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La natura umana
Questa “natura umana” è un po’ come la pietra filosofale che gli alchimisti hanno ricercato per secoli. Fino ad ora tutti gli studi sulle “invariabili sociali” (come dicono i sociologi), cioè sulle caratteristiche del comportamento umano valido in tutti i tipi di società, hanno messo in evidenza fino a che punto la psicologia e gli atteggiamenti umani sono stati variabili e legati al quadro sociale nel quale si è sviluppato ogni individuo considerato. In effetti se c’è una caratteristica fondamentale di questa famosa “natura umana” che la distingue da quella degli altri animali, è proprio l’enorme importanza dell’”acquisizione” rispetto all’”innato”, è proprio il ruolo decisivo che gioca l’educazione, e dunque l’ambiente sociale nel quale si trova l’uomo adulto.
Marx sottolineava che “l’ape oscura l’abilità di più di un architetto per la struttura delle sue celle di cera; ma ciò che distingue dagli albori il peggior architetto dall’ape più esperta, è il fatto che questo ha costruito la cella nella sua testa prima di costruirla nell’arnia”. E’ in maniera geneticamente programmata che l’ape possiede l’attitudine a costruire degli esagoni perfetti, come il piccione viaggiatore ha la capacità di ritrovare il suo nido a 1000 km di distanza o lo scoiattolo immagazzina le nocciole che non potrebbe trovare dopo. Invece, la forma finale dell’edificio che progetta il nostro architetto sarà determinata non da una qualche eredità genetica ma da tutta una serie di elementi che gli saranno forniti dalla società nella quale vive. Che si tratti del tipo di edificio che gli è stato commissionato, dei materiali o degli attrezzi utilizzabili, delle tecniche produttive dei diversi corpi di mestiere che possono partecipare al prodotto, delle conoscenze scientifiche alle quali si rifà, tutto è determinato dall’ambiente sociale.
Accanto a questo, la parte di ciò che viene da un qualcosa di “innato” trasmesso geneticamente dai genitori dell’architetto si riassume essenzialmente nel fatto che il frutto del loro accoppiamento non è stato un’ape, o un piccione, ma un uomo, cioè un individuo appartenente come loro alla specie umana nella quale, appunto, la parte delle acquisizioni che entrano nella formazione dell’individuo adulto è di gran lunga la più importante.
Lo stesso vale per quello che riguarda la natura dei comportamenti. Ad esempio, il furto è un crimine, cioè una perturbazione del funzionamento della società che, se generalizzato, diventa per essa catastrofico. Chi ruba, o peggio minaccia, aggredisce o uccide delle persone è un criminale, un essere considerato quasi da tutti come un malfidato, un asociale al quale bisogna “impedire di nuocere” (a meno che non lo faccia nel quadro delle leggi esistenti, nel qual caso la sua abilità ad estorcere il plusvalore ai proletari sarà lodata e riccamente ricompensata e la sua efficacia nel massacro di questi gli varrà galloni e medaglie). Ma il comportamento “furto” ed i criminali “ladri”, “rapitori” o “assassini”, così come tutto quello in connessione con questo: leggi, giustizia, polizia, prigioni, film polizieschi, romanzi “gialli” e “neri” potrebbero esistere se non ci fosse niente da rubare perché tutti i beni materiali, per l’abbondanza permessa dallo sviluppo delle forze produttive, sarebbero a libera disposizione di tutti i membri della società? Evidentemente no! E si potrebbero moltiplicare gli esempi che mostrano fino a che punto i comportamenti, le attitudini, i sentimenti, le relazioni fra gli uomini sono determinati dall’ambiente sociale.
Qualcuno potrebbe obiettare che se esistono dei comportamenti antisociali, quale che sia la forma che assumono in funzione delle forme della società, è perché esiste nel profondo della “natura umana” una parte di atteggiamento asociale, di aggressività verso gli altri, di “criminalità potenziale”. Si sente dire: “Spesso il volere non è per necessità materiale”, “il crimine gratuito esiste”, o ancora “se i nazisti hanno potuto commettere tali orrori è perché l’uomo porta in se il male che emerge appena le condizioni sono favorevoli”. Ma cosa significano queste obiezioni se non il fatto che non esiste una “natura umana” in se “buona” o “cattiva”, se non un uomo sociale le cui molteplici potenzialità si esprimono in maniera diversa a seconda delle condizioni in cui egli vive? A tale riguardo le statistiche sono eloquenti: è la “natura umana” che diventa peggiore nei periodi di crisi della società quando si assiste ad un aumento della criminalità e di tutti i comportamenti morbosi? Lo sviluppo di atteggiamenti asociali in un numero crescente di individui non è al contrario l’espressione di una non adeguata crescita della società esistente rispetto ai bisogni umani i quali, eminentemente sociali, non riescono più a trovare soddisfazione all’interno di quella che, appunto, diventa sempre meno una società, una comunità?
Altri basano il loro rigetto della possibilità del comunismo sulla seguente argomentazione: “Voi parlate di una società che soddisferà veramente i bisogni umani, ma la proprietà, il potere sugli altri sono appunto dei bisogni umani essenziali ed il comunismo, che li esclude, è mal posto per una tale soddisfazione. Il comunismo è impossibile perché l’uomo è egoista”.
Il bisogno di proprietà
Nella “Introduzione a l’economia politica” Rosa Luxemburg descrive lo sgomento dei borghesi inglesi quando, all’epoca della conquista dell’India, scoprirono dei popoli che non conoscevano la proprietà privata. Essi si consolavano dicendo che si trattava di “selvaggi”, ma anche a chi era stato insegnato dalla società che la proprietà privata è “naturale”, creava un certo imbarazzo constatare che erano proprio dei “selvaggi” ad avere il modo di vita più “artificiale”. Nei fatti l’umanità aveva un tale “bisogno naturale di proprietà privata” da farne a meno per più di un milione di anni. Ed in molte occasioni è stato a colpi di massacri che si è fatto scoprire agli uomini questo “bisogno naturale”, come appunto è stato il caso degli Indiani citati da Rosa Luxerburg. Lo stesso vale per il commercio, forma “naturale ed unica” di circolazione dei beni e la cui ignoranza da parte degli autoctoni scandalizzava i colonizzatori: indissociabile dalla proprietà privata, il commercio appare e scomparirà con essa.
Un’altra idea corrente è che se non ci fosse il profitto come stimolatore della produzione e del suo progresso, se il salario individuale non fosse la contropartita degli sforzi fatti dal lavoratore, nessuno più produrrebbe. Effettivamente, nessuno più produrrebbe in modo capitalista, cioè in un sistema basato sul profitto ed il salario, in cui la più piccola scoperta scientifica deve essere “redditizia”, in cui il lavoro, per la sua durata, la sua intensità, la sua forma inumana, è diventato una maledizione per la stragrande maggioranza dei proletari. Al contrario, lo scienziato che attraverso le sue ricerche partecipa al progresso della tecnica, ha bisogno di uno “stimolante materiale” per lavorare? In genere egli è pagato meno di un quadro di fabbrica che, lui, non fa fare nessun progresso alla conoscenza. Il lavoro manuale è per forza di cose sgradevole? A cosa farebbe riferimento l’espressione “amore del mestiere” o il gusto per il bricolage ed ogni sorta di attività manuale che spesso sentiamo? In effetti il lavoro, quando non è alienato, assurdo, sfiancante, quando i suoi prodotti non diventano delle forze ostili ai lavoratori, ma dei mezzi per soddisfare realmente dei bisogni della collettività, diventa il primo bisogno umano, una delle forme essenziali di sviluppo delle facoltà umane. Nel comunismo gli uomini produrranno per il loro piacere.
Il bisogno di potere
Dall’esistenza oggi generalizzata di capi, di rappresentanti dell’autorità, si deduce che nessuna società può fare a meno di capi, che gli uomini non potranno mai fare a meno di subire un’autorità o di esercitarla sugli altri. Non possiamo ritornare qui su quello che il marxismo ha da tempo detto sul ruolo delle istituzioni politiche, sulla natura del potere statale e che si riassume nell’idea che l’esistenza di una autorità politica, di un potere di alcuni uomini sugli altri è il risultato dell’esistenza nella società di opposizioni e di scontri tra gruppi di individui (le classi sociali) dagli interessi antagonisti.
Una società in cui gli uomini si fanno concorrenza tra loro, dove gli interessi si contrappongono, dove il lavoro produttivo è una maledizione, dove la coercizione è permanente, dove i bisogni umani più elementari sono calpestati per la grande maggioranza, una tale società ha “bisogno” di capi (come ha bisogno di polizia o della religione). Ma che si sopprimano tutte queste aberrazioni e si vedrà se i capi ed il potere sono sempre necessari. “Si (dirà sempre quel qualcuno), l’uomo ha bisogno di dominare gli altri o di essere dominato. Quale che sia la società, esisterà sempre il potere di alcuni sugli altri”. E’ vero che lo schiavo che ha sempre portato le catene ai piedi ha l’impressione che lui non potrà mai farne a meno per camminare. Per gli uomini il bisogno di esercitare un potere sugli altri è il complemento di quello che si potrebbe chiamare “la mentalità dello schiavo”: l’esempio dell’esercito dove il maggiore stupido e disciplinato è allo stesso tempo quello che abbaia in permanenza contro i suoi uomini, è significativo. Nei fatti se gli uomini hanno bisogno di esercitare un potere sugli altri è perché esercitano ben poco potere sulla propria vita e sull’insieme dell’andamento della società. La volontà di potenza di ogni uomo è in misura della sua impotenza reale. In una società dove gli uomini non sono schiavi impotenti né delle leggi della natura, né delle leggi dell’economia, dove si liberano delle seconde ed utilizzano in modo cosciente le prime, dove sono “padroni senza schiavi”, non hanno più bisogno di questo surrogato della potenza che è il dominio sugli altri.
Ciò che vale per la “sete di potere” vale anche per l’aggressività. Di fronte all’aggressione permanente di una società che marcia sottosopra, che gli impone un’agonia perpetua ed una rinuncia costante dei propri desideri, l’individuo è necessariamente aggressivo: si tratta della semplice manifestazione, ben nota in tutti gli animali, dell’istinto di conservazione. Dotti psicologi affermano che l’aggressività sarebbe un impulso inerente a tutte le specie del regno animale, che avrebbe bisogno di manifestarsi in ogni caso, in ogni circostanza: ma anche se fosse così, che gli uomini abbiano la possibilità di impiegarla per combattere gli ostacoli materiali che intralciano un rifiorire ogni giorno più grande, e vedremo se hanno ancora bisogno di esercitarla contro altri uomini!
L’egoismo degli uomini
Il “ciascuno per sé” sarebbe una caratteristica degli uomini. Senza dubbio è una caratteristica dell’uomo borghese, di quello che “si è fatto da solo”, ma questa non è che l’espressione ideologica della realtà economica del capitalismo e non ha niente a che vedere con la natura umana. Altrimenti bisognerebbe considerare che questa “natura umana” si è trasformata radicalmente dal comunismo primitivo in poi, o anche dal feudalesimo con la sua comunità di villaggio. Nei fatti l’individualismo fa la sua entrata trionfale nel mondo delle idee quando i piccoli proprietari indipendenti appaiono nelle campagne (abolizione del servaggio) e nelle città. Piccolo proprietario “riuscito”, in particolare rovinando i suoi vicini, il borghese aderisce con fanatismo a questa ideologia attribuendole il titolo di “naturale”. Per esempio, non si fa scrupolo a fare della teoria di Darwin una giustificazione della “lotta per la sopravvivenza”, della “lotta di tutti contro tutti”.
Ma con la comparsa del proletariato, classe associata per eccellenza, si apre una falla nel dominio assoluto dell’individualismo. Per la classe operaia la solidarietà è innanzitutto un mezzo elementare per assicurare una difesa elementare dei suoi interessi materiali. A questo punto si potrebbe già obiettare a quelli che dicono che “l’uomo è naturalmente egoista” che se l’uomo è egoista è però anche intelligente e la sola volontà di difendere i suoi interessi lo spinge all’associazione ed alla solidarietà appena le condizioni materiali lo permettono. Ma non è tutto: in questo essere sociale per eccellenza, la solidarietà e l’altruismo sono, tanto in senso che nell’altro, dei bisogni essenziali. L’uomo ha bisogno della solidarietà degli altri, ma ha anche bisogno di manifestare la sua solidarietà agli altri. Ed è qualcosa che si manifesta frequentemente nella nostra società, per quanto alienata sia, e che è riconosciuta in maniera semplice e corrente attraverso l’idea che “ognuno ha bisogno di sentirsi utile agli altri”. Qualcuno dirà che l’altruismo è anch’esso una forma di egoismo poiché chi lo pratica lo fa innanzitutto per compiacere se stesso. Sia! Ma questa sarebbe un altro modo per esprimere l’idea difesa dai comunisti che non c’è opposizione tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo. Una contrapposizione tra l’individuo e la società si manifesta nelle società di sfruttamento, nelle società che conoscono la proprietà privata (cioè privata agli altri) e questo è perfettamente logico: come potrebbe esserci armonia tra, da una parte, degli uomini che subiscono l’oppressione e, dall’altra, le istituzioni che garantiscono e perpetuano questa oppressione. In una tale società l’altruismo può manifestarsi essenzialmente sotto forma di carità o sotto forma di sacrificio, cioè di negazione di se stessi e non come affermazione, crescita comune e complementare di se e degli altri.
Contrariamente a quanto vuol farci credere la borghesia, il comunismo non è affatto negazione dell’individualità: è il capitalismo, dove i proletari diventano un’appendice della macchina produttiva, che opera una tale negazione e che la spinge all’estremo in quella sua espressione specifica di imputridimento che è il capitalismo di Stato. Nel comunismo, in questa società che si è sbarazzata del nemico per eccellenza che è lo Stato la cui esistenza non ha più ragion d’essere, è il regno della libertà che si instaura per ogni membro della società. Dato che l’uomo realizza le sue molteplici potenzialità in modo sociale e dato che scompare l’antagonismo tra interesse individuale e interesse collettivo, si apre un campo nuovo per il rifiorire di ogni individuo.
Inoltre, lungi dall’accentuare l’uniformità generalizzata sviluppatasi con il capitalismo, il comunismo, permettendo di rompere con una divisione del lavoro che fissa ogni individuo in un ruolo che gli viene incollato alla pelle per tutta la vita, è per eccellenza la società della diversità. Ormai ogni nuovo progresso della conoscenza o della tecnica non determina una specializzazione ancora più spinta, ma al contrario allarga ogni volta di più il campo delle molteplici attività attraverso le quali ogni uomo può esprimersi. Come scrivevano Marx ed Engels: “…appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico” (L’ideologia tedesca).
Si, e non se ne dispiacciano i borghesi e tutti gli spiriti scettici o afflitti, il comunismo è fatto per l’uomo, l’uomo può vivere nel comunismo e farlo vivere! (da Révolution Internationale n. 62)