Il Medio Oriente resta la posta in gioco dell’imperialismo mondiale

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Due anni fa, l’attentato dell’11 settembre sulle Twin Towers a New York apriva la strada ad un’accelerazione senza precedente degli scontri imperialisti dalla fine della Guerra fredda. Questo ulteriore passo del mondo nel caos ha avuto come giustificazione la “lotta contro il terrorismo internazionale” e la “lotta per la difesa della democrazia”. Questa propaganda non può più mascherare la realtà di un aggravamento delle tensioni imperialiste tra le grandi potenze ed in particolare tra gli Stati Uniti ed i loro vecchi alleati del blocco dell’Est.Come abbiamo più volte sviluppato nella nostra stampa, gli Stati Uniti sono costretti permanentemente ad affermare sul piano militare la loro leadership mondiale che i vecchi alleati gli contestano. I principali conflitti in cui sono rimaste coinvolte queste potenze dal crollo del blocco dell’Est rivelano questa logica. Questa è ancora più evidente in Afghanistan ed in Iraq dove gli Stati Uniti giocano un maggiore ruolo di mantenimento dell’ordine ed hanno difficoltà crescenti di fronte ad una situazione che già possiamo definire impantanata.

Gli Stati Uniti incapaci di controllare e migliorare la situazione in Iraq

Allo scopo di impedire che i suoi principali rivali gli mettessero i bastoni fra le ruote in Iraq e in Medio oriente, gli Stati Uniti hanno fatto in modo di essere i soli padroni in campo negando all’ONU la possibilità di poter giocare il benché minimo ruolo politico nell’amministrazione dell’Iraq e sottomettendo alla loro autorità tutte le altre componenti della forza internazionale presente militarmente in questo paese. Eppure, non solo non esiste al momento alcuna prospettiva tangibile di un alleggerimento del loro apparato militare sul posto (145.000 uomini), ma in più quest’ultimo si dimostra sempre più in difficoltà a controllare la situazione. Gli obiettivi che gli USA si erano fissati sembrano allontanarsi di giorno in giorno mentre la prospettiva di ristabilire la società irachena non è mai stata così lontana.

Le condizioni di vita della popolazione già misere sotto il regno di Saddam Hussein si sono aggravate a causa della guerra e dell’incapacità dell’occupante a migliorare l’approvvigionamento di beni di consumo e di prima necessità, a rimettere in piedi un minimo di infrastrutture indispensabili alla vita quotidiana. Per la fame, dei rivoltisi assalgono i rari magazzini di approvvigionamento. La criminalità dilaga, mentre sperpero e speculazione di ogni tipo si estendono in tutto il paese.

L’insicurezza e l’instabilità si sviluppano in particolare sotto l’effetto del terrorismo a largo raggio. Quest’ultimo colpisce essenzialmente le forze americane o i loro alleati, come dimostra l’attentato perpetrato a Bagdad contro l’ambasciata della Giordania. Ma prende di mira anche gli interessi economici vitali dell’Iraq, come gli oleodotti che trasportano acqua o petrolio.

Le truppe d’occupazione pagano quotidianamente un pesante tributo nella difesa degli interessi imperialisti della borghesia americana. Ne sono testimoni i 62 soldati che sono morti in attentati o imboscate dalla fine della guerra. Per la maggior parte terrorizzate, le truppe americane a loro volta terrorizzano la popolazione generando in essa un’ostilità crescente. Lo sforzo di guerra americano, in dollari ed in vite umane, non è certo finito: altri 78 soldati sono rimasti uccisi, questa volta “accidentalmente”, dopo la “vittoria”. Malgrado la morsa di ferro che gli Stati Uniti tentano di attuare su quel che resta di questa società, in Iraq regna una totale anarchia. Quanto ad un ricambio iracheno che possa sostituire sul posto la dominazione americana ci sarà un bel po’ da aspettare, così come per la costituzione di un governo “democratico”, progetto faro della propaganda della Casa Bianca e giustificazione della guerra. Bush ha proclamato che mai nella storia una coalizione governativa aveva riunito tanti partiti differenti come nel “Consiglio del Governo Provvisorio”, “prova” della sua volontà di attuare la “democrazia” Questa coalizione non è affatto uno scheletro di governo futuro ma un vero covo di vipere. Gli interessi più diversi e contrapposti vi si scontrano, senza la minima preoccupazione per l’interesse “nazionale”. Peggio, alcune frazioni pro-sciite presenti al suo interno sono sempre più inclini a una lotta frontale con l’America, escludendo così di fatto ogni possibilità che questa coalizione possa giocare il benché minimo ruolo.

Quanto alla terra promessa, la ricostruzione dell’Iraq, è sempre più chiaro che ne esce malconcia: i profitti petroliferi previsti potranno parteciparvi solo in minima parte, appena sufficiente per finanziare la riattivazione delle installazioni petrolifere. Si pone dunque la questione di sapere chi deve accollarsi il fardello finanziario.

Chi va a controllare e finanziare il protettorato dell’Iraq?

Giunti ad eliminare l’influenza dei rivali in Iraq, gli Stati Uniti si trovano ora prigionieri di contraddizioni dalle quali cercano di uscire. L’occupazione dell’Iraq è una voragine finanziaria e le perdite di vite umane tra le truppe americane porranno a lungo termine dei problemi seri alla borghesia americana, che però non può disimpegnarsi senza aver stabilizzato la situazione a suo vantaggio, il che è una scommessa. Essa cerca dunque di coinvolgere altre potenze nello sforzo finanziario e militare conservando però il monopolio del comando, con la Gran Bretagna nel ruolo di secondo piano. Tenuto conto dell’opposizione francese e tedesca ad un ritorno dell’ONU come semplice banchiere e fornitore di carne da cannone, senza tenere le leve del comando, la tensione sale nuovamente tra le principali potenze imperialiste.

Gli attentati contro i soldati o quelli che colpiscono personalità inclini ad una cooperazione con la Casa Bianca sono destinati a far salire la pressione contro “l’invasore yankee”. Le difficoltà attuali degli Stati Uniti incoraggiano naturalmente tutti i raggruppamenti, che agiscono sul posto o nei paesi vicini, ostili alla presenza americana. L’attentato contro un dignitario sciita moderato il 9 agosto a Nadjaf, con i suoi 82 morti e 230 feriti, è un colpo supplementare alla credibilità della borghesia americana per quanto riguarda la sua capacità ad attuare una soluzione politica in Iraq. Questo attentato fa essenzialmente il gioco delle potenze rivali degli Stati Uniti, senza che queste ne siano necessariamente i mandanti.

Tutti gli atti terroristici in Iraq non sono tuttavia diretti contro gli interessi americani come ha dimostrato l’attentato contro la sede dell’ONU a Bagdad il 12 agosto che ha ucciso più di venti persone, tra cui il rappresentante speciale in Iraq del segretario generale dell’ONU, grande amico della Francia (le sue guardie del corpo erano tutte francesi ed elementi riportati dai media mostrano che egli era particolarmente preso di mira). Questo attentato fa gli interessi degli Stati Uniti per diversi aspetti. Benché costituisca una prova supplementare della loro incapacità a mantenere l’ordine in questo paese, esso alimenta tuttavia la loro propaganda secondo la quale “é in Iraq che si combatte il terrorismo internazionale che, come si vede, non è diretto unicamente contro gli interessi americani”. Esso costituisce anche un pretesto per fare pressione sulle grandi democrazie, rivali degli Stati Uniti, affinché si prendano le loro responsabilità e s’impegnino nella causa di pacificazione e di edificazione dell’Iraq democratica. Non è certamente una coincidenza se questo attentato giunge quando la Gran Bretagna e gli Stati uniti miravano a fare assumere a più membri della “comunità internazionale” il peso militare ed economico della situazione in Iraq. Tuttavia, la Francia e la Germania hanno potuto ribaltare a loro vantaggio l’attentato invocando l’impossibilità dell’ONU di prendere una parte attiva sul terreno umanitario in Iraq senza essere associati alla direzione degli affari di questo paese che permetta loro di garantire la sicurezza del proprio personale. Questo è il significato dell’arringa fatta la settimana seguente l’attentato dal ministro degli affari esteri francesi, de Villepin, “per una soluzione politica” in Iraq, ripresa con forza da Chirac che ha chiesto dinanzi a 200 ambasciatori “il trasferimento del potere…agli stessi Iracheni” ed l’attuazione “di un processo a cui solo le Nazioni Unite sono in grado di dare tutta la sua legittimità”, il tutto arricchito dalla denuncia del “l’unilateralismo”, e cioè degli Stati Uniti.

Le contraddizioni a cui è sottoposta la borghesia americana non risparmiano la borghesia britannica, tanto più allarmata per il fatto che essa ha poco da guadagnare in quest’alleanza con lo Zio Sam. Le peripezie intorno alla morte di David Kelly, uno dei principali consiglieri dell’ONU per le questioni sulle Armi di Distruzione di Massa irachene, esprimono l’esistenza di un disaccordo di frazioni significative della borghesia inglese con la politica perseguita da Tony Blair.

Territori palestinesi: i piani americani hanno fatto cilecca

Accanto al pantano iracheno, Washington deve far fronte ad una situazione endemica che perdura e s’aggrava da decenni, il conflitto israelo-palestinese. Nessuno dei piani di pace americani ha potuto fino ad allora venirne a capo. Era tuttavia urgente e della massima importanza che gli Stati Uniti eliminassero un focolaio di tensione in grado di cristallizzare nei confronti di Israele e di se stessi l’ostilità del mondo arabo. Il famoso “foglio di via” di cui l’amministrazione Bush è all’origine è stato il segno della determinazione di Washington a costringere Israele a fare delle concessioni significative. In questo caso non si è trattato più di trattative tra Israele e l’Autorità palestinese come all’epoca degli accordi di Oslo inaugurati da Clinton nel 1993, ma di una ingiunzione della Casa Bianca affinché Israele non ponesse più ostacoli alla creazione di uno stato palestinese. Rispetto al campo palestinese avverso, sono stati impiegati gli stessi metodi autoritari per eliminare tutto ciò che sembrava costituire un ostacolo alla soluzione finale. Per questo Arafat, fino ad ora un buon alleato degli Stati Uniti nella messa in opera del processo di pace, è stato messo da parte a favore del suo rivale Mahmoud Abbas. Malgrado la pressione di Bush, Sharon, fingendo di accettare le diverse tregue, ha continuato la sua politica di apertura dei territori palestinesi ai coloni israeliani, di incursioni sanguinarie nei territori occupati e di uccisione di capi di Hamas e della Jiihad islamica. Queste organizzazioni intanto aspettavano solo le provocazioni dello Stato israeliano per perpetrare una nuova serie di attentati contro israeliani.

Il “foglio di via” é riuscito per un certo tempo ad abbassare la tensione, ma il nuovo incendio attuale segna il suo fallimento. Di fronte alla situazione di debolezza della diplomazia degli Stati Uniti, Arafat fa un tentativo di ritorno sulla scena presentandosi come un attore inevitabile della pace con Israele. Alle difficoltà crescenti della Casa Bianca in Iraq fa eco la sua impotenza ad influire sul conflitto israelo-palestinese.

Alla vigilia del secondo anniversario dell’attentato contro le Twin Towers e del terzo anniversario dell’Intifada in Palestina, la prospettiva che offre il capitalismo, tanto alle popolazioni delle regioni annientate dalle guerre, sottomesse al terrore ed ad una miseria indicibile, che all’insieme del pianeta, è sempre più caos, sempre più orrori e massacri.

Mulan (30 agosto)


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