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Pubblichiamo una lettera ricevuta dal gruppo russo UCI (Unione Comunista Internazionalista) (1). Questa lettera è essa stessa una risposta ad una lettera che avevamo mandato precedentemente a questo gruppo; essa contiene infatti numerose citazioni della nostra lettera che appaiono in corsivo.
Cari compagni,
ci scusiamo di non avere potuto rispondere prima. Siamo un piccolo gruppo ed abbiamo moltissimo lavoro, in particolare molta corrispondenza, ed inoltre gli stranieri non ci scrivono in russo.
“Riguardo alla piattaforma, sembra che vi siano molti punti di accordo su delle posizioni chiavi: la prospettiva socialismo o barbarie, la natura capitalista dei regimi stalinisti, il riconoscimento del carattere proletario della Rivoluzione russa del 1917”.
Non è tutto così semplice. In Russia, nel 1917, erano in atto due crisi intrecciate tra di loro: una crisi interna, che poteva condurre ad una rivoluzione democratico-borghese, ed una crisi a livello internazionale che aveva messo all’ordine del giorno un tentativo di rivoluzione socialista mondiale. Secondo Lenin, il compito del proletariato russo era di prendere l’iniziativa in queste due rivoluzioni: prendere la testa della rivoluzione borghese in Russia e, simultaneamente, appoggiandosi su questa rivoluzione, estendere la rivoluzione socialista all’Europa e agli altri paesi. E’ per tale motivo che consideriamo non corretto porre la questione della natura della rivoluzione russa senza specificare di quale delle due si parla: se di quella interna o di quella internazionale. Ma è certo che in Russia, il proletariato era alla testa di entrambe.
“Ciò di cui siamo meno sicuri è se siete d’accordo con la CCI sul quadro storico che dà sostanza e coerenza a molte di queste posizioni: il concetto di decadenza e di declino del capitalismo come sistema sociale dal 1914”.
E’ certo che su questo punto non siamo d’accordo. La transizione di un sistema economico verso un altro di più alto livello è il risultato di uno sviluppo del primo e non della sua distruzione. Se il vecchio sistema ha esaurito le sue risorse, si trascina in una crisi costante dovuta alle forze sociali che aspirano ad un nuovo sistema. E non è stato così. Inoltre, da decenni, il capitalismo è in una situazione relativamente stabile, di sviluppo, cosa che non ha determinato lo sviluppo di forze rivoluzionarie, ma al contrario il loro collasso. Il capitalismo si sviluppa ad un punto tale che non si contenta più di creare qualitativamente nuove forze produttive, ma anche nuove forme di capitalismo. Lo studio di questo sviluppo e di queste nuove forme permette di determinare quando sopraggiungerà una nuova crisi, come quella del 1914-1945, e sotto quale forma si effettuerà la transizione verso il socialismo. La teoria della decadenza nega lo sviluppo del capitalismo e rende dunque impossibile il suo studio, lasciandoci come dei sognatori obnubilati dall’avvenire radioso dell’umanità.
Quanto alle distruzioni, alla guerra e alla violenza, queste non sono solo parti integranti del capitalismo, ma una necessità della sua esistenza, sia all’epoca di Marx che nel ventesimo secolo.
“Per dare un’illustrazione precisa del problema che vogliamo porre: nella vostra dichiarazione, prendete posizione contro i “fronti comuni” con la borghesia, sulla base del fatto che tutte le frazioni della borghesia sono reazionarie. Cosa su cui siamo d'accordo. Ma questa posizione non è stata sempre valida per i marxisti. Se oggi il capitalismo è un sistema decadente, vale a dire che i rapporti sociali sono diventati un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive e dunque al progresso dell’umanità, esso ha conosciuto, come gli altri sistemi di sfruttamento di classi, una fase ascendente, in cui rappresentava un progresso rispetto al modo di produzione precedente. E’ per questo che Marx sosteneva certe frazioni della borghesia, come i capitalisti del Nord contro gli schiavisti del Sud durante la Guerra di Secessione o il movimento del Risorgimento in Italia, per l’unità nazionale contro le vecchie classi feudali, ecc. Questo sostegno era basato sulla comprensione che il capitalismo non aveva compiuto ancora la sua missione storica e che le condizioni per la rivoluzione comunista mondiale non erano ancora sufficientemente mature”.
Storicamente parlando, rispetto alla lotta tra proletariato e borghesia, il partito proletario ha considerato tutte le frazioni della borghesia come reazionarie. Ma non è solo quando il capitalismo aveva ancora possibilità di sviluppo che era possibile parlare del carattere progressivo di questa o quella frazione della borghesia. Occorreva ancora che essa fosse capace di compiere il suo compito storico. E’ per tale motivo, per esempio, che la borghesia russa, incapace di condurre la rivoluzione borghese, può essere considerata come reazionaria nel 1917, sebbene le trasformazioni democratico-borghesi della rivoluzione russa fossero senz’altro progressiste. Oggi confermiamo che nessuna frazione della borghesia è capace di effettuare la necessaria modernizzazione borghese senza una guerra mondiale che coinvolgerebbe l’umanità intera. Per questa ragione, sostenere una tale frazione non ha nessuno senso. Ma ciò non significa che la borghesia non ha più nessun compito da compiere. La soppressione delle frontiere e la creazione di un mercato mondiale sono dei compiti borghesi, ma non possiamo fare affidamento sulla borghesia perché li realizzi. Toccherà al proletariato realizzarli, utilizzando la crisi futura e servendosene per costruire il socialismo. Per essere chiari, una questione è sapere se il capitalismo può ancora compiere dei compiti storici e un’altra è capire se le frazioni della borghesia sono reazionarie. E’ per questo che il proletariato dovrebbe sempre prendere l’iniziativa rivoluzionaria. E se si tratta di compiti borghesi, esso può, attraverso un’estensione del movimento (rivoluzionario), trasformarli in compiti socialisti. Noi consideriamo questo un approccio marxista.
“Secondo voi, le lotte nazionali sono state una fonte considerevole di progresso, e la richiesta di autodeterminazione è sempre valida, almeno per gli operai dei paesi capitalisti più potenti, rispetto ai paesi oppressi dal proprio imperialismo. Sembra allora che per voi le lotte nazionali abbiano perduto il loro carattere progressista dall’avvenuta “globalizzazione”. Queste affermazioni richiedono un certo numero di commenti da parte nostra.
La nozione di decadenza, che è la nostra posizione, non è stata inventata da noi. Basata sui fondamenti del metodo materialista storico (in particolare quando Marx parla “delle epoche di rivoluzione sociale” nella sua “Prefazione alla Critica dell’economia politica”), essa si è concretizzata, per la maggioranza dei rivoluzionari marxisti, attraverso lo scoppio della I guerra mondiale che ha mostrato che il capitalismo era già “globalizzato”, al punto che non poteva più superare le sue contraddizioni interne se non con la guerra imperialista e l’auto-cannibalismo. Questa fu la posizione dell'Internazionale Comunista al suo congresso di fondazione, sebbene questa non sia stata capace di trarne tutte le conseguenze, per ciò che riguardava la questione nazionale: le tesi del secondo congresso conferivano sempre un ruolo rivoluzionario a certe borghesie di paesi sottomessi ad un regime coloniale. Ma le frazioni di sinistra dell’IC, più tardi, sono state capaci di trarre le conclusioni da questa analisi, in particolare dopo i risultati disastrosi della politica dell’IC durante l’ondata rivoluzionaria 1917-1927. Per la Sinistra Italiana negli anni ‘30, per esempio, l’esperienza della Cina del 1927 è stata decisiva. Essa ha mostrato che tutte le frazioni della borghesia, anche quando si proclamavano antimperialiste, sono state condotte a massacrare il proletariato quando questo combatteva per i suoi interessi, come all’epoca del sollevamento di Shanghai nel 1927. Per la Sinistra Italiana, questa esperienza ha provato che le tesi del secondo congresso dovevano essere rigettate. Di più, questa fu una conferma del giusto punto di vista di Rosa Luxemburg sulla questione nazionale rispetto a quello di Lenin: per la Luxemburg era diventato chiaro, durante la I guerra mondiale, che tutti gli Stati facessero ormai inevitabilmente parte del sistema imperialista mondiale”.
È tutto un insieme di questioni differenti che qui sono mescolate. Innanzitutto, la politica del Komintern di Stalin e di Bukharin durante la rivoluzione cinese del 1925-27 è completamente differente da quella di Lenin e dei Bolscevichi, che è stata determinante durante i primi anni del Kominterm. Per voi, se ci sono compiti borghesi da compiere, si è portati a sostenere questa o quella frazione. E’ così che parlavano Stalin ed i Menscevichi. Il metodo di Marx e di Lenin non consiste nel rifiutare questi compiti del momento, quando tutte le frazioni della borghesia sono reazionarie, ma di compierli per mezzo della rivoluzione proletaria, cercando di realizzare al massimo questi compiti borghesi e di continuare con i compiti socialisti.
La rivoluzione cinese ha provato che questo era l’approccio corretto, e non quello della Sinistra comunista.
La rivoluzione borghese ha trionfato in Cina, facendo innumerevoli vittime. Questa rivoluzione ha permesso di creare il proletariato più numeroso al mondo e di sviluppare velocemente delle potenti forze produttive. Questo stesso risultato è stato raggiunto dalle decine di altre rivoluzioni nei paesi d’Oriente. Non ha alcun senso negare il loro ruolo storicamente progressivo: in questo modo la nostra rivoluzione ha potuto disporre di basi solide in numerosi paesi del mondo che, nel 1914, erano ancora essenzialmente agricoli.
Che cosa é cambiato dall’epoca di questo inizio di “globalizzazione”? Le rivoluzioni nazionali non sono più all’ordine del giorno. Secondo voi, è da molto tempo che il capitalismo ha un carattere globale. Sì, possiamo dire che ha un tale carattere dalle sue origini, dall’epoca delle grandi scoperte. Ma il livello di questa “globalizzazione” era qualitativamente differente. Fino all’incirca gli anni ‘80, le rivoluzioni nazionali potevano assicurare una crescita delle forze produttive, ed è per questo che bisognava sostenerle e provare, per quanto possibile, di trasferire la loro direzione nelle mani del proletariato rivoluzionario. Ciò perché esisteva una possibilità obiettiva di sviluppo sotto l’impulso dello Stato nazionale. Adesso, questo stadio di sviluppo nazionale è superato... E questo è valido per tutti gli Stati, anche per i più avanzati. E’ per tale motivo che le riforme intraprese da Reagan o la Thatcher, che negli anni ‘50-60 avrebbero potuto condurre a terribili crisi, hanno dato, relativamente e temporaneamente, dei risultati positivi. Perché queste riforme hanno condotto l’economia del loro paese verso più di “globalizzazione” (nel senso moderno del termine).
Adesso, la lotta nazionale ha perso il suo carattere progressivo perché ha esaurito il suo compito storico: lo Stato nazionale, anche se la rivoluzione trionfa sotto la direzione del proletariato, non offre più un quadro ad uno sviluppo futuro. Ciò non significa tuttavia che sono spariti i compiti borghesi dappertutto. Vi sono ancora dei paesi con regimi feudali, vi sono ancora nazioni oppresse. Ma non è una rivoluzione nazionale che può mettervi fine. Per il proletariato dei paesi arretrati, il capitolo delle rivoluzioni nazionali è chiuso, esse non possono dare risultati se non conducono, direttamente o indirettamente, alla rivoluzione internazionale proletaria. È per questa ragione che diciamo che con l’inizio della globalizzazione, le rivoluzioni nazionali hanno perduto ogni significato progressivo.
Allo stesso modo, il sostegno ad un movimento di liberazione nazionale non ha senso, sia ieri che oggi, se non si strappa la lotta contro l’oppressione nazionale dalle mani della borghesia e trasferendola al proletariato. Vale a dire trasformando un movimento di indipendenza nazionale in un momento della rivoluzione socialista mondiale. Questo non può farsi se non si riconosce il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, non riconoscendo dunque la necessità di condurre al loro termine i compiti storici dalla borghesia. Se no, noi lasceremo il proletariato sotto il dominio della sua borghesia nazionale.
L’approccio leninista di questo problema ha determinato un vasto interesse per il marxismo tra un gran numero di abitanti dei paesi arretrati, per il modo corretto con cui la questione nazionale è stata posta. E non è per errore dei Bolscevichi se la burocrazia stalinista si è impossessata della direzione del Komintern. Solo la rivoluzione nei paesi occidentali avrebbe potuto impedire ciò, ma essa non ha avuto luogo perché il capitalismo non aveva esaurito le sue possibilità storiche. Le due guerre mondiali gli hanno permesso di soffocare le sue contraddizioni.
Adesso che le sue contraddizioni sono cresciute, per comprendere bene come esse conducano a nuove crisi, è necessario studiare lo sviluppo del capitalismo piuttosto che contentarsi di ripetere che esso è in declino ed in decomposizione. In Russia, questa tesi scatena brutti sarcasmi, dopo decenni durante i quali la burocrazia stalinista ci ha riempito le orecchie col capitalismo “che marcisce”.
“Sostenere una nazione contro un’altra ha sempre significato sostenere un blocco imperialista contro un altro, e tutte le guerre di liberazione nazionale del XX secolo l’hanno provato. Ciò che la Sinistra italiana ha chiaramente espresso, è che questo si applicava anche alle borghesie coloniali, alle frazioni capitaliste che cercavano di creare un nuovo stato “indipendente”: queste non potevano sperare di raggiungere il loro scopo se non subordinandosi ad una delle potenze imperialiste che si erano già divise il pianeta. Come dite nella vostra piattaforma, il XX secolo è stato solamente un susseguirsi incessante di guerre imperialiste per il dominio del pianeta: per noi, ciò costituisce al tempo stesso la conferma più sicura che il capitalismo è un sistema mondiale senile e reazionario, ed anche che tutte le forme di lotte “nazionali” sono integrate interamente nel gioco imperialista globale”.
Qui ancora: l) “le guerre continue” hanno accompagnato il capitalismo in tutti gli stadi del suo sviluppo e non sono una prova del suo progresso o del suo declino; 2) la crescita delle forze produttive e del numero di proletari nei paesi del Terzo Mondo ha mostrato senza equivoci il carattere progressista delle rivoluzioni nazionali borghesi fin verso la metà degli anni ‘70; 3) lo scopo del sostegno a questi movimenti non era di “sostenere una nazione contro un’altra” ma di attirare verso il partito della rivoluzione gli operai ed in primo luogo, di favorire lo sviluppo del proletariato in questi paesi.
Rosa Luxemburg ha fatto una critica senza concessioni della parola d’ordine sull’“autodeterminazione nazionale” anche prima della I guerra mondiale, avanzando come argomento che essa era un’illusione della democrazia borghese: in ogni Stato capitalista, non è né il “popolo” che “si autodetermina”, né la “nazione”, ma solamente la classe capitalista. Per Marx ed Engels non era un segreto il fatto che, quando chiamavano all’indipendenza nazionale, era per sostenere solamente lo sviluppo del modo di produzione capitalista in un periodo in cui il capitalismo aveva ancora un ruolo progressista da giocare.
Come Marx, noi non nascondiamo il fatto che le rivoluzioni nazionali hanno un carattere progressista solo dal punto di vista dello sviluppo del capitalismo.
Congratulazioni fraterne
ICU
La nostra risposta
In una serie di articoli che abbiamo scritto alla fine degli anni ‘80 ed inizio ‘90 per difendere l’idea che il capitalismo è un sistema sociale in declino, notavamo che “più il capitalismo affonda nella decadenza, più mostra la sua decomposizione avanzata, più la borghesia ha bisogno di negare la realtà e di promettere al mondo un futuro brillante sotto il sole del capitale. E’ l’essenza delle campagne attuali in risposta al crollo ben visibile dello stalinismo: la sola speranza, il solo futuro, è il capitalismo”. (“Il dominio reale del capitale e le confusioni reali del campo politico proletario”, Rivista Internazionale - edizione in lingua inglese, francese o spagnola - n° 60, inverno 90).
Non c’é niente di sorprendente che la borghesia neghi il fallimento inevitabile del suo sistema sociale; più vicina è la sua morte, più essa si allontana evidentemente dalla verità e si ripiega su dei fantasmi. Dopo tutto, è una classe sfruttatrice e nessuna altra classe sfruttatrice nella storia è stata capace di confrontarsi con il fatto di essere tale, ancor meno quando i suoi giorni sono storicamente contati. Se qualcuno dei suoi rappresentanti finisse per ammettere la sua prossima fine, non riuscirebbe a concepire un mondo successivo al dominio del capitale senza cadere nelle visioni di un passato mitico o di un futuro messianico.
Certamente, ci si aspetta qualcosa di più da coloro che dicono di parlare in nome del proletariato sfruttato e di aspettare una rivoluzione comunista. Tuttavia, non dobbiamo mai sottovalutare il potere ideologico del sistema dominante, la sua capacità di deviare e sabotare ogni sforzo teso verso una comprensione chiara e lucida della situazione reale e delle prospettive per il sistema mondiale attuale. Ci sono veramente troppi esempi di quelli che hanno perso di vista le premesse teoriche fondamentali del movimento comunista come Marx ed Engels le hanno per la prima volte messe in un quadro in termini scientifici, di quelli che hanno perso fiducia nell’affermazione che il capitalismo, come gli altri sistemi che l’hanno preceduto, è solamente una fase transitoria nell’evoluzione storica dell’umanità, destinata a sparire a causa delle sue proprie contraddizioni intrinseche. È un fenomeno che abbiamo osservato negli anni ‘80 e - come l’abbiamo sottolineato nella prima parte di questo articolo nella Revue Internationale n° 111 - vediamo ancora più esplicitamente oggi. Più il capitalismo marcisce, più passa dal semplice declino ad una disintegrazione completa, più vediamo delle voci che, all’interno o ai margini del movimento rivoluzionario, vanno in tutti i sensi, cercando disperatamente qualche “nuova” scoperta che nasconderebbe l’orribile verità. Il capitalismo in decomposizione? No, no, si ristruttura! Il capitalismo in un vicolo cieco? Ma allora Internet, la globalizzazione, i dragoni dell’Asia...?
Questa è l’atmosfera generale di confusione nella quale nascono le nuove correnti proletarie in Russia e nell’ex-URSS. Come abbiamo sottolineato nell’articolo precedente, malgrado le loro differenze, tutte queste correnti sembrano avere una difficoltà ad accettare la conclusione sulla quale era stata fondata l’Internazionale Comunista e che costituiva il solco di lavoro della sinistra comunista, la conclusione secondo la quale il capitalismo mondiale è entrato in declino storico o in decadenza dalla prima guerra mondiale.
Come abbiamo detto nell’ultimo articolo, in questa discussione andiamo a considerare gli argomenti dei compagni dell’Unione Comunista Internazionale. Ecco come essi presentano i loro argomenti contro la nozione di decadenza:
“La transizione verso una forma economica superiore è il risultato dello sviluppo della forma anteriore, non della sua distruzione. Se la vecchia formazione fosse esaurita, verrebbero fuori costantemente crisi sociali e forze sociali che aspirerebbero a mettere in atto la nuova forma. Ciò non si verifica. Inoltre, per parecchi decenni, il capitalismo ha conosciuto una stabilità relativa del suo sviluppo durante la quale le forze rivoluzionarie non solo non sono cresciute, ma al contrario, si sono sbriciolate. (...) E (il capitalismo) si sviluppa realmente, non solo creando qualitativamente delle nuove forze produttrici, ma anche delle nuove forme di capitalismo. Lo studio di questo sviluppo può dare la risposta su quando verrà una nuova crisi, come la crisi di 1914-45, e attraverso di essa, quale potrebbero essere le forme di transizione al socialismo. La teoria della decadenza nega lo sviluppo del capitalismo e rende impossibile il suo studio, lasciandoci come semplici sognatori con una fede nel brillante futuro dell’umanità” (Lettera alla CCI, 20/2/02).
I compagni sicuramente si rifanno agli argomenti di Marx nella sua famosa Prefazione alla critica dell’economia politica nella quale tratta delle condizioni materiali della transizione di un modo di produzione ad un altro, dicendo che “una formazione sociale non scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di creare, così come non si arriva mai a nuovi e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro condizioni materiali di esistenza si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società”.
Naturalmente siamo qui d’accordo con gli argomenti di Marx, ma non pensiamo che egli volesse dire che una nuova società non potesse sorgere dalla vecchia finché le ultime innovazioni tecniche o economiche non sarebbero state sviluppate. Una tale visione potrebbe sembrare compatibile con i modi di produzione precedenti in cui le scoperte tecniche avvenivano con un ritmo molto lento; ciò sarebbe difficilmente possibile nel capitalismo che non può vivere senza sviluppare costantemente, se non quotidianamente, la sua infrastruttura tecnologica. Il problema che qui si pone è che l'UCI sembra riferirsi a questo passaggio senza avere assimilato la parte precedente del testo nella quale Marx sottolinea le pre-condizioni dell’apertura di un periodo di rivoluzione sociale, che è la chiave della nostra comprensione della decadenza del capitalismo, della sua epoca di guerra e di rivoluzione, come è stato formulato dall’I.C. Ci riferiamo al passaggio in cui Marx dice che “ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze. Si arriva quindi ad un’epoca di rivoluzione sociale”.
Le forme di sviluppo diventano degli ostacoli; nella visione dinamica che è propria del marxismo, ciò non significa che la società arriva ad un arresto completo ma che il proseguimento del suo sviluppo diventa sempre più irrazionale e catastrofico per l’umanità. Abbiamo del resto rigettato in numerose occasioni la visione secondo cui la decadenza rappresenterebbe un arresto totale dello sviluppo delle forze produttive. La prima volta è stata nel nostro opuscolo La decadenza del capitalismo, scritto all’inizio degli anni ’70, di cui un intero capitolo è dedicato precisamente a questa questione. Confutando l’affermazione di Trotski degli anni ‘30 secondo la quale “le forze produttive avevano smesso di crescere”, affermavamo che: “Nella visione marxiana il periodo di decadenza di una società non può essere dunque caratterizzato dall’arresto totale e permanente della crescita delle forze produttive, ma dal RALLENTAMENTO DEFINITIVO DI QUESTA CRESCITA.
Gli arresti assoluti della crescita delle forze produttive appaiono nel corso delle fasi di decadenza. Ma, - nel sistema capitalista, la vita economica non può esistere senza accumulazione crescente e permanente del capitale – essi non sorgono che momentaneamente. Essi sono le convulsioni violente che regolarmente segnano lo svolgersi della decadenza. ...
... Ciò che caratterizza la decadenza di una forma sociale data dal punto di vista economico è dunque:
Ø Un rallentamento effettivo della crescita delle forze produttive tenuto conto del ritmo che sarebbe stato tecnicamente ed oggettivamente possibile nell’assenza del freno esercitato dalla permanenza degli antichi rapporti di produzione. Questo freno deve avere un carattere inevitabile, irreversibile. Deve essere provocato specificamente dal perpetuarsi dei rapporti di produzione che sostengono la società. Lo scarto di velocità che ne consegue al livello dello sviluppo delle forze produttive può solo aumentare e dunque manifestarsi sempre più alle classi sociali.
Ø L'apparizione di crisi sempre più importanti per profondità ed estensione. Queste crisi, questi blocchi momentanei forniscono d’altronde le condizioni soggettive necessarie al compiersi di un tentativo di rivolgimento sociale. E’ nel corso di queste crisi, che il potere della classe dominante subisce i più profondi indebolimenti e che, attraverso l’intensificazione oggettiva della necessità del proprio intervento, la classe rivoluzionaria trova i primi fondamenti della sua unità e della sua forza”.
Altrove, (“Lo studio del capitale e dei fondamenti del comunismo”, Revue Internationale n°75) abbiamo sottolineato che la nostra concezione non era differente da quella di Marx nei Grundrisse, quando scrive: “Da un punto di vista ideale, la dissoluzione di una forma di coscienza data basterebbe ad uccidere un’epoca intera. Da un punto di vista reale, questo limite della coscienza corrisponde ad un grado determinato di sviluppo delle forze produttive materiali e dunque della ricchezza. A dire il vero, lo sviluppo non si è prodotto sulla vecchia base ma è questa base stessa che si è sviluppata. Lo sviluppo di questa stessa base (la fioritura in cui essa si trasforma; ma è sempre questa base, questa stessa pianta in quanto fiorisce; è per questo che appassisce dopo la fioritura ed in seguito alla fioritura) è il punto in cui essa stessa è stata elaborata fino a prendere la forma nella quale è compatibile con lo sviluppo massimo delle forze produttive e dunque anche con lo sviluppo più ricco degli individui. Appena questo punto è raggiunto, il seguito dello sviluppo appare come un declino ed il nuovo sviluppo comincia su una nuova base”.
Più di qualunque altro sistema sociale precedente, il capitalismo è sinonimo di “crescita economica”, ma contrariamente a ciò che raccontano i ciarlatani della borghesia, crescita e progresso non sono la stessa cosa: la crescita del capitalismo nel suo periodo di decadenza è più simile a quella di un tumore maligno che a quella di un corpo sano che passa progressivamente dall’infanzia all'età adulta.
Le condizioni materiali di uno sviluppo “sano” del capitalismo sono sparite all’inizio del ventesimo secolo quando il capitalismo ha effettivamente stabilito un’economia mondiale e posto così le fondamenta della transizione al comunismo. Ciò non significa che il capitalismo si sia sbarazzato di tutti i resti dei modi di produzione e delle classi precapitaliste e che abbia esaurito l’ultimo mercato precapitalista, né che abbia effettuato la transizione finale dal dominio formale al dominio reale della forza lavoro in ogni angolo del pianeta. Il vero significato di ciò è che, a partire da questo momento, il capitalismo globale poteva invadere sempre meno ciò che Marx chiamava “i domini periferici” di espansione, ed era obbligato a crescere mediante un auto-cannibalismo crescente e barando con le sue proprie leggi. Abbiamo già dedicato uno spazio considerevole a queste forme di “sviluppo in fase di decadenza” e le riassumeremo semplicemente qui di seguito:
Ø L’organizzazione di “trust capitalisti di Stato” giganteschi a livello nazionale, ed anche a livello internazionale attraverso la formazione di blocchi imperialistici, aventi per funzione quella di regolare e di controllare il mercato, e dunque di impedire che le operazioni “normali” della concorrenza capitalista non raggiungano il loro livello reale e non esplodano nelle gigantesche crisi aperte di sovrapproduzione come quella del ‘29;
Ø Il ricorso (in grande parte attraverso l’intervento dei grandi capitalismi di Stato) al credito ed alle spese deficitarie, che non agiscono più come uno stimolo per lo sviluppo dei nuovi mercati ma sempre più come una sostituzione del mercato reale; di qui, una crescita economica su una base sempre più speculativa ed artificiale che apre la via a degli “adeguamenti” devastanti come il crollo delle tigri e dei dragoni asiatici, o d’altra parte ciò che accade ora negli USA dopo la crescita “delirante” ma drogata degli anni ‘90;
Ø Il militarismo e la guerra come stile di vita per il sistema - non solamente come nuovo mercato artificiale che diventa un fardello opprimente per l'economia mondiale - ma come solo mezzo per gli Stati di difendere la loro economia nazionale a spese dei loro rivali. I compagni dell’UCI potranno rispondere che il capitalismo è sempre stato un sistema guerriero, ma come abbiamo spiegato anche in un articolo della nostra serie “comprendere la decadenza del capitalismo” (vedere in particolare la parte V nella Revue Internationale n°54), c’è una differenza qualitativa tra le guerre dell’ascendenza del capitalismo - che erano generalmente di corta durata, a scala locale, che coinvolgevano soprattutto degli eserciti di professionisti aprendo naturalmente delle nuove possibilità d’espansione - e le guerre del suo declino, che hanno assunto un carattere quasi permanente, si sono orientate in modo crescente verso il massacro senza discriminazione di milioni di richiamati e di civili, e che hanno gettato la ricchezza prodotta da secoli di lavoro in un abisso senza fondo. Le guerre del capitalismo hanno un tempo fornito la base per stabilire un’economia mondiale e dunque per la transizione al comunismo; ma a partire da là, lungi dal porre le basi del progresso sociale futuro, hanno minacciato sempre di più la stessa sopravvivenza dell’umanità;
Ø Lo spreco gigantesco di forza lavoro umana rappresentato dalla guerra e dalla produzione di guerra illustra anche un altro aspetto del capitalismo nella sua fase di senilità: il peso enorme delle spese e delle attività non produttive, non solamente nella sfera militare, ma anche per la necessità di mantenere in piedi i grande apparati della burocrazia, del marketing ed altro ancora. Nel libro ufficiale dei record del capitalismo, tutte le sfere sono definite come espressioni di “crescita”, ma in realtà, esse manifestano a che livello è giunto il capitalismo in quanto ostacolo allo sviluppo qualitativo delle forze di produzione umana, sviluppo che diventa al tempo stesso necessario e possibile in questa epoca;
Ø Un’altra dimensione di “sviluppo nel senso di un declino” che non poteva essere intravista ai tempi di Marx, è costituita dalla minaccia ecologica che la corsa cieca all’accumulazione fa pesare sul sistema, minando la base stessa della vita del pianeta. Sebbene questo problema sia diventato sempre più evidente in questi ultimi dieci anni, esso resta legato intimamente al problema della decadenza. È il restringimento storico del mercato mondiale che ha sempre più costretto ogni Stato a saccheggiare o ad ipotecare le sue risorse naturali; questo processo si è svolto per tutto il XX secolo, anche se solo oggi raggiunge il suo culmine; all’epoca, una rivoluzione proletaria trionfante nel 1917-23 non avrebbe dovuto fare fronte ad un problema tanto immenso come quello posto oggi dai danni all’ambiente naturale provocati dalla crescita malsana del capitalismo. A questo livello, è immediatamente evidente che è il capitalismo il cancro del pianeta.
Quando si è conclusa l'epoca delle rivoluzioni borghesi?
In accordo con gli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, Lenin considerava che il 1871 segnava la fine del periodo delle rivoluzioni borghesi nei principali centri del capitalismo mondiale. Datava in questa stessa epoca l’inizio della fase di espansione imperialistica a partire da questi centri.
Durante l’ultimo terzo del XIX secolo, il movimento marxista considerava che le rivoluzioni borghesi fossero ancora all’ordine del giorno nelle regioni dominate dalle potenze coloniali. Era una visione perfettamente valida all’epoca; tuttavia, alla fine del secolo, diventava sempre più chiaro che la dinamica stessa dell’espansione imperialistica, che prevedeva uno sviluppo delle colonie solo a livello di mercati passivi e di fonti di materie prime, inibiva l’apparizione di nuovi capitalismi nazionali indipendenti, e dunque di una borghesia rivoluzionaria. Questa questione era l’argomento di dibattiti particolarmente ardui in seno al movimento rivoluzionario in Russia; nei suoi scritti sulle comuni contadine russe, Marx aveva già espresso la speranza che una rivoluzione mondiale trionfante potesse risparmiare alla Russia la necessità di passare attraverso il purgatorio dello sviluppo capitalista. Più tardi, quando divenne evidente che il capitale imperialistico non era intenzionato ad abbandonare la Russia al suo proprio destino, il centro della questione si spostò sul problema delle debolezze riguardanti la nascente borghesia russa. I menscevichi, interpretando il metodo marxista in un modo molto rigido e molto meccanicistico, affermavano che il proletariato doveva prepararsi a sostenere l’inevitabile rivoluzione borghese in Russia; i bolscevichi, d’altra parte, riconoscevano che alla borghesia russa mancavano forti ali per condurre la sua rivoluzione e concludevano che questo compito doveva essere preso in carico dal proletariato e dalla classe contadina (la formula della “dittatura democratica”). Nei fatti, la posizione più legata alla realtà fu quella di Trotsky, perché essa non era posta immediatamente in termini “russi” ma in un quadro globale e storico, e perché aveva come punto di partenza il riconoscimento che il capitalismo come sistema stava entrando nell’epoca della rivoluzione socialista mondiale. La classe operaia al potere non avrebbe potuto limitarsi ai compiti borghesi della rivoluzione ma sarebbe stata obbligata a fare “la rivoluzione permanente”, estendere cioè la rivoluzione sulla scena mondiale dove non avrebbe potuto che prendere un carattere socialista.
Nelle Tesi di aprile del 1917, Lenin raggiunge effettivamente questa posizione, spazzando via le obiezioni dei bolscevichi conservatori (che in effetti avevano flirtato col menscevismo e la borghesia) secondo le quali egli abbandonava la prospettiva della “dittatura democratica”. Nel 1919, l’Internazionale Comunista si è formata sulla base del fatto che il capitalismo era proprio entrato nel suo periodo di declino, nell’epoca della rivoluzione proletaria mondiale. Tuttavia, mentre proclamava che l’emancipazione delle masse colonizzate dipendeva ora dal successo della rivoluzione mondiale, l’IC non era stata capace di spingere questa questione fino alla sua logica conclusione: cioè che l’epoca delle lotte di liberazione nazionale era finita - benché Rosa Luxemburg ed altri l’avessero già formulato. Furono soprattutto i tentativi disastrosi dei bolscevichi di stringere delle alleanze con borghesie sedicenti “antimperialiste” di regioni come la Turchia, il vecchio impero zarista, e soprattutto la Cina, che condussero la sinistra comunista, (la Frazione italiana in particolare), a rimettere in questione le tesi dell’IC sulla questione nazionale, che contenevano la possibilità di alleanze temporanee tra la classe operaia e le borghesia coloniale. Le frazioni di sinistra avevano visto bene che ciascuna di queste “alleanze” si concludeva con un massacro della classe operaia e dei comunisti perpetrata dalla borghesia coloniale che, nel farlo, non esitava a mettersi al servizio di questa o quella gang imperialista.
L’UCI, nella sua piattaforma, afferma che la sua esistenza trae origine dal lavoro delle frazioni di sinistra comunista che hanno rotto con l’IC in degenerazione (vedi World Revolution n° 254). Tuttavia, su questa questione, l’UCI mantiene la visione “ufficiale” dell’IC contro quella della sinistra: “La politica del Komintern di Stalin e di Bukharin durante la rivoluzione cinese del 1925-27 differisce completamente da quella di Lenin e dei Bolscevichi che prevaleva durante i primi anni del Komintern. Voi argomentate ancora che se esistono dei compiti borghesi, dovremmo sostenere questa o quella frazione borghese. I Menscevichi e gli stalinisti dicevano la stessa cosa. ... Il metodo di Marx e di Lenin non consiste nel rifiutare i compiti dell’ora quando tutte le frazioni della borghesia sono ugualmente reazionarie, ma nel compiere questi compiti col metodo della rivoluzione proletaria, cercando di eseguire i compiti borghesi con la maggiore profondità e di portare a termine i compiti socialisti. La rivoluzione cinese ha mostrato la correttezza di questo approccio contrariamente a quello della sinistra. In ogni modo la rivoluzione in Cina ha vinto, sebbene abbia lasciato un numero enorme di vittime. Questa rivoluzione ha reso possibile la creazione del proletariato più numeroso del mondo e potente, che ha velocemente sviluppato le forze produttive. Lo stesso risultato è stato raggiunto da decine di altre rivoluzioni nei paesi dell’Est. Non vediamo la ragione per negare il loro ruolo storicamente progressivo: grazie ad esse, la nostra rivoluzione ha una solida base di classe in molti paesi del mondo che nel 1914 erano ancora completamente agricoli”.
Siamo naturalmente d’accordo sul fatto che la posizione di Lenin, posizione che si trova nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del II Congresso dell’IC del 1920, non era in nessuno modo la stessa di quella di Stalin nel 1927. In particolare, le Tesi del 1920 insistevano sulla necessità per il proletariato di rimanere rigorosamente indipendente anche dalle forze “nazionaliste rivoluzionarie”; Stalin invece ha chiamato gli operai insorti di Shanghai a rendere le loro armi ai macellai del Kuomintang. Ma come abbiamo mostrato nella nostra serie di articoli sulle origini del Maoismo, (Rivista Internazionale - edizione in lingua inglese, francese o spagnola - n° 81, 84, 94), questa esperienza non confermava solamente che la cricca di Stalin aveva abbandonato la rivoluzione proletaria a profitto degli interessi dello Stato nazionale russo, ma aveva anche annientato ogni speranza di trovare un settore della borghesia coloniale che non si gettasse ai piedi dell’imperialismo e che non massacrasse il proletariato alla prima opportunità. I settori “nazionalisti rivoluzionari” o “antimperialisti” della borghesia coloniale semplicemente non esistevano. Non potrebbe essere diversamente in un’epoca storica - la decadenza del mondo capitalista - nella quale non c’é più la minima coincidenza tra gli interessi delle due principali classi.
L’UCI e la “rivoluzione borghese” in Cina
La posizione dell’UCI sulla Cina ci sembra contenere una profonda ambiguità. Da un lato, l’UCI dice che in Russia nel 1917, la borghesia era già reazionaria, ciò che costituisce il motivo per cui il proletariato doveva prendere in carico i compiti della rivoluzione borghese; dall’altro lato, secondo la loro visione, in Cina e in “decine di altri” paesi dell’Est non specificati, sembra che la rivoluzione borghese si sia potuta svolgere. Ciò significa forse che la borghesia di questi paesi era ancora progressista dopo il 1917? O ciò vuole dire - nel caso della Cina in particolare - che la frazione che ha compiuto la “rivoluzione borghese” - il Maoismo - aveva qualche cosa di proletario, come dicono i Trotskisti? L’UCI ha bisogno di fare una netta chiarezza su questo punto.
In ogni caso, prendiamo in considerazione se ciò che accadde in Cina corrisponde alla comprensione marxista di una rivoluzione borghese. Dal punto di vista marxista, le rivoluzioni borghesi erano un fattore di progresso storico perché eliminavano i resti del vecchio modo di produzione feudale e gettavano le basi della futura rivoluzione del proletariato. Questo processo aveva due dimensioni fondamentali:
Ø a livello più materiale, la rivoluzione borghese ha gettato giù le barriere feudali che bloccavano lo sviluppo delle forze produttive e l’espansione del mercato mondiale. La formazione di nuovi Stati nazionali era un’espressione del progresso in questo senso: vale a dire che ha fatto esplodere i limiti del localismo feudale e ha creato le fondamenta di un’economia mondiale;
Ø lo sviluppo delle forze produttive è anche, naturalmente, lo sviluppo materiale del proletariato, ma un’altra chiave di lettura della rivoluzione borghese è che essa ha creato il quadro politico per lo sviluppo “ideologico” della classe operaia, la sua capacità di identificarsi ed organizzarsi in quanto classe distinta in seno alla società capitalista e alla fine contro di essa.
La sedicente rivoluzione cinese del 1949 non corrisponde a nessuno di questi aspetti. Per cominciare, essa non era un prodotto di un’economia mondiale in espansione ma quello di un’economia che era arrivata ad un impasse storico. Ciò si può vedere chiaramente quando si comprende che era nata non da una lotta contro il feudalismo o il dispotismo asiatico, ma da una lotta sanguinosa tra gang della borghesia, tutte legate all’una o all’altra delle grandi potenze imperialiste che dominavano il mondo. La “rivoluzione cinese” è stata il frutto di conflitti imperialisti che hanno devastato la Cina negli anni ‘30 e soprattutto del loro punto culminante - la seconda guerra imperialista mondiale. Ciò non viene messo in discussione dal fatto che, a differenti momenti, le fazioni cinesi in lotta abbiano avuto differenti sostegni imperialistici (per esempio il maoismo era sostenuto dagli USA durante la seconda guerra mondiale e poi dalla Russia all’inizio della “guerra fredda”). D’altra parte il fatto che la Cina abbia preso un orientamento imperialistico “indipendente” durante un breve periodo negli anni ‘60 non prova affatto l’esistenza di “giovani” borghesie che potrebbero sfuggire alla presa dell’imperialismo in questa epoca. È piuttosto il contrario: il fatto che anche la Cina, con i suoi immensi territori e le sue risorse, sia stata capace di fare un percorso indipendente per un periodo così breve, conferma ampiamente le argomentazioni di Rosa Luxemburg nell’Opuscolo di Junius secondo cui nell’epoca aperta dalla prima guerra mondiale, nessuna nazione “può tenersi al riparo” dall’imperialismo perché viviamo in un periodo nel quale il dominio dell’imperialismo sull’intero pianeta può essere superato solamente dalla rivoluzione comunista mondiale.
Lo sviluppo economico della Cina comprende anche tutte le caratteristiche dello “sviluppo in fase di decadenza”: non si manifesta dunque come parte di un mercato mondiale in espansione, ma come un tentativo di sviluppo autarchico in un’economia mondiale che ha già raggiunto i suoi limiti fondamentali nella sua capacità ad estendersi. Da ciò, come nella Russia stalinista, l’enorme preponderanza del settore militare, dell’industria pesante a spese della produzione di beni di consumo, di una burocrazia statale orrendamente gonfiata. Da ciò anche le convulsioni periodiche come “il grande balzo in avanti” e la “rivoluzione culturale” nelle quali la classe dominante mirava a mobilitare la popolazione dietro delle campagne per intensificare il suo sfruttamento e la sua sottomissione ideologica allo Stato. Queste campagne erano una risposta disperata alla stagnazione ed all’arretramento cronico dell’economia: ne è testimone l’esigenza dello Stato durante il “grande balzo in avanti” di installare un altoforno in ogni villaggio per utilizzare ogni pezzo di metallo fosse capitata tra le mani.
Naturalmente, la classe operaia cinese è più numerosa oggi che nel 1914. Ma per giudicare se ciò è in sé un fattore di progresso per l’umanità, dobbiamo considerare la situazione del proletariato a livello mondiale e non nazionale. Ciò che vediamo a questo livello, è che il capitalismo si è rivelato incapace di integrare la maggioranza della popolazione del mondo nella classe operaia. In percentuale della popolazione mondiale, la classe operaia resta una minoranza.
Il progresso per il proletariato cinese nel secolo passato sarebbe stato il successo della rivoluzione mondiale 1917-27, ciò che avrebbe permesso uno sviluppo equilibrato ed armonioso dell’industria e dell’agricoltura a scala mondiale, e non queste lotte frenetiche e non necessarie storicamente di ogni economia nazionale per sopravvivere in un mercato mondiale saturo. Al posto di ciò, la classe operaia cinese ha trascorso la maggior parte del secolo sotto lo stivale odioso dello stalinismo. Lungi dall’essere il prodotto di una rivoluzione borghese tardiva, lo stalinismo è l’espressione classica della controrivoluzione borghese, l’orribile rivincita del capitale dopo che il proletariato aveva provato e mancato di rovesciare il suo dominio. Il fatto che esso sia fondato su una menzogna completa - la sua pretesa di rappresentare la rivoluzione comunista - è in sé un’espressione tipica di un modo di produzione decadente: nella sua ascendenza, nella sua fase di fiducia in sé, il capitalismo non aveva alcun bisogno di vestire i panni del suo nemico mortale. Di più, questa menzogna ha avuto l’effetto più negativo sulla capacità della classe operaia - a livello mondiale ed in particolare nei paesi dominati dallo stalinismo - di comprendere la reale prospettiva comunista. Quando consideriamo il prezzo terribile di repressione e di massacro che lo stalinismo ha fatto pagare alla classe operaia - il numero di morti nelle prigioni maoiste e nei campi di concentramento è ancora sconosciuto, ma si aggira probabilmente sui milioni - diventa evidente che la sedicente “rivoluzione borghese” in Cina è fallita completamente nel compiere ciò che le autentiche rivoluzioni borghesi erano riuscite a produrre nel XVIII e nel XIX secolo: un quadro politico che permetteva al proletariato di sviluppare la fiducia in sé e la coscienza di essere una classe. Lo stalinismo è stato invece un disastro completo per il proletariato mondiale ed anche dopo la sua morte continua ad avvelenare la coscienza proletaria grazie alle campagne della borghesia che identifica il fallimento dello stalinismo con la fine del comunismo. Come tutte le sedicenti “rivoluzioni nazionali” del XX secolo, è la testimonianza del fatto che il capitalismo non pone più oramai le fondamenta per il comunismo ma le sabota sempre più.
I Comunisti e la questione nazionale: non c’è posto per l'ambiguità
Secondo l’UCI, i comunisti potevano in un certo senso sostenere le rivoluzioni nazionali fino agli anni ‘80; adesso con l'avvento della globalizzazione, non sarebbe più possibile:
“Che cosa é cambiato a partire dall’inizio della “globalizzazione?” La possibilità di avere una rivoluzione nazionale è sparita. Fino agli anni ‘80, le rivoluzioni nazionali potevano garantire ancora la crescita delle forze produttive, dovevano dunque ancora essere sostenute, tentando se possibile di trasferire la loro gestione nelle mani del proletariato rivoluzionario... Adesso, questa tappa storica per lo sviluppo nazionale è arrivata al suo termine”.
La prima questione da porre su questa posizione è che se la Sinistra comunista avesse difeso le “rivoluzioni nazionali” fino agli anni ‘80, oggi non ci sarebbe più una sinistra comunista. Fino alla morte dell’Internazionale Comunista alla fine degli anni ‘20, la Sinistra Comunista è stata la sola corrente politica che si è opposta in modo coerente alla mobilitazione del proletariato nella guerra imperialistica, soprattutto quando queste guerre erano fatte in nome di una qualsiasi rivoluzione borghese tardiva o della “lotta contro l’imperialismo”. A partire dalla Spagna e dalla Cina negli anni ‘30, passando per la seconda guerra mondiale, ed in tutti i conflitti locali che hanno caratterizzato la guerra fredda (Corea, Vietnam, Medio Oriente, ecc.), la Sinistra comunista, da sola, ha sostenuto l’internazionalismo proletario, rigettando ogni sostegno ad un qualsiasi Stato o frazione nazionale, chiamando la classe operaia a difendere i propri interessi di classe contro gli appelli a sciogliersi nei fronti guerrieri del capitale. La conseguenza terribile di scostarsi da questa via è stata illustrata in modo molto vivente dall’implosione della corrente bordighista all’inizio degli anni ‘80: le sue ambiguità sulla questione nazionale hanno aperto la porta alla penetrazione di frazioni nazionaliste che hanno cercato di trascinare la principale organizzazione bordighista verso il sostegno dell’OLP e di Stati come la Siria nella guerra in Medio Oriente. Ci sono state delle resistenze da parte di elementi proletari nell’organizzazione, ma essa ha pagato un prezzo terribile con la perdita di energie militanti e lo scoppio conseguente di tutta l’intera corrente. Se i nazionalisti fossero riusciti nell’impresa, avrebbero finito per annettere questa corrente storica della sinistra italiana all’ala sinistra del capitale a fianco dei trotskisti e degli stalinisti. Se gli antenati politici di altri gruppi come la CCI ed il BIPR avessero seguito una politica di sostegno alle sedicenti “rivoluzioni nazionali”, questi gruppi avrebbero subito una sorte analoga e non ci sarebbero più correnti della sinistra comunista con cui i nuovi gruppi che nascono in Russia possano mettersi in contatto.
In secondo luogo ci sembra che, nonostante la conclusione dell’UCI secondo cui questo sarebbe il momento per una posizione proletaria veramente indipendente sui movimenti nazionali, i compagni restino attaccati a formulazioni che, nel migliore dei casi, si possono considerare ambigue, ma che possono anche condurre ad un tradimento aperto dei principi di classe. Ad esempio, essi parlano ancora della possibilità di trasferire la lotta nazionale della borghesia al proletariato, aderiscono ancora alla parola d'ordine della “autodeterminazione nazionale”:
“in ciò che riguarda il sostegno ai movimenti di indipendenza nazionale, il solo orientamento da seguire, sia ieri che oggi, è quello di strappare la lotta all’oppressione nazionale dalle mani della borghesia e di rimetterla nelle mani del proletariato. Ciò non può essere fatto se non si riconosce il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, e cioè se non si riconosce la necessità di condurre fino alla fine i compiti storici della borghesia. Diversamente, lasceremo il proletariato nazionale sotto la direzione della borghesia nazionale”.
Ma la classe operaia non può prendere in carico la lotta nazionale; anche per difendere i suoi interessi di classe, si trova in opposizione con la borghesia nazionale e tutte le sue ambizioni. La guerra di classe e la guerra nazionale sono opposte diametralmente tanto nella loro forma quanto nel loro contenuto. In ciò che riguarda l’autodeterminazione, gli stessi compagni riconoscono che essa è impossibile nelle condizioni attuali del capitalismo, anche se considerano ciò a partire dagli anni 80. Essi argomentano dunque in favore della parola d’ordine con termini simili a quelli di Lenin - come un mezzo di evitare di “creare degli antagonismi” o di offendere i proletari dei paesi arretrati e di sottrarli all'influenza borghese. Compagni, il comunismo non può trattenersi dall’essere offensivo rispetto ai sentimenti nazionalisti mal posti che esistono in seno alla classe operaia. A questo proposito, i comunisti dovrebbero evitare di criticare la religione perché molti operai sono influenzati dall’ideologia religiosa. Certamente, non provochiamo o non insultiamo gli operai perché hanno delle idee confuse. Ma come è detto nel Manifesto Comunista, i comunisti si rifiutano di nascondere le loro idee. Se la liberazione nazionale e l’autodeterminazione nazionale sono impossibili, allora dobbiamo dirlo nei termini più chiari possibili.
L’apparizione di gruppi come l’UCI è un apporto importante per il proletariato mondiale. Ma le sue ambiguità sulla questione nazionale sono molto gravi e mettono in discussione la sua capacità di sopravvivenza in quanto espressione del proletariato. La storia ha mostrato che, poiché si ricollegano al profondo antagonismo tra il proletariato e le guerre imperialistiche, le ambiguità sulla questione nazionale possono soprattutto portare facilmente a tradire gli interessi internazionalisti della classe operaia. Noi spingiamo dunque i compagni a riflettere in profondità su tutti i testi e tutti i contributi che la sinistra comunista ha prodotto su questa questione vitale.
CDW
1. Per la presentazione di questo gruppo, rinviamo i nostri lettori alla Rivista Internazionale (edizione in lingua inglese, francese o spagnola) n° 111, “Presentazione dell’edizione russa dell’opuscolo sulla decadenza: la decadenza, un concetto fondamentale del marxismo”.
2. I compagni di un altro gruppo russo, il Gruppo dei Collettivisti Proletari Rivoluzionari, sembrano avere la stessa posizione quando dicono che la rivoluzione comunista è diventata possibile solamente da quando il capitalismo ha sviluppato i microprocessori. Ritorneremo più tardi su questo argomento.
3. Abbiamo sviluppato questo punto dopo nella serie di articoli “Comprendere la decadenza del capitalismo”; vedere in particolare la Rivista Internazionale (edizione in lingua inglese, francese o spagnola) n° 55 e 56.