Le conseguenze della crisi economica sulla classe operaia italiana

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Il mondo della politica si mostra ogni giorno più litigioso. Un giorno è la plastic tax, un altro il meccanismo europeo detto salva-stati, i vari partiti politici non esitano a usare i loro contrasti per confonderci le idee e distrarci dai problemi reali che vivono i proletari. Ognuno di loro ha la pretesa di parlare a nome del “popolo” italiano, e quindi anche dei lavoratori. In realtà, sia il governo gialloverde come quello giallorosso attuale (come lo definiscono loro), al pari di tutti quelli che li hanno preceduti, non sono altro che i difensori del capitale nazionale e devono per questo provare ad ingannare i lavoratori con misure spacciate per panacee per le loro condizioni di vita.

Il precedente governo ha cercato di accreditarsi come governo “popolare”, sbandierando le sue misure che avrebbero dovuto creare un sollievo ai problemi del lavoro come la quota cento e il reddito di cittadinanza. Ma quando le andiamo a vedere da vicino, queste misure non hanno portato in realtà niente di veramente consistente per l’insieme dei proletari. Vediamo:

  • Quota cento? Tocca poche decine di migliaia di persone, non è l’abolizione della Fornero e comunque chi l’accetta perde soldi sulla pensione. Quindi è una misura propagandistica e non una misura sociale capace di affrontare veramente i problemi delle persone (che è in questo caso la possibilità di potere andare tutti in pensione prima e con pensioni che permettano di vivere). Ci avevano anche detto che il pensionamento anticipato doveva servire a creare nuovi posti di lavoro per i giovani[1]; i dati ci dicono che non è vero: praticamente quasi nessun lavoratore andato in pensione con la quota 100 è stato sostituito, e questo ha anche creato problemi nella pubblica amministrazione, in particolare nella sanità dove si è creato un buco di organico che costringe medici ed infermieri a turni massacranti per far fronte alla mancanza di personale.
  • Reddito di cittadinanza: un pasticcio che non solo non ha abolito la povertà (come si affrettò a dichiarare con gran clamore Di Maio con tutti i suoi ministri dai balconi di palazzo Chigi), non solo non è servito a produrre occupazione[2] (tranne che per i posti dei navigator) ma ha favorito il ricorso al lavoro nero, perché dato che con 500 euro al mese non ci campa nessuno, chi percepisce questo reddito ha bisogno di integrarlo, ma a questo punto può farlo solo con un’occupazione in nero (per non perdere il reddito di cittadinanza).
  • In compenso, per finanziare parte di queste misure, si tolsero soldi ai pensionati: 3 miliardi in 3 anni.
  • Il nuovo governo pure dice di voler risolvere i problemi sociali e sbandiera la riduzione del cuneo fiscale, gli asili nido gratuiti, l’assegno bebè, et similia. Ma in realtà questa riduzione del cuneo significa meno di 40 euro al mese (e solo per i lavoratori con i redditi più bassi); anche la gratuità degli asili nido è riservata solo ai redditi più bassi, e comunque ammesso che si trovi l’asilo, vista la carenza di queste strutture.

La situazione con il nuovo governo non migliora, tutt’altro. Lo scenario che con sempre maggiore nitidezza va profilandosi davanti agli occhi di tutti è di uno sgretolamento progressivo di tutta la sfera produttiva italiana. I numeri dei posti in esubero sono impressionanti: Alitalia 5000; Unicredit 8000; Ilva di Taranto 4700; Whirlpool Campania 800; Embrago a Riva di Chieri 500; Bosch di Bari 640; Pernigotti 25, Jabil 350, Conad 3105, … per citare solo i più conosciuti, ma cui andrebbero aggiunte altre decine d’imprese di medie e piccole dimensioni che si trovano nelle stesse condizioni. Sono 160 le crisi aziendali per un totale stimato di 400.000 posti di lavoro a rischio. Particolarmente significativo è il caso dell’Unicredit che, con gli 8000 esuberi (più di 6000 in Italia) e la chiusura di quasi 500 filiali, è solo l’ultimo tassello di una falcidia nel settore bancario che in 12 anni ha cancellato 74.000 posti di lavoro. In questo caso è facile vedere come il progresso del digitale e dell’informatica (nel 2019 13,7 milioni d’italiani gestivano il loro denaro attraverso lo smartphone) sia a solo vantaggio degli imprenditori e tutto a carico dei lavoratori. E se per qualcuna sembra esserci una conclusione positiva, come per Almaviva dove sono stati revocati i 3000 licenziamenti, a leggere gli accordi ci si rende conto che ciò è avvenuto solo aumentando lo sfruttamento della manodopera: 6 mesi di Contratto di Solidarietà al 45% su Roma, 45% su Palermo e 35% su Napoli e ulteriori 12 mesi di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria.

Questo non è vero solo in Italia, ma tocca tutti i paesi capitalisti. Perfino nella “florida” Germania sono in corso tagli al personale in tutti i settori: Deutsche Bank, 18.000 posti in meno nei prossimi anni, 5600 in meno alla T-Systems, filiale informatica di Deutsche Telekom, 700 in meno in Allianz, Thyssenkrupp 6000 licenziamenti nel mondo di cui 4000 in Germania, Siemens 2700 nel mondo, 1400 in Germania, Bayer 12.000 da qui al 2021. Mentre in Francia il governo Macron attacca i servizi sociali, le pensioni, la sanità, ecc.

Se le aziende falliscono o semplicemente licenziano, non è per loro incapacità o perché c’è qualcuno che ha speculato o ha rubato: non è colpa del singolo capitalista se stiamo andando verso una nuova profonda recessione, è una conseguenza dell’obsolescenza di questo sistema capitalista che non riesce a garantire neanche più la semplice sopravvivenza dei suoi sfruttati.

Che cosa fanno di fronte a questa rovina lo Stato e i sindacati? Se consideriamo il caso dell’ILVA di Taranto, con i suoi 4700 esuberi - che coinvolgono all’incirca 20.000 famiglie considerando anche l’indotto - l’ultima pensata dello Stato è quella di entrare in società con l’attuale gestore franco-indiano ArcelorMittal con una iniezione di soldi freschi e … riducendo gli esuberi a 1800. In pratica, è una resa dello Stato di fronte al gioco al rialzo di Mittal accettando il 40% degli esuberi dichiarati dall’azienda. Il tutto accompagnato dalla promessa di una riconversione dell’impianto con una tecnologia più pulita, puntando con questo ancora una volta a mettere in alternativa occupazione e salute, come se i lavoratori dovessero scegliere se morire di cancro o semplicemente di fame.

E i sindacati? Cosa propongono i sindacati per far fronte a questa situazione? La risposta di Landini, segretario generale della CGIL, il sindacato che si presenta come il più combattivo e di sinistra, è davvero significativa. Piuttosto che difendere le condizioni dei lavoratori passando all’attacco contro licenziamenti e peggioramenti delle condizioni di vita, Landini propone “un’alleanza con governo e imprese per impedire che il Paese si sbricioli[3], chiedendo alle imprese di “abbandonare le sirene della finanza, di tornare a essere gli imprenditori innovativi e capaci che insieme a chi lavora hanno fatto l’Italia[4]. In pratica si propone un patto sociale che non può essere fatto che sulle spalle dei proletari. In più il subdolo monito sulle “sirene della finanza” suggerisce l’illusoria idea che l’investimento di capitali in aree speculative in questo periodo sia il fatto di capitalisti egoisti e non la ricerca della necessaria valorizzazione di ogni capitale.

Di fronte a questi attacchi generalizzati coadiuvati e sostenuti dal sindacato, solo la lotta unita di tutti i lavoratori può mettere in campo una forza capace di opporvisi. Non ci si può opporre agli attacchi concentrici di capitalisti, Stato e sindacato con delle lotte separate, incentrate sulle specificità della propria situazione, come i sindacati ci invitano continuamente a fare. Né si può pensare di salvare il proprio posto di lavoro mettendo avanti le qualità della propria azienda, la sua alta produttività, il suo ruolo strategico. L’unica regola che il capitale conosce è quella della massima estrazione di plusvalore dai proletari e di trasformarlo in profitto; quando non ci riesce, taglia e chiude.

Per evitare che i lavoratori comincino da soli a pensare che bisogna unirsi, ecco che il sindacato si mette subito davanti per prendere tempo: “E’ necessario riflettere su uno sciopero generale unitario” ha dichiarato il segretario della CGIL Landini il 20 novembre, ma dopo ben oltre un mese ci stanno ancora riflettendo! E comunque li conosciamo gli “scioperi generali unitari” del sindacato: giornate isolate di mobilitazione, con i lavoratori a sfilare ognuno dietro il proprio striscione per andare ad ascoltare il solito comizio del sindacalista di turno e poi tornarsene a casa senza che sia cambiato niente. Non è certo così che si fa l’unità dei lavoratori: questa si forgia nelle assemblee congiunte, dove ci si riunisce in quanto proletari, dove ci si confronta per decidere come dare forza alla lotta, come dare continuità alla mobilitazione, come allargare la lotta ad altri settori, visto che gli attacchi non si limitano ai licenziamenti, ma comprendono la crescente precarizzazione del lavoro, i tagli ai salari, ecc.

Se ad attaccare è il capitale con le sue appendici dei governi borghesi e dei sindacati ormai strumenti di controllo delle lotte proletarie, la strada per i lavoratori è una sola: unirsi per difendere le proprie condizioni di lavoro, senza perdersi dietro alle specificità, dietro le sterili manifestazioni sindacali.

Certo, questa tappa è difficile. E’ una vera montagna. Essa richiede di riconoscersi non più come metalmeccanici, siderurgici, bancari, infermieri, ecc., ecc., ma come proletari, come i veri produttori della ricchezza, una ricchezza che ci viene strappata in massima parte per diventare profitto per il capitale. Per arrivarci i lavoratori più coscienti devono diffondere l’idea che è una cosa possibile, che l’esperienza del movimento del proletariato lo dimostra, che i lavoratori in Francia nel 1968 o quelli italiani nel 1969 (l’autunno caldo), o ancora quelli della Polonia nel 1980 lo hanno fatto, che il proletariato è la principale forza sociale della società quando è unito, solidale e organizzato. Questi lavoratori devono raggrupparsi, discutere, riappropriarsi delle lezioni del passato, per preparare l’avvenire della lotta di classe.

Elios

[1] Preso dall’entusiasmo, Di Maio arrivò anche a dire che per ogni pensionamento si sarebbero creati 3 nuovi posti di lavoro! Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ora abbiamo anche la moltiplicazione dei posti di lavoro!

[2] Ogni tanto ci presentano statistiche secondo cui gli occupati sono in aumento, ma se poi si vanno a vedere le ore lavorate, si vede che queste diminuiscono; questo perché ùquesto aumento corrisponde solo ad un aumento del lavoro part time, per cui da un solo occupato ora ce ne sono due, ma a metà stipendio.

[3] La Repubblica, 9 dicembre 2019.

[4] Non deve sfuggire in questa frase l’invito a considerare gli imprenditori come dei partner, degli alleati con cui tracciare assieme un percorso comune, piuttosto che degli avversari. D’altra parte la produzione della RAI di ben cinque fiction sui grandi imprenditori italiani (Adriano Olivetti, Enrico Mattei (ENI), Giovanni Borghi (Ignis), Enzo Ferrari e Luisa Spagnoli) va esattamente nello stesso senso, cioè far passare l’idea che esistano gl’imprenditori buoni e capaci e che se le cose vanno male è per l’incapacità o l’ingordigia di qualche imprenditore.

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