Inviato da RivoluzioneInte... il
Nel suo numero 530, datato ottobre/novembre 2018, Le Prolétaire, organo del Partito Comunista Internazionale (PCInt) ha pubblicato una risposta (” Le divagazioni della CCI sul populismo”) a due articoli che avevamo scritto con il titolo: “I difetti del PCInt sul tema del populismo” (Révolution Internationale n.468 e 470)[1]. Questi articoli erano già una prima risposta al loro precedente articolo: “Populismo, avete detto populismo?” (Le Prolétaire n.523) che criticava la nostra visione e la nostra analisi del populismo attuale. Continuiamo quindi questa polemica che riteniamo essenziale, sia per il confronto tra due metodi diversi nella lotta per la difesa degli interessi della classe operaia, sia per l'indispensabile chiarimento dell'analisi della situazione attuale nell’ambiente politico proletario.
Un metodo storico per analizzare il rapporto di forze tra le classi
Per i rivoluzionari, un periodo e una situazione storica vanno visti come un rapporto di forza tra le due classi principali della società: la borghesia e il proletariato. Questa analisi è la massima responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie ed è stata decisiva nei momenti chiave della lotta proletaria. Per esempio, attraverso l'analisi del rapporto di forza e della dualità di potere nelle sue Tesi dell'aprile 1917, Lenin corresse la direzione del partito bolscevico nei confronti del governo provvisorio del principe Lvov e Kerenski. Allo stesso modo, durante i giorni del luglio 1917, poiché aveva compreso la realtà del rapporto di forza tra il proletariato e la borghesia, il partito bolscevico fu in grado di superare la trappola di un'insurrezione prematura, predisposta dal governo provvisorio. D'altra parte, il giudizio errato di questo rapporto di forza da parte di un'organizzazione rivoluzionaria, qualunque sia il suo livello di influenza sulla classe operaia, ha sempre avuto conseguenze molto gravi, anche catastrofiche. Così, nonostante gli intensi movimenti sociali nel paese, la decisione di Karl Liebknecht di lanciare l’appello all'insurrezione a Berlino nel gennaio 1919, quando le condizioni non erano mature, ebbe conseguenze tragiche per l'intero proletariato internazionale, portando allo schiacciamento nel sangue della rivoluzione in Germania e permettendo alla borghesia di sferrare un colpo decisivo all'estensione della rivoluzione mondiale.
Allo stesso modo, l'atteggiamento opportunistico e attivista di Trotsky negli anni ‘30, derivante dalle sue illusioni su una possibile evoluzione positiva della fazione stalinista e dalla sua incomprensione della necessità di un lavoro di frazione, fu ulteriormente aggravato dal fatto che egli non aveva compreso l’ampiezza della controrivoluzione globale e il rapporto di forza totalmente sfavorevole al proletariato in quel momento. Questo lo portò, in particolare, a sostenere, contro l'ascesa del fascismo, la formazione di fronti uniti con partiti borghesi, nonché ad adottare una posizione altrettanto catastrofica durante la guerra civile spagnola affermando che “c'era una rivoluzione ibrida, confusa, metà cieca e mezza sorda” che avrebbe potuto finalmente trasformarsi in una “rivoluzione socialista” se ci fossero stati “leader rivoluzionari” a capo dello Stato borghese. Alcuni di questi errori derivavano dalle sue confusioni circa il rapporto di forza tra le classi, che lo portò persino a sbandare nella creazione di una IV Internazionale nel 1938, quando le forze dei rivoluzionari non solo erano completamente disperse, ma anche fortemente decimate.
Questi tragici passi falsi portarono a terribili massacri di proletari nella guerra spagnola, che fu una prova generale per il sanguinoso scontro imperialista del 1939-1945 e a sua volta portò le organizzazioni trotskiste al tradimento ed al loro passaggio nel campo borghese durante la seconda guerra mondiale. Ecco perché la CCI, dopo Bilan e la Sinistra Comunista di Francia in particolare, ha sempre sottolineato l'importanza cruciale per le organizzazioni rivoluzionarie dell'analisi del rapporto di forze tra le classi.
Quando la società entrò in un nuovo periodo storico, quello delle guerre e delle rivoluzioni, come chiaramente proclamò il primo Congresso dell'Internazionale Comunista, divenne cruciale per le Organizzazioni Rivoluzionarie trarre tutte le conseguenze che questo cambiamento nel periodo storico implicava. La Sinistra comunista continuò questo lavoro dopo il trionfo della controrivoluzione derivante dalla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria del 1917-1923. Inserendosi su questa strada, la CCI è stata in grado di identificare il quadro generale dell’analisi dell'ingresso del capitalismo nel periodo di decadenza. E’ riuscita ad andare oltre identificando, durante la caduta del blocco dell’est, l'ingresso del capitalismo nella sua fase finale di decomposizione[2]. È con questo quadro teorico, basato sull'analisi storica e globale del rapporto di forza tra le classi, che è in grado di sviluppare un'analisi di fenomeni come il populismo, tipico di questa fase finale del capitalismo. Naturalmente, il PCInt non è d'accordo con questo quadro di analisi, cosa che evidenzia un'interpretazione completamente riduttiva del metodo marxista.
Il rifiuto del PCInt della coscienza di classe come forza materiale
Quando Le Prolétaire afferma perentoriamente, in risposta alla CCI, che “non sono fattori “ideologici”, ma determinazioni materiali che spingono e spingeranno i proletari nei movimenti di lotta, a superare le loro divisioni, a riconoscere che appartengono alla stessa classe sociale, soggetta allo stesso sfruttamento, e che spingeranno gli elementi d'avanguardia in questi movimenti a cercare un'organizzazione di partito per condurre la lotta”, resta ad una fase elementare della lotta di classe. Anche noi riconosciamo pienamente che le condizioni materiali dei proletari come combinazione di fattori oggettivi (il livello della crisi economica, l'entità degli attacchi da parte della borghesia, ecc.) svolgono un ruolo essenziale nello sviluppo della coscienza di classe. Ma il PCInt qui dimentica che i fattori soggettivi (lotta, forza di volontà, moralità, solidarietà, organizzazione, coscienza, teoria) svolgono rapidamente un ruolo importante per il proletariato, fino a diventare decisivi in un periodo rivoluzionario.
Questo è stato ciò che ha fatto dire a Marx: “Chiaramente, l'arma della critica non può sostituire la critica delle armi: la forza materiale deve essere rovesciata da una forza materiale, ma anche la teoria diventa forza materiale, non appena si impadronisce delle masse”.[3] Ciò è stato confermato chiaramente dal corso stesso della rivoluzione in Russia. È questo ruolo vitale della coscienza che Trotsky pose al centro della sua Storia della Rivoluzione Russa quando scrisse, per esempio, che “il grado di coscienza delle masse popolari, fattore decisivo nella politica rivoluzionaria, escludeva così la possibilità che i bolscevichi prendessero il potere a luglio”[4] e quindi riportò le parole di Lenin. “Non siamo ciarlatani: dobbiamo affidarci esclusivamente alla coscienza delle masse.”[5]. Fu questa dimenticanza che portò Bordiga, al suo ritorno alla vita militante dopo la seconda guerra mondiale (che segnò la nascita del bordighismo), a rigettare completamente la coscienza fuori dalla lotta proletaria fino alla rivoluzione, e a confinarla solo all'interno del Partito. Pertanto, per il PCInt, la lotta di classe è ridotta a una somma o a una catena di determinazioni materiali quasi automatiche e meccanicistiche, valide in qualsiasi momento nell'esistenza del capitalismo. Qualsiasi altra considerazione sarebbe “idealismo”. Di questo, naturalmente, egli accusa la CCI nel suo articolo con i termini “divagazioni”, “stravaganze” o “elucubrazioni” che accompagnano la sua risposta. Allo stesso tempo, negando l'importanza del fattore di coscienza nella lotta del proletariato, nega anche la dimensione storica dell'evoluzione del capitalismo, che lo porta a rifiutare anche la nozione della decadenza del capitalismo che noi difendiamo. Attenendosi a questo, il PCInt abbandona la dimensione storica e il contesto concreto del corso della lotta di classe, che tuttavia rientrano in una dimensione essenziale del marxismo: la coscienza di classe non è affatto un fattore astratto ma una forza materiale, come Marx e Engels hanno sempre chiaramente stabilito. La coscienza e lo stato di questa coscienza in un dato momento storico non sono solo un fattore attivo ma determinante in una situazione che è essenziale e indispensabile per tener conto nell'analisi del rapporto di forza tra le classi. In altre parole, non ci sono solo fattori oggettivi, ma anche fattori soggettivi, cioè legati allo stato e al livello di sviluppo della coscienza di classe del proletariato, che determina la sua forza sul campo politico. Ecco perché abbiamo sempre affermato che nel capitalismo, il proletariato, nella misura in cui non ha alcun potere economico e materiale, ha solo due armi per la sua lotta: la sua coscienza e la sua organizzazione. Più in generale, le idee e le ideologie secrete e sfruttate dalla borghesia sono anche forze materiali al servizio del suo dominio e sfruttamento. Le mistificazioni e le illusioni propagate dalla classe borghese svolgono un ruolo attivo in situazioni concrete: c'è dunque una lotta concreta che il proletariato deve condurre per contrastare le manovre della propaganda ideologica della borghesia, e in particolare la mistificazione democratica che grava su di essa o contro qualsiasi ideologia che mira a dividere la classe operaia: razzismo/antirazzismo, populismo/anti-populismo, totalitarismo….
Il PCInt trascura il ruolo importante e attivo dello sviluppo della coscienza del proletariato nel processo rivoluzionario trasferendo questa coscienza solo al Partito che ne avrebbe quindi (e solo) il “monopolio”. Riducendo lo sviluppo della coscienza di classe a questo insieme di determinazioni materiali, il PCInt cade in un determinismo puramente meccanicistico, in altre parole nella trappola di un approccio che è quello del materialismo volgare, che contrappone, nella sostanza, il pensiero e la materia; la determinazione dai rapporti materiali ed economici della produzione escludendo “il mondo delle idee”, cioè negando e rifiutando la forza materiale del pensiero e della riflessione nella classe stessa. Ma questa visione ristretta ha conseguenze che portano il PCInt a prendere a suo conto e a chiudersi in false teorizzazioni ereditate dal passato.
La "aristocrazia operaia": una teoria sociologica che divide i proletari
C'è, infatti, un altro aspetto della sua critica al nostro preteso idealismo che testimonia la stessa inversione delle fondamenta del marxismo da parte del PCInt: “La CCI ha una visione completamente idealizzata di una classe operaia senza contraddizioni, senza vari strati, senza divisioni al suo interno (...). A differenza di questa favola, è importante capire che le divisioni e la sottomissione della classe operaia hanno fondamenta materiali” Questa concezione lo porta ad aggrapparsi alla teoria della “aristocrazia della classe operaia” che avevamo già criticato nel nostro precedente articolo. Al di là della facile ironia della sua risposta (“Su questo punto, siamo in buona compagnia, poiché la CCI riconosce che questa concezione era già un errore di Engels e Lenin!”), Le Prolétaire in realtà si basa su una visione sbagliata ereditata da Lenin[6] nell'Imperialismo, la fase suprema del capitalismo[7]. Non si può negare che vi siano differenze di salario, condizioni di vita e condizioni di lavoro tra i lavoratori che la borghesia si sforza sempre di realizzare, evidenziare e strumentalizzare per mascherare la natura e il carattere storico della classe associata e unitaria del proletariato. Ma abbiamo sempre criticato questa nozione perché ignora l'unità fondamentale del proletariato come classe politica e il suo grido di protesta: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, per evidenziare categoriche divisioni sociologiche e, quindi, presunti antagonismi di interessi competitivi all'interno della classe operaia. Il PCInt si attiene a questa visione sociologica e fotografica della classe operaia, perdendo di vista il suo significato, il suo ruolo, il suo orientamento politico e, appunto, cade in una trappola ideologica parlando di divisioni in strati del proletariato. Ciò che spinge i proletari a reagire non sono solo le condizioni materiali che vivono, ma anche il livello di sviluppo della loro coscienza di classe nella lotta che non è assolutamente lineare o continua. A causa delle sue debolezze sul metodo marxista, il PCInt dimentica che il proletariato è in grado di unirsi nella sua lotta allo sfruttamento, e che lo ha dimostrato nei momenti più alti della sua storia (dalla Comune del 1871 alla Polonia 1980 fino al 1917 in Russia, ovviamente, e nel maggio 1968 in Francia), anche nelle aree in cui il proletariato è meglio pagato. La borghesia, d'altra parte, cerca di presentare la classe operaia come una classe fatalmente divisa, che difende interessi corporativi e antagonisti. Al contrario, la realtà stessa della classe operaia, del proletariato come classe, poggia sulla sua profonda unità. Il proletariato, come ha sempre affermato il marxismo, può riconoscere la sua identità di classe e affermarsi come classe rivoluzionaria, e quindi superare le sue divisioni molto reali, solo attraverso la lotta e l'affermazione della sua unità e solidarietà basata sul carattere associato del suo lavoro all'interno del capitalismo. Il PCInt qui confonde l'esistenza stessa del proletariato con il processo effettivamente eterogeneo e diseguale in atto nello sviluppo delle sue lotte e della sua coscienza di classe.
La questione centrale dello Stato nel periodo di decadenza.
Quando l'articolo di le Prolétaire afferma, per giustificare il suo punto di vista sull’”aristocrazia operaia”, che "si tratta di un'analisi materialistica per spiegare l'influenza borghese (e in particolare l'influenza dei partiti e delle organizzazioni collaborazioniste) sul proletariato”, accredita di fatto l'idea che i partiti di sinistra e i sindacati siano organizzazioni “collaborazioniste” quando, di fatto, dovrebbero essere denunciate come organi borghesi, perché passati definitivamente nel campo borghese..
Ed aggiunge, nella difesa di questa teoria: È abbastanza consapevolmente che i capitalisti concedano alcuni vantaggi e certe “garanzie” (statuti speciali, ecc.) a pochi strati del proletariato per garantire la pace sociale in particolari settori dell'economia o nell'economia nel suo complesso. Questi strati costituiscono la base di massa delle organizzazioni riformiste. E’ vero è che in certi momenti storici particolari, la borghesia ha saputo fare volontariamente certe concessioni economiche in modo pienamente consapevole, ma a quale scopo? Non per “comprare” parte del proletariato come sottintende il PCInt “per perpetuare l'ideologia riformista”, ma per dividerla, per cercare di mettere i lavoratori l'uno contro l'altro, accettando le richieste di un particolare settore o di una società mentre la maggior parte dei proletari fanno i conti solo con l'amarezza della sconfitta, come è avvenuto nella lotta negli ospedali in Francia nel 1988, dove solo gli infermieri hanno ottenuto qualche briciola, o in molte lotte come durante il recente sciopero alla General Motors negli Stati Uniti, stimolando la concorrenza tra proletari, rinchiudendoli in difesa della fabbrica, dell'azienda, della regione o del paese. Le strategie borghesi per controllare il proletariato non sono nuove, soprattutto attraverso tutta la legislazione sullo sfruttamento, come sottolinea Rosa Luxemburg nella sua Introduzione all'economia politica sul significato delle leggi sulla protezione del lavoro: “Era quindi necessario che, nel proprio interesse, per consentire uno sfruttamento futuro, il capitale imponesse alcuni limiti all'attuale sfruttamento. Era necessario risparmiare un po’ la forza del popolo per garantire la continuazione del suo sfruttamento. Era necessario passare da un'economia di saccheggio non redditizia allo sfruttamento razionale. Da ciò derivano le prime leggi della giornata lavorativa massima, come pure il varo di tutte le riforme sociali borghesi. Le leggi sulla caccia ne sono una replica. Proprio come le leggi stabiliscono un tempo proibito per la caccia alla selvaggina, in modo che possa moltiplicarsi razionalmente ed essere disponibile regolarmente per la caccia, così le riforme sociali garantiscono un tempo proibito per la forza lavoro del proletariato, in modo che possa essere utilizzato razionalmente per lo sfruttamento capitalista. O come dice Marx: la limitazione del lavoro in fabbrica è stata dettata dalla stessa necessità che costringe l'agricoltore a mettere fertilizzante nei suoi campi. La legislazione delle fabbriche vede la luce, prima di tutto per i bambini e le donne, in una lotta tenace di decenni contro la resistenza dei capitalisti individualisti.” Ma il movimento operaio è pieno di molti altri esempi storici che dimostrano che la classe dominante non solo si è presa cura di razionalizzare lo sfruttamento della forza lavoro, ma ha avuto come preoccupazione principale sempre quella di esercitare uno stretto controllo sui proletari, ad esempio creando strutture sindacali a partire da zero: già, nella Russia prima del 1905, c'è il noto esempio dei “Sindacati Zubatov” sotto il controllo e gli ordini diretti della polizia zarista. Ma ancora di più dopo il 1945, con lo statuto speciale degli impiegati pubblici e di alcuni settori chiave dell'industria (EDF-GDF, lavoratori ferroviari...) con aumenti salariali che consentivano un aumento del tenore di vita dei lavoratori, ecc., perché ha permesso alla classe dominante di tenere gli operai sotto il giogo dello sfruttamento post-bellico al servizio dello “sforzo di ricostruzione nazionale” (il famoso “rimboccatevi le maniche!” del ministro Thorez e dei suoi accoliti stalinisti in un governo di unità nazionale nato dalla Resistenza). E questo, attraverso la mistificazione delle “nazionalizzazioni” e il presunto carattere “operaio” di queste misure. Questo è stato anche il caso negli anni successivi, durante il periodo detto dei “Trenta Gloriosi”, quando la borghesia è stata in grado di preservare l'illusione di una riqualificazione economica senza precedenti del capitalismo che aveva superato le sue crisi. In quel momento, infatti, la borghesia dei paesi occidentali doveva far credere ai lavoratori di avere qualcosa da guadagnare nel capitalismo, di far accettare la continuazione della militarizzazione dell'economia, la corsa agli armamenti e un'economia di guerra permanente, al fine di prepararli a mobilitarsi in scontri bellici contro i nemici del blocco avversario. In Francia, ad esempio, nel contesto della guerra fredda, il sindacato Force Ouvrière (FO) è stato deliberatamente creato nel 1947 su iniziativa della borghesia occidentale, in particolare del Partito socialdemocratico (SFIO), che ha svolto un ruolo fondamentale nel governo negli anni ‘50 per mantenere i lavoratori nel campo occidentale ed nel blocco filo-atlantico. L'obiettivo era quello di contrastare l'influenza della CGT controllata dal partito stalinista, la cui influenza costituiva il rischio di un passaggio al blocco avversario. Lo stesso vale, ad esempio, in Italia nel 1950 con la nascita della CISL (sponsorizzato dal Partito Democristiano al governo) e della UIL (sponsorizzata dal Partito Socialdemocratico) di fronte alla CGIL
Ma se la concessione di “certi benefici e garanzie” in campo economico a particolari settori o anche a tutta la classe può davvero essere una politica deliberata della borghesia in una particolare circostanza o contesto storico, il PCInt trae un'interpretazione totalmente erronea che porta a una conclusione fuorviante sul cosiddetto “collaborazionismo di classe delle organizzazioni riformiste”. Dietro la visione limitata della realtà proposta dalla teorizzazione della “aristocrazia operaia”, la vera questione che si pone al proletariato e che il PCInt non è in grado di vedere, è la realizzazione del capitalismo di Stato come forma universale di dominio della borghesia. Questa è una caratteristica fondamentale del periodo successivo alla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria mondiale del 1917-1923 e il segno della decadenza e della sopravvivenza di questo sistema, direttamente e brutalmente come sotto i regimi stalinisti, o indirettamente sotto forma di controllo dello Stato “democratico” sull'economia e sulla società nel suo complesso. Invece di mettere in discussione e sviluppare un quadro per l'analisi vivente delle esperienze e delle lezioni da imparare da un punto di vista di classe, Le Prolétaire persiste nel rinchiudersi in modelli “invarianti” e ripetere le formule del passato senza realmente tener conto dell'evoluzione storica della dominazione capitalista. Così continua a parlarci di “organizzazioni riformiste” o di “collaborazione di classe” o “strati che sono espressione di un’aristocrazia della classe operaia”, mentre i sindacati e gli ex partiti operai non solo sono diventati definitivamente organizzazioni di natura chiaramente borghese, ma sono anche pienamente integrati nell'apparato statale di cui costituiscono essenziali ingranaggi di dominio e sfruttamento. La loro funzione specifica all'interno di questo apparato statale è la difesa esclusiva dei suoi interessi, consentendo di inquadrare e mettere il bavaglio al proletariato. In questo senso, sono entrambi i migliori difensori della borghesia e i peggiori e più pericolosi nemici del proletariato. Descrivere parte dell'apparato statale borghese come “organizzazioni riformiste” ignorando il fatto che queste ex organizzazioni operaie si sono spostate irrimediabilmente nelle fila della borghesia (sindacati, PS, PC, organizzazioni trotskiste) all’atto della guerra o della rivoluzione e sono diventate nemiche dichiarate del proletariato, permette di mantenere l'illusione che siano sempre organizzazioni operaie.[8] Questo atteggiamento è irresponsabile da parte di un'organizzazione del campo proletario perché mantiene un fattore fondamentale di confusione utilizzato dal nemico contro lo sviluppo della coscienza di classe. Legandosi a una visione fissa del passato, senza tener conto delle dinamiche dialettiche attuali sui rapporti di forza fra le classi, senza tener conto delle lezioni e delle esperienze del movimento operaio, un'organizzazione proletaria rischia di commettere gravi errori di analisi e di trarre non solo false lezioni da una situazione, ma anche molto pericolose. Con una visione così ristretta e riduttiva utilizzata come quadro e metodo di analisi, il PCInt ha sempre implicitamente creduto che il proletariato dei paesi centrali del capitalismo non sia mai veramente uscito dalla controrivoluzione.
Come non è stato in grado di rilevare la ricomparsa a livello internazionale delle lotte proletarie apertesi con il maggio 1968 in Francia, il PCInt non è stato in grado di valutare il pericolo rappresentato dall'indebolimento della coscienza di classe dopo il crollo dei regimi stalinisti dell’Est alla fine degli anni ‘80, legato alla propaganda borghese che identificava lo stalinismo col comunismo e che ha minato la fiducia di gran parte del proletariato nella prospettiva di una società comunista. Le Prolétaire ci accusa di cadere nella trappola della propaganda borghese nella nostra analisi del populismo (torneremo su questo in particolare nella seconda parte di questo articolo). Ma non riesce a capire la nostra analisi del populismo come una delle caratteristiche della fase di decomposizione del capitalismo, perché rifiuta il nostro quadro della decadenza del capitalismo e delle sue implicazioni per la lotta del proletariato. (Continua)
Wim, 4 febbraio 2020
-------------------------------------------------------------------------------------------
Chi è Le Prolétaire?
Il Partito Comunista Internazionalista (Le Prolétaire) appartiene alla lunga tradizione della Sinistra Comunista d'Italia, alla quale fa riferimento anche la nostra organizzazione, la CCI. Per noi è un gruppo appartenente al movimento politico proletario, al di là dei disaccordi che ci separano. Le nostre polemiche, franche e talvolta amare, sono quindi per noi l'espressione del dibattito necessario e vitale che deve svilupparsi all'interno del campo rivoluzionario. Nato nel 1943 come Partito Comunista Internazionalista (PCInt), ma esistente nella sua forma attuale dal 1952 (la data della scissione dal gruppo Damen, che continua la sua attività intorno al giornale Battaglia Comunista), il PCInt è ora raggruppato in Francia e in Italia intorno Le Prolétaire e Il Comunista rispettivamente. Pur affermando di rifarsi all’Internazionale Comunista e della Sinistra Italiana, fu in nome dell”invarianza del marxismo” che il PCInt voltò le spalle all'intera eredità della rivista Bilan, anche se negli anni '30 e fino alla fine della seconda guerra mondiale, gli elementi rivoluzionari della sinistra comunista d'Italia si erano riuniti attorno a questa rivista e avevano fatto vivere il marxismo sapendo di affrontare la controrivoluzione e tirando le vere lezioni di questo periodo atroce. Sull'antifascismo, la decadenza del capitalismo, i sindacati, la liberazione nazionale, il significato della degenerazione della rivoluzione russa, la natura borghese dei partiti stalinisti, sullo Stato nel periodo di transizione o la costruzione del “Partito”, tutti i progressi del Bilan sono stati gettati nella spazzatura dal PCInt, sin dalla sua costituzione. Questi passi falsi politici e teorici hanno portato il PCInt a svolgere attività politiche dannose per la classe operaia. Così, sulla base di un approccio totalmente contrario ai contributi di Bilan sulla questione della Frazione e del Partito, il PCInt si è costituito in “partito rivoluzionario” mentre la classe operaia è stata spazzata via dalla seconda guerra mondiale, incapace di alzare la testa. È stata questa stessa rinuncia alle conquiste fondamentali di Bilan che ha portato il PCInt a considerare i partiti stalinisti come “riformisti” o quelli trotskisti come “opportunisti” e non per quello che sono realmente: partiti borghesi. Per il PCInt, questa frontiera di classe non esiste. Allo stesso modo, deviando l'antiparlamentarismo della Sinistra italiana storica (la “Frazione astensionista” nata nel 1919 e di cui Bordiga era il principale rappresentante) su un terreno di semplice “tattica”, il PCInt ha potuto chiedere la partecipazione a elezioni e referendum, difendendo al contempo i “diritti democratici”, compreso il diritto di voto per i lavoratori migranti. Inoltre, per il PCInt, qualsiasi “tattica” sindacale, di comitati frontisti, di sostegno “critico” a gruppi terroristici come Azione Diretta in Francia, gli permette di "organizzare" le masse. Nel 1980, durante i grandi scioperi in Polonia, il PCInt vide nel sindacato Solidarnosc, la cui unica attività era quella di sabotare la lotta, l’“organizzatore” della classe operaia. Ma se la creazione del Partito Comunista Internazionale (PCInt) nel 1943, composto da molti attivisti della Sinistra Comunista d'Italia, non era priva di confusione teorica e organizzativa, questo gruppo tuttavia deve all'esperienza di lotta a cui si collega l’essersi sempre mantenuto su un terreno di classe e rimane come tale, un’organizzazione del proletariato.
[1] https://fr.internationalism.org/revolution-internationale/201801/9654/polemique-failles-du-pci-question-du-populisme-partie-i
[2] Vedere a questo proposito: “Decomposizione: fase finale della decadenza del capitalismo”, su Rivista Internazionale n.14, https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[3] Marx, Critica alla Filosofia del diritto di Hegel (1843).
[4] Storia della rivoluzione russa (Tomo 2): La rivoluzione d'ottobre, capitolo "I bolscevichi avrebbero potuto prendere il potere a luglio?”, edizione Oscar Mondadori, 1978, pag. 609
[5] Ibid., capitolo “I bolscevichi e i Soviet”
[6] Lenin riprende, certamente, un termine già usato da Marx ma in un senso completamente diverso. Nel Libro I del Capitale, Marx designa così la parte più pagata del proletariato per dimostrare, al contrario, che essa stessa è colpita dalla crisi e sprofonda nella miseria sotto gli effetti della crisi.
[7] In quest’opera, Lenin si basa su un passaggio di una lettera di Engels a Marx in cui egli parla di “imborghesimento di parte del proletariato inglese”: “per quanto riguarda i lavoratori, godono tranquillamente con loro [i capitalisti] del monopolio coloniale dell'Inghilterra e del suo monopolio sul mercato mondiale”. Da lì, Lenin teorizzò due concezioni pericolose: da un lato, la divisione dei proletari tra gli strati “superiori” (l’aristocrazia operaia) e quelli “inferiori”, secondo lui caratteristici della fase “imperialista e monopolistica” di dominio del capitalismo e, d'altra parte, che il proletariato dei principali paesi colonialisti avrebbe goduto di privilegi legati allo sfruttamento del proletariato dei paesi colonizzati. Si tratta di una messa in discussione dell’unità del proletariato come classe sfruttata, che è al centro della visione marxista a favore di una visione sociologica terzo-mondista che ha alimentato la propaganda dell’ideologia gauchiste che rivendica le lotte di “liberazione nazionale”.
[8] In questo senso, questi partiti sono chiamati opportunisti o centristi o “operai degenerati” anche da organizzazioni gauchistes che utilizzano anche la teorizzazione della “aristocrazia operaia”, ma per renderla deliberatamente un fattore di divisione del proletariato.