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La decomposizione del capitalismo
1. Da un secolo, il modo di produzione capitalista è entrato nel suo periodo di declino storico, di decadenza. È lo scoppio della Prima Guerra mondiale, nell'agosto 1914 a segnare il passaggio tra la "Belle Époque", quella dell'apogeo della società borghese, e "l'era delle guerre e delle rivoluzioni", come l'ha qualificata l'Internazionale Comunista all'epoca del suo primo congresso, nel 1919. Da allora, il capitalismo non ha fatto che sprofondare nella barbarie con, al suo attivo in particolare, una Seconda Guerra mondiale che ha fatto più di 50 milioni di morti. E se il periodo di "prosperità" che è seguito a questa orribile macelleria ha potuto seminare l'illusione che questo sistema infine potesse superare le sue contraddizioni, la crisi aperta dell'economia mondiale, alla fine degli anni 60, è giunta a confermare il verdetto che i rivoluzionari avevano già enunciato mezzo secolo prima: il modo di produzione capitalista non sfuggiva al destino dei modi di produzione che l'avevano preceduto. Anch'esso, dopo avere costituito una tappa progressiva nella storia umana, era diventato un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive ed al progresso dell'umanità. L'ora del suo capovolgimento e della sua sostituzione con un'altra società era giunta.
2. Nello stesso momento in cui segnava lo storico vicolo cieco in cui si stava trovando il sistema capitalista, questa crisi aperta, come quella degli anni 1930, poneva una nuova volta la società davanti all'alternativa: guerra imperialistica generalizzata o sviluppo di combattimenti decisivi del proletariato con, in prospettiva, il capovolgimento rivoluzionario del capitalismo. Di fronte alla crisi degli anni 1930, il proletariato mondiale, schiacciato ideologicamente dalla borghesia in seguito alla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria degli anni 1917-23, non aveva potuto dare la sua risposta, lasciando che la classe dominante imponesse la sua: una nuova guerra mondiale. Di contro, fin dai primi segni della crisi aperta, alla fine degli anni 1960, il proletariato si è impegnato in combattimenti di grande ampiezza: maggio 1968 in Francia, "maggio strisciante" italiano del 1969, scioperi massicci degli operai polacchi del Baltico nel 1970 e molti altri scontri meno spettacolari ma tutti così significativi di un cambiamento fondamentale nella società: la controrivoluzione era giunta a termine. In questa situazione nuova, la borghesia non ha potuto avere le mani libere per intraprendere la strada di una nuova guerra mondiale. Sono seguiti più di quattro decenni di marasma crescente dell'economia mondiale, corredati da attacchi sempre più violenti contro il livello e le condizioni di vita degli sfruttati. Durante questi decenni, la classe operaia ha condotto molte lotte di resistenza. Tuttavia, anche se non ha subito una sconfitta decisiva che avrebbe potuto invertire il corso storico, essa non è stata in grado di sviluppare le sue lotte e la sua coscienza ad un punto tale da presentare alla società anche un embrione di prospettiva rivoluzionaria. "In una tale situazione in cui le due classi fondamentali e antagoniste della società si confrontano senza riuscire ad imporre la loro propria risposta decisiva, la storia non può attendere fermandosi. Ancor meno che per gli altri modi di produzione che lo hanno preceduto, non è possibile per il capitalismo congelare la situazione, la vita sociale. Mentre le contraddizioni del capitalismo in crisi non fanno che aggravarsi, l’incapacità della borghesia di offrire la minima prospettiva per l’insieme della società così come l’incapacità del proletariato di affermare apertamente la propria prospettiva nell’immediato non possono che sfociare in un fenomeno di decomposizione generalizzata, di incancrenimento generale della società. ". (La decomposizione, fase estrema della decadenza capitalista – Rivista Internazionale n°14). È dunque una nuova fase della decadenza del capitalismo che si è aperta da un quarto di secolo: il fenomeno della decomposizione sociale è diventato una componente determinante della vita di tutta la società.
3. Il campo dove si manifesta in modo più spettacolare la decomposizione della società capitalista è quello degli scontri militari e più generalmente delle relazioni internazionali. La successione di attentati omicidi che hanno colpito le grandi città europee, particolarmente Parigi, nel mezzo del decennio, attentati che non sono stati fatti da semplici gruppi isolati ma da Stati costituiti, ha spinto la CCI ad elaborare la sua analisi sulla decomposizione nella seconda metà degli anni 1980. É stato l'inizio di una forma di scontri imperialisti, qualificati in seguito come "guerre asimmetriche", che ha tradotto un cambiamento in profondità nelle relazioni tra Stati e, più generalmente, nell'insieme della società. La prima grande manifestazione storica di questa nuova, ed ultima, tappa nella decadenza del capitalismo è stata costituita dal crollo dei regimi stalinisti d'Europa e del blocco dell'Est nel 1989. La CCI ha immediatamente avanzato il significato che questo avvenimento rivestiva dal punto di vista dei conflitti imperialistici: "La scomparsa del gendarme imperialista russo, e ciò che conseguirà per il gendarme americano nei confronti dei suoi principali 'partner' di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità locali. Queste rivalità e scontri non possono, al momento, degenerare in un conflitto mondiale (…). Di contro, a causa della scomparsa della disciplina imposta dalla presenza dei blocchi, questi conflitti rischiano di essere più violenti e più numerosi, in particolare, evidentemente, nelle zone dove il proletariato è più debole". (Revue Internationale n°61, "Dopo il crollo del blocco dell'Est, destabilizzazione e caos"). Da questo momento la situazione internazionale non ha fatto che confermare tale analisi:
- 1a guerra del Golfo nel 1991;
- guerra nell'ex Iugoslavia tra il 1991 ed il 2001;
- due guerre in Cecenia, nel 1994-1995 e nel 1999-2000;
- guerra in Afghanistan a partire dal 2001 che prosegue ancora, 12 anni dopo;
- la guerra in Iraq del 2003 le cui conseguenze continuano a pesare in modo drammatico su questo paese, ma anche sulla potenza americana, che ha iniziato la guerra;
- le numerose guerre che non hanno smesso di devastare il continente africano (Ruanda, Somalia, Congo, Sudan, Costa d'Avorio, Mali, ecc.);
- le numerose operazioni militari d'Israele contro il Libano o la Striscia di Gaza che replica ai lanci di razzi dalle posizioni di Hezbollah o di Hamas.
4. In realtà, questi differenti conflitti illustrano in modo drammatico come la guerra abbia acquisito un carattere totalmente irrazionale nel capitalismo decadente. Le guerre del XIX secolo, per quanto omicide siano state, hanno avuto una razionalità dal punto di vista dello sviluppo del capitalismo. Le guerre coloniali hanno permesso agli Stati europei di costituirsi un impero dove attingere materie prime o dove vendere le loro merci. La Guerra di Secessione del 1861-65 in America, vinta dal Nord, ha aperto le porte ad un pieno sviluppo industriale di quella che sarebbe diventata la prima potenza mondiale. La guerra franco-prussiana del 1870 è stata un elemento decisivo dell'unità tedesca e dunque della creazione del quadro politico della futura prima potenza economica d'Europa. Al contrario, la Prima Guerra mondiale ha lasciato esangui i paesi europei, sia i "vincitori" che i "vinti", ed in particolare quelli che avevano avuto la posizione più "bellicista" (Austria, Russia e Germania). In quanto alla Seconda Guerra mondiale, essa ha confermato ed ha amplificato il declino del continente europeo dove è esordita, con una menzione speciale per la Germania che nel 1945 è diventata un campo di rovine, come anche il Giappone, altra potenza "aggressiva". In effetti, il solo paese che abbia beneficiato di questa guerra è stato quello che vi è entrato più tardivamente e che ha potuto evitare, a causa della sua posizione geografica, lo svolgersi di quest’ultima sul suo territorio, gli Stati Uniti. Del resto, la guerra più importante che ha condotto questo paese dopo la Seconda Guerra mondiale, quella del Vietnam, ha ben mostrato il suo carattere irrazionale poiché non ha portato niente alla potenza americana se non un costo considerevole dal punto di vista economico e soprattutto umano e politico.
5. Detto ciò, il carattere irrazionale della guerra si è elevato ad un livello superiore nel periodo di decomposizione. Ciò che è ben illustrato, per esempio, dalle avventure militari degli Stati Uniti in Iraq ed in Afghanistan. Anche queste guerre hanno avuto un costo considerevole, soprattutto da un punto di vista economico. Infatti, il loro beneficio è molto ridotto, se non negativo. In queste guerre, la potenza americana ha potuto fare mostra della sua immensa superiorità militare, ma ciò non le ha permesso di raggiungere gli obiettivi desiderati: stabilizzare l'Iraq e l'Afghanistan ed obbligare i suoi vecchi alleati del blocco occidentale a stringere le righe intorno a lei. Oggi, il ritiro programmato delle truppe americane e della NATO dall’Iraq e dall'Afghanistan lascia un'instabilità senza precedente in questi paesi col rischio di contribuire all'aggravamento ed all'instabilità di tutta la regione. Allo stesso tempo, è in ordine sparso che gli altri partecipanti a queste avventure militari hanno lasciato o lasciano la nave. Per la potenza imperialista americana, la situazione non ha smesso di aggravarsi: se negli anni 1990 è riuscita a mantenere il suo ruolo di "Gendarme del Mondo", oggi, il suo primo problema è tentare di mascherare la sua impotenza di fronte all'ascesa del caos mondiale, come lo dimostra, per esempio, la situazione in Siria.
6. Durante l'ultimo periodo, il carattere caotico ed incontrollabile delle tensioni e conflitti imperialisti si è dimostrato ancora una volta con la situazione in Estremo Oriente e, chiaramente, in Siria. Nei due casi, siamo confrontati a conflitti che portano in sé la minaccia di un incendio e di una destabilizzazione ben più considerevole.
In Estremo Oriente si assiste ad un'impennata delle tensioni tra gli Stati della regione. È così che nel corso degli ultimi mesi abbiamo assistito allo sviluppo di tensioni coinvolgenti numerosi paesi, dalle Filippine al Giappone. Per esempio, la Cina ed il Giappone si disputano le isole Senkaku/Diyao, il Giappone e la Corea del Sud l'isola Takeshima/Dokdo, mentre altre tensioni sorgono a Taiwan, in Vietnam o in Birmania. Ma il conflitto più spettacolare riguarda evidentemente quello che oppone la Corea del Nord alla Corea del Sud, il Giappone e gli Stati Uniti. Presa alla gola da una crisi economica drammatica, la Corea del Nord si è lanciata in un riarmo militare che, evidentemente, utilizzerà come arma di ricatto, principalmente nei confronti degli Stati Uniti, per ottenere da questa potenza un certo numero di vantaggi economici. Ma questa politica avventurista contiene due fattori di gravità. Da una parte, il fatto che coinvolge, anche se in modo indiretto, il gigante cinese che resta uno dei pochi alleati della Corea del Nord. E ciò nel momento in cui questa potenza tende sempre più a fare valere ovunque i suoi interessi imperialisti, dove evidentemente può, in Estremo Oriente evidentemente, ma anche in Medio Oriente, grazie soprattutto alla sua alleanza con l'Iran che è peraltro il suo principale fornitore di idrocarburi, ed anche in Africa dove la sua crescente presenza economica mira a preparare una futura presenza militare quando ne avrà i mezzi. Dall'altra, questa politica avventurista dello Stato nordcoreano, uno Stato il cui barbaro dominio poliziesco manifesta una fragilità fondamentale, contiene il rischio di un tale sbandamento da innescare un processo incontrollato verso lo scoppio di un nuovo focolare di conflitti militari diretti con conseguenze difficilmente prevedibili, ma di cui possiamo già catalogare come un altro tragico episodio che va ad aggiungersi a tutte quelle manifestazioni della barbarie guerriera che oggi prostrano il pianeta.
7. La guerra civile in Siria fa seguito alla "primavera araba" che, indebolendo il regime di Assad, ha aperto il Vaso di Pandora consentendo lo sviluppo di una moltitudine di contraddizioni e conflitti che il pugno di ferro di questo regime per decenni aveva inscatolato. I paesi occidentali si sono pronunciati a favore della partenza di Assad, ma sono incapaci di proporre una soluzione di ricambio, mentre la sua opposizione è totalmente divisa e il settore preponderante è costituito dagli islamici. Allo stesso tempo, la Russia porta un deciso sostegno militare al regime di Assad che, col porto di Tartus, le garantisce la presenza della sua flotta da guerra in Mediterraneo. E non è il solo Stato poiché lo è anche l'Iran e del resto anche la Cina: la Siria è diventata una nuova sfida insanguinata dalle molteplici rivalità tra potenze imperialiste di primo o secondo ordine, di cui le popolazioni del Medio Oriente ne stanno da decenni facendo le spese. Il fatto che le manifestazioni della "Primavera araba" in Siria non abbiano apportato la benché minima conquista per le masse sfruttate ed oppresse ma una guerra che ha fatto più di 100.000 morti costituisce una sinistra illustrazione della debolezza in questo paese della classe operaia, la sola forza che possa mettere un freno alla barbarie guerriera. E questa è una situazione che vale anche, sotto forme meno tragiche, per gli altri paesi arabi dove la caduta dei vecchi dittatori è finita con la presa del potere da parte di settori più retrogradi della borghesia rappresentata dagli islamici, come in Egitto o in Tunisia, o in un caos senza nome come in Libia.
Così, la Siria ci offre oggi un nuovo esempio della barbarie che il capitalismo in decomposizione scatena sul pianeta, una barbarie che prende la forma di sanguinosi scontri militari ma che colpisce anche zone che hanno potuto evitare la guerra ma le cui società sprofondano in un caos crescente, come per esempio in America latina dove i narcotrafficanti, con la complicità di settori dello Stato, fanno regnare il terrore.
8. Ma è a livello della distruzione dell'ambiente naturale che le conseguenze a breve termine del crollo della società capitalista raggiungono una qualità totalmente apocalittica. Sebbene lo sviluppo del capitalismo si sia distinto fin dalle sue origini per la sua estrema rapacità nella sua ricerca di profitto e di accumulazione in nome del "dominio della natura", le depredazioni condotte negli ultimi 30 anni raggiungono livelli di devastazione sconosciuta nelle società del passato e nello stesso capitalismo all'epoca della sua nascita "nel fango e nel sangue". La preoccupazione del proletariato rivoluzionario di fronte all'essenza distruttiva del capitalismo è vecchia, come vecchia è la minaccia. Marx ed Engels allertavano già sull'impatto nefasto - tanto per la natura che per gli uomini - dell'assembramento e del confinamento delle popolazioni nelle prime concentrazioni industriali in Inghilterra a metà del XIX secolo. Nello stesso spirito, i rivoluzionari delle differenti epoche hanno compreso e denunciato la natura atroce dello sviluppo capitalista, avvertendo contro il pericolo che esso rappresenta non solo per la classe operaia, ma per tutta l'umanità e, oggigiorno, per la vita sul pianeta.
Oggi, la tendenza al deterioramento definitivo ed irreversibile del mondo naturale è realmente allarmante, come lo dimostrano le manifestazioni ripetute e terribili del riscaldamento climatico, del saccheggio del pianeta, la deforestazione, l'erosione dei suoli, la distruzione delle specie, l'inquinamento delle falde freatiche, dei mari e dell'aria e le catastrofi nucleari. Queste ultime costituiscono l'esempio per eccellenza del pericolo latente di devastazione risultante dal potenziale che il capitalismo ha messo al servizio della sua folle logica, trasformandolo in una spada di Damocle che minaccia l'umanità.
E benché la borghesia tenti di attribuire la distruzione dell'ambiente naturale alla meschinità di individui "senza coscienza ecologica" - creando così un'atmosfera di colpevolezza e di angoscia -, la verità, messa in evidenza dagli sforzi ipocriti e vani per "risolvere" il problema è che non si tratta di un problema di individui, neanche di imprese o di nazioni, ma della stessa logica di devastazione specifica di un sistema che, in nome dell'accumulazione, del profitto come principio e fine, non ha alcuno scrupolo a devastare forse per sempre, dal momento che può trarne un beneficio immediato, le premesse materiali dello scambio metabolico tra la vita e la Terra.
È là il risultato inevitabile della contraddizione tra le potenze produttive - umane e naturali - che il capitalismo ha sviluppato, e che si trovano oggi in costrizione e sul punto di esplodere in modo atroce, ed i rapporti di produzione antagonisti basati sulla divisione in classi e la competizione capitalista. È anche là il quadro mondiale drammatico la cui trasformazione deve stimolare il proletariato nei suoi sforzi rivoluzionari perché solo la distruzione del capitalismo può permettere alla vita di rifiorire di nuovo.
La crisi economica
9. Fondamentalmente, questa impotenza della classe dominante di fronte al fenomeno della distruzione dell'ambiente naturale, di cui tuttavia essa ha sempre più coscienza della minaccia che fa pesare sull'insieme dell'umanità, trova le sue origini nella sua incapacità a superare le contraddizioni economiche che assillano il modo di produzione capitalista. È proprio l'aggravamento irreversibile della crisi economica che costituisce la causa fondamentale della barbarie che si estende sempre più nella società. Per il modo di produzione capitalista, la situazione è senza uscita. Sono le sue leggi che l'hanno condotto nel vicolo cieco dove si trova e non potrebbe uscirne che abolendo queste leggi, in altre parole abolendo se stesso. Concretamente, il capitalismo, dai suoi albori, ha avuto come motore essenziale del suo sviluppo la conquista permanente di nuovi mercati all'esterno della propria sfera. Le crisi commerciali che ha conosciuto fin dall'inizio del diciannovesimo secolo, e che esprimevano il fatto che le merci prodotte da un capitalismo in pieno sviluppo non arrivavano a trovare sufficientemente acquirenti per essere smaltite, erano superate da una distruzione del capitale eccedente ma anche e soprattutto attraverso la conquista di nuovi mercati, principalmente nelle zone del pianeta che non erano ancora sviluppate da un punto di vista capitalista. È per ciò che questo secolo è quello delle conquiste coloniali: per ogni potenza capitalista sviluppata, era primordiale costituirsi delle zone dove attingere delle materie prime a basso prezzo ma anche e soprattutto dove vendere le merci prodotte. La Prima Guerra mondiale ha proprio come causa fondamentale il fatto che, essendo compiuta la divisione del mondo tra le potenze capitaliste, ogni conquista di una nuova zona di dominio da parte di questa o quella potenza passava oramai attraverso lo scontro diretto con gli altri paesi coloniali. Ciò non voleva dire tuttavia che non esistevano più mercati extra-capitalisti capaci di assorbire l'eccesso di merci prodotte dal capitalismo. Come scriveva Rosa Luxemburg alla vigilia della Prima Guerra mondiale: "Più aumenta la violenza con la quale all'interno ed all'esterno il capitale annienta gli strati non capitalisti e degrada le condizioni di esistenza di tutte le classi lavoratrici, più la storia quotidiana dell'accumulazione nel mondo si trasforma in una serie di catastrofi e di convulsioni che, unendosi alle crisi economiche periodiche, finiranno per rendere impossibile continuare l'accumulazione e fare insorgere la classe operaia internazionale contro il dominio del capitale prim'anche che questo abbia raggiunto economicamente gli ultimi limiti obiettivi del suo sviluppo." (L'accumulazione del capitale). La Prima Guerra mondiale fu proprio la più terribile in quest'epoca "di catastrofi e di convulsioni" conosciute dal capitalismo "prima ancora che questo non abbia raggiunto economicamente gli ultimi limiti obiettivi del suo sviluppo". E dieci anni dopo la macelleria imperialistica, la grande crisi degli anni 1930 ne fu la seconda, una crisi che avrebbe aperto la strada ad un nuovo massacro imperialistico generalizzato. Ma il periodo di "prosperità" che ha conosciuto il mondo nel secondo dopoguerra, una prosperità pilotata da meccanismi di cui si era dotato il blocco occidentale prima ancora della fine della guerra (in particolare con gli accordi di Bretton Woods nel 1944), e che si basavano su un intervento sistematico dello Stato nell'economia, ha fatto si che questi "limiti obiettivi" non fossero raggiunti ancora. La crisi aperta alla fine degli anni 1960 ha dimostrato che il sistema si era avvicinato considerevolmente a questi limiti, principalmente con la fine della decolonizzazione che, paradossalmente, aveva permesso l'apertura momentanea di nuovi mercati. Ormai, la riduzione crescente dei mercati extra-capitalisti ha costretto il capitalismo, minacciato sempre più da una sovrapproduzione generalizzata, a fare ricorso in modo crescente al credito, vera fuga in avanti perché, più si accumulavano i debiti, più la possibilità un giorno di rimborsarli si assottigliava.
10. La salita portentosa della sfera finanziaria dell'economia, a danno della sfera propriamente produttiva, e che oggi è stigmatizzata da politici e giornalisti di ogni specie come responsabile della crisi, non è dunque per niente il risultato del trionfo di un pensiero economico su un altro pensiero economico ("monetaristi" contro "keynesiani", o "liberali" contro "interventisti"). Essa fondamentalmente è conseguenza del fatto che la fuga in avanti nel credito ha sempre dato un peso crescente a questi organismi, le banche, la cui funzione è distribuire questi crediti. In questo senso, la "crisi della finanza" non è all'origine della crisi economica e della recessione. Ben al contrario. È la sovrapproduzione che si trova all'origine della "finanziarizzazione". Infatti, essendo sempre più rischioso investire nella produzione, di fronte ad un mercato mondiale sempre più saturo, i flussi finanziari vengono orientati in modo crescente verso la semplice speculazione. È per tale motivo che tutte le teorie economiche "di sinistra" che preconizzano un "ridimensionamento della finanza internazionale" per "uscire della crisi" sono vani sogni poiché "dimenticano" le cause vere di questa ipertrofia della sfera finanziaria.
11. La crisi dei "subprimes" del 2007, il grande panico finanziario del 2008 e la recessione del 2009 hanno segnato il superamento di una nuova tappa molto importante e significativa dello sprofondamento del capitalismo nella sua crisi irreversibile. Per 4 decenni, il capitalismo ha usato ed abusato del credito per contrastare la tendenza crescente alla sovrapproduzione che si è espressa principalmente attraverso una successione di recessioni sempre più profonde e devastatrici seguite da "riprese" sempre più timide. Ne è risultato che, al di là delle variazioni dei tassi di crescita da un anno all'altro, la crescita media dell'economia mondiale non ha smesso di declinare di decennio in decennio nello stesso momento in cui si assisteva ad un aumento parallelo della disoccupazione. Quella del 2009 è stata la più importante recessione conosciuta dal capitalismo dalla grande depressione degli anni 1930 elevando, in molti paesi, il tasso di disoccupazione a livelli mai raggiunti dalla Seconda Guerra mondiale. È solo un intervento massiccio del FMI e degli Stati, deciso all'epoca del vertice del G20 di marzo 2009, che ha potuto salvare le banche da una bancarotta generalizzata a causa dell'accumulo dei loro "attivi tossici", e cioè di crediti che non potevano più essere rimborsati. In tal modo, la "crisi del debito", come la denominano i commentatori borghesi, è passata ad uno stadio superiore: non sono più solamente gli individui, come è capitato negli Stati Uniti nel 2007 con la crisi immobiliare, né le imprese o le banche a non essere in grado a rimborsare i loro debiti, e nemmeno a pagare gli interessi di quest’ultimi. Ma ora anche gli Stati, costretti a confrontarsi con il peso sempre più schiacciante del loro indebitamento, il "debito sovrano", vengono colpiti nella loro capacità ad intervenire per rilanciare le loro rispettive economie nazionali attraverso i deficit di bilancio.
12. È in questo contesto che si è dichiarato e sviluppato, dall'estate 2011, ciò che è conosciuto ormai con il nome di "crisi dell'Euro". Allo stesso titolo di quello dello Stato giapponese o dello Stato americano, il debito degli Stati europei ha conosciuto dal 2009 un aumento spettacolare, e particolarmente nei paesi della zona Euro dove l'economia era più fragile o più dipendente dai palliativi illusori messi in opera nel periodo precedente, i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Nei paesi che hanno una loro moneta, come gli Stati Uniti, il Giappone o il Regno Unito, l'indebitamento dello Stato può essere compensato in parte dalla creazione monetaria. È così che la FED americana ha ricomprato grosse quantità di Buoni del Tesoro dello Stato americano, e cioè il riconoscimento del debito pubblico, per trasformarli in biglietti verdi. Ma una tale possibilità non esiste per i paesi che hanno abbandonato la loro moneta nazionale a favore dell'Euro. Privati di questa possibilità di "monetizzazione del debito", i paesi della zona Euro non hanno altro ricorso che fare nuovi prestiti per colmare l’enorme buco delle loro finanze pubbliche. E se i paesi del nord Europa sono ancora capaci di racimolare fondi da banche private a tassi ragionevoli, una tale possibilità è vietata ai PIIGS i cui prestiti sono sottomessi a tassi di interesse esorbitanti a causa della loro insolvenza flagrante, ciò che li obbliga a fare appello ad una successione di "piani di salvataggio" messi in opera dalla Banca centrale europea e dal FMI accompagnati dall'obbligo di restrizioni drastiche dei deficit pubblici.
Queste restrizioni hanno per conseguenza attacchi drammatici contro le condizioni di vita della classe operaia senza permettere, pertanto, una reale capacità di questi Stati di limitare i loro deficit poiché la recessione che essi provocano ha per conseguenza la riduzione delle risorse prelevate attraverso le imposte. Così, i rimedi da cavallo proposti per "curare i malati" minacciano, sempre più, di ucciderli. Ed è proprio questa una delle ragioni per la quale la Commissione europea ha deciso proprio recentemente di rendere più flessibili le sue esigenze di riduzione dei deficit pubblici per un certo numero di paesi come la Spagna o la Francia. Così, possiamo constatare ancora una volta il vicolo cieco in cui si chiude sempre più il capitalismo: l'indebitamento ha costituito un mezzo per supplire all'insufficienza dei mercati solvibili ma esso non può aumentare indefinitamente, come è stato evidenziato dalla crisi finanziaria a partire dal 2007. Pertanto, tutte le misure che possono essere prese per limitare l'indebitamento pongono di nuovo il capitalismo davanti alla sua crisi di sovrapproduzione, e ciò in un contesto economico internazionale ogni giorno sempre più degradato che limita sempre più il suo margine di manovra.
13. Il caso dei paesi "emergenti", particolarmente i "BRIC" (Brasile, Russia, India, Cina) i cui tassi di crescita si mantengono ben al di sopra di quelli degli Stati Uniti, del Giappone o dell'Europa occidentale, non possono costituire una smentita del carattere insolubile delle contraddizioni del sistema capitalista. In realtà, il "successo" di questi paesi (di cui bisogna sottolineare le differenze poiché un paese come la Russia si distingue per la preponderanza delle esportazioni di materie prime, particolarmente gli idrocarburi) è stato in parte la conseguenza della crisi di sovrapproduzione generale dell'economia capitalista che, inasprendo la concorrenza tra le imprese ed obbligandole a ridurre in modo drastico il costo della forza lavoro ha condotto alla "delocalizzazione" di settori considerevoli dell'apparato produttivo dei vecchi paesi industriali (automobile, tessile ed abbigliamento, elettronica, ecc.) verso le regioni dove i salari operai sono incomparabilmente più bassi che in questi paesi. Questa nuova distribuzione nello sfruttamento della forza lavoro è stata notevolmente favorita dal crollo dei regimi stalinisti, alla fine degli anni 1980, che ha portato un colpo decisivo ad un modello di sviluppo fortemente autarchico dei paesi arretrati. La fine di questo modello ha egualmente permesso l'accesso ai mercati extra capitalisti residui fino ad ora inaccessibili a causa di questa autarchia; e ciò ha permesso una leggera tregua all'economia mondiale dando la possibilità ad un paese come la Germania di beneficiarne attraverso le sue esportazioni. Ciò detto, la stretta dipendenza dell'economia dei paesi emergenti nei confronti delle esportazioni verso i paesi più evoluti provocherà, prima o poi, forti sussulti di queste economie quando gli acquisti di questi ultimi saranno colpiti da recessioni sempre più profonde, ciò che non mancherà di arrivare.
14. Così, come dicevamo 4 anni fa, "anche se il sistema capitalista non crollerà come un castello di carta… la sua prospettiva è quella di un infognamento crescente nel suo blocco storico, quella di un ritorno su scala sempre più vasta delle convulsioni che lo affliggono oggi. Da quattro decenni la borghesia non ha potuto impedire l’aggravamento continuo della crisi. Essa parte oggi da una situazione ben più degradata di quella degli anni sessanta. Malgrado tutta l’esperienza che essa ha acquisito nel corso di questi decenni, essa non potrà fare meglio, ma solo peggio." (Risoluzione sulla situazione internazionale del 18° Congresso, punto 4). Ciò non vuole dire che stiamo ritornando ad una situazione simile a quella del 1929 e degli anni 1930. 70 anni fa, la borghesia mondiale era stata presa completamente alla sprovvista di fronte al crollo della sua economia e le politiche che aveva adottato, in particolare il ripiegamento di ogni paese su se stesso, erano riuscite solamente ad inasprire le conseguenze della crisi. L'evoluzione della situazione economica dagli ultimi 4 decenni ha provato che, pur non essendo stata in grado di impedire al capitalismo di sprofondare sempre più nella crisi, la classe dominante ha avuto la capacità di rallentare il ritmo di questo sprofondamento e d’evitare una situazione di panico generalizzato come quello innescato dal "giovedì nero" 24 ottobre 1929. Esiste un'altra ragione per la quale non vivremo di nuovo una situazione simile a quella degli anni 1930. A quell'epoca, l'onda d'urto della crisi, partita dalla prima potenza economica mondiale, gli Stati Uniti, si ripercosse principalmente sulla seconda potenza mondiale, la Germania. È in questi due paesi che abbiamo visto le più drammatiche conseguenze della crisi, come quella disoccupazione di massa che toccò oltre il 30% della popolazione attiva, quelle code interminabili davanti agli uffici di collocamento al lavoro o alle mense popolari, mentre paesi come la Gran Bretagna o la Francia furono più risparmiati. Attualmente, una situazione un po' simile si sta sviluppando nei paesi del Sud Europa, come per esempio in Grecia, senza tuttavia raggiungere ancora il grado di miseria operaia degli Stati Uniti o della Germania degli anni 1930. Contemporaneamente, i paesi più evoluti dell'Europa del Nord, gli Stati Uniti ed il Giappone sono ancora molto lontano da una tale situazione ed è più che improbabile che un giorno possano raggiungerla, da una parte, a causa della grande resistenza della loro economia nazionale di fronte alla crisi, dall'altra e soprattutto, per il fatto che oggi il proletariato di questi paesi, in particolare quello dell'Europa, non è pronto ad accettare un tale livello di attacchi contro le sue condizioni di esistenza. Così, una delle componenti maggiori dell'evoluzione della crisi sfugge al rigoroso determinismo economico e sfocia sul piano sociale, sul rapporto di forze tra le due principali classi della società, borghesia e proletariato.
Lotta di classe
15. Mentre la classe dominante vorrebbe farci passare i suoi ascessi purulenti per vezzi (nei) di bellezza, l'umanità comincia a svegliarsi da un sogno diventato incubo e che mostra il fallimento storico totale della sua società. Ma mentre l'intuizione della necessità di un ordine di cose differenti guadagna campo di fronte alla brutale realtà di un mondo in decomposizione, questa vaga coscienza non significa che il proletariato è convinto della necessità di abolire questo mondo, ancora meno di sviluppare la prospettiva di costruirne un nuovo.
Così, l'aggravamento inedito della crisi capitalista nel contesto della decomposizione è la cornice in cui attualmente si esprime la lotta di classe, sebbene in un modo ancora incerto nella misura in cui questa lotta non si sviluppa sotto forma di scontri aperti tra le due classi. A tale riguardo, dobbiamo sottolineare il quadro inedito delle lotte attuali poiché hanno luogo nel contesto di una crisi che dura da quasi 40 anni, i cui effetti graduali nel tempo - all'infuori dei momenti di convulsione - hanno “abituato" il proletariato a vedere le sue condizioni di vita degradarsi lentamente, perniciosamente, ciò che rende più difficile di percepire la gravità degli attacchi e di rispondere di conseguenza. Inoltre, è una crisi il cui ritmo rende difficile la comprensione di ciò che si trova dietro tali attacchi resi "naturali" per la loro lentezza ed il loro scaglionamento. È questa una cornice molto differente da quella di convulsioni e sconvolgimenti evidenti, immediati, dell'insieme della vita sociale che si conoscono in una situazione di guerra. Così, ci sono delle differenze tra gli sviluppi della lotta di classe - a livello delle risposte possibili, della loro ampiezza, della loro profondità, della loro estensione e del loro contenuto - in un contesto di guerra che rende il bisogno di lottare drammaticamente urgente e vitale (come avvenne all'epoca della Prima Guerra mondiale all'inizio del XX secolo anche se non ci fu immediatamente risposta alla guerra) ed in un contesto di crisi che ha un ritmo lento.
Così, il punto di partenza delle lotte di oggi è precisamente l'assenza di identità di classe di un proletariato che, dall'entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione, ha conosciuto non solo grandi difficoltà a sviluppare la sua prospettiva storica ma anche a riconoscersi come una classe sociale. La caduta del blocco dell'Est nel 1989 che avrebbe suonato la pretesa "morte del comunismo", scatenando una campagna ideologica che aveva per scopo di negare l'esistenza stessa del proletariato, ha portato un duro colpo alla coscienza ed alla combattività della classe operaia. La violenza dell'attacco di questa campagna ha pesato da allora sul corso delle sue lotte. Malgrado ciò, come abbiamo constatato dal 2003, la tendenza verso gli scontri di classe è stata confermata dallo sviluppo dei diversi movimenti in cui la classe operaia ha "dimostrato la sua esistenza" ad una borghesia che aveva voluto “seppellirla viva". Così, la classe operaia nel mondo intero non ha smesso di battersi, anche se le sue lotte non hanno raggiunto l'ampiezza né la profondità sperata nella situazione critica in cui si trova. Tuttavia, concepire la lotta di classe partendo da "ciò che dovrebbe essere", come se la situazione attuale “fosse caduta dal cielo", non è permesso ai rivoluzionari. Comprendere le difficoltà e le potenzialità della lotta di classe è sempre stato un compito che esige una visione materialista e storica paziente al fine di trovare un "senso" al caos apparente, di comprendere ciò che è nuovo e difficile, ciò che è promettente.
16. È in questo contesto di crisi, di decomposizione e di fragilità della condizione soggettiva del proletariato che prendono senso le debolezze, le insufficienze e gli errori, come le potenzialità e le forze della sua lotta, confermandoci nella convinzione che la prospettiva comunista non deriva in modo automatico né meccanico da circostanze determinate. Così, durante i due anni passati, abbiamo assistito allo sviluppo di movimenti che abbiamo caratterizzato attraverso la metafora dei 5 corsi:
• Movimenti sociali della gioventù precaria, disoccupata o ancora studentesca, che cominciano con la lotta contro il CPE in Francia nel 2006, e che proseguono attraverso le rivolte della gioventù in Grecia nel 2008, culminando nei movimenti degli Indignati e di Occupy nel 2011;
• Movimenti di massa ma ben inquadrati dalla borghesia che aveva preparato in anticipo il campo, come in Francia nel 2007, in Francia ed in Gran Bretagna nel 2010, in Grecia nel 2010-2012, ecc.;
• Movimenti che subiscono il peso dell'interclassismo come in Tunisia ed in Egitto in 2011;
• Embrioni di scioperi di massa in Egitto nel 2007, Vigo (Spagna) nel 2006, Cina nel 2009;
• Il susseguirsi di movimenti nelle fabbriche o in settori industriali localizzati, ma contenenti germi promettenti come Lindsay nel 2009, Tekel nel 2010, elettrici in Gran Bretagna nel 2011.
Questi 5 corsi appartengono alla classe operaia perché, malgrado le loro differenze, esprimono ciascuno a suo livello lo sforzo del proletariato per ritrovarsi come classe, nonostante le difficoltà e gli ostacoli seminati dalla borghesia; ciascuno a suo livello ha portato una dinamica di ricerca, di chiarimento, di preparazione del campo sociale. A differenti livelli, essi si inscrivono nella ricerca "della parola che ci porterà fino al socialismo" (come scrive Rosa Luxemburg parlando dei consigli operai) per mezzo delle assemblee generali. Le espressioni più avanzate di questa tendenza sono state i movimenti degli Indignati e di Occupy - principalmente in Spagna - perché sono quelli che hanno più chiaramente posto le tensioni, le contraddizioni e le potenzialità della lotta di classe oggi. Nonostante la presenza di strati provenienti dalla piccola borghesia impoverita, l'impronta proletaria di questi movimenti si è manifestata attraverso la ricerca della solidarietà, delle assemblee, l'inizio di una cultura del dibattito, la capacità di evitare le trappole della repressione, germi di internazionalismo, una sensibilità acuta al riguardo degli elementi soggettivi e culturali. Ed è attraverso questa dimensione, quella della preparazione del campo soggettivo, che questi movimenti mostrano tutta la loro importanza per il futuro.
17. La borghesia, da parte sua, ha mostrato segni di inquietudine di fronte a questa "resurrezione" del suo becchino mondiale che reagisce agli orrori che gli sono imposti nel quotidiano per mantenere in vita il sistema. Il capitalismo ha amplificato di conseguenza la sua offensiva rafforzando il suo inquadramento sindacale, seminando illusioni democratiche ed accendendo i fuochi d'artificio del nazionalismo. Non è un caso se la sua controffensiva si è centrata su queste questioni: l'aggravamento della crisi ed i suoi effetti sulle condizioni di vita del proletariato provocano una resistenza che i sindacati tentano di inquadrare attraverso azioni che frammentano l'unità delle lotte e prolungano la perdita di fiducia del proletariato nelle proprie forze.
Poiché lo sviluppo della lotta di classe al quale assistiamo si realizza oggi in una cornice di crisi aperta del capitalismo da circa 40 anni - ciò che è in una certa misura una situazione senza precedenti rispetto alle esperienze passate del movimento operaio - la borghesia tenta di impedire al proletariato di prendere coscienza del carattere mondiale e storico della crisi nascondendone la natura. Così, l'idea di soluzioni "nazionali" e l’ascesa dei discorsi nazionalisti impediscono la comprensione del vero carattere della crisi, indispensabile affinché la lotta del proletariato prenda una direzione radicale. Poiché il proletariato non si riconosce come classe, la sua resistenza tende ad orientarsi in un’espressione generale di indignazione contro ciò che ha luogo nell'insieme della società. Questa assenza di identità di classe e dunque di prospettiva di classe permettono alla borghesia di sviluppare delle mistificazioni sulla "cittadinanza" e le lotte per una "vera democrazia". Ci sono altre cause di questa perdita di identità di classe che prendono radice nella stessa struttura della società capitalista e nella forma che prende l'aggravamento della crisi attualmente. La decomposizione, determinando un aggravamento brutale delle condizioni minime di sopravvivenza umana, si ripercuote sul campo personale, mentale e sociale, devastandolo. Ciò si manifesta in una "crisi di fiducia" dell'umanità. Inoltre, l'aggravamento della crisi, attraverso l'estensione della disoccupazione e della precarietà, va ad indebolire la socializzazione giovanile e ne facilita la fuga verso un mondo di astrazione e di atomizzazione.
18. Così, i movimenti di questi due ultimi anni, ed in particolare i "movimenti sociali", sono segnati da molteplici contraddizioni. In particolare, la rarità delle rivendicazioni specifiche apparentemente non corrisponde alla traiettoria "classica" che va dall'individuo al generale come noi ci aspettavamo dalla lotta di classe. Ma dobbiamo considerare anche gli aspetti positivi di questo comportamento generale che deriva dal fatto che gli effetti della decomposizione si risentono su un piano generale ed a partire dalla natura universale degli attacchi economici condotti dalla classe dirigente. Oggi, la strada che ha preso il proletariato ha il suo punto di partenza nel "generale", ciò che tende a porre la domanda della politicizzazione in una maniera ben più diretta. Confrontata all'evidente fallimento del sistema ed agli effetti deleteri della sua decomposizione, la massa sfruttata si rivolta e non potrà farlo prima di comprendere questi problemi come i prodotti della decadenza del sistema e della necessità di superarlo. È a questo livello che prendono tutta la loro importanza i metodi di lotta propriamente proletari che osserviamo (assemblee generali, dibatti fraterni ed aperti, solidarietà, sviluppo di una prospettiva sempre più politica), perché sono questi metodi che permettono di condurre una riflessione critica e di arrivare alla conclusione che il proletariato può distruggere non solo il capitalismo ma costruire un mondo nuovo. Un momento determinante di questo processo sarà l'entrata in lotta dai luoghi di lavoro e la loro congiunzione con le mobilitazioni più generali, una prospettiva che comincia a svilupparsi malgrado le difficoltà che dovremo affrontare negli anni a venire. È là il contenuto della prospettiva della convergenza dei "cinque corsi" di cui parlavamo sopra in questo "oceano di fenomeni", come Rosa Luxemburg descrive lo sciopero di massa.
19. Per comprendere questa prospettiva di convergenza, il rapporto tra l’identità di classe e la coscienza di classe è di un'importanza capitale, ed una questione si pone: la coscienza può svilupparsi senza identità di classe o quest'ultima nascerà dallo sviluppo della coscienza? Lo sviluppo della coscienza e di una prospettiva storica è a giusta ragione associato al recupero dell'identità di classe ma non possiamo considerare questo processo svilupparsi poco a poco secondo una sequenza rigida: inizialmente forgiare la sua identità, poi lottare, poi sviluppare la sua coscienza e sviluppare una prospettiva, o qualsiasi programmazione di questi elementi. La classe operaia non appare oggi come un polo d'opposizione sempre più massiccio; perciò lo sviluppo di una posizione critica per un proletariato che ancora non riconosce se stesso è il più probabile. La situazione è complessa, ma ci sono più probabilità di vedere una risposta a forma di discussione generale, potenzialmente positiva in termini politici, partendo non da un'identità di classe distinta e netta ma a partire da movimenti che tendono a trovare la propria prospettiva mediante la loro lotta. Come dicevamo nel 2009, "Affinché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia è necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa". (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 11, 18° Congresso della CCI) (https://it.internationalism.org/node/808). La formulazione "sviluppare le sue lotte per ritrovare fiducia in sé e nella sua prospettiva" è completamente adeguata perché vuole dire riconoscere un "sé" ed una prospettiva, ma lo sviluppo di questi elementi può derivare solamente dalle loro stesse lotte. Il proletariato "non crea" la sua coscienza, ma "prende" coscienza di ciò che è realmente.
In questo processo, il dibattito è la chiave per criticare le insufficienze dei punti di vista parziali, per smontare le trappole, rigettare la caccia ai capri espiatori, comprendere la natura della crisi, ecc. A questo livello, le tendenze al dibattito aperto e fraterno di questi ultimi anni sono molto promettenti per questo processo di politicizzazione che la classe dovrà fare avanzare. Trasformare il mondo trasformandoci noi stessi comincia a prendere corpo nell'evoluzione delle iniziative di dibattiti e nello sviluppo di preoccupazioni che si basano sulla critica delle potenti catene che paralizzano il proletariato. Il processo di politicizzazione e di radicalizzazione ha bisogno del dibattito per criticare l'ordine attuale e portare una spiegazione storica ai problemi. A questo livello resta valido che "La responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie, e della CCI in particolare, è di essere parte pregnante della riflessione che si conduce in seno alla classe fin da ora, non solo intervenendo attivamente nelle lotte che cominciano a svilupparsi ma anche stimolando il percorso dei gruppi ed elementi che si propongono di raggiungere la sua lotta" (Risoluzione sulla situazione internazionale del 17° Congresso della CCI, 2007). Dobbiamo essere convinti fermamente che la responsabilità dei rivoluzionari nella fase che si apre è di contribuire, catalizzare lo sviluppo nascente della coscienza che si esprime nei dubbi e le critiche che già cominciano a porsi nel proletariato. Proseguire ed approfondire lo sforzo teorico devono essere il centro del nostro contributo, non solo contro gli effetti della decomposizione ma anche come mezzo per fertilizzare pazientemente il campo sociale, come antidoto all'immediatismo nelle nostre attività, perché senza la radicalità e l'approfondimento della teoria da parte delle minoranze, la teoria non potrà impossessarsi mai delle masse.