere una potenza imperialista con la perdita delle sue colonie ed il saccheggio che l’Intesa le aveva fatto subire. Un’alleanza antimperialista con certi settori della borghesia tedesca era dunque all’ordine del giorno. Certo, non c’è un legame diretto tra le debolezze teoriche di Lenin e questi veri tradimenti. Tra l’uno e l’altro c’è tutto un processo di degenerazione. Tuttavia è importante che i comunisti siano capaci di mostrare come sono proprio gli errori dei rivoluzionari del passato che possono servire ai partiti in degenerazione o controrivoluzionari per giustificare il loro tradimento. Non è un caso che la controrivoluzione, sotto le sue forme stalinista, maoista o trotskysta, abbia fatto ripetutamente riferimento alle teorie di Lenin sull’imperialismo e sulla liberazione nazionale, per “provare” che la Russia o la Cina non sono imperialiste (vedi il trucco tipico dei gauchisti: “dove sono i monopoli e le oligarchie finanziarie in URSS?”); o anche per “provare” che numerose cricche borghesi dei paesi sottosviluppati devono essere sostenute nella loro lotta “antimperialista”. È vero che questi deformano e corrompono numerosi aspetti della teoria di Lenin, ma i comunisti non devono avere paura di ammettere che vi sono numerosi elementi nella concezione di Lenin che possono essere ripresi più o meno “tal quali” da queste forze borghesi. Sono precisamente questi elementi che dobbiamo essere capaci di criticare e di superare.
L’imperialismo e la caduta tendenziale del tasso di profitto
In Lenin è praticamente implicito che l’espansione imperialista trova le sue radici nel processo di accumulazione, nella necessità di superare la caduta tendenziale del tasso di profitto cercando della mano d’opera a buon mercato e delle materie prime nelle regioni coloniali. Questo elemento è più esplicitamente messo in evidenza da Bucharin, e forse non è un caso se l’analisi più rigorosa dell’imperialismo da parte di Bukarin era, almeno all’inizio, accompagnata da una posizione più chiara sulla questione nazionale (durante la prima guerra mondiale ed i primi anni della rivoluzione russa, Bucharin ha combattuto la posizione di Lenin sull’autodeterminazione nazionale. Più tardi cambiò posizione e fu la posizione della Luxemburg sulla questione nazionale, intimamente legata alla sua teoria dell’imperialismo,[2] - che mostrò una maggiore coerenza). Sicuramente, la necessità di far fronte alla caduta tendenziale del tasso di profitto fu un elemento primordiale dell’imperialismo, poiché l’imperialismo comincia precisamente nello stadio in cui un gran numero di capitali nazionali ad alta composizione organica arriva sul mercato mondiale. Non possiamo qui trattare per esteso la questione[3], ma consideriamo che le spiegazioni dell’imperialismo che fanno riferimento quasi esclusivamente alla caduta tendenziale del tasso di profitto soffrono di due debolezze importanti.
1) Tali spiegazioni cercano di descrivere l’imperialismo come prerogativa dei soli paesi altamente sviluppati, paesi a forte composizione organica del capitale, obbligati ad esportare capitale per superare la caduta tendenziale del tasso di profitto.
Questa idea ha raggiunto un livello caricaturale con la CWO[4] che assimila l’imperialismo all’indipendenza economica e politica, concludendo che oggi nel mondo ci sono solo due potenze imperialiste, gli USA e l’URSS, poiché sono i soli paesi ad essere veramente “indipendenti”, mentre gli altri paesi hanno solamente delle tendenze imperialiste che non possono essere mai realizzate. Questa è la conseguenza logica del vedere il problema dal punto di vista dei capitali individuali piuttosto che del capitale globale. Come sottolineava Rosa Luxemburg:
“La politica imperialista non è l’opera di uno o più stati, é il prodotto di un determinato grado di maturità dello sviluppo mondiale del capitale, un fenomeno naturalmente internazionale, una totalità indivisibile, che è intelligibile solo nell’insieme dei suoi nessi e alla quale nessuno Stato può singolarmente sottrarsi”. (La crisi della Socialdemocrazia, “Juniusbroschure”, www.marxists.org/italiano/luxembur/1915/4/junius.htm).
Questo non vuole dire che la conclusione della CWO sia la conseguenza inevitabile della spiegazione dell’imperialismo basata unicamente sulla caduta tendenziale del tasso di profitto. Se si parte dal punto di vista del capitale globale, diventa chiaro che se è il tasso di profitto dei paesi più evoluti a determinare il tasso di profitto globale, le condotte imperialiste dei paesi avanzati che ne conseguono hanno anche un’eco nei capitali più deboli. Ma dal momento in cui si considera realmente il problema dal punto di vista del capitale globale, appare evidente un’altra contraddizione del ciclo dell’accumulazione: l’incapacità del capitale globale a realizzare tutto il plusvalore all’interno dei propri rapporti di produzione. Questo problema, posto dalla Luxemburg ne “L'accumulazione del Capitale”, fu negato da Lenin, da Bucharin e dai loro successori, considerandolo come un abbandono del marxismo. Non è tuttavia difficile mostrare che Marx era preoccupato dallo stesso problema[5]:
“Più la produzione capitalista si sviluppa, più è costretta a produrre ad un livello che non ha niente a che vedere con la domanda immediata, ma che dipende da un’espansione costante del mercato mondiale. Ricardo ricorre all’affermazione ripresa da Say secondo la quale i capitalisti non producono per ottenere profitto, plusvalore, ma producono dei valori d’uso direttamente per il consumo - per il loro proprio consumo. Non tiene conto del fatto che la merce deve essere convertita in denaro. Il consumo degli operai non è sufficiente, poiché il profitto proviene precisamente dal fatto che il consumo degli operai è inferiore al valore del loro prodotto e che (il profitto) è tanto più grande quanto il consumo è relativamente piccolo. Lo stesso consumo dei capitalisti è insufficiente”. (Teorie sul plusvalore, II parte, cap. XVI “La teoria di Ricardo sul profitto” - tradotto dall’inglese da noi)
Pertanto, ogni analisi seria dell’imperialismo deve prendere in conto questa necessità di una “espansione costante del mercato mondiale”. Una teoria che ignori questo problema è incapace di spiegare perché è proprio dal momento in cui il mercato mondiale diventa incapace di continuare la sua espansione - con l’integrazione dei settori più importanti dell’economia precapitalista nell’economia capitalista mondiale agli inizi del ventesimo secolo – che il capitalismo è gettato nella crisi permanente del suo periodo imperialista finale. Può la simultaneità storica di questi due fenomeni essere rigettata come una semplice coincidenza? Mentre tutte le analisi marxiste dell’imperialismo hanno visto che la caccia alle materie prime ed alla forza lavoro, tutte e due a buon mercato, sono state un aspetto centrale della conquista coloniale, solo quella di Rosa Luxemburg comprende l’importanza decisiva dei mercati precapitalisti delle colonie e delle semicolonie, poiché forniscono il terreno per una “espansione costante del mercato mondiale” fino ai primi anni del XX secolo. Ed è precisamente questo elemento che è la “variabile” nell’analisi. Il capitale può sempre trovare forza lavoro non cara e materie prime a buon mercato nelle regioni sottosviluppate: ciò è vero sia prima che dopo l’inglobamento delle colonie e delle semicolonie nell’economia capitalista mondiale, sia nelle fase ascendente del capitalismo che in quella decadente.
Ma, da una parte la domanda globale di queste regioni smette di essere “extracapitalista” e dall’altra il grosso di questa domanda viene integrato nei rapporti di produzione capitalista; il capitale globale non ha dei nuovi sbocchi per la realizzazione di questa frazione del plusvalore destinato all’accumulazione, ha perso la sua capacità di estendere continuamente il mercato mondiale. Adesso le stesse “regioni coloniali” sono produttrici di plusvalore, concorrenti delle metropoli. La forza lavoro e le materie prime in queste regioni possono restare ancora a buon mercato, possono sopravvivere delle aree di investimento proficuo, ma queste non possono più aiutare il capitale mondiale a risolvere i problemi di realizzazione: sono diventate parti integranti del problema. Questa incapacità ad estendere, in una certa misura, il mercato mondiale, come richiesto dalla produttività del capitale, priva inoltre la borghesia di una delle principali controtendenze alla caduta del tasso di profitto: l’incremento della massa di profitto attraverso la produzione e la vendita di una massa crescente di merci. Così vengono confermate le previsioni del Manifesto Comunista:
“I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. – Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse”. (Marx, Il Manifesto del Partito Comunista, edizione Einaudi, pag. 108).
È la teoria dell'imperialismo di Rosa Luxemburg che è la migliore continuazione del pensiero di Marx su questa questione.
La concezione della Luxemburg sull’imperialismo e le sue critiche
“L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro. Dal punto di vista geografico, questo ambiente abbraccia ancora oggi i più vasti territori del mondo. Ma, in confronto all’enorme massa del capitale già accumulato degli antichi paesi capitalistici, che lotta per trovare uno sbocco al suo sovraprodotto e possibilità di capitalizzazione al suo plusvalore; in confronto alla rapidità con cui civiltà precapitalistiche vengono trasformate in capitalistiche; insomma, in confronto all’alto grado raggiunto dall’espansione delle forze produttive del capitale, il campo che ancora resta al suo allargamento sembra ormai ristretto. Di qui il procedere internazionale del capitalismo sull’arena del mondo. Dati l’alto sviluppo e la sempre più accesa concorrenza dei paesi capitalistici per la conquista di zone non-capitalistiche, l’imperialismo cresce in energia e forza d’urto, sia nella sua aggressività contro il mondo non-capitalistico, sia nell’inasprimento dei contrasti fra i paesi capitalistici concorrenti. Ma con quanta maggiore energia, potenza d’urto e sistematicità l’imperialismo opera all’erosione delle civiltà non-capitalistiche, tanto più rapidamente toglie il terreno sotto i piedi all’accumulazione del capitale. L’imperialismo è tanto un metodo storico per prolungare l’esistenza del capitale, quanto il più sicuro mezzo per affrettarne obiettivamente la fine. Ciò non significa che questo punto terminale debba essere pedantescamente raggiunto. Le forme che danno alla fase terminale del capitalismo il volto di un’era di catastrofi esprimono già di per sé la tendenza dell’evoluzione capitalistica verso questo sbocco finale”. (R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Capitolo 31, Einaudi Editore, pag. 447).
Come possiamo vedere in questo passaggio, la definizione luxemburghiana dell’imperialismo si concentra sulle basi del problema, cioè del processo di accumulazione, ed in particolare sulla fase del processo che riguarda la realizzazione, più che sugli sviluppi sovrastrutturali dell'imperialismo. D’altra parte essa mostra che il corollario politico dell’espansione imperialista è la militarizzazione della società ed il rafforzamento dello Stato: la democrazia borghese in affanno e lo sviluppo di forme apertamente dispotiche del dominio capitalista, la brutale degradazione del livello di vita degli operai per mantenere ipertrofico il settore militare dell’economia. Sebbene l'Accumulazione del Capitale contenga idee contraddittorie sul militarismo visto come un “settore dell’accumulazione”, la Luxemburg aveva fondamentalmente ragione nel vedere l’economia di guerra come una caratteristica indispensabile del capitalismo imperialista decadente. Ma l’analisi fondamentale della forza motrice dell’imperialismo della Luxemburg è stata oggetto di numerose critiche. La più importante fu scritta da Bucharin nel suo testo L'imperialismo e l’Accumulazione del Capitale (1924). Il grosso dei suoi argomenti contro la teoria della Luxemburg ha trovato recentemente un’eco nella Communist Workers’ Organisation (vedere la loro rivista Revolutionary Perspective n°6: l'Accumulazione delle contraddizioni). Risponderemo qui alle due critiche più importanti fatte da Bucharin:
1) per Bucharin, la teoria della Luxemburg secondo la quale il motore dell’imperialismo risiede nella ricerca di nuovi mercati, rende l’epoca imperialista indifferenziata dagli altri periodi del capitale:
“Il capitalismo commerciale ed il mercantilismo, il capitalismo industriale ed il liberismo, il capitalismo finanziario e l’imperialismo - tutte queste fasi dello sviluppo capitalista spariscono e si fondono nel capitalismo in quanto tale”.(Nicolai Bucharin, Imperialismo e accumulazione del capitale).
E per la CWO:
“(...) e la sua analisi dell’imperialismo basata sulla “saturazione dei mercati” è estremamente debole ed inadeguata. Se, come ammetteva la Luxemburg, ... le metropoli capitaliste contenevano ancora delle enclave precapitaliste (artigiani, contadini), perché il capitalismo avrebbe avuto bisogno di estendersi all’esterno, lontano dalle metropoli capitaliste fin dall’inizio della sua esistenza? Se cercava unicamente dei nuovi mercati, perché non ha prima integrato questi strati nel rapporto capitale-lavoro salariato? In realtà la spiegazione non è il bisogno di nuovi mercati, ma la ricerca di materie prime e del massimo profitto. In secondo luogo, la teoria della Luxemburg implica che l’imperialismo è una caratteristica permanente del capitalismo. Poiché il capitalismo, per la Luxemburg, ha sempre cercato di estendere il mercato per accumulare, la sua teoria non può fare la distinzione tra l’espansione originaria delle economie di commercio e di denaro all’alba del capitalismo in Europa e la sua espansione imperialista ulteriore... il capitale mercantile era necessario all’accumulazione originaria, ma è un fenomeno qualitativamente differente nel modo con cui il capitalismo accumula una volta che si è stabilito come modo di produzione dominante” (Revolutionary Perspective n°6, pag. 18-19).
In questo passaggio, la virulenza della CWO contro il “luxemburghismo” supera anche l’aspra polemica di Bucharin. Prima di proseguire, bisogna stabilire alcuni punti. Innanzitutto, la Luxemburg non ha mai detto che l’espansione imperialista fosse dovuta unicamente alla ricerca di nuovi mercati: ha descritto chiaramente la ricerca planetaria di mano d’opera e di materie prime a buon mercato, come la stessa CWO nota alla stessa pagina del n°6 di Revolutionary Perspective. In secondo luogo, è stupefacente che si presenti il bisogno del capitalismo “di estendere i suoi mercati per accumulare” come una scoperta della Luxemburg, quando questa è una posizione fondamentale difesa da Marx contro Say e Ricardo, come abbiamo già visto. Lo stesso Bucharin non ha mai negato che l’imperialismo fosse alla ricerca di nuovi mercati, anzi egli considera questo fatto come una delle tre forze motrici dell’espansione imperialista:
“Abbiamo messo a nudo tre moventi fondamentali della politica di conquista degli Stati capitalisti moderni. Un’aumentata competizione sul mercato della vendita, sul mercato delle materie prime e per la sfera di investimento del capitale... Queste tre radici della politica del capitale finanziario, tuttavia, rappresentano in sostanza soltanto tre aspetti di un stesso fenomeno, che non é altro che il conflitto tra l’incremento delle forze produttive ed i limiti “nazionali” dell’organizzazione della produzione” (Nicolai Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo)
Tuttavia, l’opposizione rimane: per Lenin, Bucharin ed altri, sono le “esportazioni di capitali” e non quelle di “merci” che distinguono la fase imperialista del capitale da quella precedente. E’ forse vero che la teoria della Luxemburg ignora questa distinzione implicando che l’imperialismo sia stato una caratteristica del capitale fin dall’inizio?
Se ci riferiamo ai passaggi della Luxemburg citati nel testo, particolarmente alla lunga citazione dell’Anticritica, vediamo che la stessa Luxemburg faceva chiaramente una distinzione tra la fase di accumulazione primitiva e quella imperialista, che viene presentata senza dubbio come una fase determinata dello sviluppo del capitale. Sono queste delle parole vuote o corrispondono alla sostanza della teoria della Luxemburg?
Nei fatti non c’è contraddizione nell’analisi della Luxemburg. L’imperialismo comincia per l’esattezza dopo gli anni 1870, quando il capitalismo mondiale arriva ad una nuova significativa configurazione: il periodo in cui la costituzione degli Stati nazionali d’Europa e del Nord America è conclusa e dove, al posto di una Gran Bretagna “officina del mondo”, abbiamo diverse “officine” capitaliste nazionali sviluppate in concorrenza per il dominio del mercato mondiale - in concorrenza non solo per l’ottenimento dei mercati interni degli altri, ma anche per il mercato coloniale. È questa situazione che provoca la depressione degli anni 1870 – “embrione della decadenza capitalista” proprio perché il declino del sistema è sinonimo della divisione del mercato mondiale tra capitali concorrenti - con la trasformazione del capitalismo in un “sistema chiuso” in cui il problema della realizzazione diventa insolubile. Ma, certamente, negli anni 70 esisteva ancora la possibilità di rompere il cerchio chiuso e ciò spiega in grande parte la corsa disperata dell’espansione imperialista in questa epoca.
E’ vero, come ha sottolineato la CWO, che il capitale ha sempre cercato dei mercati coloniali, ma questo non è un mistero: i capitalisti cercheranno sempre delle zone di sfruttamento redditizie e delle buone vendite, anche se i mercati disponibili “in casa propria” non sono totalmente saturi. Sarebbe assurdo aspettarsi che il capitalismo segua un corso di sviluppo regolare, come se i capitalisti si fossero incontrati per dire insieme: “innanzitutto esauriamo tutti i settori precapitalisti in Europa, poi ci estenderemo all’Asia, poi all’Africa, ecc..."
Tuttavia, dietro lo sviluppo caotico del capitalismo, si può vedere una caratteristica ben determinata: il saccheggio delle colonie da parte del capitalismo nascente; l’utilizzazione di questo saccheggio per accelerare la rivoluzione industriale nella metropoli; poi, sulla base del capitalismo industriale, una nuova spinta nelle regioni coloniali. Certamente il primo periodo di espansione coloniale non era una risposta ad una sovrapproduzione interna, ma corrispondeva alle necessità dell’accumulazione primitiva. Possiamo cominciare a parlare di imperialismo solo quando l’espansione coloniale non diventa una risposta alle contraddizioni di una produzione capitalista pienamente sviluppata. In questo senso, possiamo collocare gli inizi dell’imperialismo nell’epoca in cui le crisi commerciali della metà del diciannovesimo secolo agiscono come stimolo dell’espansione del capitale britannico verso le colonie e semi-colonie. Ma, come abbiamo detto, l’imperialismo nel pieno senso del termine implica una relazione di concorrenza tra Stati capitalisti; ed è quando il mercato delle metropoli viene diviso in modo decisivo tra diversi giganti capitalisti che l’espansione imperialista diventa una necessità inevitabile per il capitale. È questo che spiega la rapida trasformazione della politica coloniale britannica nell’ultima parte del diciannovesimo secolo. Prima della depressione degli anni 1870, prima della crescita della concorrenza degli USA e della Germania, i capitalisti britannici si chiedevano se le colonie esistenti valessero le spese che comportavano ed erano esitanti ad impossessarsi di nuove colonie; in questa epoca invece si convinsero della necessità per la Gran Bretagna di mantenere ed estendere la sua politica coloniale. La corsa alle colonie della fine del XIX secolo non fu il risultato di un’improvvisa ondata di follia da parte della borghesia o di una ricerca orgogliosa di prestigio nazionale, ma una risposta ad una contraddizione fondamentale del ciclo di accumulazione: la concentrazione crescente del capitale e la spartizione del mercato nelle metropoli, che aggravavano simultaneamente la caduta tendenziale del tasso di profitto ed il fossato tra la produttività ed i mercati solvibili, vale a dire il problema della realizzazione.
L’idea che l’orientamento verso l’apertura di nuovi mercati fosse un elemento dell’espansione imperialista non è, contrariamente a ciò che proclama la CWO (RP n°6 pag.19), contraddetto dal fatto che il grosso del commercio mondiale in questa epoca era costituito dal commercio delle metropoli capitaliste tra di loro. Il fenomeno era stato sottolineato dalla stessa Luxemburg:
“E se lo sviluppo internazionale del capitalismo rende sempre più urgente e precaria la capitalizzazione del plusvalore, la larga base del capitale costante e variabile diventa, come massa, sempre più vasta in assoluto e in rapporto al plusvalore. Di qui il fenomeno contraddittorio per cui gli antichi paesi capitalistici rappresentano gli uni per gli altri dei mercati di sbocco sempre più grandi, sono sempre più reciprocamente indispensabili, e tuttavia si combattono sempre più fra di loro come concorrenti nei rapporti con paesi non-capitalistici”. (Rosa Luxemburg, L’accumulazione del Capitale, Einaudi Editore, Cap. 26, pag. 362).
I mercati “esterni” erano per il capitale globale uno spazio di aria fresca in una prigione stretta e sovrappopolata. Più lo spazio di aria fresca si restringe rispetto alla sovrappopolazione della prigione e più i prigionieri vi si gettano disperatamente sopra.
Il fatto che durante questo periodo ci fu un netto incremento di esportazioni di capitale non significa neanche che l’espansione imperialista non abbia niente a che vedere con un problema di mercati. L’esportazione di capitale verso le regioni coloniali era non solo necessaria perché permetteva al capitalismo di produrre nelle zone dove la forza lavoro era a buon mercato e dunque di aumentare il tasso di profitto, ma anche perché estendeva il mercato mondiale:
a) perché l’esportazione di capitali include l’esportazione di beni di produzione che rappresentano anch’essi merci che devono essere vendute;
b) perché l’esportazione di capitale - sia sotto forma di capitale monetario per l’investimento che di beni di produzione - serviva ad estendere l’insieme del mercato per la produzione capitalista impiantandola nelle nuove regioni e portando sempre più acquirenti solvibili nella sua orbita. L’esempio più evidente è la costruzione di ferrovie che sono servite ad estendere la vendita delle merci capitaliste a milioni e milioni di nuovi acquirenti.
Il problema del “mercato” può aiutare a spiegare una delle caratteristiche più nette del modo con cui l’imperialismo ha esteso la produzione capitalista attraverso il mondo: la “creazione” del sottosviluppo. Perché gli imperialisti volevano un mercato sottomesso - un mercato di acquirenti che non dovevano diventare dei concorrenti delle metropoli diventando essi stessi produttori capitalisti. Ne consegue il fenomeno contraddittorio per il quale l’imperialismo ha esportato il modo di produzione capitalista ed ha distrutto sistematicamente le formazioni economiche precapitaliste, pur frenando simultaneamente lo sviluppo del capitale indigeno, saccheggiando spietatamente le economie coloniali, subordinando il loro sviluppo industriale ai bisogni specifici dell’economia delle metropoli ed appoggiando gli elementi più reazionari e più sottomessi delle classi dominanti indigene. E’ per tale motivo che, contrariamente alle previsioni di Marx, il capitalismo non ha creato un’immagine riflessa di sé nelle regioni coloniali. Nelle colonie e nelle semi colonie, non dovevano nascere capitali nazionali indipendenti - pienamente formati, con la loro rivoluzione borghese e la loro base industriale sana - ma piuttosto delle caricature grossolane dei capitali delle metropoli, indebolite dal peso delle vestigia in decomposizione dei modi di produzione anteriori, scarsamente industrializzati per servire al tempo stesso gli interessi stranieri, con borghesie deboli, nate vecchie, sia a livello economico che politico. L’imperialismo aveva così creato il sottosviluppo e non sarebbe stato mai più capace di abolirlo; allo stesso tempo, si assicurava che non si sarebbero avute rivoluzioni borghesi nelle zone arretrate. In grande parte, le ripercussioni profonde dello sviluppo imperialista, ripercussioni fin troppo evidenti oggi nel “Terzo Mondo” che affonda nella barbarie, hanno le loro origini nel tentativo imperialista di utilizzare le colonie e le semi-colonie per risolvere i problemi dei mercati.
2) Secondo Bucharin, la definizione dell’imperialismo della Luxemburg significa che l’imperialismo smette di esistere quando non vi è più traccia di ambiente non capitalista da disputarsi:
“(...) Da questa definizione consegue che la lotta per i territori GIA’ capitalisti non è imperialismo, il che è assurdo... dalla stessa definizione consegue che nemmeno la lotta per dei territori che sono già “occupati” è imperialismo. La falsità di questo aspetto della definizione salta agli occhi da sola... Citiamo un esempio tipico che permetterà di illustrare il carattere insostenibile della concezione luxemburghiana dell’imperialismo. Pensiamo all’occupazione della Ruhr da parte dei francesi (1923). Dal punto di vista della definizione di Rosa Luxemburg, qui non c’è nessun imperialismo perché:
1) qui mancano gli “ultimi territori”
2) non esiste alcun “territorio non capitalista”
3) il territorio della Ruhr possedeva già prima dell’occupazione un proprietario imperialista”.
(Da Nicolai Bucharin, Imperialismo e Accumulazione del capitale).
Quest’argomento è stato ripreso nella ingenua questione posta dalla CWO alla II Conferenza Internazionale a Parigi[6]: “Dove sono i mercati precapitalisti o di altra natura nella guerra tra Etiopia e Somalia per il deserto dell’Ogaden?” Una tale questione tradisce una comprensione piuttosto debole di ciò che dice la Luxemburg, nonché una pericolosa tendenza a vedere l’imperialismo non come “un fenomeno internazionale per natura, un tutto inseparabile” ma come “l'opera di un paese o di un gruppo di paesi”; in altri termini, una tendenza a vedere il problema dal punto di vista parziale ed individuale dei capitali nazionali.
Se Bucharin si fosse preoccupato di citare di più della sola prima frase del passaggio de “L’accumulazione del capitale” della Luxemburg, che noi abbiamo citato per intero, avrebbe mostrato che per la Luxemburg, l’esaurimento crescente della sfera non capitalista non significava la fine dell’imperialismo, ma l’intensificazione degli antagonismi imperialisti tra gli stessi Stati capitalisti. È questo che voleva dire la Luxemburg quando scriveva che: “l'imperialismo riconduce così la catastrofe, come forma specifica della sua esistenza, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di partenza.” (“Anticritica”). Nella fase finale dell’imperialismo, il capitale è immerso in un’orribile serie di guerre dove ogni capitale o blocco di capitali, incapace di estendersi “pacificamente” in delle zone nuove, è costretto ad impossessarsi dei mercati e dei territori dei suoi rivali. La guerra diventa il modo di sopravvivenza di tutto il sistema.
Certamente la Luxemburg pensava che la rivoluzione avrebbe messo fine al capitalismo molto prima che la sfera non capitalista fosse ridotto all’insignificante fattore qual è oggi. La spiegazione del modo con cui il capitalismo decadente ha prolungato la sua esistenza in assenza di fatto di questa sfera non capitalista non è argomento di questo testo[7]. Ma finché si considera l’imperialismo come un “prodotto dell’evoluzione mondiale del capitalismo ad un dato momento della sua maturazione”, “un fenomeno internazionale per natura, un tutt’uno inseparabile”, possiamo vedere la validità della definizione della Luxemburg. Essa necessita solamente di essere modificata nella misura in cui oggi le politiche imperialiste di conquista e di dominio sono determinate dalla quasi completa scomparsa di un mercato esterno, al posto di essere una lotta diretta per le vestigia precapitaliste. È importante sottolineare un cambiamento globale nell’evoluzione del capitalismo mondiale, l’esaurimento dei mercati esterni, che spinge ogni frazione particolare del capitale a comportarsi in modo imperialista.
Ritorniamo alle obiezioni di Bucharin: non è necessario cercare dei “territori non capitalisti” in ogni conflitto imperialista, perché è il capitale come un tutto, il capitale globale che necessita di un mercato esterno per la sua espansione. Per il capitalista individuale, i capitalisti e gli operai offrono un mercato perfettamente valido per le sue merci: allo stesso modo, per un capitale nazionale, una nazione capitalista rivale può essere utilizzata per assorbire il suo plusvalore. Tutti i mercati che si disputano gli Stati imperialisti non sono sempre stati precapitalisti, e lo sono sempre meno man mano che questi mercati si integrano nel capitale mondiale. Ogni lotta interimperialista non è una lotta diretta per i mercati, lungi da lì. Nella situazione attuale, la rivalità globale tra gli USA e l’URSS è condizionata dall’impossibilità di estendere progressivamente il mercato mondiale. Ma molto, e forse la maggior parte degli aspetti specifici delle politiche estere degli USA e dell'URSS, sono dirette verso il consolidamento di vantaggi strategico-militari sull’altro blocco. Per esempio, Israele non è un mercato per gli USA come non lo è Cuba per l'URSS. Queste posizioni sono mantenute principalmente per il loro valore strategico-politico, al prezzo di considerevoli spese da parte dei loro sostenitori. A scala più piccola, il saccheggio da parte del Vietnam dei campi di riso cambogiani non è che, appunto, un saccheggio. La Cambogia non costituisce pertanto un “mercato” per l’industria vietnamita. Ma il Vietnam è costretto a saccheggiare i campi di riso cambogiani perché la stagnazione industriale del suo settore agricolo non gli permette di produrre sufficientemente per nutrire la popolazione vietnamita. E la sua stagnazione industriale è determinata dal fatto che il mercato mondiale non può estendersi, è già diviso, e non ammetterebbe dei nuovi arrivati. Una volta ancora, queste domande trovano un senso solo partendo dal punto di vista globale.
Conclusioni politiche: l’imperialismo e l’impossibilità delle guerre nazionali
Le implicazioni politiche del dibattito teorico sull’imperialismo sono sempre state centrate su una domanda: l’epoca dell’imperialismo ha reso più probabile le guerre nazionali rivoluzionarie come affermava Lenin, o le ha rese impossibili, come affermava la Luxemburg? Per noi la storia ha in modo inconfutabile confermato l’affermazione della Luxemburg secondo la quale:
“La tendenza generale della politica capitalista attuale domina la politica degli Stati particolari come una legge cieca e potente, proprio come le leggi della concorrenza economica determinano rigorosamente le condizioni di produzione per ogni singolo imprenditore”, (Juniusbrochure, pag. 178).
E di conseguenza:
“Nell’epoca di questo imperialismo scatenato, non possiamo più avere guerre nazionali. Gli interessi nazionali sono solamente una mistificazione che ha lo scopo di mettere le masse popolari lavoratrici al servizio del loro mortale nemico: l'imperialismo” (Idem).
La prima citazione, in questa epoca, ha le seguenti applicazioni concrete - che costituiscono entrambe una verifica della seconda citazione:
a) Ogni nazione, ogni borghesia, è costretta ad allinearsi dietro uno dei blocchi imperialisti dominanti, e dunque a conformarsi e a piegarsi agli imperativi del capitalismo mondiale. Ancora una volta, secondo le parole della Luxemburg:
“le piccole nazioni, le cui classi dirigenti sono burattini e complici dei loro compagni di classe dei grandi Stati, sono solamente delle pedine nel gioco imperialista delle grandi potenze e proprio come le masse operaie delle grandi potenze, sono utilizzate come strumenti durante la guerra per essere sacrificate dopo la guerra agli interessi capitalisti”. (La crisi della Socialdemocrazia, JuniusBrochure, pag. 221).
Contrariamente alla speranza di Lenin secondo cui le rivolte delle “nazioni oppresse” avrebbero indebolito l’imperialismo, tutte le lotte nazionali della nostra epoca sono state trasformate in guerre imperialiste per l’irreversibile dominio delle grandi potenze; come riconosceva lo stesso Lenin, l’imperialismo significa che il mondo intero è diviso tra grandi Stati capitalisti: “in modo tale che nell’avvenire solo una spartizione è possibile, e cioè che i territori possono passare solamente da un “proprietario” ad un altro, al posto di passare dallo stadio di territorio libero a quello di “proprietario”. (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo).
L’esperienza dei ultimi 60 anni ha mostrato che ciò che Lenin applicava ai “territori” può essere applicato anche a tutte le nazioni. Nessuna può scappare alla morsa imperialista. E ciò è particolarmente evidente oggi dove il mondo è stato diviso, dal 1945, in 2 blocchi imperialisti. Mentre la crisi si approfondisce ed i blocchi si rinforzano, diventa chiaro che anche i giganti capitalisti come il Giappone e la Cina devono sottoporsi umilmente ai diktat del loro padrone, gli USA. In una tale situazione, come possono ancora esserci illusioni sulla possibilità di “indipendenza nazionale" dei paesi cronicamente deboli quali sono le vecchie colonie?
b) Ogni nazione[8] è costretta a seguire una politica imperialista nei confronti dei suoi concorrenti. Anche quando sia subordinata ad un blocco dominante, ogni nazione è obbligata a tentare di sottometterne altre più piccole alla sua egemonia. La Luxemburg ha notato questo fenomeno durante la prima guerra mondiale, rispetto alla Serbia:
“Senza alcun dubbio, formalmente la Serbia conduce una guerra di difesa nazionale. Ma la sua monarchia e le sue classi dominanti sono piene di velleità espansioniste come lo sono le classi dominanti di tutti gli Stati moderni... Così la Serbia avanza oggi verso le coste adriatiche dove conduce un vero conflitto imperialista con l’Italia a spese degli albanesi". (“Juniusbrochure).
Lo stato di asfissia del mercato mondiale fa della decadenza l’epoca della guerra di ognuno contro tutti. Lungi dal potere sfuggire a questa realtà, le piccole nazioni sono costrette ad adattarsi completamente. Il militarismo estremo dei capitali più arretrati, le frequenti guerre locali tra gli Stati delle regioni sottosviluppate, sono le manifestazioni croniche del fatto che oggi “nessuna nazione può fare a meno” di una politica imperialista.
Secondo la CWO, “l’idea che tutti i paesi sono imperialisti contraddice l’idea dei blocchi imperialisti”. (Revolutionary Perspectives n°12.). Ma ciò è vero solo se si limita la discussione a priori affermando che le uniche potenze “indipendenti” sono imperialiste. E’ vero che ogni nazione deve inserirsi in uno o l’altro blocco imperialista, ma lo fa solamente perché è il solo modo di difendere i propri interessi imperialisti. I conflitti e le conflagrazioni all’interno di ogni blocco non sono pertanto eliminati (e possono anche prendere la forma di guerre aperte, come tra la Grecia e la Turchia nel 1974): questi sono subordinati solo a un conflitto superiore. I blocchi imperialisti, come tutte le alleanze borghesi, non possono essere realmente uniti o armoniosi. Vederli così, o almeno considerare le nazioni deboli di un blocco solamente come pedine nelle mani delle potenze dominanti, rende impossibile comprendere le contraddizioni reali ed i conflitti che sorgono in seno al blocco, e non solo tra le stesse nazioni deboli, ma tra i bisogni delle nazioni più deboli e quelli della potenza dominante. Il fatto che questi conflitti si regolano quasi sempre a favore dello Stato dominante, non li rende meno reali. Parimenti, ignorare le condotte imperialiste delle piccole nazioni rende praticamente impossibile spiegare le guerre tra questi Stati. Il fatto che queste azioni siano utilizzate invariabilmente per gli interessi dei blocchi non significa che siano prodotte puramente dalle decisioni segrete di Mosca o di Washington. Esse provengono da tensioni e difficoltà reali a livello locale, difficoltà che danno inevitabilmente luogo a una risposta imperialista da parte degli Stati locali. Non regge, per esempio, dire che le nazioni più piccole hanno solo delle tendenze imperialiste quando si vede il Vietnam invadere la Cambogia, rovesciare il suo governo, installare un regime che gli è sottomesso, saccheggiare la sua economia e fare appelli per la formazione di una “Federazione Indocinese” sotto l’egemonia vietnamita. Il Vietnam non ha solamente degli appetiti imperialisti, perché li soddisfa concretamente ingoiando i suoi vicini.
Se rigettiamo l’idea che questa politica sia l’espressione di uno Stato operaio che porta avanti una guerra rivoluzionaria, se non consideriamo il clan dominante in Vietnam come il protagonista di una lotta borghese storicamente progressiva per l’indipendenza nazionale, non vi è che una sola parola per una politica e degli atti di questo tipo: imperialismo.
Guerra imperialista o rivoluzione proletaria
Se tutte le “lotte nazionali” servono gli interessi di Stati imperialisti grandi o piccoli, allora è impossibile parlare di guerra di difesa nazionale, di liberazione nazionale o di movimenti rivoluzionari nazionali in questa epoca. È necessario rigettare ogni tentativo di reintrodurre la posizione dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale e coloniale. Così per esempio, il Nucleo Comunista Internazionalista[9] suggerisce che sarebbe possibile applicare le tesi dell’IC alle regioni sottosviluppate se esistesse un vero partito comunista:
“(...) nelle zone extrametropolitane, la missione di un partito comunista passa, obbligatoriamente, per il compimento di compiti che non sono “i suoi” (in termini immediati), anche “democratico-borghesi” (costituzione di uno Stato nazionale indipendente, unificazione territoriale ed economica, riforma agraria, nazionalizzazione”. (Note per un orientamento sulla questione nazionale e coloniale. Testi preparatori, vol.1, II Conferenza Internazionale, Parigi Nov.78).
La preoccupazione del NCI è che il proletariato e la sua avanguardia non possono essere indifferenti ai movimenti sociali delle masse oppresse in queste regioni, devono prendere la testa delle loro rivolte, congiungerle con la rivoluzione comunista mondiale: questo è perfettamente corretto. Ma per fare ciò, il proletariato deve anche riconoscere che l’elemento “nazionale” non viene dalle masse oppresse e sfruttate, ma dai loro oppressori e sfruttatori. Fin dall’istante in cui queste rivolte sono trascinate in una lotta per scopi “nazionali”, esse sono deviate nel campo della borghesia. Nel contesto attuale, il termine nazionale implica imperialismo:
“Da tempo l’imperialismo ha completamente sepolto il vecchio programma borghese democratico: l’espansione al di là delle frontiere nazionali, quel che siano le condizioni nazionali dei paesi annessi, è diventata la piattaforma della borghesia di tutti i paesi. Certo la parola nazione è rimasta, ma il suo contenuto reale e la sua funzione si sono tramutati nel loro contrario. Essa serve solo a mascherare, bene o male, le aspirazioni imperialiste, a meno che non sia utilizzata come grido di guerra, nei conflitti imperialisti, solo ed estremo mezzo ideologico per captare l’adesione delle masse popolari e far loro sostenere il ruolo di carne da cannone nelle guerre imperialistiche”. (Juniusbrochure)
Questa verità è stata confermata da tutti i sedicenti movimenti di “liberazione nazionale”, dal Vietnam all’Angola, dal Libano al Nicaragua. Prima e dopo il loro accesso al potere, le forze borghesi di liberazione nazionale agiscono invariabilmente come agenti dell’una o dell’altra delle grandi potenze imperialiste. Dal momento in cui si impossessano dello Stato, cominciano ad perseguire i loro scopi imperialisti. Dunque, la questione non è dirigere la rivolta delle masse “oppresse” in un “momento” della lotta nazionale democratica borghese, ma di condurle fuori dal campo nazionale borghese, sul campo proletario della guerra di classe. “Trasformare la guerra imperialista in guerra civile” è oggi la parola d’ordine del proletariato in tutte le parti del mondo.
Il carattere imperialista attuale di tutte le frazioni della borghesia e di tutti i loro progetti politici non può essere invertito, neanche momentaneamente, neanche dal migliore partito comunista del mondo. È una realtà storica profonda, basata su un’evoluzione sociale obiettivamente determinata.
“L’era delle guerre imperialiste e delle rivoluzioni proletarie non oppone più Stati reazionari e Stati progressisti in guerre in cui si forgi, con il concorso delle masse popolari, l’unità nazionale della Borghesia, in cui si edifichi la base geografica e politica che serve da trampolino alle forze produttive.
Non oppone più la Borghesia alle classi dominanti delle colonie nelle guerre coloniali fornendo aria e spazio alle forze capitaliste di produzione, già potentemente sviluppate.
Ma questa epoca oppone Stati imperialisti, entità economiche che si dividono e si ridividono il mondo, incapaci tuttavia di comprimere diversamente i contrasti di classe e le contraddizioni economiche se non operando, attraverso la guerra, una gigantesca distruzione di forze produttive inattive e di innumerevoli proletari rigettati dalla produzione.
Dal punto di vista dell’esperienza storica, si può affermare che il carattere delle guerre che scuotono periodicamente la società capitalista, così come la politica proletaria corrispondente, devono essere determinati non dall’aspetto particolare e spesso equivoco, sotto il quale queste guerre possono apparire, ma attraverso il loro ambito storico generato dallo sviluppo economico e dal grado di maturità degli antagonismi di classe”. (Il problema della guerra, 1935, Jehan. Sottolineato da noi).
Quando concludiamo che nel contesto storico attuale tutte le guerre, tutte le politiche di conquista, tutte le relazioni concorrenti tra Stati capitalisti hanno una natura imperialista, non siamo in contraddizione con ciò che affermava a ragione Bucharin, e cioè che per giudicare il carattere di una politica di guerra e di conquista bisogna partire dalla questione: “Quali rapporti di produzione sono rafforzati o estesi dalla guerra”. Noi non indeboliamo la precisione del termine “imperialismo” allargando il suo impiego. Perché, se i marxisti identificavano le guerre nazionali a delle guerre al servizio di una funzione progressiva per l’estensione dei rapporti di produzione in un’epoca in cui questi servivano ancora da base per lo sviluppo delle forze produttive, essi opponevano le guerre di questo tipo alle guerre imperialiste - guerre storicamente reazionarie in quanto servono a mantenere i rapporti capitalisti quando questi sono diventati un ostacolo ad ogni sviluppo ulteriore. Oggi, tutte le guerre della borghesia e tutte le politiche estere mirano a preservare un modo di produzione decadente, putrido: si possono dunque qualificare tutte a giusta ragione come imperialiste. In effetti, uno dei tratti più caratteristici della decadenza del capitalismo è che, mentre nella sua fase ascendente, “la guerra ha per funzione di assicurare un allargamento del mercato, in vista di una più grande produzione di mezzi di consumo, nella fase (decadente) la produzione è essenzialmente imperniata sulla produzione di mezzi di distruzione, cioè orientata verso la guerra. La decadenza della società capitalista trova la sua eclatante espressione nel fatto che da guerre promotrici di sviluppo economico (periodo ascendente), si passa al fatto che l’attività economica è limitata essenzialmente alla guerra”. (Gauche Communiste de France, Rapporto sulla situazione internazionale, 1945).
Sebbene lo scopo della produzione capitalista resti la produzione di plusvalore, la subordinazione crescente di tutta l’attività economica alle necessità della guerra rappresenta una tendenza del capitale a negarsi. La guerra imperialista nata dalla corsa ai profitti della borghesia assume una dinamica durante la quale le leggi della redditività e dello scambio sono scalzate sempre più. I calcoli dei profitti e delle perdite, i rapporti normali di vendita e di acquisto sono lasciati ai margini della folle corsa del capitale verso la sua autodistruzione. Oggi, la “soluzione” che offre il capitale all’umanità, logica del suo auto-cannibalismo, è un olocausto nucleare che potrebbe distruggere tutta la specie umana. Questa tendenza all’auto-negazione del capitale nella guerra è corredata da una militarizzazione universale della società: un processo che appare in tutta la sua ampiezza nel Terzo Mondo e nei regimi stalinisti ma che, se la borghesia ha la via libera, diventerà presto anche una realtà per gli operai delle “democrazie” occidentali. La subordinazione totale della vita economica, politica e sociale ai bisogni della guerra: questa è oggigiorno la terribile realtà dell’imperialismo in tutti i paesi. Più che mai, la classe operaia mondiale si trova davanti all’alternativa posta da Rosa Luxemburg nel 1915:
“O il trionfo dell’imperialismo e la distruzione di ogni cultura come nell’antica Roma, lo spopolamento, la desolazione, la degenerazione, un immenso cimitero, o la vittoria del socialismo, cioè la lotta cosciente del proletariato internazionale contro l’imperialismo”. (Junius brochure)
C.D.Ward
[1] Per un’argomentazione più dettagliata vedi gli articoli Nazione o Classe, i comunisti e la questione nazionale in Rivoluzione Internazionale n°7 e 8.
[2] Qui dobbiamo correggere una cattiva comprensione della CWO quando rigetta l’idea che “la visione della Luxemburg sulla questione nazionale ha per base la sua visione economica: la prima precede la seconda di più di 10 anni”.(Revolutionary Perspective n°12). In tutta evidenza, la CWO non è informata di questo passaggio scritto dalla Luxemburg nel 1898 e pubblicato nella prima edizione di “Riforma o Rivoluzione”:
“Quando esaminiamo la situazione economica attuale, dobbiamo ammettere certamente che non siamo entrati ancora nella fase di piena maturità capitalista che è prevista dalla teoria di Marx delle crisi periodiche. Il mercato mondiale è ancora in una fase di espansione. Dunque, benché non siamo più allo stadio di queste improvvise apparizioni di nuove zone di apertura all’economia che avevano luogo di tanto in tanto fino agli anni 1870, e con esse, delle prime crisi per così dire di “giovinezza” del capitalismo, non siamo ancora a questo grado di sviluppo, di piena espansione del mercato mondiale, che produrrà delle collisioni periodiche tra le forze produttive ed i limiti del mercato o, in altri termini, le crisi reali di un capitalismo pienamente sviluppato... Una volta che il mercato mondiale è più o meno pienamente esteso, in modo tale che non possano più esserci aperture brutali di mercati, la crescita incessante della produttività del lavoro prima o poi produce queste collisioni periodiche tra le forze produttive ed i limiti del mercato che diventano sempre più violente ed acute nel loro susseguirsi”, (citato da Sternberg in Capitalismo e Socialismo, tradotto dall’inglese da noi).
[3] Vedi “Teorie economiche e lotta per il socialismo” Revue internationale n°16.
[4] Communist Workers’ Organisation che pubblica Revolutionary Perspectives: c/o 21 Durham St. Pelaw, Gateshead, Tyne and Wear, NE10 OXS, GB.
[5] Vedi Marxismo e teorie delle crisi, in Revue Internationale n°13.
[6] Conferenza dei Gruppi della Sinistra Comunista
[7] Vedi il nostro opuscolo “La decadenza del capitalismo” ed ancora gli articoli di dibattito interno alla CCI sul boom economico del dopoguerra: Le cause della prosperità seguita alla Seconda Guerra mondiale (dibattito interno alla CCI), maggio 2008, pubblicato su ICConline, pagina web in italiano; Débat interne au CCI: les causes de la prospérité consécutive à la Seconde Guerre mondiale (II), Revue Internationale n°135, settembre 2008; Débat interne au CCI : les causes de la prospérité consécutive à la Seconde Guerre mondiale (III), Revue Internationale n°136, gennaio 2009; Débat interne au CCI : Les causes de la période de prospérité consécutive à la Seconde Guerre mondiale (IV), Revue Internationale n°138, luglio 2009; La surproduction chronique, une entrave incontournable à l’accumulation capitaliste (débat interne au CCI, V), Revue Internationale n°141, dicembre 2009.
[8] Quando diciamo “ogni nazione è imperialista”, è chiaro che facciamo una generalizzazione e che, come in ogni generalizzazione, delle eccezioni possono essere trovate, degli esempi di questo o quello Stato che non ha manifestamente commesso dei crimini imperialisti; ma, tali eccezioni non smentiscono l’insieme. Né tanto meno si può schivare il problema con domande stupide del tipo “Dov’è l’imperialismo delle Seychelles, di Monaco, di Andorra”? Ciò che c’interessa, non sono i paradisi della finanza o altri scherzi della storia, ma dei capitali nazionali che, sebbene non siano indipendenti, hanno un’esistenza palpabile ed un’attività sul mercato mondiale!
[9] Che pubblica Partito e Classe: c/o P.Turco Stretta Matteoti 6, 33043 Cividale, Italie.