Tempeste finanziarie, inflazione, sovrapproduzione: è l’insieme del sistema capitalista ad essere in crisi

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La danza della morte del capitalismo

Lungi dalle parole rassicuranti di Prodi sul risanamento dei conti dell’azienda Italia e dalle spacconate di tutta la fase di propaganda elettorale di un Berlusconi, la gente sa che l’inflazione reale su generi essenziali come alimenti, gas ed elettricità sono ben al di sopra delle cifre ufficiali, così come la disoccupazione reale potrebbe essere tre o quattro volte quello che le statistiche governative proclamano. Se si prende l’esempio dell’aumento del prezzo del petrolio si vede che non ha una ricaduta soltanto sui singoli automobilisti ma ha un impatto sul costo di ogni prodotto che venga trasportato da veicoli che camminano su strada. La ragione per cui la gente è preoccupata è a causa del fatto che i prezzi vanno alle stelle, i servizi vengono tagliati e i lavori diventano più insicuri.

Ma i problemi che noi soffriamo in Italia non sono solo locali. L’economia nazionale è intimamente interconnessa con quella mondiale e, sebbene il nostro paese possa avere delle debolezze strutturali che tendono a penalizzarlo su certi piani, il problema è più profondo ed è dovuto ad una vera crisi dell’economia mondiale. La recessione negli Stati Uniti in particolare ha un impatto attraverso il mondo intero. In Giappone per esempio ogni recupero della sua economia dipende dalla sua capacità di esportare in America, la qual cosa non si verifica quando il valore del dollaro sta sprofondando e con una popolazione già massicciamente in debito e alla ricerca di spiccioli da raschiare in giro per pagare le sue ipoteche.

Quelle a cui assistiamo oggi sono dunque le convulsioni di un sistema in uno stato cronico di crisi, dove il capitalismo può guadagnarsi soltanto momenti momentanei di “salute” adottando misure suicide come il volo in ulteriori debiti che possono solo peggiorare la prospettiva della successiva caduta catastrofica.

La recessione americana: non c’è da chiedersi se c’è, ma solo quanto è profonda

La grande domanda che gira tra i media americani è se l’economia sia in recessione. Il National Bureau of Economic Research (ufficio nazionale di ricerca economica) (NBER) è un rispettato gruppo di parecchi economisti che fornisce risposte a tali domande, ma solo dopo che si è avuto un prolungato periodo di declino nell’attività come prova che possa essere esaminata. Altri economisti sono preparati per annunciare una recessione, ma spesso solo per minimizzare la sua importanza.

I dati recentemente annunciati dagli USA sulla disoccupazione sembrano mettere fuori ogni dubbio la presenza di una recessione. Questi mostrano le perdite di posti di lavoro per tre mesi consecutivi, con la caduta di 80.000 posti che è la più grande dal marzo del 2003. 2,6 milioni di posti di lavoro si sono persi nel settore manifatturiero negli ultimi due anni. Il New York Times del 4 aprile scorso dichiarava: “L’economia sta soffrendo gli effetti del collasso del settore degli alloggi, dello sgretolamento del credito e di un sistema finanziario in tumulto. Ciò induce la gente e gli investitori a esporsi di meno, a comprimere le spese, gli investimenti di capitali e le assunzioni. Queste cose a loro volta indeboliscono ulteriormente l'economia attraverso quello che è diventato un circolo vizioso.

L’ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan ha una veduta a più lungo termine: “L’attuale crisi finanziaria negli Stati Uniti deve essere giudicata come la più lacerante dalla fine della seconda guerra mondiale”. In realtà la classe dominante sta guardando indietro al crollo del 1929 e alla grande Depressione degli anni ‘30 per trarre gli insegnamenti per oggi.

Per esempio, quando il ministro del Tesoro degli Stati Uniti Henry Paulson ha rivelato una revisione della regolazione del settore finanziario - la più grande dagli anni ‘30 – questa è stata accolta favorevolmente come una risposta allo “scricchiolio del credito” e al tumulto dei mercati. Paulson ha detto che non era una risposta alla situazione immediata ma una rettifica necessaria da lungo tempo. Le misure attuali danno ampi poteri alla Federal Reserve ed includono l’istituzione di una nuova struttura che dovrà assumere il ruolo dei cinque regolatori di operazioni bancarie esistenti. Come per altri aspetti del piano, l’effetto è di un ulteriore rafforzamento del ruolo di intervento dello Stato nell’economia. Lo Stato è l’unica forza nella società capitalista che può impedire che l’economia esca fuori da ogni controllo.

Con la Bear Stearns, per esempio, non è stata la prima volta che la Fed ha forzato una banca ad un matrimonio forzato con una istituzione finanziaria in fallimento. Un paio di mesi fa la Bank of America Corp. ha acconsentito di comprare la Countrywide Financial Corp, il più grande prestatore di fondi contro ipoteca degli Stati Uniti in seguito agli incoraggiamenti dalla Fed. Il problema di questa politica è che molte banche hanno già problemi di credito per proprio conto mentre altre sono già impegnate in operazioni di assorbimento di aziende.

La crisi attuale non sarà limitata al settore finanziario, ma si estenderà al resto dell’economia, con effetti sul commercio, i posti di lavoro e gli stipendi, e non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero. In America, come in Italia e ovunque nel mondo, i livelli reali di disoccupazione e di inflazione non sono rivelati nelle statistiche ufficiali. Tuttavia, ci sono alcune drammatiche cifre che ci mostrano come la classe operaia negli Stati Uniti stia già soffrendo per la crisi dell’economia capitalista, al di là dei numeri di perdite di case, di tagli dei posti di lavoro e di aumenti dei prezzi. Come viene descritto dal New York Times del 31 marzo scorso: “Spinto da una miscela dolorosa di licenziamenti e di aumenti dei prezzi di alimenti e combustibili, il numero di Americani che ricevono i buoni pasto è proiettato verso i 28 milioni durante quest’anno, il livello più alto da quando il programma di aiuti decollò negli anni ‘60.” Questa proiezione proviene da una fonte ufficiale, il Congressional Budget Office.

Il collegamento fra la crisi e la lotta di classe

La crisi economica ha subito, a livello internazionale, una accelerazione importante. Dopo anni di bugie su uno sviluppo senza precedente la classe dominante adesso deve ammettere l’esistenza della crisi. Le sole opzioni aperte al capitalismo si trovano nell’intervento dello Stato e nel ricorso al debito. Non possiamo predire ogni particolare di che cosa si profila davanti a noi, ma possiamo vedere quello che viene minacciato. Vi è un’accumulazione enorme di pressioni inflazionistiche, che è qualcosa che non abbiamo visto negli anni ‘30. Vi è la minaccia del crollo di settori interi di alcune economie. Ed anche se le borghesie di diversi Stati sono capaci di cooperare ad alcuni livelli, ogni paese rimane tuttavia in competizione con ogni altro e non va a salvare le imprese in fallimento dei suoi rivali.

La natura sempre più simultanea della crisi a livello internazionale significa che diventa sempre meno credibile quello che alcuni propagandisti possono indicare come possibili motori capaci di trascinare il resto dell’economia al di fuori del pantano: i limiti di quello che possiamo attenderci dall’India e dalla Cina si stanno velocemente palesando.

Noi siamo testimoni di lotte della classe operaia che sono una risposta ad attacchi simili in diversi paesi: al posto di lavoro, ai servizi, ai salari, ai prezzi e alle pensioni. Nella misura in cui la crisi mostra sempre più chiaramente il legame tra le varie economie, c’è la possibilità che gli operai possano vedere i loro interessi internazionali comuni e capire che l’economia capitalista non può garantire i bisogni basilari della vita dell’umanità. La classe operaia è spinta è spinta in una lotta per la sopravvivenza contro gli effetti della crisi del capitalismo.

In questo periodo esistono lotte di lavoratori in tutte le parti del mondo, in Germania, in Grecia, in sud America, in Asia, lotte riportate sui mass-media ma molto più spesso ignorate da questi, lotte di resistenza contro gli attacchi ai salari, alle pensioni, alle condizioni di vita … La classe operaia si dovrà rendere sempre più conto che questo sistema non ha più nulla da offrire e, al tempo stesso, che per farla finita con questo occorre una risposta di classe unita e internazionale.

Car, 4/4/8

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