I frutti amari della “guerra al terrorismo”

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In occasione del 20° “anniversario” degli attentati dell’11 settembre a New York, vogliamo ricordare ai nostri lettori il nostro articolo principale sul tema, A New York e dovunque nel mondo il capitalismo semina la morte, pubblicato su Rivoluzione Internazionale n. 122[1]. L’articolo denuncia il massacro di migliaia di civili, soprattutto proletari, come un atto di guerra imperialista, ma allo stesso tempo denuncia le lacrime ipocrite versate dalla classe dominante. Come viene riportato nell’articolo, “l’attacco di New York non era un 'attacco contro la civiltà', ma era l’espressione della 'civiltà' borghese”. I terroristi che hanno distrutto le Torri Gemelle sono dei piccoli assassini insignificanti se paragonati al gigantesco numero di morti che tutti gli Stati legalmente riconosciuti hanno inflitto al pianeta negli ultimi cento anni, in due guerre mondiali e innumerevoli conflitti locali e regionali dal 1945.

In questo senso, l’11 settembre è stato la continuazione dei bombardamenti di Guernica, Coventry, Dresda, Hiroshima e Nagasaki negli anni ‘30 e ‘40, del Vietnam e della Cambogia negli anni ‘60 e ‘70. Ma è stato anche un chiaro segno che il capitalismo decadente era entrato in una nuova fase terminale, quella del vero “disfacimento interno” prevista dall’Internazionale Comunista nel 1919. L’apertura di questa nuova fase fu segnata dal crollo del blocco imperialista russo nel 1989 e dalla conseguente frammentazione del blocco statunitense, e vide l’inevitabile tendenza del capitalismo alla guerra assumere forme nuove e caotiche. Il fatto che l’attacco sia stato condotto da Al Qaida, una fazione islamista che era stata ampiamente sostenuta dagli Stati Uniti nei suoi sforzi per porre fine all’occupazione russa dell’Afghanistan, ma che si è girata per mordere la mano che l’ha nutrita, è una specifica espressione di questo periodo (anche se il coinvolgimento di Al Qaida non era certo al momento in cui l’articolo è stato scritto). Il “nuovo ordine mondiale” proclamato da George Bush padre dopo la caduta dell’URSS si è presto rivelato un mondo sempre più disordinato, dove gli ex alleati e subordinati degli USA, dagli Stati sviluppati d’Europa alle potenze di secondo e terzo ordine come l’Iran e la Turchia, fino ai piccoli signori della guerra come Bin Laden, erano sempre più determinati a perseguire i propri obiettivi imperialisti.

L’articolo mostra quindi come gli Stati Uniti siano stati in grado di usare gli attentati non solo per fomentare il nazionalismo in patria (accompagnato, come divenne presto chiaro, da un brutale rafforzamento della sorveglianza e della repressione statale, incarnato dal Patriot Act approvato il 26 ottobre 2001[2]), ma anche per lanciare il suo attacco all’Afghanistan, i cui primi passi erano già evidenti al momento in cui scrivevamo l’articolo (3 ottobre 2001). Naturalmente, l’Afghanistan occupa da tempo un posto strategico sullo scacchiere imperialista mondiale, e gli Stati Uniti avevano ragioni specifiche per voler rovesciare il regime talebano, che aveva stretti legami con al-Qaeda. Ma l’obiettivo globale dell’invasione degli Stati Uniti (seguita due anni dopo dall’invasione dell’Iraq e dal rovesciamento di Saddam Hussein) era quello di andare verso ciò che i “neo-conservatori” dell’amministrazione Bush Junior chiamavano “Dominio a tutto campo”. In altre parole, si trattava di assicurare che gli Stati Uniti rimanessero l’unica “superpotenza” ponendo fine al crescente caos nelle relazioni imperialiste e impedendo l’emergere di qualunque serio concorrente a livello mondiale. La “guerra al terrorismo” doveva essere il pretesto ideologico di questa offensiva.

20 anni dopo, possiamo constatare che il piano non ha funzionato molto bene. Le ultime truppe americane hanno dovuto lasciare l’Afghanistan e stanno per lasciare l’Iraq. I talebani sono tornati al potere. Lungi dall’arginare la marea del caos imperialista, le invasioni statunitensi ne sono diventate un fattore di accelerazione. In Afghanistan, la vittoria precoce contro i talebani non ha portato a nulla, poiché gli islamisti si sono riorganizzati e, con l’aiuto di altri Stati imperialisti, hanno fatto sì che l’Afghanistan rimanga in uno stato permanente di guerra civile, caratterizzato da atrocità sanguinose da entrambe le parti. In Iraq, lo smantellamento del regime di Saddam ha portato sia all’ascesa dello Stato Islamico che al rafforzamento delle ambizioni iraniane nella regione, alimentando le guerre apparentemente senza fine in Siria e Yemen. L’avanzata della decomposizione a livello planetario è stata il terreno fertile per il ritorno dell’imperialismo russo, e soprattutto per l’ascesa della Cina come principale rivale imperialista degli USA. Le varie strategie per “rendere l’America di nuovo grande”, (« Make America great again »), dai “neo-conservatori” di Bush ai populisti di Trump, non sono state in grado di invertire l’inesorabile declino del potere americano, e Biden, pur sostenendo che “l’America è tornata”, ha dovuto assistere alla più grande umiliazione dell’America dall'11 settembre.

Analizzando come gli Stati Uniti hanno cercato di “trarre profitto dal crimine” dell’11 settembre, l’articolo mostra le somiglianze tra l’11 settembre e il bombardamento giapponese di Pearl Harbour, che fu usato anch’esso dallo Stato americano per mobilitare la popolazione, comprese le sezioni riluttanti della classe dirigente, a favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Seconda Guerra mondiale. Esso cita prove ben documentate secondo cui lo Stato americano “permise” all’esercito giapponese di lanciare l’attacco, e ipotizza provvisoriamente che lo Stato americano, a qualche livello, abbia avuto la stessa politica di “lasciar fare” nel periodo precedente l’azione di Al Qaeda, anche se potrebbe non essere stato pienamente consapevole della portata della distruzione che avrebbe comportato. Questo confronto è sviluppato nell’articolo pubblicato in Rivoluzione Internazionale n°124: “Pearl Harbour, le Torri Gemelle e il machiavellismo della borghesia[3]. Torneremo su questo tema in un altro articolo, dove discuteremo la differenza tra il riconoscimento marxista della borghesia come la classe più machiavellica della storia (naturalmente respinto dalla borghesia stessa come una forma di “teoria del complotto”) e l’attuale pletora di “teorie del complotto” populiste che spesso prendono come articolo di fede l’idea che l’11 settembre sia stato un “lavoro dall’interno” organizzato dagli stessi americani.

WR, sezione della CCI nel Regno Unito (11 settembre 2021)

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20 anni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001