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Ma altri economisti dell'epoca, che non si erano ancora completamente allontanati dal movimento operaio, cercarono di fondare la loro strategia riformista su un passaggio "marxista". Ricordiamo Il Russo Tugan-Baranowsky che pubblicò, nel 1901, un libro intitolato Studies in the Theory and History of Commercial Crises in England. Sulla scia dei lavori di Struve e di Bulgakov di alcuni anni prima, Tugan-Baranowski faceva parte di coloro che si chiamavano "i marxisti legali" ed il suo studio si inseriva nella risposta di questi ultimi alla corrente dei populisti russi che volevano dimostrare che il capitalismo si sarebbe dovuto scontrare con difficoltà insormontabili per stabilirsi in Russia; una di queste difficoltà consisteva nell'insufficienza di mercati per smerciare la sua produzione. Come Bulgakov, Tugan tentò di utilizzare gli schemi della riproduzione allargata di Marx, nel Volume II del Capitale, per provare che non esisteva un problema fondamentale per la realizzazione del plusvalore nel sistema capitalista; a quest’ultimo, come "sistema chiuso", era possibile accumulare indefinitamente ed in modo armonioso. Rosa Luxemburg riassunse così questo tentativo: "Sicuramente, i marxisti russi "legali" hanno superato i loro avversari, i "populisti", ma hanno strafatto. Tutti e tre, Struve, Bulgakov, Tugan-Baranowsky hanno, nell'ardore della lotta, provato più di quanto occorresse. Si trattava di sapere se il capitalismo in generale ed il capitalismo russo in particolare erano suscettibili di sviluppo ed i tre marxisti citati hanno dimostrato così bene questa capacità che hanno provato anche attraverso le loro teorie la possibilità della durata eterna del capitalismo"[1].
La tesi di Tugan provocò una risposta immediata da parte di coloro che continuavano a difendere la teoria marxista delle crisi, in particolare del portavoce de "l'ortodossia marxista", Karl Kautsky che, riprendendo le conclusioni di Marx, sostenne che non potendo né i capitalisti né gli operai consumare l'insieme del plusvalore prodotto dal sistema, quest’ultimo era allora continuamente spinto a conquistare nuovi mercati all'infuori di sé:
"I capitalisti e gli operai da loro sfruttati costituiscono un mercato per i mezzi di consumo prodotti dall'industria, mercato che si ingrandisce con l'incremento della ricchezza dei primi ed il numero dei secondi, meno velocemente tuttavia dell'accumulazione del capitale e della produttività del lavoro, e che non basta da solo ad assorbire i mezzi di consumo prodotti dalla grande industria capitalista. L'industria deve cercare sbocchi supplementari all'esterno della sua sfera nelle professioni e nelle nazioni che non producono ancora secondo il modo capitalista. Li trova e li allarga continuamente, ma troppo lentamente. Perché questi sbocchi supplementari non posseggono, e di molto, l'elasticità e la capacità d'estensione della produzione capitalista.
Dal momento in cui la produzione capitalista si è sviluppata in grande industria, come già accadeva in Inghilterra nel diciannovesimo secolo, essa ha avuto la facoltà di avanzare a grandi salti, così da superare l'estensione del mercato in poco tempo. Così ogni periodo di prosperità che segue un'estensione brusca del mercato è condannato ad una vita breve, la crisi pone un termine inevitabile. Tale è in poche parole la teoria delle crisi adottate generalmente, per quanto si conosce, dai "marxisti ortodossi" e fondata da Marx". Kautsky (Neue Zeit n°5, 1902) citato da RL nella Critica delle critiche[2].
Pressappoco nella stessa epoca, pubblicando The Theoretical System of Karl Marx[3], un membro dell'ala sinistra dell'American Socialist Party, Luis Budin, partecipava al dibattito con un'analisi simile ed anche più avanzata, e la pubblicava.
Mentre Kautsky, come viene sottolineato da Rosa Luxemburg ne L'accumulazione del capitale e nella Critica delle critiche (1915), aveva posto il problema della crisi in termini di "sottoconsumo", e nel quadro piuttosto impreciso della velocità relativa all'accumulazione ed all'espansione del mercato[4], Budin in modo più esatto la situava nel carattere unico del modo di produzione capitalista e nelle sue contraddizioni che lo portavano al fenomeno di sovrapproduzione:
"Nei vecchi sistemi schiavista e feudale, un problema come la sovrapproduzione non è mai esistito avendo la produzione per scopo il solo consumo familiare, il solo problema che semmai poteva presentarsi era: quale parte della produzione sarà attribuita allo schiavo o al servo della gleba e quanto andrà al proprietario di schiavi o al signore feudale. Una volta che le rispettive parti delle due classi erano definite, ciascuna procedeva al consumo da parte sua senza incontrare un nuovo problema. In altri termini, la questione cadeva sempre sul modo di dividere i prodotti ed il problema della sovrapproduzione non si poneva perché i prodotti non dovevano essere venduti sul mercato ma consumati dalle persone direttamente coinvolte dalla loro produzione, o da padrone o da schiavo.... per la nostra industria capitalista moderna le cose funzionano in maniera diversa. Sicuramente tutta la produzione, ad eccezione della parte che va agli operai, va come in passato al padrone, oggi al capitalista. Ma il problema non si risolve, per il fatto che il capitalista non produce per sé ma per il mercato. Non vuole accaparrarsi i beni che producono gli operai ma vuole venderli e, se non li vende, per lui questi non hanno assolutamente alcun valore. Nelle mani del capitalista, le merci vendibili sono la sua fortuna, il suo capitale, ma quando diventano invendibili, tutta la fortuna contenuta nei suoi depositi di merci si liquefa appena queste non sono monetizzate.
Allora chi va ad acquistare le merci dai nostri capitalisti che hanno introdotto nuove macchine nella loro produzione per cui la loro produzione aumenta notevolmente? Evidentemente altri capitalisti possono volere questi prodotti ma, quando si considera la produzione della società nel suo insieme, che cosa ne fa la classe capitalista della produzione aumentata che gli operai non possono consumare? I capitalisti non possono utilizzarla conservando ciascuno la propria produzione, né scambiandosela tra loro. E ciò per una ragione molto semplice, perché la classe capitalista non può da sola utilizzare tutto il sovraprodotto che gli operai producono e di cui essa si appropria in quanto profitti di produzione. Ciò è già escluso dalle stesse premesse della produzione capitalista a grande scala e dall'accumulazione del capitale. La produzione capitalista a grande scala implica l'esistenza di vaste quantità di lavoro cristallizzato sotto forma di ferrovie, di battelli a vapore, di fabbriche, di macchine e di altri prodotti manifatturieri che non sono stati consumati dai capitalisti e che rappresentano la loro parte o profitto della produzione degli anni precedenti. Come è stato stabilito già precedentemente, tutte le grandi fortune dei nostri re, principi e baroni capitalisti moderni ed altri grandi dignitari dell'industria, con o senza titoli, consistono in attrezzi sotto una forma o un'altra, e cioè sotto una forma non consumabile. È questa parte dei profitti capitalisti che i capitalisti "hanno economizzato" e dunque non consumata. Se i capitalisti consumassero tutto il loro profitto, non ci sarebbero capitalisti nel senso moderno della parola, non ci sarebbe accumulazione di capitale. Affinché il capitale possa accumularsi, i capitalisti non devono in nessuna circostanza consumare tutto il loro profitto. Il capitalista che lo fa, smette di essere un capitalista e perisce nella concorrenza con i suoi pari capitalisti. In altri termini, il capitalismo moderno presuppone l'abitudine di economizzare dei capitalisti, vale a dire che questa parte dei profitti dei capitalisti individuali non deve essere consumata ma posta da parte per aumentare il capitale esistente.... non può dunque consumare tutta la sua parte del prodotto manifatturiero. È evidente dunque che né l'operaio, né il capitalista possono consumare l'insieme del prodotto aumentato della manifattura. Chi l’acquisterà allora?" (tradotto dall’inglese da noi).
Budin tenta poi di spiegare il modo con cui il capitalismo tratta questo problema. Luxemburg ne cita un lungo passaggio in una nota de L'accumulazione del capitale e lo presenta come "una brillante critica" al libro di Tugan[5]:
"Il sovrapprodotto" creato nei paesi capitalisti non ha ostacolato - tranne alcune eccezioni che menzioneremo dopo - il corso della produzione perché la produzione è stata ripartita in modo più razionale nelle differenti sfere o perché la produzione di cotonato ha ceduto il posto ad una produzione di macchine, ma perché, essendosi alcuni paesi trasformati più velocemente che altri in paesi capitalisti, e che ancora oggi alcuni paesi restano sottosviluppati dal punto di vista capitalista, i paesi capitalisti hanno a loro disposizione un reale mondo esterno in cui hanno potuto esportare quei prodotti che loro stessi non possono consumare, indipendentemente dalla natura di questi prodotti: siano essi cotonati o siderurgici. Ciò non significa affatto che la sostituzione dei cotonati con i prodotti dell'industria siderurgica, in quanto prodotti essenziali dei paesi capitalisti più importanti, sarebbe priva di significato. Al contrario, essa riveste un ruolo importante, ma il suo significato è tutt’altro che quello attribuitogli da Tugan-Baranowsky. Essa annuncia l'inizio della fine del capitalismo. Fino a che i paesi capitalisti hanno esportato merci per il consumo, c'era ancora speranza per il capitalismo di questi paesi. Non si trattava ancora di sapere qual’era la capacità di assorbimento del mondo esterno non capitalista per le merci prodotte nei paesi capitalisti e quanto tempo avrebbe potuto persistere ancora. L'incremento della fabbricazione di macchine nell'esportazione dei principali paesi capitalisti a spese dei beni di consumo indica che i territori che, un tempo, si trovavano lontano dal capitalismo e, per questa ragione, servivano da luogo di smercio per i suoi sovrapprodotti, sono oggi trascinati nell'ingranaggio del capitalismo e mostra ancora che il loro capitalismo si sviluppa e che loro stessi producono i loro beni di consumo. Oggi, allo stadio iniziale del loro sviluppo capitalista, hanno ancora bisogno di macchine prodotte secondo il modo capitalista. Ma più presto di quanto si pensi, non ne avranno più bisogno. Produrranno da sé i loro prodotti siderurgici, come producono da ora i loro cotonati ed i loro principali beni di consumo. Smetteranno allora non solo di essere un luogo di assorbimento per il sovrapprodotto dei paesi capitalisti propriamente detti, ma loro stessi avranno un sovrapprodoto che solo difficilmente potranno smerciare". (Die Neue Zeit, 25 anno, 1 vol, Mathematische Formeln gegen Karl Marx, citato da Luxemburg in una nota del capitolo 23 de L'accumulazione del capitale)[6].
Budin va dunque più lontano di Kautsky ed insiste sul fatto che il vicino completamento della conquista del globo da parte del capitalismo significa anche "l'inizio della fine del capitalismo".
Rosa Luxemburg esamina il problema dell’accumulazione
Nel tempo in cui questo dibattito ebbe luogo, Rosa Luxemburg insegnava alla scuola del Partito a Berlino. Esponendo a grandi linee l'evoluzione storica del capitalismo come sistema mondiale, fu portata a ritornare in maniera più approfondita ai lavori di Marx, e ciò sia per la sua integrità come professore e come militante (aborriva ripetere continuamente idee note presentandole soltanto sotto una nuova forma, e considerava che era dovere di ogni marxista sviluppare ed arricchire la teoria marxista), che per la necessità urgente di comprendere le prospettive che il capitalismo mondiale doveva affrontare. Riesaminando Marx, aveva scoperto molti elementi su cui basare il suo punto di vista secondo cui il problema di sovrapproduzione in relazione al mercato costituisce una chiave per comprendere la natura transitoria del modo di produzione capitalista (vedere "Le contraddizioni mortali della società borghese" nel n.139 della Révue Internationale). Rosa era perfettamente consapevole che gli schemi della riproduzione allargata di Marx nel Volume II del Capitale erano concepiti dal loro autore come un modello teorico puramente astratto, utilizzato per studiare la questione dell'accumulazione che, per chiarezza dell’argomento, prendeva per ipotesi una società composta solo da capitalisti e da operai. A lei, tuttavia, sembrava che da ciò conseguiva l'idea che il capitalismo potesse accumulare in modo armonioso in un sistema chiuso, disponendo della totalità del plusvalore prodotto attraverso l'interazione reciproca dei due rami principali della produzione (il settore dei beni di produzione e quello dei beni di consumo). Ciò apparve a Rosa Luxemburg in contraddizione con altri passi di Marx (nel Volume III del Capitale per esempio) che insistono sulla necessità di un'espansione continua del mercato e, nello stesso tempo, stabiliscono un limite inerente a questa espansione. Se il capitalismo fosse capace di autoregolarsi, potrebbe avere squilibri provvisori tra i rami della produzione ma non avrebbe avuto la tendenza a produrre una massa di beni non assorbibili, da crisi di sovrapproduzione insolubile; se la tendenza del capitalismo all'accumulazione semplicemente per se stessa generasse costantemente l'aumento della domanda necessaria per realizzare l'insieme del plusvalore, allora come avrebbero argomentato i marxisti, contro i revisionisti, che il capitalismo era destinato ad entrare in una fase di crisi catastrofica che avrebbe offerto le basi obiettive della rivoluzione socialista?
A questa domanda, la Luxemburg rispose che era necessario riporre l'ascesa del capitalismo nel suo vero contesto storico. Non si poteva cogliere l’insieme della storia dell'accumulazione capitalistica se non come un processo costante di interazione con le economie non capitaliste che le erano intorno. Le più primitive comunità che vivevano di caccia e di raccolta, e che non avevano ancora prodotto un'eccedenza sociale e commerciabile, per il capitalismo non avevano utilità e dovevano essere spazzate via attraverso politiche di distruzione diretta e genocidio (anche le risorse umane di queste comunità avevano la tendenza ad essere inutilizzabili per il lavoro di schiavo). Ma le economie che avevano sviluppato un'eccedenza commercializzabile e dove la produzione di merci in particolare era già sviluppata nel loro seno (come nelle grandi civiltà di India e Cina), fornivano non solo materie prime ma enormi sbocchi per la produzione delle metropoli capitalistiche, permettendo al capitalismo dei paesi centrali di superare l’ingorgo periodico delle merci (questo processo è descritto in modo eloquente ne Il Manifesto Comunista). Ma come sottolinea anche Il Manifesto, anche quando le potenze capitaliste costituite tentarono di restringere lo sviluppo capitalista delle loro colonie, queste regioni del mondo diventarono ineluttabilmente parti integranti del mondo borghese, rovinando le economie precapitaliste e convertendole alle delizie del lavoro salariato - spostando così il problema della domanda addizionale richiesta per l'accumulazione ad un altro livello. Così, come lo stesso Marx l'aveva annunciato, più il capitalismo tendeva a diventare universale, più era destinato a crollare: "L'universalità verso cui tende senza tregua il capitale incontra dei limiti immanenti alla sua natura che, ad un certo stadio del suo sviluppo, lo fanno apparire come il più grande ostacolo a questa tendenza e lo spingono alla sua autodistruzione". (Grundrisse)[7].
Questo passo permise a Rosa Luxemburg di comprendere il problema dell'imperialismo. Il Capitale aveva solo iniziato a trattare la questione dell'imperialismo e dei suoi fondamenti economici, questione che, all'epoca in cui il libro fu scritto, non era diventata ancora il centro delle preoccupazioni dei marxisti. Al momento, quest’ultimi erano confrontati non solo all'imperialismo come una spinta per la conquista del mondo non capitalista ma, anche, come un acuirsi delle rivalità imperialiste tra le principali nazioni capitaliste per il dominio del mercato mondiale. L'imperialismo era una scelta, una comodità per il capitale mondiale, come lo intendevano molti dei suoi critici liberali e riformisti, o era una necessità inerente all'accumulazione capitalista ad un certo stadio della sua maturità? Là ancora, le implicazioni erano vaste perché se l'imperialismo era solamente un'opzione supplementare per il capitale, si poteva argomentare allora in favore di politiche più ragionevoli e pacifiche. Luxemburg concluse tuttavia che l'imperialismo era una necessità per il capitale - un mezzo per prolungare il suo regno che in tal modo lo trascinava inesorabilmente verso la sua rovina.
"L'imperialismo è l'espressione politica del processo d'accumulazione capitalista che si manifesta attraverso la concorrenza tra i capitalismi nazionali intorno agli ultimi territori non capitalisti ancora liberi del mondo. Geograficamente, questo campo ancora oggi rappresenta grande parte del globo. Tuttavia, il campo di espansione offerto all'imperialismo appare come molto piccolo comparato all'alto livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive capitaliste; bisogna tenere conto in effetti della enorme massa di capitale già accumulata nei vecchi paesi capitalisti e che lotta per smerciare il suo sovrapprodotto e per capitalizzare il suo plusvalore, e, inoltre, della rapidità con cui i paesi precapitalisti si trasformano in paesi capitalisti. Sulla scena internazionale, dunque, il capitale deve procedere attraverso metodi appropriati. Con l'elevato grado di evoluzione raggiunto dai paesi capitalisti e l'esasperazione della concorrenza dei paesi capitalisti per la conquista dei territori non capitalisti, la spinta imperialistica, sia nella sua aggressione contro il mondo non capitalista che nei conflitti più acuti tra i paesi capitalisti concorrenti, aumenta di energia e di violenza. Ma più aumentano la violenza e l'energia con cui il capitale procede alla distruzione delle civiltà non capitaliste, più restringe la sua base di accumulazione. L'imperialismo è al tempo stesso un metodo storico per prolungare i giorni del capitale ed il mezzo il più sicuro e più veloce di mettervi obiettivamente un termine. Ciò non significa che il punto finale abbia bisogno di essere raggiunto alla lettera. La sola tendenza verso questo scopo dell'evoluzione capitalista si manifesta già attraverso dei fenomeni che fanno della fase finale del capitalismo un periodo di catastrofi"[8].
La conclusione essenziale de L'accumulazione del capitale era dunque che il capitalismo entrava in "un periodo di catastrofi". È importante notare che essa non considerava - come spesso viene riportato in modo erroneo - che il capitalismo era sul punto di perire. Stabilisce molto chiaramente che il campo non capitalista "rappresenta [geograficamente] ancora oggi grande parte del globo" e che le economie non capitaliste esistevano non solo nelle colonie ma in grandi parti della stessa Europa[9]. E' certo che la scala di queste zone economiche in termine di valore andava diminuendo relativamente alla capacità crescente del capitale a generare nuovi valori. Ma il mondo aveva ancora molta strada da percorrere prima di diventare un sistema di capitalismo puro come immaginato negli schemi della riproduzione di Marx:
"Se lo si comprende bene, lo schema marxista dell'accumulazione è per la sua insolubilità anche il pronostico esatto del crollo economico inevitabile del capitalismo, risultato finale del processo di espansione imperialistica, l'espansione che si dà per scopo particolare di realizzare ciò che era l'ipotesi di partenza di Marx: il dominio esclusivo e generale del capitale.
Questo termine finale può essere mai raggiunto nella realtà? Si tratta a dire il vero di una finzione teorica, per la ragione precisa che l'accumulazione del capitale non è solamente un processo economico ma un processo politico"[10].
Per Rosa Luxemburg, un mondo unicamente costituito da capitalisti e da operai era “una finzione teorica” ma più ci si avvicinerebbe a questo punto, più il processo di accumulazione diventerebbe difficile e disastroso, scatenando delle calamità che non sarebbero “semplicemente” economiche, ma anche militari e politiche. La guerra mondiale che esplose dopo poco tempo la pubblicazione de L'accumulazione, costituiva una chiara conferma di questo pronostico. Per Rosa Luxemburg, non c'è un crollo puramente economico del capitalismo ed ancora meno un legame automatico, garantito, tra il crollo capitalista e la rivoluzione socialista. Ciò che annunciava nel suo lavoro teorico era precisamente ciò che avrebbe confermato la storia catastrofica del secolo seguente: la manifestazione crescente del declino del capitalismo come modo di produzione, mettendo l'umanità di fronte all'alternativa socialismo o barbarie, e chiamando specificamente la classe operaia a sviluppare l’organizzazione e la coscienza necessaria al capovolgimento del sistema ed alla sua sostituzione attraverso un ordine sociale superiore.
Una tempesta di critiche
Rosa Luxemburg pensava che la sua tesi non sarebbe stata soggetta a controversia, precisamente perché l'aveva basata fermamente sugli scritti di Marx e dei sostenitori del suo metodo. Tuttavia, fu accolta da un diluvio di critiche - non solo da parte dei revisionisti e dei riformisti ma, anche, da parte di rivoluzionari come Pannekoek e Lenin che, in questo dibattito, si trovò non solo affianco ai marxisti legali della Russia ma anche agli austro-marxisti che facevano parte del campo semi-riformistico nella socialdemocrazia:
"Ho letto il nuovo libro di Rosa L'accumulazione del capitale. Si ingarbuglia in modo sconveniente. Ha distorto Marx. Sono molto contento che Pannekoek, Eckstein e O. Bauer l’abbiano condannata tutti di comune accordo ed espresso contro di lei ciò che avevo detto nel 1899 contro i Narodinikis"[11].
Questo accordo si fece sull'idea che Luxemburg aveva semplicemente letto male Marx ed inventato un problema che non esisteva: gli schemi della riproduzione allargata mostrano che il capitalismo in effetti può accumulare senza nessuno limite interno in un mondo puramente composto di operai e di capitalisti. I calcoli di Marx sono giusti dopo tutto, ciò deve dunque essere vero. Bauer era un poco più sfumato: riconosceva che l'accumulazione non poteva avere luogo solo se fosse alimentata da una domanda effettiva crescente, ma dava una risposta semplice: la popolazione aumenta, ci sono dunque più operai, e dunque un aumento della domanda - soluzione che ritornava al punto di partenza del problema poiché questi nuovi operai non potevano che consumare solo il capitale variabile che era dato loro dai capitalisti. La questione essenziale - che quasi tutti i critici di Luxemburg sostengono fino ai nostri giorni - è che gli schemi della riproduzione mostrano in effetti che non esiste problema insolubile di realizzazione per il capitalismo.
Luxemburg era molto cosciente che gli argomenti sviluppati da Kautsky (o da Budin, ma quest'ultimo era evidentemente una figura ben meno conosciuta del movimento operaio) per difendere in fondo la stessa tesi non avevano provocato la stessa indignazione:
"Rimane il fatto che Kautsky ha confutato nel 1902, nel lavoro di Tugan-Baranowsky, esattamente gli stessi argomenti che gli "esperti" di oggi oppongono alla mia teoria dell'accumulazione, e che gli "esperti" ufficiali del marxismo attaccano nel mio libro come una deviazione della fede ortodossa ciò che è solamente lo sviluppo esatto, applicato al problema dell'accumulazione, delle tesi sostenute da Kautsky quattordici anni fa contro il revisionista Tugan-Baranowsky e che chiama "la teoria delle crisi generalmente adottate dai marxisti ortodossi"[12].
Perché una tale indignazione? È facile da comprendere venendo dai riformisti e dai revisionisti che si preoccupavano innanzitutto di rigettare la possibilità di un crollo del sistema capitalista. Da parte dei rivoluzionari, è più difficile da capire. Possiamo segnalare certamente il fatto - ed è molto significativo del carattere isterico delle reazioni - che Kautsky non aveva cercato il legame tra i suoi argomenti e gli schemi della riproduzione[13] e non era apparso, per questo, come un "critico" di Marx. Forse questo conservatorismo è al cuore di molte critiche portate a Rosa Luxemburg: la visione secondo la quale Il Capitale è una specie di bibbia che fornisce tutte le risposte per comprendere l'ascendenza ed il declino del modo di produzione capitalista - un sistema chiuso, in effetti! Luxemburg difendeva al contrario con vigore il fatto che i marxisti dovevano considerare Il Capitale per ciò che era - un'opera geniale ma incompiuta, in particolare i suoi Volumi II ed III; e che, ad ogni modo, non poteva includere tutti gli sviluppi ulteriori dell'evoluzione del sistema capitalista.
Nel mezzo di tutte queste risposte scandalizzate, ci fu tuttavia almeno una difesa molto chiara della Luxemburg, scritta al momento dei sollevamenti della guerra e della rivoluzione: “Rosa Luxemburg, marxista”, da parte dell’ungherese Georg Lukàcs che era, in quel momento, un rappresentante dell’ala sinistra del movimento comunista. L’articolo di Lukàcs, pubblicato nella libro Storia e coscienza di classe (1922), comincia col sottolineare la principale considerazione metodologica nella discussione della teoria di Luxemburg. Difende l'idea che ciò che distingue fondamentalmente la visione proletaria dalla visione borghese del mondo è il fatto che, mentre la borghesia è condannata dalla sua posizione sociale ad esaminare la società dal punto di vista di un'unità atomizzata, in concorrenza, il proletariato soltanto può sviluppare una visione della realtà come totalità: " Quello che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è la predominanza dei motivi economici nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. Il dominio, determinante ed in tutti i campi, del tutto sulle parti, costituisce l'essenza del metodo che Marx ha chiesto in prestito a Hegel e che ha trasformato in modo originale per farne il fondamento di una scienza interamente nuova. La separazione capitalista tra il produttore ed i processi di insieme della produzione, il frazionamento del processo del lavoro in parti che lasciano da parte il carattere umano del lavoratore, l'atomizzazione della società in individui che producono diritto davanti ad essi senza piano, senza concertarsi, ecc., tutto ciò doveva avere necessariamente anche un'influenza profonda sul pensiero, la scienza e la filosofia del capitalismo. E ciò che c'è di fondamentalmente rivoluzionario nella scienza proletaria, non è solamente che essa oppone alla società borghese dei contenuti rivoluzionari, ma è, innanzitutto, l'essenza rivoluzionaria del metodo stesso. Il regno della categoria della totalità è il portatore del principio rivoluzionario nella scienza".
Prosegue dimostrando che l'assenza di questo metodo proletario aveva impedito ai critici della Luxemburg di afferrare il problema che essa aveva sollevato ne L'Accumulazione del capitale:
"I dibattiti condotti da Bauer, Eckstein, ecc., non si aggiravano intorno alla questione se la soluzione del problema dell’accumulazione del capitale proposta da Rosa Luxemburg fosse materialmente corretta o falsa. Si discuteva invece se vi fosse qui, in generale, un problema. Ciò che veniva contestato con estrema violenza era proprio la presenza di un effettivo problema. Dal punto di vista metodologico dell’economia volgare ciò è del tutto comprensibile, anzi necessario. Infatti, se da un lato la questione dell’accumulazione viene trattata come questione particolare dell’economia politica, e se dall’altro la si considera dal punto di vista del capitalista singolo, non sussiste allora di fatto alcun problema.
Questo rifiuto del problema nella sua interezza è strettamente dipendente dal fatto che i critici di Rosa Luxemburg non si sono soffermati sul capitolo decisivo di tutto il libro ("Le condizioni storiche dell'accumulazione") e, coerentemente con loro stessi, hanno posto la questione sotto la seguente forma: le formule di Marx che derivano dall’aver assunto, in un isolamento determinato da ragioni metodologiche, una società composta unicamente da capitalisti e proletari, sono giuste? E come possono essere interpretate in maniera migliore? Che questa assunzione sia in Marx stesso soltanto di natura metodologica, servendo ad afferrare più chiaramente il problema prima di passare ad una impostazione più comprensiva, alla posizione del problema della totalità della società, tutto ciò è stato del tutto trascurato da questi critici. Essi hanno trascurato che Marx ha compiuto questo passo del primo volume del Capitale e, a proposito della cosiddetta accumulazione originaria; essi hanno - coscientemente o no – taciuto il fatto che l’intero Capitale, proprio su questo problema, è un frammento che si interrompe nello stesso punto in cui esso deve essere messo sul tappeto; che quindi Rosa Luxemburg non ha fatto altro che portare sino alle sue ultime conseguenze ed integrare il frammento di Marx nel suo senso e nel suo spirito.
Eppure essi si sono comportati in modo del tutto coerente. Infatti, dal punto di vista del capitalista singolo, dal punto di vista dell’economia volgare questo problema non deve di fatto essere posto. Dal punto di vista del capitalista singolo, la realtà appare come un mondo dominato dalle leggi eterne della natura alle quali egli deve adattare la propria attività. La realizzazione del plusvalore, l’accumulazione si compie per lui (naturalmente non sempre, ma molto spesso) nella forma di uno scambio con altri capitalisti singoli. E l’intero problema dell’accumulazione è dunque soltanto quello di una forma delle molteplici trasformazioni subite dalle formule D-M-D e M-D-M nel corso della produzione, della circolazione, ecc. Così, esso diventa per l’economia volgare , un problema scientifico-particolare di dettaglio, che non ha quasi nessun legame con il destino del capitalismo nel suo complesso, un problema la cui soluzione è sufficientemente garantita dalla giustezza delle “formule” di Marx, che dovranno al massimo – secondo Otto Bauer – essere perfezionate in modo da renderle “aggiornate”. Come a suo tempo gli allievi di Ricardo non compresero la problematica marxista, così Bauer e soci non hanno capito che per principio con queste formule non si coglierà mai la realtà economica, dal momento che il loro presupposto è una astrazione da questa realtà complessiva (considerazione della società come se consistesse soltanto di capitalisti e di proletari); le formule perciò possono servire solo per chiarire il problema, come punto di avvio verso una sua corretta impostazione[14].
Un passaggio dei Grundrisse, che Lukàcs non conosceva ancora, conferma questo passo: l'idea che la classe operaia costituisce un mercato sufficiente per i capitalisti è un'illusione tipica della visione ristretta della borghesia:
"Qui noi non abbiamo ancora da considerare il rapporto di un capitalista dato con gli operai degli altri capitalisti. Questo rapporto fa rivelare solamente l'illusione di ogni capitalista, ma non cambia niente al rapporto fondamentale capitale-lavoro. Sapendo che non si trova nei confronti del suo operaio nella situazione del produttore di fronte al consumatore, ogni capitalista cerca di limitarne al massimo il consumo, diversamente detto capacità di scambio, il salario . Si augura, naturalmente, che gli operai degli altri capitalisti consumino al massimo la sua merce; ma il rapporto di ogni capitalista con i suoi operai è il rapporto generale del capitale con il lavoro. È precisamente di là che nasce l'illusione che, ad eccezione dei propri operai, tutta la classe operaia costituisce per lui i consumatori e clienti, non operai, ma dispensatori di denaro. Si dimentica che, secondo Malthus, "l'esistenza stessa di un profitto su qualsiasi merce presuppone una domanda esterna a quella dell'operaio che l'ha prodotta", e che di conseguenza "la domanda dell'operaio stesso non può essere mai una domanda adeguata". Dato che una produzione mette in movimento un'altra e che essa si crea così dei consumatori presso gli operai di un terzo capitale, ogni capitale ha l'impressione che la domanda della classe operaia, come è posta dalla stessa produzione, è una "domanda adeguata". Questa domanda posta dalla stessa produzione l'incita e deve incitarla a superare i limiti proporzionali in cui essa dovrebbe produrre rispetto agli operai; d'altra parte, se la "domanda esterna a quella dei loro stessi operai" sparisce o si assottigli, la crisi esplode"[15].
Mettendo in discussione la lettera di Marx, Luxemburg ha mostrato più di ogni altro che era fedele al suo spirito; ma ci sono bene altri scritti di Marx che potrebbero essere citati per difendere l'importanza centrale del problema che essa sollevò.
[1] L’accumulazione del capitale, capitolo 24.
[3] Apparso per la prima volta sotto forma di libro pubblicato da Charles Kerr (Chicago) nel 1915, questo studio si basa su una serie di articoli pubblicati, da maggio 1905 all'ottobre 1906, nella rivista Internazionale Socialist Review.
[4] Citazione di Rosa Luxemburg: "Non teniamo conto dell'ambiguità dei termini di Kautsky, che chiama questa teoria una spiegazione delle crisi "per sottoconsumo"; ora una tale spiegazione è oggetto degli scherni di Marx nel secondo libro del Capitale. Facciamo anche astrazione per il fatto che Kautsky si interessa solamente al problema delle crisi senza vedere, sembra, che l'accumulazione capitalista, al di fuori anche delle variazioni della congiuntura, costituisce di per sé un problema. Infine non insistiamo sul carattere vago delle affermazioni di Kautsky - il consumo dei capitalisti e degli operai non cresce abbastanza rapidamente" per l'accumulo, quest'ultimo ha bisogno di un "mercato supplementare" dunque - che non cerca di afferrare con più precisione il meccanismo dell'accumulo". (Critica delle critiche).
È interessante notare che tanti critici di Rosa Luxemburg - ivi compreso quelli che erano "marxisti" - l'accusano di sotto-consomismo, mentre essa rigetta esplicitamente questa nozione! È evidentemente completamente esatto che Marx argomenta in più occasioni che "la ragione estrema di tutte le crisi reali è sempre la povertà ed il consumo restretto delle masse" (Il Capitale, Volume III, capitolo 30), ma Marx si prende cura di precisare che non si riferisce "al potere di consumo assoluto", ma al "potere di consumo che ha per base delle condizioni di ripartizione antagoniste che riducono il consumo della grande massa della società ad un minimo variabile in limiti più o meno stretti. È, inoltre, limitato dal desiderio di accumulare, la tendenza ad aumentare il capitale ed a produrre del plusvalore su una scala più estesa." (Il Capitale, Volume III, capitolo 15). In altri termini, le crisi non risultano dalla reticenza della società a consumare fintanto che è fisicamente possibile, né per il fatto che i salari sarebbero troppo "bassi" - cosa che bisogna precisare a causa delle numerose mistificazioni su questo argomento emanato in particolare dall'ala sinistra del capitale. Se fosse vero, si potrebbero eliminare allora le crisi aumentando i salari e ed è precisamente questo che Marx ridicolizza nel Volume II del Capitale. Il problema risiede piuttosto nell'esistenza di "condizioni di ripartizione antagoniste", vale a dire nel rapporto dello stesso lavoro salariato che deve sempre permettere un "plusvalore" in più di ciò che il capitalista paga agli operai.
[5] La principale critica di Luxemburg a Budin portava sull'idea apparentemente visionaria secondo la quale le spese di armamento costituivano una forma di spreco o di spese sconsiderate; questo punto di vista andava contro quello di Luxemburg su "il militarismo, campo di azione del capitale", elaborato in un capitolo dallo stesso nome ne L'accumulazione del capitale. Ma il militarismo non poteva essere campo di accumulazione del capitale che in un'epoca in cui esistevano delle possibilità reali che la guerra - le conquiste coloniali per essere precisi - aprivano nuovi mercati sostanziali per l'espansione capitalista. Col restringimento di questi sbocchi, il militarismo diventa veramente un puro spreco per il capitalismo globale: anche se l'economia di guerra sembra fornire una "soluzione" alla crisi di sovrapproduzione facendo girare l'apparato economico (in modo più evidente nella Germania di Hitler per esempio e durante la Seconda Guerra mondiale), essa costituisce in realtà un'immensa distruzione di valore.
[7] Pubblicati in italiano dalla Nuova Italia, Firenze, nel 1974, con il titolo “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” parte II: "Il capitale", "Mercato mondiale e sistema di bisogni.”
[8] L’Accumulazione del capitale, III, 31: “Il protezionismo e l’accumulazione”.
[9] “In realtà in tutti i paesi capitalisti, ed anche in quelli in cui la grande industria è molto sviluppata, esistono, accanto alle imprese capitaliste, numerose imprese industriali ed agricole di carattere artigianale e contadino, dove regna un'economia commerciale semplice. Accanto ai vecchi paesi capitalisti esistono, nella stessa Europa, dei paesi in cui la produzione contadina ed artigianale domina ancora oggi l'economia, per esempio la Russia, i paesi balcanici, la Scandinavia, la Spagna. Infine, accanto all'Europa capitalista ed al Nordamerica, esistono immensi continenti dove la produzione capitalista si è installata solamente in certi punti poco numerosi ed isolati, mentre peraltro i territori di questi continenti presentano tutte le strutture economiche possibili, dal comunismo primitivo fino alla società feudale, contadina ed artigianale.” (Critica delle critiche, I).
Vedere l'articolo “La sovrapproduzione cronica, un ostacolo insuperabile dell'accumulazione capitalista” per un contributo alla comprensione del ruolo giocato dai mercati extra-capitalisti nel periodo di decadenza capitalista (in francese, ICC on line).
[11] Nella Genesi del Capitale di Marx, (The making of Marx's Capital, Pluto Press, 1977), Roman Rosdolsky diventa un'eccellente critico dell'errore commesso da Lenin schierandosi con i legalisti russi e con i riformisti austriaci contro Luxemburg (p. 472 edizione in inglese). Benché lui stesso abbia delle critiche da portare a Luxemburg, insiste sul fatto che il marxismo è necessariamente una teoria "del crollo" e sottolinea la tendenza alla sovrapproduzione identificata da Marx come la questione chiave per comprenderla. In effetti, le sue critiche a Luxemburg sono abbastanza difficili da decifrare. Insiste sul fatto che il principale errore di Luxemburg risiedeva nel fatto che non comprendeva che gli schemi della riproduzione erano semplicemente una "esercitazione metodologica" e, pertanto, tutta l'argomentazione di Luxemburg contro la sua critica porta precisamente sul fatto che questo schema può essere utilizzato solamente come una esercitazione e non come una descrizione reale dell'evoluzione storica del capitale, né come una prova matematica della possibilità di un accumulazione illimitata. (p.490, edizione inglese).
[12] Critica delle critiche, I.
[13] Più tardi, Kautsky si allineò lui stesso sulla posizione degli austro-marxisti: "Nella sua opera maggiore, critica molto "l'ipotesi" di Luxemburg secondo la quale il capitalismo deve crollare per ragioni economiche; afferma che Luxemburg "è in contraddizione con Marx che ha dimostrato il contrario nel secondo Volume del Capitale, e cioè negli schemi della riproduzione". (Rosdolsky, op cit., citando Kautsky ne La concezione materialista della storia, tradotto da noi dall'inglese).
[14] In Storia e coscienza di classe, Sugarco Edizioni, 1974, pagine 40-41.
[15] Grundrisse o Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Ed. La Nuova Italia, Tomo II, "II. Il Capitale". Marx spiega anche in altri punti che l'idea secondo la quale gli stessi capitalisti possono costituire il mercato per la riproduzione allargata, è basata su un'incomprensione della natura del capitalismo: "Il capitale insegue, in effetti, non la soddisfazione dei bisogni, ma l'ottenimento di un profitto, ed il suo metodo consiste nel regolare la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non quest'ultima secondo i prodotti che dovrebbero essere ottenuti; c'è dunque conflitto continuo tra il consumo compresso e la produzione per riuscire a raggiungere il limite assegnato a quest'ultima, e siccome il capitale consiste in merci, la sua sovrapproduzione si riduce ad una sovrapproduzione di merci. Un fenomeno bizzarro è che gli stessi economisti che negano la possibilità di una sovrapproduzione di merci ammettono che il capitale possa esistere in eccesso. Tuttavia quando dicono che non c'è sovrapproduzione universale, ma semplicemente una sproporzione tra i diversi rami di produzione, affermano che in regime capitalista la proporzionalità dei diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione; perché per essi la coesione della produzione tutta intera si impone ai produttori come una legge cieca, che essi non possono volere, né controllare. Questo ragionamento implica, inoltre, che i paesi dove il regime capitalista non è sviluppato consumano e producono nella stessa misura delle nazioni capitaliste. Dire che la sovrapproduzione è solamente relativa è perfettamente esatto. Ma tutto il sistema capitalista di produzione è solamente un sistema relativo i cui limiti sono assoluti solamente quanto si considera il sistema in sé. Come è possibile che talvolta degli oggetti che indubbiamente mancano alla massa del popolo non facciano l'oggetto di nessuna domanda del mercato, e come è che bisogna cercare allo stesso tempo degli ordini lontano, rivolgersi ai mercati stranieri per potere pagare agli operai del paese la media dei mezzi di esistenza indispensabili? Unicamente perché in regime capitalista il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che la possiede non può metterlo a disposizione del consumatore se non quando si riconverte per lui in capitale. Infine, quando si dice che i capitalisti non hanno che da scambiare tra loro e consumare loro stessi le loro merci, si perde di vista il carattere essenziale della produzione capitalista, il cui scopo è la messa in valore del capitale e non il consumo. Riassumendo tutte le obiezioni che vengono opposte ai fenomeni così evidenti della sovrapproduzione (fenomeni che si svolgono malgrado queste obiezioni), si torna a dire che i limiti che si attribuiscono alla produzione capitalista non essendo dei limiti inerenti alla produzione in generale, non sono neanche dei limiti di questa produzione specifica che si chiama capitalista. Ragionando così si dimentica che la contraddizione che caratterizza il modo capitalista di produzione, risiede soprattutto nella sua tendenza a sviluppare in maniera assoluta le forze produttive, senza preoccuparsi delle condizioni di produzione al centro delle quali si muove e può muoversi il capitale."
Il Capitale, Volume III, capitolo 15: "lo sviluppo delle contraddizioni immanenti della legge", 3 parte. – evidenziato da noi.