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Con l’assassinio del vecchio primo ministro libanese, Rafic Hariri, si è riacceso un focolaio di scontri imperialisti in Medio Oriente. Questo nuovo episodio della barbarie capitalista, che si sviluppa a livello mondiale ed in particolare nel Vicino e Medio Oriente e si manifesta con sanguinosi regolamenti di conti ed una spirale senza fine di attentati terroristici che colpiscono ciecamente le popolazioni, ci ricorda che tutti i discorsi di pace della borghesia, di paesi grandi e piccoli, non sono che spudorate fesserie e cinismo. Sono proprio queste frazioni nazionali della borghesia che, non contente di seminare morte, come gli Stati Uniti in Iraq o la Francia in Africa, manipolano le molteplici bande di terroristi.
Il Medio Oriente, una posta in gioco permanente per le grandi potenze
L’attentato contro Rafic Hariri è una lampante smentita di tutte le chiacchiere che avevano salutato, all’inizio di gennaio, l’elezione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità palestinese come una garanzia di pace per la regione.
Questo avvenimento permette alla Francia ed agli Stati Uniti, promotori nel settembre scorso della risoluzione 1559 che esigeva il ritiro dell’esercito siriano dal Libano, di posizionarsi all’interno della vita politica libanese, designando espressamente la Siria come responsabile di questo assassinio. E non è certo la volontà di far rispettare la “Libertà” che li anima. Per Chirac, che ha potuto mettere sul piatto la sua “amicizia” con Hariri, era un’occasione troppo bella per tentare di far ritornare la Francia in questo paese, da cui era stata messa da parte progressivamente negli anni 80 e completamente messa fuori nel 91 in particolare con l’espulsione del suo pupillo libanese, il generale Aoun. Quanto agli Stati Uniti, si trattava di una tappa della loro strategia militare nel Sud-Ovest asiatico, che mirava ad accrescere la loro pressione sulla Siria designata dalla scorsa primavera come protettrice dei terroristi di Al-Qaida e dei membri dell’ex-Stato iracheno. Washington ha anche avvertito chiaramente ed a più riprese, anche recentemente, che la Siria rischiava di non scappare alle batoste del suo esercito.
Pertanto l’intesa che esiste oggi tra gli americani ed i francesi a spese del Libano e della Siria ha come unica ragione quella di giustificare la difesa dei rispettivi interessi imperialisti. La sua prospettiva è costituire una nuova fonte di rivalità, per bande terroriste interposte, ed alimentare così il caos nella regione.
Le difficoltà della borghesia americana
Non sono comunque i recenti viaggi diplomatici della cricca di Washington che possono far sognare un domani diverso. In queste ultime settimane anche l’Europa è stata corteggiata intensamente dalla diplomazia americana. Dopo la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice, è stato Donald Rumsfeld a spostarsi per il 14ª conferenza sulla sicurezza a Monaco, poi è venuto il “boss” in persona, Bush, ad assistere al summit della Nato e dell’Unione Europea, a fare incontri su incontri con i capi di Stato europei ed in particolare con quelli che si erano opposti all’intervento militare in Iraq, Chirac, Schröder, e poi Putin. Perchè tutta questa effervescenza diplomatica? Cosa si prepara dietro gli ipocriti abbracci tra padrini rivali, tra lo zio Sam e gli europei? Il cambiamento di discorsi della potenza americana non significa che questa ha rinunciato ad utilizzare la sua potenza militare per difendere i propri interessi economici, politici e militari nel mondo, ma solo che cerca di adattare la sua strategia ed il suo discorso ideologico tenendo conto delle difficoltà che incontra in particolare a causa del suo insabbiamento nella situazione irachena. La politica portata avanti in Iraq non fa che alimentare l’ostilità rispetto alla prima potenza mondiale e tende ad accrescere il suo isolamento sulla scena internazionale. Non potendo fare marcia indietro in Iraq, pena un indebolimento considerevole della sua autorità mondiale, lo zio Sam si caccia in contraddizioni difficilmente gestibili. Oltre ad essere una voragine finanziaria, l’Iraq costituisce il punto di appoggio permanente delle critiche dei suoi principali rivali imperialisti. Per altro, le recenti elezioni in Iraq hanno visto la vittoria della lista unificata dei partiti sciiti, più vicini al governo iraniano, e la disfatta del loro pupillo Iyad Allaoui, primo ministro ad interim. “Questo governo avrà eccellenti relazioni con l’Iran ... In termini di geopolitica regionale, non è il risultato che speravano gli Stati Uniti” (Courrier International n°746). A questo indebolimento della loro influenza sul gioco dei partiti politici iracheni, bisogna aggiungere il clima di terrore che continua a regnare in tutto il paese dove gli attentati e gli omicidi si succedono incessantemente. La pretesa vittoria della democrazia irachena (per il fatto che ci sono state queste elezioni), non ha affatto eliminato il rischio di divisione del paese in funzione degli interessi contrastanti delle diverse comunità religiose ed etniche. Del resto tutti sono concordi nel dire che la resistenza armata continuerà e probabilmente si intensificherà. In questo senso, l’offensiva diplomatica e questa volontà americana di apparire di nuovo “sulla stessa lunghezza d’onda” degli Europei, ha soprattutto per obiettivo tentare di convincere questi ultimi ad essere al loro fianco per “difendere e propagare la democrazia nel mondo”, in particolare nel Vicino e nel Medio Oriente. L’amministrazione Bush mantiene gli stessi obiettivi militari che aveva nel primo mandato, nel dopo 11 settembre, ma l’involucro ideologico ha assunto un nuovo look, più confacente ai bisogni della situazione. Il tutto facendo intendere alle potenze europee che da ora in avanti nulla sarà fatto senza che esse siano consultate, nella misura in cui tutte condividono gli stessi valori umani, democratici e di libertà dell’America. Non è del tutto escluso che, dietro questa mascherata, alcune potenze come la Francia abbiamo avuto la promessa di un ruolo privilegiato nel regolamento del conflitto in Iraq in cambio, naturalmente, di una maggiore implicazione al fianco degli Americani.
Dietro i discorsi ostentatamente unitari dell’offensiva diplomatica americana, le divergenze sono comunque sempre presenti, anzi aumentano. Come sottolinea un alto responsabile della NATO “il vecchio Rumsfeld ci ha fatto una sviolinata, come l’aveva fatta Condoleezza Rice la settimana scorsa” (Le Monde del 15 febbraio). Mentre fino ad oggi l’equipe Bush aveva condotto una politica da “pugno di ferro”, ora fa la politica del “pugno di fero in un guanto di velluto”. Rumsfeld ha affermato che per gli Stati Uniti “la missione (in senso militare) determina la coalizione”. In altre parole, l’America farà appello alla NATO solo se questa fa i suoi interessi strategici. Da parte loro gli Europei, ed in particolare la Germania con il sostegno della Francia, pongono apertamente la necessità di riformare la NATO e di sostituire l’Alleanza con un gruppo di esperti, rappresentativi degli interessi americani e soprattutto europei. La Germania inoltre afferma chiaramente che “nel quadro europeo, lei si sente corresponsabile per la stabilità e l’ordine internazionale” e che a questo titolo rivendica un seggio di membro permanente al consiglio di sicurezza dell’ONU. Davanti al rifiuto immediato degli Stati Uniti di riformare la NATO, la Germania si permette addirittura di alzare il tono attraverso il suo primo ministro degli affari esteri Joschka Fischer che dichiara: “Bisogna sapere se gli Stati Uniti si situano dentro o fuori il sistema delle Nazioni Unite”.
Questa tensione intorno al ruolo della NATO si è concretizzata con il rifiuto degli Europei di contribuire al programma di formazione delle forze militari e di polizia in Iraq o con il magro contributo dato. Rispetto all’Afghanistan le potenze europee hanno accettato di rafforzare gli effettivi della Forza Internazionale (FIAS) sotto il comando della NATO perchè questa è agli ordini di un generale francese con importanti unità di soldati francesi e tedeschi. Tuttavia non vogliono che questa forza militare passi alla fine sotto il comando dell’operazione “Enduring Freedom”, cioè sotto il controllo dell’esercito americano.
La questione della NATO non è il solo soggetto di discordia.
Dopo averci suonato la sinfonia dei Diritti dell’Uomo a proposito della repressione del movimento studentesco della piazza Tien An Men, in Cina nel 1989, gli Europei, da buoni commercianti di armi, sono pronti a levare l’embargo sulla vendita di armi a questo paese. Gli Americani non sono d’accordo, e neanche il Giappone, ma questo non ha niente a che vedere con i Diritti dell’Uomo: il motivo è che ciò rilancerebbe la corsa agli armamenti sul continente asiatico e minaccerebbe la loro influenza in questa regione, già sottomessa a forti tensioni militari aggravate in questi giorni dalla Corea del Nord che annuncia ufficialmente di avere l’arma nucleare. La visita del padrino americano in Europa non è dunque l’inizio di una nuova era di unità, né di un rafforzamento delle relazioni transatlantiche. Al contrario, le divergenze si accumulano e le posizioni sono sempre più inconciliabili. Le strategie e gli interessi degli uni e degli altri sono differenti perchè ciascuno difende la propria nazione, i propri interessi di Stato capitalista. Non ci sono i cattivi Americani da un lato ed i buoni Europei dall’altro. Sono tutti briganti imperialisti e la politica del “ciascuno per sé”, che compare dietro i simulacri di cordiale intesa, alla fine non può che portare a nuove convulsioni, lacerazioni e nuove carneficine militari, di cui l’Iran e la Siria potrebbero essere i prossimi bersagli. In effetti, la principale divergenza tra le grandi potenze – e la più gravida di conseguenze per questa regione del mondo – è su quale politica avere nei confronti dell’Iran. Le grandi potenze europee, compresa l’Inghilterra, sono in linea di massima favorevoli a continuare le negoziazioni con questo paese al fine di impedire – dicono loro – che questo sviluppi un programma nucleare militare. Mosca, dal canto suo, è il primo partner di Teheran sul piano nucleare e non ha nessuna intenzione di cambiare politica. Gli Stati Uniti, tenuto conto del peso che ha l’Iran come potenza regionale rafforzata recentemente dalla vittoria elettorale degli Sciiti in Iraq, non possono che voler accentuare la loro pressione sugli Europei e su Putin per far prevalere la loro opzione. La cricca Bush minaccia così di agguantare il consiglio di sicurezza dell’ONU con una nuova scalata militare che produrrà ancora più caos e barbarie in questa regione.
L’unica politica possibile per gli Stati Uniti è quella dei cannoni
Come abbiamo regolarmente sviluppato nella nostra stampa, il caos ed i conflitti militari che si sviluppano a livello planetario da vari anni e che non risparmiano nessun continente, sono il diretto prodotto del nuovo periodo apertosi nel 1989 con il crollo del blocco dell’Est seguito dalla disgregazione di quello occidentale. Lungi dall’essersi aperto “un nuovo ordine di pace”, come pretendeva all’epoca Bush padre, stiamo andando verso un mondo di disordine omicida, di caos feroce nel quale il gendarme americano tenterà di far regnare un minimo di ordine attraverso l’impiego sempre più massiccio e brutale della sua potenza militare (1).
Dalla guerra del Golfo nel 1991 alla Jugoslavia, dal Rwanda alla Cecenia, dalla Somalia al Timor orientale, dall’attentato alle Twin Towers agli attentati di Madrid, per non citare che alcune delle convulsioni violente della fase di decomposizione del capitalismo (2), tutte le volte i responsabili di questi massacri sono gli scontri imperialisti tra Stati, grandi o piccoli che siano. Per gli Stati Uniti, i cui interessi nazionali si identificano con il mantenimento di un ordine mondiale costruito a sua vantaggio, questo aggravamento del caos nei conflitti imperialisti rende sempre più difficile mantenere la loro posizione di leadership mondiale. Non esistendo più la minaccia russa, i loro vecchi alleati, in particolare gli Europei, Francia e Germania in testa, vogliono difendere i propri interessi di nazioni capitaliste. Il peggioramento della crisi economica acuisce gli appetiti imperialisti di tutti gli Stati e non lascia altra via alla potenza americana che lanciarsi in nuove conquiste, la destabilizzazione dei suoi rivali e soprattutto l’utilizzo a ripetizione della sua forza militare, il che ha per risultato quello di aggravare il caos e la barbarie nelle regioni dove hanno luogo queste spedizioni militari. In questo contesto, la strategia messa avanti dall’amministrazione Bush figlio dopo l’11 settembre 2001, di “guerra al terrorismo”, è un tentativo di risposta all’indebolimento della propria leadership. Di fronte alla crescente contestazione delle altre potenze imperialiste, gli Stati Uniti usano il pretesto degli attentati e la necessità di lottare contro la nebulosa di Al Qaida e Bin Laden per sferrare un’offensiva militare senza precedenti a livello mondiale. Questa campagna militare di lunga durata designa un certo numero di paesi come appartenenti all’asse del male che bisogna sradicare militarmente. E’ il caso dell’Afghanistan, poi dell’Iraq, della Corea del Nord, dell’Iran. Nei fatti, ogni volta gli Stati Uniti hanno degli obiettivi strategici più globali e più vasti che includono la necessità di una presenza decisiva in Asia Centrale allo scopo di assicurarsi il controllo di questa regione, ma anche sul Medio Oriente ed il sub continente indiano. Il fine strategico a lungo termine è l’accerchiamento dell’Europa e della Russia. L’America ha in particolare la preoccupazione di pervenire ad un controllo incontestabile delle principali fonti di approvvigionamento delle risorse energetiche, allo scopo di privarne i rivali imperialisti (le potenze europee, la Russia, il Giappone, la Cina) in previsione di future crisi imperialiste che possano portare ad uno scontro diretto. Gli Stati Uniti hanno tentato di mettere in opera questa politica dal 2001 ad oggi, ma bisogna constatare che hanno molte difficoltà a tenere testa rispetto alla determinazione dei rivali che, benché meno potenti, sono ben decisi a difendere, a tutti i costi, i loro interessi imperialisti. Da ciò ne è già risultato, e non potrà che aggravarsi in avvenire, il più grande caos della storia.
Donald, 24/2/05
1. Vedi l’articolo “Militarismo e decomposizione” nella Rivista Internazionale n° 15.
2. Vedi le nostre tesi su “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo”, nella Rivista Internazionale n° 14.