La cultura del dibattito: un'arma della lotta di classe

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La “cultura del dibattito” non è un argomento nuovo, né per il movimento operaio né per la CCI. Tuttavia l’evoluzione storica obbliga la nostra organizzazione - dalla svolta del secolo - a ritornare su questa questione e ad esaminarla meglio. Due aspetti evolutivi principali ci hanno costretti a farlo: il primo è l’apparizione di una nuova generazione di rivoluzionari, il secondo la crisi interna che abbiamo attraversato all’inizio di questo secolo.

La nuova generazione ed il dialogo politico

È stato innanzitutto il contatto con una nuova generazione di rivoluzionari che ha obbligato la CCI a sviluppare e coltivare in modo più cosciente la sua apertura verso l’esterno e la sua capacità di dialogo politico.

Ogni generazione costituisce un anello nella catena della storia dell’umanità. Ciascuna deve affrontare tre compiti fondamentali: raccogliere l’eredità collettiva della generazione precedente, arricchire questa eredità sulla base della propria esperienza, trasmetterla alla seguente generazione in modo tale che quest’ultima vada più lontano della precedente.

Lungi dall’essere facili da attuarsi, questi compiti rappresentano una sfida particolarmente difficile da raccogliere. Ciò vale anche per il movimento operaio. La vecchia generazione deve offrire la sua esperienza. Ma porta in sé le ferite ed i traumi delle sue lotte; ha conosciuto sconfitte, delusioni, vi ha dovuto far fronte e ha dovuto prendere coscienza del fatto che spesso una vita intera non basta per costruire delle acquisizioni durature della lotta collettiva[1]. Per questo è necessario lo slancio e l’energia della generazione che segue ma anche le nuove questioni che essa si pone e la sua capacità di vedere il mondo con occhi nuovi.

Ma anche se le generazioni hanno bisogno le une delle altre, la loro capacità a forgiare la necessaria unità tra di loro non è automatica. Più la società si allontana dalla tradizionale economia naturale, più incessantemente e rapidamente il capitalismo “rivoluziona” le forze produttive e l’insieme della società, più l’esperienza di una generazione differisce da quella della successiva. Il capitalismo, sistema competitivo per eccellenza, spinge le generazioni l’una contro l’altra in una lotta di tutti contro tutti.

È con questo quadro che la nostra organizzazione ha iniziato a prepararsi al compito di forgiare questo legame. Ma, più che questa preparazione, è l’incontro con la nuova generazione nella vita reale che ha dato alla questione della cultura del dibattito un significato particolare ai nostri occhi. Ci siamo trovati in presenza di una generazione che, di per se, conferisce a questa questione un’importanza ben maggiore di quanto l’abbia fatto la generazione del ‘68. La prima importante indicazione di questo cambiamento, a livello della classe operaia nel suo insieme, è stata data dal movimento di massa degli studenti liceali ed universitari in Francia contro la “precarizzazione” del lavoro nella primavera 2006. In questo movimento è stata sorprendente l’insistenza, in particolare nelle assemblee generali, sul dibattito più libero e largo possibile, contrariamente al movimento studentesco della fine degli anni ‘60 spesso segnato da un’incapacità a condurre un dialogo politico. Questa differenza è dovuta principalmente al fatto che oggi la popolazione studentesca è molto più proletarizzata di quella di 40 anni fa. Il dibattito intenso ed ampio è sempre stato una caratteristica importante dei movimenti proletari di massa e ha anche caratterizzato le assemblee operaie in Francia nel 1968 o in Italia nel 1969. Ma nel 2006 la novità è stata l’apertura della gioventù in lotta verso le generazioni più anziane e la sua avidità ad apprenderne l’esperienza. Questo atteggiamento differisce di molto da quello del movimento studentesco della fine degli anni ‘60, in particolare in Germania (che forse ha costituito l’espressione più caricaturale dello stato d’animo dell’epoca). Uno dei suoi slogan era: “Quelli con più di 30 anni nei campi di concentramento!”. Questa idea si è espressa nel concreto attraverso l’abitudine di fischiarsi a vicenda, di interrompere violentemente le riunioni “rivali”, ecc. La rottura della continuità tra le generazioni della classe operaia ha costituito una delle radici del problema poiché le relazioni tra generazioni sono il terreno privilegiato, sin dai tempi più antichi, per forgiare l’attitudine al dialogo. I militanti del 1968 consideravano la generazione dei loro genitori o una generazione che “si era venduta” al capitalismo, o (come in Germania ed in Italia) una generazione di fascisti e di criminali di guerra.

Per gli operai che avevano sopportato l’orribile sfruttamento della fase seguita al 1945 nella speranza che i loro figli avrebbero potuto avere una vita migliore della loro, è stata un’amara delusione sentirsi accusati dai loro figli come “parassiti” che vivevano dello sfruttamento del Terzo Mondo. Ma è altrettanto vero che la generazione di genitori di questa epoca aveva quasi del tutto perso, o non era riuscita mai ad acquisire, l’attitudine al dialogo. Questa generazione era stata selvaggiamente straziata e traumatizzata dalla Seconda Guerra mondiale e dalla Guerra fredda, dalla controrivoluzione fascista, stalinista e socialdemocratica.

Al contrario, il 2006 in Francia ha annunciato qualche cosa di nuovo e di estremamente fecondo[2]. Ma già alcuni anni prima, questa preoccupazione della nuova generazione era stata annunciata dalle minoranze rivoluzionarie della classe operaia. Queste minoranze, sin dal momento in cui sono apparse sulla scena della vita politica si sono armate di una propria critica del settarismo e del rifiuto di dibattere. Tra le prime esigenze che hanno espresso c’era la necessità del dibattito, non come un lusso, ma come un bisogno imperioso, e la necessità che quelli che vi partecipano prendono sul serio gli altri, ed imparino ad ascoltarli; la necessità che nella discussione, le armi siano l’argomentazione e non la forza bruta, né l’appello alla morale o all’autorità di “teorici”. Rispetto al campo proletario internazionalista, questi compagni hanno in generale (ed a giusto titolo) criticato l’assenza di dibattito fraterno tra i gruppi esistenti rimanendone profondamente scioccati. Essi hanno da subito rigettato la concezione del marxismo come un dogma da far adottare alla nuova generazione senza spirito critico[3].

Da parte nostra siamo rimasti sorpresi dalla reazione di questa nuova generazione verso la stessa CCI. I nuovi compagni che sono venuti alle nostre riunioni pubbliche, i contatti del mondo intero che hanno iniziato una corrispondenza con noi, i differenti gruppi e circoli politici con cui abbiamo discusso ci hanno detto più volte di aver riconosciuto la natura proletaria della CCI sia nelle nostre posizioni programmatiche che nel nostro comportamento, in particolare nel modo di discutere.

Da dove proviene, in questa nuova generazione, una così profonda preoccupazione nei confronti di questa questione? Noi pensiamo che essa sia il risultato della crisi storica del capitalismo che oggi è ben più grave e profonda che nel 1968. La situazione attuale richiede una critica radicale al capitalismo, la necessità di andare alle radici profonde dei problemi. Uno degli effetti più corrosivi dell’individualismo borghese è il modo con cui distrugge la capacità di discutere e, in particolare, di ascoltare e imparare gli uni dagli altri. Il dialogo è sostituito dalla retorica, il vincitore è quello che parla più forte (come nelle campagne elettorali borghesi). La cultura del dibattito, grazie al linguaggio umano, è il principale strumento per sviluppare la coscienza che è l’arma principale della lotta della sola classe portatrice di un futuro per l’umanità. Per il proletariato è il solo strumento per superare l’isolamento e l’impazienza e per dirigersi verso l’unificazione delle sue lotte.

Un altro aspetto di questa preoccupazione oggi è la lotta per superare l’incubo dello stalinismo. Molti dei militanti che cercano di avvicinarsi alle posizioni internazionaliste provengono direttamente da un ambiente gauchista (estremismo di sinistra) o ne sono influenzati. Questo presenta come “socialismo” quelli che sono degli aspetti caricaturali dell’ideologia e del comportamento borghese decadente. Questi militanti hanno ricevuto un’educazione politica che ha fatto loro credere che lo scambio di argomenti è equivalente al “liberismo borghese”, che “un buon comunista” è qualcuno che “è tosto” e mette a tacere la sua coscienza e le sue emozioni. I compagni che oggi sono determinati a rigettare gli effetti di questo prodotto moribondo della controrivoluzione comprendono sempre meglio che per farlo è necessario non solo rigettare le sue posizioni ma anche la sua mentalità. Così facendo contribuiscono a ristabilire una tradizione del movimento operaio che minacciava di sparire con la rottura organica provocata dalla controrivoluzione[4].

Le crisi organizzative e la tendenza al monolitismo

La seconda ragione essenziale che ha spinto la CCI a ritornare sulla questione di una cultura del dibattito è stata la nostra crisi interna, all’inizio di questo secolo, che si è caratterizzata con il peggiore comportamento indegno mai visto nelle nostre fila. Per la prima volta dalla sua fondazione, la CCI ha dovuto espellere non uno ma parecchi suoi membri[5]. All’inizio di questa crisi interna, si erano espresse in seno alla nostra sezione in Francia delle difficoltà e delle divergenze di opinione sulla questione dei nostri principi organizzativi di centralizzazione. Non c’è ragione perché delle divergenze di questo tipo, di per se stesse, siano causa di una crisi organizzativa. Ed esse non lo erano. A provocare la crisi è stato il rifiuto del dibattito interno e, in particolare, delle manovre che miravano ad isolare e calunniare - e cioè ad attaccare personalmente - i militanti con i quali non c’era accordo.

In seguito a questa crisi, la nostra organizzazione si è impegnata ad andare fino alle radici più profonde della storia di tutte le sue crisi e delle sue scissioni. Abbiamo già pubblicato dei contributi su alcuni aspetti[6]. Una delle conclusioni a cui siamo giunti è che in tutte le scissioni che abbiamo conosciuto ha giocato un ruolo importante una tendenza al monolitismo. Appena apparivano delle divergenze subito alcuni militanti affermavano che non potevano lavorare più con gli altri, che la CCI era diventata un’organizzazione stalinista, o che stava degenerando. Queste crisi sono dunque esplose di fronte a divergenze che, per la maggior parte, potevano esistere perfettamente in seno ad un’organizzazione non monolitica e, in ogni caso, dovevano essere discusse e chiarite prima che una scissione divenisse necessaria.

La ripetuta comparsa di comportamenti monolitici è sorprendente in un’organizzazione che si basa specificamente sulle tradizioni della Frazione italiana. Questa infatti ha sempre sostenuto che, qualunque fossero le divergenze sui principi fondamentali, il chiarimento profondo e collettivo doveva precedere ogni separazione organizzativa.

La CCI è la sola corrente della Sinistra comunista che oggi si pone in maniera specifica nella tradizione organizzativa della Frazione italiana (Bilan) e della Sinistra comunista di Francia (GCF). Contrariamente ai gruppi sorti dal Partito comunista internazionalista fondato in Italia verso la fine della Seconda Guerra mondiale, la Frazione italiana riconosceva il carattere profondamente proletario delle altre correnti internazionali della Sinistra comunista che erano nate in reazione alla controrivoluzione stalinista, in particolare la Sinistra tedesca e olandese. Lungi dal rigettare queste correnti come “anarco-spontaneiste” o “sindacaliste rivoluzionarie”, ha appreso da queste tutto ciò che si poteva. In effetti, la principale critica che ha mosso contro quella che è diventata la corrente “consiliarista” è stata quella relativa al suo settarismo espresso soprattutto nel rigetto dei contributi dati dalla Seconda Internazionale e dal Bolscevismo[7]. Questo atteggiamento ha permesso alla Frazione italiana di mantenere, in piena controrivoluzione, la comprensione marxista secondo la quale la coscienza di classe si sviluppa collettivamente e che nessun partito né alcuna tradizione può proclamare di averne il monopolio. Ne risulta che la coscienza non può svilupparsi senza un dibattito fraterno, pubblico ed internazionale[8].

Ma questa comprensione fondamentale, sebbene faccia parte dell’eredità fondamentale della CCI, non è facile da mettere in pratica. La cultura del dibattito può svilupparsi solo contro corrente rispetto alla società borghese. Come la tendenza spontanea nel capitalismo non è il chiarimento delle idee ma la violenza, la manipolazione e la lotta per ottenere la maggioranza (di cui il circolo elettorale della democrazia borghese è il migliore esempio), così l’infiltrazione di questa ideologia borghese all’interno delle organizzazioni proletarie contiene sempre germi di crisi e di degenerazione. La storia del Partito bolscevico lo illustra perfettamente. Finché il partito è stata la punta di lancia della rivoluzione, i dibattiti più vivaci e spesso più controversi hanno costituito una delle sue principali forze. Al contrario, l’interdizione di vere frazioni (dopo il massacro di Kronstadt nel 1921) ha costituito il segno maggiore ed è stato un fattore attivo della sua degenerazione. Parimenti, la pratica della “coesistenza pacifica” (e cioè l’assenza di dibattito) tra le posizioni conflittuali che caratterizzavano già il processo di fondazione del Partito comunista internazionalista, o la teorizzazione da parte di Bordiga e dei suoi adepti delle virtù del monolitismo può essere compresa solamente nel contesto della sconfitta storica del proletariato verso la metà del ventesimo secolo.

Se le organizzazioni rivoluzionarie vogliono assolvere al loro compito fondamentale di sviluppo ed estensione della coscienza di classe, la cultura di una discussione collettiva, internazionale, fraterna e pubblica è assolutamente essenziale. È vero che ciò richiede un alto livello di maturità politica, ma anche, più generale, di maturità umana. La storia della CCI è un’illustrazione del fatto che questa maturità non si acquista in un giorno, ma è il prodotto di uno sviluppo storico. Oggi, la nuova generazione ha un ruolo essenziale da giocare in questo processo in via di maturazione.

La cultura del dibattito nella storia

La capacità di dibattere è una caratteristica essenziale del movimento operaio. Ma non è stato lui ad inventarla. In questo campo, come in altri altrettanto fondamentali, la lotta per il socialismo è stata capace di assimilare le migliori acquisizioni dell’umanità, di adattarle ai suoi bisogni. Così facendo  ha trasformato queste qualità portandole ad un livello superiore.

Fondamentalmente, la cultura del dibattito è un’espressione della natura eminentemente sociale dell’umanità. È in particolare un’emanazione dell’utilizzazione specificamente umana del linguaggio. L’utilizzazione del linguaggio come mezzo di scambio delle informazioni è qualcosa che l’umanità condivide con molti animali. Ciò che distingue l’umanità dal resto della natura su questo piano, è la sua capacità a coltivare ed a scambiare un’argomentazione (legata allo sviluppo della logica e della scienza) ed a riuscire a conoscere gli altri (lo sviluppo dell’empatia legata, tra l’altro, allo sviluppo dell’arte).

Questa qualità quindi non è nuova. In realtà ha preceduto le società di classe e sicuramente ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo della specie umana. Engels, per esempio, parla del ruolo delle assemblee generali dei greci all’epoca di Omero, delle prime tribù germaniche o degli Irochesi del Nord America e in particolare fa l'elogio della cultura del dibattito di questi ultimi[9]. Purtroppo, malgrado i lavori di Morgan dell’epoca e dei suoi colleghi del diciannovesimo secolo così come quelli dei loro successori, siamo ancora insufficientemente informati sui primissimi sviluppi, certamente i più decisivi, in questo dominio.

Ma sappiamo, per contro, che la filosofia e gli inizi del pensiero scientifico hanno cominciato a prosperare là dove la mitologia ed il realismo primitivo - questa coppia antica ma al tempo stesso contraddittoria ed inseparabile - venivano messi in questione. Entrambi sono prigionieri dell’incapacità di comprendere più profondamente l’esperienza immediata. I pensieri che i primi uomini hanno formulato sulla loro esperienza pratica erano di natura religiosa. “A partire dai tempi più antichi in cui gli uomini, ancora completamente ignoranti della struttura del loro corpo ed eccitati dai loro sogni, giunsero a farsi l’idea che i loro pensieri e le loro sensazioni non fossero un’attività del loro corpo ma di una speciale anima, che abitava in questo corpo e lo abbandonava dopo la morte: a partire da allora essi dovettero formarsi delle idee circa le relazioni di quest’anima col mondo esteriore. Se essa al momento della morte si separa dal corpo e continuava ad esistere, non vi era alcun motivo per attribuirle una nuova morte particolare. Così nacque l’idea della sua immortalità, che, in quel momento dell’evoluzione, non si presentava affatto come una consolazione, ma come un destino contro il quale non vi è nulla da fare, e abbastanza spesso, come presso i greci, come una vera sciagura”[10].

È in questa cornice di un realismo primitivo che hanno avuto luogo i primi passi di uno sviluppo molto lento della cultura e delle forze produttive. Da parte sua il pensiero magico, pur contenendo un certo grado di saggezza psicologica, aveva innanzitutto il compito di dare un senso all’inspiegabile e dunque di limitare la paura. I due costituirono importanti contributi all’avanzamento del genere umano. L’idea secondo la quale il realismo primitivo avrebbe un’affinità particolare con la filosofia materialista, o che quest’ultima si sarebbe sviluppata direttamente a partire dal primo, è senza fondamento.

“C’è un vecchio detto della dialettica fattasi coscienza popolare: gli estremi si toccano. Sarà quindi difficile che ci sbagliamo se ricerchiamo le forme estreme di fantasticheria, di credulità e di superstizione, non, per esempio, in quegli indirizzi scientifici che, come la filosofia della natura tedesca, hanno tentato di costringere il mondo oggettivo nella cornice del loro pensiero soggettivo, bensì piuttosto nell’indirizzo opposto, che magnificando la nuda esperienza, ha trattato il pensiero con disprezzo sovrano (e lo ha, in effetti, più di ogni altro,ridotto all’insensatezza). E’ la scuola che domina in Inghilterra”[11].

La religione, come indicata da Engels, è nata non solo da una visione magica del mondo ma anche dal realismo primitivo. Le sue prime generalizzazioni sul mondo, spesso audaci, hanno necessariamente un carattere che fa testo.

Le prime comunità agricole per esempio hanno compreso ben presto che dipendevano dalla pioggia, ma erano lontane dal comprendere le condizioni da cui dipendeva la caduta della pioggia. L’invenzione di un Dio della pioggia è un atto creativo per rassicurarsi, che dà l’impressione che è possibile, tramite regali o per devozione, di influenzare il corso della natura. L’Homo sapiens è la specie che ha puntato sullo sviluppo della coscienza per assicurarsi la sopravvivenza. In quanto tale, è confrontato ad un problema senza precedenti: la paura spesso paralizzante dell’ignoto. Le spiegazioni dell’ignoto non devono quindi permettere alcun dubbio. Da questo bisogno, e come sua espressione più evoluta, risulta la nascita dalle religioni della rivelazione. Tutta la base emozionale di questa visione del mondo è il credo, e non la conoscenza.

Il realismo primitivo è solamente l’altra faccia della stessa medaglia, una sorte di elementare “divisione del lavoro” mentale. Tutto ciò che non si può spiegare in un senso pratico immediato entra necessariamente nella sfera del magico. Inoltre la stessa comprensione pratica è fondata su una visione religiosa, all’origine la visione animistica. In questa visione, il mondo intero è feticizzato. Anche i processi che gli esseri umani possono consapevolmente produrre e riprodurre, sembrano avere luogo grazie all’assistenza di forze personalizzate, che esistono indipendentemente dalla nostra volontà.

È chiaro che in un tale mondo c’è una possibilità limitata per il dibattito nel senso moderno del termine. Circa 2500 anni fa ha cominciato ad affermarsi più fortemente una nuova qualità, che ha messo immediatamente e direttamente in questione l’accoppiata religione e “buonsenso comune”. Questa si è sviluppata a partire dal vecchio, tradizionale pensiero nel senso che quest’ultimo si è trasformato nel suo contrario. Così, il primo pensiero dialettico che ha preceduto la società di classe – espresso, per esempio, in Cina nell’idea della polarità tra lo yen e lo yang, il principio maschile ed il principio femminile - si è trasformato in pensiero critico, basato sui componenti essenziali della scienza, della filosofia e del materialismo. Ma tutto questo era inconcepibile senza l’apparizione di ciò che abbiamo chiamato la cultura del dibattito. La parola greca per dialettica significa, in effetti, dialogo o dibattito.

Che cosa ha permesso questo nuovo approccio? Generalmente parlando, è stata l’estensione del mondo delle relazioni sociali e della conoscenza. Ad un livello molto globale, la natura sempre più complessa del mondo sociale. Come Engels amava ripeterlo, il buonsenso è un ragazzo forte e vigoroso finché resta tra le sue quattro mura, ma conosce ogni tipo di disinganni man mano che si avventura nel mondo. Ma anche la religione ha mostrato i suoi limiti nella capacità di acquietare la paura. In effetti, essa non aveva eliminato la paura, l’aveva solamente esteriorizzata. Attraverso questo meccanismo, l’umanità ha tentato di far fronte ad un terrore che altrimenti l’avrebbe schiacciata in un’epoca in cui non aveva altri mezzi di autodifesa. Ma facendo ciò, ha fatto della sua paura una forza supplementare che la dominava.

“Spiegare” ciò che è ancora inspiegabile significa rinunciare ad una vera ricerca. È là dunque che nasce il conflitto tra la religione e la scienza o, come dice Spinoza, tra la sottomissione e la ricerca. I filosofi greci inizialmente si sono opposti alla religione. Talete, il primo filosofo che abbiamo conosciuto, aveva già rotto con la visione mistica del mondo. Anassimandro che gli è succeduto, chiedeva che si spiegasse la natura a partire da essa stessa.

Ma il pensiero greco era anche una dichiarazione di guerra contro il realismo primitivo. Eraclito ha spiegato che l’essenza delle cose non è scritta sulle loro fronti. “La natura ama nascondersi”, diceva, o come dice Marx, “ogni scienza sarebbe superflua se l’apparenza rispondesse direttamente alla natura delle cose”[12] .

Il nuovo orientamento metteva in discussione al tempo stesso la credenza ma anche i pregiudizi e la tradizione che sono il credo della vita quotidiana (in Germania le due parole hanno un legame: Glaube = credenza ed Aberglaube = superstizione). Vi si contrapponevano loro la teoria e la dialettica. “Quale che sia la poca considerazione che si manifesti per ogni sorta di pensiero teorico, resta pur sempre il fatto che non si può porre in rapporto due fenomeni naturali o cogliere il rapporto che sussiste tra di essi senza pensiero teorico”[13].

Lo sviluppo dei rapporti sociali era naturalmente il prodotto dello sviluppo delle forze produttive. Comparvero quindi insieme al problema – l’inadeguatezza dei modi di pensiero esistenti – i mezzi per risolverlo. Innanzitutto uno sviluppo della fiducia in sé, in particolare nella potenza del pensiero umano. La scienza può svilupparsi solo quando c’è una capacità ed una volontà di accettare l’esistenza del dubbio e dell’incertezza. Contrariamente all’autorità della religione e della tradizione, la verità della scienza non è assoluta ma relativa. Si presenta quindi non solo la possibilità ma anche la necessità dello scambio di opinioni.

È chiaro che rivendicare il governo della conoscenza non poteva porsi se non quando le forze produttive (nel senso culturale più largo) avessero raggiunto un certo grado di sviluppo. Non si poteva nemmeno immaginare senza uno sviluppo concomitante delle arti, dell’educazione, della letteratura, dell’osservazione della natura, del linguaggio. E quest’ultimo va di pari passo con l’apparizione, ad un certo stadio della storia, di una società di classe il cui strato dirigente è liberato del fardello della produzione materiale. Ma questi sviluppi non hanno fatto nascere automaticamente un approccio nuovo ed indipendente. Né gli egiziani o i babilonesi, malgrado i loro progressi scientifici, né i fenici che per primi sviluppano un alfabeto moderno, sono andati tanto lontano quanto i greci in questo processo.

In Grecia, è lo sviluppo della schiavitù che ha permesso la nascita di una classe di cittadini liberi accanto ai preti. Ciò ha fornito la base materiale che ha minato la religione. (Possiamo così capire meglio la formulazione di Engels nell’Anti-Dühring: senza la schiavitù nell’antichità, niente socialismo moderno). In India, verso la stessa epoca, uno sviluppo della filosofia, del materialismo (chiamato Lokayata) e dello studio della natura coincide con la formazione e lo sviluppo di un’aristocrazia guerriera che si opponeva al teocrazia brahmani ed in parte si  basava sulla schiavitù agricola. Come in Grecia, dove la lotta di Eraclito contro la religione, l’immortalità e la condanna dei piaceri carnali erano diretti al tempo stesso contro i pregiudizi dei tiranni e contro quelli delle classi oppresse, il nuovo approccio militante in India ebbe origine da un’aristocrazia. Il Buddismo ed il Jainismo, apparsi alla stessa epoca, erano molto più diffusi nella popolazione lavoratrice ma si mantenevano in una cornice religiosa - con la loro concezione della reincarnazione dell’anima, tipico della società di caste alla quale essi volevano opporsi (che incontriamo anche in Egitto).

In Cina invece, dove c’era uno sviluppo della scienza ed una sorta di materialismo rudimentale (per esempio nella Logica di Mo-ti), questo sviluppo fu limitato dall’assenza di una casta dirigente di preti contro la si sarebbe potuta sviluppare una rivolta. Il paese era diretto da una burocrazia militare formatasi attraverso la lotta contro i barbari che lo circondavano[14].

In Grecia esisteva un fattore supplementare e per certi versi decisivo che ha anche giocato un ruolo importante in India: uno sviluppo più avanzato della produzione di merci. La filosofia greca non è cominciata in Grecia ma nelle colonie portuali dell’Asia Minore. La produzione di merci implica lo scambio non solo di beni ma anche dell’esperienza contenuta nella loro produzione. Accelera la storia, favorendo pertanto un’espressione superiore del pensiero dialettico. Permette un grado di personalizzazione senza il quale lo scambio di idee ad un livello tanto elevato non è possibile. Ed essa comincia a mettere fine all’isolamento nel quale si era svolta l’evoluzione sociale fino ad allora. L’unità economica fondamentale di tutte le società agricole basate sull’economia naturale è il villaggio o, al meglio, la regione autarchica. Ma le prime società di sfruttamento fondato su di una cooperazione più larga, spesso per sviluppare l’irrigazione, erano sempre delle società fondamentalmente agricole. Al contrario, il commercio e la navigazione hanno aperto la società greca sul mondo. Essa ha riprodotto, ma ad un livello superiore, l’atteggiamento di conquista e di scoperta del mondo che caratterizza le società nomadi. La storia mostra che, ad un certo stadio del suo sviluppo, l’apparizione del fenomeno di dibattito pubblico fu inseparabile da uno sviluppo internazionale (anche se esso si concentrava in una regione) e, in un certo senso, aveva un carattere “inter-nazionalista”. Diogene ed i Cinici erano contro la distinzione tra Elleni e Barbari e si sono dichiarati cittadini del mondo. Democrito è passato in giudizio con l’accusa di aver dilapidato un’eredità utilizzandola per dei viaggi educativi in Egitto, a Babilonia, in Persia ed in India. Si difese leggendo brani dei suoi scritti, frutti dei suoi viaggi - e fu dichiarato non colpevole.

Il dibattito è nato per rispondere ad una necessità materiale. In Grecia si sviluppa a partire dal paragone tra differenti fonti di conoscenza. Vengono paragonati differenti modi di pensiero, differenti modi di investigazione ed i loro risultati, i modi di produzione, i costumi e le tradizioni. Si scopre che questi si contraddicono, si confermano o si completano un l’altro. Entrano in conflitto fra loro o si supportano l’un l’altro, o le due cose insieme. Attraverso il confronto le verità assolute diventano relative.

Questi dibattiti sono pubblici. Hanno luogo nei porti, sulle piazze del mercato (i fori), nelle scuole e le accademie. Sotto forma scritta riempono le biblioteche e si estendono a tutto il mondo conosciuto.

Socrate - questo filosofo che ha trascorso tutta la sua vita a dibattere sulle piazze dei mercati - ha incarnato l’essenza di questa evoluzione. La sua preoccupazione principale - come raggiungere una vera conoscenza della morale - costituisce un attacco contro la religione e contro i pregiudizi che pretendono di avere già la risposta a queste questioni. Socrate ha dichiarato che la conoscenza è la prima condizione per una corretta etica e l’ignoranza il suo principale nemico. È dunque lo sviluppo della coscienza e non la punizione che permette il progresso morale poiché, per la maggior parte, gli uomini non possono andare per molto tempo in modo deliberato contro la voce della loro propria coscienza.

Ma Socrate è andato ben oltre, gettando le basi teoriche di ogni scienza e di ogni chiarimento collettivo, con il riconoscimento che il punto di partenza della conoscenza, cioè della presa di coscienza, è mettere da parte i pregiudizi. Ciò apre la strada all’essenziale: la ricerca. Egli si opponeva vigorosamente alle conclusioni frettolose, alle opinioni non critiche e soddisfatte di se stesse, all’arroganza ed alla vanteria. Credeva nella “modestia della non conoscenza” ed alla passione che consegue dalla vera conoscenza, fondata su una visione ed una convinzione profonda. È il punto di partenza del Dialogo socratico. La verità è il risultato di una ricerca collettiva che consiste nel dialogo tra tutti gli allievi e dove ciascuno è al tempo stesso allievo e maestro. Il filosofo non è più un profeta che annuncia delle rivelazioni, ma qualcuno che ricerca, con altri, la verità. Ciò porta ad un nuovo concetto di direzione: il dirigente è colui che è più determinato a far avanzare il chiarimento senza perdere mai di vista lo scopo finale. Il parallelo con il modo in cui è definito il ruolo dei comunisti nella lotta di classe ne Il Manifesto Comunista, è sorprendente.

Socrate era maestro nello stimolare e dirigere le discussioni. Ha fatto evolvere il dibattito pubblico fino al livello di un’arte o di una scienza. Il suo allievo, Platone, ha sviluppato il dialogo fino ad un livello raramente raggiunto in seguito.

Nell’introduzione a La Dialettica della Natura, Engels parla di tre grandi periodi nella storia dello studio della natura fino ad allora: “il genio dell’intuizione” degli antichi greci, i risultati “altamente significativi ma sporadici” degli arabi in quanto precursori del terzo periodo, “la scienza moderna” che muove i primi passi nel Rinascimento. Ciò che è sorprendente ne “l’epoca culturale arabo-musulmana”, è la sua notevole capacità ad assorbire e a fare una sintesi delle esperienze delle differenti culture antiche e la sua apertura alla discussione. August Bebel cita un testimone oculare della cultura del dibattito pubblico a Bagdad: “Immaginate semplicemente che alla prima riunione non c’erano solamente dei rappresentanti di tutte le sette musulmane esistenti, ortodosse ed eterodosse, ma anche degli adoratori del fuoco (Parsi); dei materialisti, degli atei; degli ebrei e dei cristiani, in una parola ogni specie di infedele. Ogni setta aveva il suo portavoce che doveva rappresentarla. Quando uno di questi dirigenti di partito entrava nella sala, tutti si alzavano rispettosamente dalla propria sedia e nessuno si sarebbe seduto prima che quest’ultimo avesse raggiunto il suo posto. Quando la sala fu quasi piena, uno degli infedeli disse: ‘Tutti conoscono le regole. I musulmani non hanno il diritto di combatterci con le prove tratte dai loro libri santi o da discorsi basati su quelli del loro profeta, poiché non crediamo né nei vostri libri né nel vostro profeta. Qui non possiamo che basarci su degli argomenti fondati sulla ragione umana’. Queste parole furono accolte da un giubilo generale”[15]. Bebel aggiunge: “Le differenze tra la cultura araba e la cultura cristiana erano le seguenti: gli arabi raccoglievano durante le loro conquiste tutti le opere che potevano servire ai loro studi ed istruirli sui popoli ed i paesi che avevano conquistato. I cristiani, spargendo la loro dottrina, distruggevano tutti questi monumenti della cultura come prodotti del diavolo o degli orrori pagani”. E conclude: “L’epoca della cultura arabo-musulmana è l’anello che collega la condannata cultura greco-romana, e la cultura antica nel suo insieme, alla cultura europea che è fiorita dal Rinascimento. Senza la prima, quest’ultima non avrebbe potuto raggiungere i livelli attuali. Il cristianesimo era ostile a tutto questo sviluppo culturale”.

Una delle ragioni del fanatismo e del settarismo ciechi del cristianesimo è stata identificata già da Heinrich Heine ed è stata confermata in seguito dal movimento operaio: più una cultura richiede sacrificio e rinuncia, più il pensiero stesso che i suoi principi possano essere messi in discussione è intollerabile.

Per quanto che riguarda il Rinascimento e la Riforma, che definisce “il più grande rivolgimento progressivo che l’umanità avesse fino allora vissuto”, Engels sottolinea non solo il ruolo dello sviluppo del pensiero, ma anche quello delle emozioni, della personalità, del potenziale umano e della combattività. Era un’epoca “che aveva bisogno di giganti e che procreava giganti: giganti per la forza del pensiero, le passioni, il carattere, per la versatilità e l’erudizione. (...) Gli eroi di quell’epoca non erano ancora sotto la schiavitù della divisione del lavoro che ha reso così limitati e unilaterali tanti dei loro successori. Ma la loro caratteristica vera e propria sta nel fatto che vivano ed operavano, quasi tutti, agli avvenimenti del tempo, alle lotte pratiche; prendevano posizione e combattevano anch’essi, chi con la parola e con gli scritti, chi con la spada, parecchi con ambedue” (Engels, ibidem, “Introduzione”).

Il dibattito ed il movimento operaio

Se si considerano le tre epoche “eroiche” del pensiero umano che hanno portato, secondo Engels, allo sviluppo della scienza moderna, si nota quanto esse siano state limitate nel tempo e nello spazio. Innanzitutto, esse iniziano molto tardi rispetto alla storia dell’umanità nel suo insieme. Anche includendo i capitoli cinesi ed indiani, queste fasi sono state limitate sul piano geografico e non sono neanche durate molto (il Rinascimento in Italia e la Riforma in Germania appena qualche decennio). E le parti delle classi sfruttatrici (esse stesse estremamente minoritarie) che vi hanno veramente partecipato in modo attivo sono state minuscole.

A tale proposito due cose sembrano stupefacenti. Primo, il fatto stesso che questi momenti di nascita del dibattito pubblico e della scienza abbiano avuto luogo e che il loro impatto sia stato così importante e così duraturo - nonostante tutte le interruzioni ed i vicoli ciechi. Secondo, fino a che punto il proletariato - malgrado la rottura della continuità organica del suo movimento a metà del ventesimo secolo, malgrado l’impossibilità di organizzazioni di massa permanenti nella decadenza del capitalismo – sia stato capace di mantenere e talvolta di allargare considerevolmente lo scopo del dibattito organizzato. Il movimento operaio ha mantenuto viva questa tradizione per quasi due secoli nonostante le interruzioni,. Ed in certi momenti, come nei movimenti rivoluzionari in Francia, in Germania ed in Russia, questo processo ha inglobato milioni di uomini. Qui la quantità si trasforma in qualità.

Tuttavia questa qualità non è prodotta unicamente dal il fatto che il proletariato - almeno nei paesi industrializzati - costituisce la maggioranza della popolazione. Abbiamo già visto come la scienza moderna e la teoria, dopo i gloriosi inizi durante il Rinascimento, sono state sprecate ed ostacolate nel loro sviluppo dalla divisione borghese del lavoro. Al centro di questo problema risiede la separazione della scienza dai produttori ad un livello impossibile all’epoca araba o del Rinascimento. “(Questa scissione) si compie infine nella grande industria che fa della scienza una forza produttiva indipendente dal lavoro e l’arruola al servizio del capitale[16].

Marx la descrive la conclusione di questo processo nella sua bozza di risposta a Vera Zassoulitch: "Questa società conduce una guerra contro la scienza, contro i popoli e contro le forze produttive che essa ha creato”.

Il capitalismo è il primo sistema economico che non può esistere senza un’applicazione sistematica della scienza alla produzione. Deve limitare l’educazione del proletariato per mantenere il suo dominio di classe. E deve sviluppare l’educazione del proletariato per mantenere la sua posizione economica. Oggi la borghesia è sempre più una classe senza cultura, arretrata, mentre la scienza e la cultura sono tra le mani sia di proletari, sia di rappresentanti remunerati della borghesia la cui situazione economica e sociale somiglia sempre più a quella della classe operaia.

“(L’abolizione delle classi sociali) ha quindi come suo presupposto un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l’appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e della direzione spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventata superflua, ma è diventata anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto”[17].

Il proletariato è l’erede delle tradizioni scientifiche dell’umanità. Più ancora che per il passato, ogni futura lotta rivoluzionaria proletaria porterà necessariamente un fiorire senza precedenti del dibattito pubblico e gli inizi di un movimento verso la restaurazione dell’unità tra scienza e lavoro, il compimento di una comprensione globale più adeguata alle esigenze dell’epoca contemporanea.

La capacità del proletariato di raggiungere nuove vette è stata già provata dallo sviluppo del marxismo, primo passo scientifico concernente la società umana e la storia. Solo il proletariato è stato capace di assimilare le più alte esperienze del pensiero filosofico borghese: la filosofia di Hegel. Le due forme di dialettica conosciute nell’antichità erano la dialettica del cambiamento, Eraclito, e la dialettica dell’interazione (Platone, Aristotele). Solo Hegel è riuscito a combinare queste due forme ed a creare la base per una dialettica veramente storica.

Hegel aggiunge una nuova dimensione a tutto il concetto di dibattito attaccando, più profondamente di quanto mai fatto prima, l’opposizione rigida, metafisica tra vero e falso. Nell’introduzione a La Fenomenologia dello Spirito, mostra come delle fasi differenti ed opposte di un processo di sviluppo - quale la storia della filosofia - costituiscono un’unità organica, come lo sono il fiore ed il frutto. Hegel spiega che l’incapacità a comprendere questa unità viene dalla tendenza a concentrarsi sulla contraddizione ed a perdere di vista lo sviluppo. Rimettendo questa dialettica sui suoi piedi, il marxismo è stato capace di assorbire l’aspetto più progressivo di Hegel, la comprensione dei processi che conducono verso il futuro.

Il proletariato è la prima classe sfruttata e rivoluzionaria allo stesso tempo. Contrariamente alle precedenti classi rivoluzionarie che erano sfruttatrici, la sua ricerca della verità non è limitata da nessun interesse a preservarsi in quanto classe. Contrariamente alle precedenti classi sfruttate che sopravvivevano consolandosi solo con le illusioni (in particolare quelle religiose), il suo interesse di classe richiede la perdita delle illusioni. Come tale, il proletariato è la prima classe la cui tendenza naturale, appena riflette, si organizza e lotta sul suo terreno, è verso la chiarificazione.

I bordighisti hanno dimenticato questa caratteristica unica del proletariato quando hanno inventato il concetto di invarianza. Il loro punto di partenza è corretto: la necessità di restare leali ai principi di base del marxismo di fronte all’ideologia borghese. Ma la conclusione secondo la quale è necessario limitare o anche abolire il dibattito per mantenere le posizioni di classe, è il prodotto della controrivoluzione. La borghesia ha ben compreso che per attirare il proletariato sul campo del capitale bisogna innanzitutto sopprimere e soffocare i suoi dibattiti. Avendo inizialmente tentato di farlo attraverso la repressione violenta, ha poi sviluppato delle armi ben più efficaci quali la democrazia ed il sabotaggio da parte della sinistra del capitale. Anche l’opportunismo lo ha capito da tempo. Poiché la sua caratteristica essenziale è l’incoerenza, deve nascondersi, evitare il dibattito aperto. La lotta contro l’opportunismo e la necessità di una cultura del dibattito, non solo non sono in contraddizione, ma sono indispensabili l’un l’altro.

Una tale cultura non esclude affatto il confronto appassionato di posizioni politiche divergenti, al contrario. Ma ciò non significa affatto che il dibattito politico debba essere necessariamente traumatico, con dei vincitori e dei vinti, che porta a rotture e scissioni. L’esempio più edificante de “l’arte” o de “la scienza” del dibattito nella storia è quello del Partito bolscevico tra febbraio ed ottobre 1917. Anche in un contesto di intrusione massiccia di un’ideologia estranea, queste discussioni erano appassionate ma estremamente fraterne e fonte di ispirazione per tutti i partecipanti. Soprattutto, esse hanno reso possibile ciò che Trotsky ha chiamato “il riarmo” politico del partito, l’adeguamento della sua politica ai bisogni mutevoli del processo rivoluzionario, che è una delle condizioni della vittoria.

Il “Dialogo bolscevico” richiede una comprensione del fatto che i dibattiti non hanno tutti lo stesso significato. La polemica di Marx contro Proudhon era di tipo demolitorio perché si dava per compito di gettare nella pattumiera della storia, sbarazzandosene, una visione che era diventata un ostacolo per lo sviluppo della coscienza dell’insieme del movimento operaio. Al contrario il giovane Marx, pure ingaggiando una lotta titanica contro Hegel e contro il socialismo utopico, non perse mai il suo immenso rispetto per Hegel, Fourier, Saint Simon o Owen che gli ha permesso di integrarli per sempre nella nostra eredità comune. Engels doveva scrivere più tardi che senza Hegel non ci sarebbe stato il marxismo e senza gli utopisti non ci sarebbe stato il socialismo scientifico come lo conosciamo.

Le più gravi crisi del movimento operaio, comprese quelle della CCI, per la maggior parte non sono state provocate dal fatto stesso che esistessero le divergenze, anche se fondamentali, ma dall’evitare e perfino sabotare apertamente il dibattito. L’opportunismo utilizza tutti i mezzi per raggiungere questo scopo. Non solo può minimizzare delle divergenze importanti, ma anche esagerare delle divergenze secondarie o inventare delle divergenze là dove non ce ne sono. Utilizza anche gli attacchi personali, la denigrazione e la calunnia.

Il peso morto che viene esercitato sul movimento operaio, da un lato, dal “buon senso comune” di tutti i giorni e, dall’altro, dal rispetto acritico, quasi religioso di certi costumi e tradizioni, è legato a ciò che Lenin ha chiamato lo spirito di circolo. Egli aveva profondamente ragione nella sua lotta contro la sottomissione del processo di costruzione dell’organizzazione e della sua vita politica alla “spontaneità” del buonsenso comune ed alle sue conseguenze: "Ma perché - domanderà il lettore - il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio dell’ideologia borghese? Per la semplice ragione che, per le sue origini, l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione”[18].

La caratteristica della mentalità di circolo è la personalizzazione del dibattito, l’atteggiamento che consiste nel sostituire l’argomentazione politica con la polarizzazione non su ciò che è detto ma su chi lo dice. E’ chiaro che questa personalizzazione costituisce un’enorme ostacolo ad una fruttuosa discussione collettiva.

Già il “Dialogo socratico” aveva compreso che lo sviluppo del dibattito non è solo una questione di pensiero; è una questione etica. Oggi la ricerca del chiarimento serve gli interessi del proletariato mentre il suo sabotaggio lo danneggia. In questo senso, la classe operaia potrebbe adottare lo slogan dell’illuminista tedesco Lessing che affermava che se c’era una cosa che amava più della verità, era la ricerca della verità.

La lotta contro il settarismo e l’impazienza

Gli esempi più chiari di cultura del dibattito in quanto elemento essenziale dei movimenti proletari di massa sono forniti dalla Rivoluzione russa[19]. Il partito di classe, lungi dall’opporsi ad essa, era lui stesso all’avanguardia di questa dinamica. Le discussioni in seno al partito nella Russia del 1917 riguardavano questioni quali la natura di classe della rivoluzione, se occorreva o no sostenere il proseguimento della guerra imperialista, e quando e come prendere il potere. Tuttavia durante tutto questo periodo l’unità del partito fu mantenuta nonostante le crisi politiche nel corso delle quali era in gioco il destino della rivoluzione mondiale e, con esso, quello dell’umanità.

Tuttavia la storia della lotta di classe proletaria, ed in particolare del movimento operaio organizzato, ci insegna che non sempre sono stati raggiunti tali livelli di cultura del dibattito. Abbiamo già menzionato l’intrusione ripetuta di atteggiamenti monolitici nella CCI. Non è sorprendente che ciò abbia dato spesso luogo a scissioni dall’organizzazione. Nella quadro di un atteggiamento monolitico, le divergenze non possono essere risolte attraverso il dibattito e conducono necessariamente alla rottura ed alla separazione. Tuttavia il problema non viene risolto dalla scissione dei militanti che si sono fati portatori di questo atteggiamento in modo caricaturale. La possibilità che tali comportamenti non proletari sorgano e risorgano indica l’esistenza di debolezze più diffuse su questa questione in seno all’organizzazione stessa. Queste consistono spesso in piccole confusioni e false idee appena percettibili nella vita e nella discussione quotidiana, ma che in certe circostanze possono aprire la strada a difficoltà ben più gravi. Una di queste è la tendenza a porre ogni dibattito in termini di confronto tra marxismo ed opportunismo, di lotta polemica contro l’ideologia borghese. Una delle conseguenze di questo comportamento è l’inibizione del dibattito, dando ai compagni l’impressione di non aver più il diritto di sbagliarsi né di esprimere delle confusioni o dei disaccordi. Un’altra conseguenza è la banalizzazione dell’opportunismo. Se lo vediamo dovunque (e gridiamo sempre “Al lupo! Al lupo” appena appare al minima divergenza) probabilmente non lo riconosceremo quando apparirà veramente. Un altro problema è l’impazienza nel dibattito che ha come risultato il non ascoltare gli argomenti degli altri ed una tendenza a volere monopolizzare la discussione, a schiacciare i propri “avversari”, a convincere gli altri “ad ogni costo”[20].

Tutti questi comportamenti hanno in comune il peso dell’impazienza piccolo-borghese, la mancanza di fiducia nella pratica vivente del chiarimento collettivo in seno al proletariato. Esprimono una difficoltà ad accettare che la discussione ed il chiarimento siano un processo. Come tutti i processi fondamentali della vita sociale, questo processo ha un ritmo interno e una sua propria legge di sviluppo. Il suo procedere corrisponde al movimento della confusione verso la chiarezza, comprende errori e falsi orientamenti, così come la loro correzione. Tali processi richiedono del tempo per essere veramente profondi. Possono essere accelerati ma non cortocircuitati. Più larga è la partecipazione, più la partecipazione dell’insieme della classe viene incoraggiata ed accolta favorevolmente, più ricco sarà questo processo.

Nella sua polemica contro Bernstein[21] Rosa Luxemburg ha sottolineato la contraddizione fondamentale della lotta di classe in quanto movimento interno al capitalismo ma che tende verso un scopo che si trova al di fuori di esso. Da questa natura contraddittoria nascono i due principali pericoli che minacciano questo movimento. Il primo è l’opportunismo, che è l’apertura all’influenza fatale della classe nemica. La parola d’ordine di questa deviazione della lotta di classe è: “il movimento è tutto, il fine è niente”. Il secondo principale pericolo è il settarismo, che è la mancanza di apertura verso l’influenza della vita della propria classe, il proletariato. La sua parola d’ordine è: “il fine è tutto, ma il movimento è niente”.

Nella scia della terribile controrivoluzione che è seguita alla sconfitta della rivoluzione mondiale, alla fine della prima Guerra mondiale, all’interno di ciò che restava del movimento rivoluzionario si è sviluppata la falsa e fatale idea che era possibile combattere l’opportunismo con il settarismo. Questo approccio che ha portato alla sterilizzazione ed alla fossilizzazione, non riusciva a comprendere che l’opportunismo ed il settarismo sono due facce della stessa medaglia poiché separano l’uno dall’altro il movimento e il fine. Senza la piena partecipazione delle minoranze rivoluzionarie alla vita reale ed al movimento della loro classe, il fine del comunismo non può essere raggiunto.


[1] Anche dei giovani rivoluzionari tanto maturi e chiari teoricamente come Marx ed Engels pensavano – all’epoca delle convulsioni sociali del 1848 - che il comunismo stava per essere all’ordine del giorno. Una supposizione che hanno dovuto rivedere velocemente ed abbandonare.

[2] Vedi le “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”, Rivista Internazionale n.28.

[3] Concezione teorizzata nel campo proletario dalla corrente “bordighista”.

[4] Le biografie ed i ricordi dei rivoluzionari del passato sono pieni di esempi della loro capacità di discutere e, in particolare, di ascoltare. Su questo piano Lenin aveva una grande reputazione, ma non era il solo. Giusto per fare un esempio citiamo un ricordo di Fritz Sternberg tratto dalle sue “Conversazioni con Trotsky” (redatto nel 1963): “Nelle sue conversazioni con me Trotsky era straordinariamente educato. Non mi interrompeva quasi mai, solamente per chiedermi di spiegare o di sviluppare una parola o un concetto”.

[5] Su questo argomento, vedi gli articoli dei della, “Conferenza straordinaria della CCI: La lotta per la difesa dei principi organizzativi”, Rivista Internazionale n.110 (in inglese, francese e spagnolo); “XV Congresso della CCI: Rafforzare l’organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo” Rivoluzione Internazionale n.131.

[6] Vedi “La fiducia e la solidarietà nella lotta del proletariato” nella Rivista Internazionale n.111 e 112 (in inglese, francese e spagnolo) e “Marxismo ed etica”, CCI on-line 200-2008, 127 e 128.

[7] Vedi i nostri libri “La Sinistra comunista italiana” e “La Sinistra comunista olandese”.

[8] La Sinistra comunista di Francia manterrà questa visione dopo lo scioglimento della Frazione italiana. Vedi ad esempio la critica del concetto di “capo geniale”, ripubblicata nella Rivista Internazionale n.33, e quella della nozione di disciplina che concepisce i militanti dell’organizzazione come semplici esecutori che non hanno da discutere gli orientamenti politici dell’organizzazione, nella Rivista Internazionale n.34 (entrambe in inglese, francese e spagnolo).

[9] Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato

[10] Engels, Ludwig Feuerbach, inizio del 2° capitolo.

[11] Engels, “La dialettica della natura”, capitolo “La ricerca scientifica nel mondo degli spiriti”.

[12] Il Capitale, Libro III, sezione 7, Capitolo 48: “La formula tripartitica” (inizio della 3a parte).

[13] Engels, “La dialettica della natura”, fine del capitolo “La ricerca scientifica nel mondo degli spiriti”.

[14] Sugli sviluppi in Asia negli anni 500 a.c., vedi le Conferenze di August Thalheimer all’università Sun-Yat-Sen di Mosca, 1927: “Einführung in den dialektischen Materiailismus” (Introduzione al materialismo dialettico). Ne è stata pubblicata un’edizione americana nel 1938.

[15] August Bebel: Die Mohamedanisch-Arabische Kulturepoche (1889), Capitolo VI, “Lo sviluppo scientifico, la poesia”. Tradotto dal tedesco da noi.

[16] Il Capitale, Libro I, 4a sezione, capitolo 14: “Divisione del lavoro e manifattura”, 5 “Carattere capitalista della manifattura”.

[17] Anti-Dühring, 3a parte: “Il socialismo”, “Elementi teorici”.

[18] Che fare?, 2a parte “La spontaneità dalle masse e la coscienza della socialdemocrazia”, parte b) “La sottomissione alla spontaneità. Il Rabociaia Mysl”.

[19] Vedi ad esempio il libro di Trotsky, Storia della rivoluzione russa o quello di John Reed, I Dieci giorni che scossero il mondo.

[20] Per un maggiore sviluppo sull’argomento vedi “17° Congresso della CCI: un rafforzamento internazionale del campo proletario”, ICC online, settembre.

[21] Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione