Corrispondenza dalla Russia: la rivoluzione proletaria è all'ordine del giorno dall'inizio del 20° secolo

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A dispetto della presunta morte del comunismo, che avrebbe fatto seguito al crollo dell’URSS, diversi elementi e parecchi piccoli gruppi sono emersi in Russia dopo il 1990 per rimettere in discussione l’equazione menzognera della borghesia mondiale: stalinismo = comunismo.

Nella Revue internationale n° 92, abbiamo reso conto di due conferenze, convocate da alcuni di questi elementi, che si sono svolte a Mosca sul problema dell’eredità politica di Léon Trotsky. Durante lo svolgimento di queste conferenze, alcuni partecipanti si sono orientati su altre analisi, più radicali, sostenute da alcuni membri dell’opposizione di sinistra durante gli anni 1920 e 1930, relative alla degenerazione della rivoluzione di Ottobre. Essi hanno voluto conoscere anche il contributo della Sinistra comunista su questo problema e su questo la partecipazione della CCI a queste conferenze ha contribuito a chiarire le questioni poste.

Oltre questo resoconto, abbiamo pubblicato una critica profonda del libro di Trotsky La rivoluzione tradita redatto da uno degli animatori della conferenza.

Dopo di allora, la CCI ha mantenuto una corrispondenza con differenti elementi in Russia. Pubblichiamo qui alcuni estratti di queste lettere al fine di contribuire ad arricchire il dibattito internazionale sulla natura dell’organizzazione e delle posizioni comuniste per la futura rivoluzione proletaria mondiale.

Come i nostri lettori vedranno, l’orientamento del nostro corrispondente, - F. del sud della Russia (1) – è vicino alle posizioni ed alla tradizione della Sinistra comunista. Da una parte, egli difende il partito bolscevico e, dall’altra, riconosce la natura capitalista ed imperialista del regime stalinista. In particolare, adotta una posizione internazionalista sulla seconda guerra imperialista mondiale, contrariamente ai trotskisti che hanno giustificato la loro partecipazione a tale guerra sotto il pretesto di difendere l’URSS e le sue pretese conquiste proletarie.

Tuttavia, l’approccio del nostro corrispondente su due quesiti essenziali – il primo sulla possibilità della rivoluzione mondiale nel 1917 – 1923, il secondo sulla possibilità di liberazioni nazionali dopo il 1914 e di conseguenza sulla possibilità di un qualsiasi sviluppo capitalista durante questo secolo – mostra un disaccordo sul quadro ed il metodo per poter comprendere queste posizioni rivoluzionarie internazionaliste.

Ci siamo presi la libertà di scegliere degli estratti dalle differenti lettere del compagno per guadagnare spazio e dedicarci al nocciolo della questione. Altre volte ci siamo presi la libertà di correggere il testo (scritto in inglese) dal compagno, non per amore grammaticale ma per facilitare la traduzione nelle differenti lingue in cui è pubblicata questa Rivista Internazionale.

… I bolscevichi si sbagliavano teoricamente sulle possibilità di una rivoluzione socialista mondiale all’inizio del XX secolo. Una tale possibilità è apparsa solo oggi, alla fine del secolo. . Ma nella loro azione, essi avevano assolutamente ragione, e se noi potessimo, per miracolo, trasportarci nell’anno 1917, ci schiereremmo con i bolscevichi e contro i loro avversari, compresi quelli di sinistra. Sappiamo che questa è una posizione non usuale e contraddittoria, però si tratta di una contraddizione dialettica. Gli attori della storia non sono gli alunni di una  classe, che rispondono più o meno bene alle domande del maestro. L’esempio più banale  é quello di Cristoforo Colombo che pensava di aver scoperto la strada per l’India che, invece, era quella dell’America. Molti dotti saggi non hanno commesso un tale errore ma nemmeno hanno scoperto l’America!

Gli eroi delle guerre contadine e dei primi sollevamenti borghesi avevano ragione – Wat Tyler, John Baal, Thomas Munzer, Arnold di Brescia, Cola di Rienzo, etc.-  a battersi  contro il feudalesimo, quando le condizioni per la vittoria del capitalismo non erano ancora mature? Certo che avevano ragione: la lotta di classe degli oppressi, anche quando essi sono sconfitti, accelera lo sviluppo dell’ordine di sfruttamento esistente (e) attraverso ciò affretta la caduta di quest’ordine. Dopo delle sconfitte, gli oppressi possono essere in grado di vincere. Rosa Luxemburg ha eccellentemente scritto su questa questione nella sua polemica con Bernstein in Riforma sociale o rivoluzione.

Se esisteva la necessità della rivoluzione, i rivoluzionari dovevano agire anche se i loro successori avrebbero compreso, poi, che quella non era la rivoluzione socialista. Le condizioni per la rivoluzione socialista non erano ancora mature. Le illusioni bolsceviche sulla possibilità della rivoluzione socialista mondiale nel 1917 – 23, erano necessarie,  inevitabili come quelle di John Baal o di Gracchus Babeuf…Lenin, Trotsky  ed i loro compagni con le loro illusioni hanno fatto un enorme lavoro progressivo e ci hanno lasciato un’esperienza preziosa del proletariato , una rivoluzione, benché sconfitta. I Menscevichi, con le loro teorie, non sono stati capaci nemmeno di condurre una rivoluzione borghese, finendo così nell’ala sinistra della controrivoluzione dei borghesi e dei proprietari terrieri…

Se vogliamo essere marxisti, dobbiamo comprendere le cause obiettive delle sconfitte delle rivoluzioni proletarie del XX secolo? Quelle cause obiettive renderanno la rivoluzione socialista mondiale possibile nel XXI secolo? Le spiegazioni soggettive, come << il tradimento dei social-democratici e dello stalinismo>> di Trotsky, o la vostra <<debolezza sulla coscienza di classe ad un livello internazionale>> non sono sufficienti. Si, il livello della coscienza di classe del proletariato era ed è basso, ma quali sono le cause obiettive di ciò? Si, i social-democratici e gli stalinisti erano e sono dei traditori, ma che cosa rende questi traditori vincenti rispetto ai rivoluzionari? Perché Ebert e Noske vincono contro Liebknecht e Luxemburg, Stalin contro Trotsky, Togliatti contro Bordiga? Perché l’Internazionale Comunista, creata come rottura definitiva con l’opportunismo degenerato della II Internazionale, degenera essa stessa, tre volte più presto della II, nell’opportunismo? Noi dobbiamo comprendere tutto ciò”

Sulla decadenza del capitalismo:  “La vostra interpretazione di questo tipo di capitalismo solo come tappa decadente del sistema capitalista, solo come una qualche mostruosità (per esempio, in un articolo d’Internationalisme sul crollo dello stalinismo) non risponde al quesito: perché c’era progresso, anche se di tipo capitalista, nell’URSS stalinista e negli alti paesi che inalberavano la bandiera rossa?”

Sulla questione nazionale: “Sul vostro opuscolo Nazione o classe, siamo d’accordo con le vostre conclusioni ma non con la parte riguardante i motivi e l’analisi storica. Siamo d’accordo che attualmente, alla fine del XX secolo, la parola d’ordine del diritto all’autodeterminazione delle nazioni ha perduto ogni  carattere rivoluzionario. Essa è una parola d’ordine borghese democratica. Nel momento in cui l’epoca delle rivoluzioni borghesi si è conclusa, anche per i rivoluzionari proletari questo slogan non è più valido. Ma noi pensiamo che l’epoca delle rivoluzioni borghesi si è conclusa alla fine del XX secolo, non all’inizio. Nel 1915, Lenin aveva in generale ragione nei confronti di Rosa Luxemburg, nel 1952 Bordiga aveva in generale ragione su questa questione rispetto a Damen, ma attualmente la situazione è diversa. E noi consideriamo completamente errata la vostra posizione secondo la quale i differenti movimenti rivoluzionari non proletari del terzo mondo, che non contenevano un grammo di socialismo, ma obbiettivamente erano dei movimenti rivoluzionari, non erano che degli strumenti di Mosca - come voi avete scritto sul Vietnam, per esempio –  e non sono obbiettivamente dei movimenti borghesi progressisti.

Sembra che voi facciate lo stesso errore di Trotsky, che concepiva la crisi del capitalismo come un arresto assoluto e non come un lungo e tortuoso processo di degenerazione e di degrado quando gli elementi negativi e reazionari del capitalismo peseranno, sempre di più, sugli elementi progressivi. Si è avuto un progresso in Unione Sovietica? Si, certamente. Si è trattato di un progresso socialista? Certo che no. Era una transizione di un paese agricolo semifeudale ad un paese a capitalismo industriale, cioè un progresso borghese, nel fango e col sangue, come ogni progresso borghese. E le rivoluzioni in Cina, Cuba, Yugoslavia, etc.? Erano esse progressive? Sicuramente, [come] vi erano delle trasformazioni contraddittoriamente progressiste in molti altri paesi. Possiamo e dobbiamo parlare di questo carattere a metà contraddittorio di tutte queste rivoluzioni borghesi, ma esse erano delle rivoluzioni borghesi. Le condizioni obiettive per la rivoluzione proletaria in Cina, attualmente, sono più mature di quelle degli anni 1920 grazie alla rivoluzione borghese degli anni 1940.”

Se c’è un filo conduttore che attraversa questi estratti, è l’idea che le “condizioni obiettive” per la rivoluzione proletaria non si sono avute su scala mondiale per la maggior parte del XX secolo, contrariamente a ciò che la CCI, in continuità con il I Congresso dell’Internazionale comunista, sostiene. Così, secondo questa idea, la rivoluzione d’Ottobre era prematura e, di conseguenza, almeno fino alla fine di questo secolo, alcune forme di sviluppo capitalista progressista erano possibili nei paesi della periferia del capitalismo mondiale e la liberazione nazionale era dunque possibile.

Una comprensione chiara delle condizioni obiettive nelle società, cioè lo sviluppo economico della società in un periodo storico dato, è un bisogno fondamentale per i marxisti, poiché essi riconoscono, contrariamente agli anarchici, che il socialismo, al posto di essere un semplice desiderio, è un nuovo modo di produzione la cui possibilità e necessità sono condizionate dallo sviluppo economico della società capitalista. Questa è la pietra angolare del materialismo storico con cui, noi siamo sicuri, il compagno è d’accordo.

Allo stesso modo, non si può molto discutere il fatto che Marx vedeva le condizioni obiettive per il socialismo essenzialmente nel numero di due: “Una formazione sociale non perisce finchè non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e  superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.” (Prefazione alla Critica dell’economia politica, 1859, Editori Riuniti)

Considerando che il capitalismo mondiale non era affatto economicamente pronto a morire nel 1917, il compagno tira la conclusione che l’immenso sollevamento in Russia non poteva condurre che ad una rivoluzione borghese a livello economico. A livello politico, questa era una rivoluzione proletaria che era destinata alla sconfitta per il fatto che i suoi obiettivi comunisti non corrispondevano ai reali bisogni materiali della società in quell’epoca. Dunque il partito bolscevico e l’Internazionale Comunista non potevano essere che dei perdenti eroici che si sono sbagliati sulle condizioni obiettive come John Baal, Thomas Munzer e Graccus Babeuf,  i quali pensavano che una nuova società egualitaria era possibile nel momento in cui, invece, le condizioni per quest’ultima non erano presenti.

Il compagno dice che questa posizione sulla natura di Ottobre è contraddittoria in senso dialettico. Ma ciò contraddice uno dei concetti base della storia e dunque del materialismo dialettico secondo il quale “(…) l’umanità non si propone se non quei problemi che essa può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già  o almeno sono in formazione.” (ibidem)

La coscienza delle classi sociali, i loro scopi ed i loro problemi, tendono a corrispondere ai loro interessi materiali ed alle loro posizioni nei rapporti di produzione e di scambio. E’ unicamente su questa base che evolve la lotta di classe. Per una classe sfruttata come il proletariato, la coscienza di se può svilupparsi solo dopo una lunghissima lotta al fine di liberarsi essa stessa dal dominio della coscienza della borghesia. In questo sforzo, le difficoltà, le incomprensioni, gli errori, le confusioni riflettono il ritardo della coscienza in rapporto allo sviluppo delle condizioni materiali – un altro aspetto del materialismo storico che vede la vita sociale essenzialmente pratica, preoccupata dal nutrimento, dall’abbigliamento, l’alloggio – e, dunque, precedono i tentativi dell’uomo di spiegare il mondo. Ma per il compagno, la coscienza rivoluzionaria del proletariato è maturata su scala mondiale per un compito che non esisteva ancora. Egli mette il marxismo sulla testa e immagina che milioni di proletari possono mobilitarsi per errore, in una lotta a morte, per una rivoluzione borghese. E per questo egli li immagina diretti da figure astoriche – i rivoluzionari – i quali sarebbero motivati non dalla classe per la quale essi lottano ma da un desiderio di rivoluzione in generale.

La coscienza rivoluzionaria matura forse in una classe per errore?

Esiste forse una tendenza storica per la coscienza rivoluzionaria di maturare prima della sua ora? Se rivediamo un poco più da vicino, per esempio, le circostanze storiche della rivolta del 1381 dei contadini in Inghilterra (John Baal) o quelle della guerra dei contadini in Germania nel 1525 (Thomas Munzer), possiamo renderci conto del contrario: la coscienza di questi movimenti tende a riflettere gli interessi dei protagonisti e le circostanze materiali della loro epoca.

Questi movimenti erano fondamentalmente una risposta disperata alle condizioni, sempre più penose, imposte dalla decadente classe feudale ai contadini. In queste rivolte, come in tutti i movimenti degli sfruttati della storia, si sviluppava contro gli sfruttatori il desiderio di una nuova società senza sfruttamento e senza miseria. Ma i contadini non sono mai stati, e non potrebbero mai essere, una classe rivoluzionaria nel senso vero del termine. Infatti essi, essendo essenzialmente uno strato di piccoli proprietari, non sono i portatori di nuovi rapporti di produzione, cioè di una nuova società. I contadini in rivolta non erano destinati ad essere il veicolo per il nuovo modo borghese di produzione, che emergeva nelle città europee durante la decadenza del feudalesimo. Come evidenziava Engels, i contadini erano destinati ad essere rovinati dalle rivoluzioni capitaliste vittoriose. Nelle stesse rivoluzioni borghesi (in Germania, in Gran Bretagna ed in Francia tra il XVI ed il XVIII secolo) i contadini e gli artigiani hanno giocato un ruolo attivo ma ausiliare, non per i loro interessi. Nella misura in cui gli interessi dei proletari emergevano in maniera distinta in questa epoca, essi entrano violentemente in conflitto con la stessa ala più radicale della borghesia, come lo testimonia la lotta tra i Livellatori e Cromwell durante la rivoluzione inglese del 1649 o la Cospirazione dei Eguali di Babeuf contro i Montagnardi nel 1793. (2)

I contadini non avevano la coesione o gli scopi coscienti di una classe rivoluzionaria. Essi non potevano sviluppare una propria visione del mondo né elaborare una reale strategia per rovesciare la classe dominante. Essi dovevano prendere in prestito la teoria rivoluzionaria dai propri sfruttatori poiché la loro visione del futuro era sempre chiusa in una religione, cioè in una forma conservatrice. Se questi scopi e queste battaglie eroiche ci inspirano oggigiorno e ci appaiono fuori dal loro tempo è perché l’ultimo secolo (ed i quattro precedenti) ha avuto un’importante caratteristica: lo sfruttamento di una parte della società sull’altra; è per questo che i nomi dei dirigenti di queste battaglie sono rimasti incisi, attraverso i secoli, nella memoria degli sfruttati.

E’ solamente alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX che l’idea socialista appare per la prima volta come una forza reale. E questo periodo coincide, certo non accidentalmente, con lo sviluppo embrionale del proletariato.

La maturazione della coscienza comunista riflette gli interessi materiali della classe operaia

I proletari sono i discendenti dei contadini e degli artigiani spogliati delle loro terre e dei loro mezzi di produzione dalla borghesia. Essi non hanno conservato niente che possa legarli all’antica società e non sono portatori di una nuova forma di sfruttamento. Avendo unicamente la loro forza lavoro da vendere e lavorando in maniera associata, essi non hanno bisogno di divisioni interne. Essi sono una classe sfruttata ma, contrariamente ai contadini, hanno un interesse materiale non solo a mettere fine ad ogni forma di proprietà ma anche a creare una società mondiale in cui i mezzi di produzione e di scambio saranno tenuti in comune: il comunismo.

La classe operaia, crescendo con lo sviluppo su vasta scala della produzione capitalista, ha un potenziale potere economico enorme nelle sue mani. Inoltre, essendo concentrata a milioni nelle ed intorno alle più grandi città del mondo, legata dai moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, ha il modo di mobilitarsi per un assalto vittorioso contro i bastioni del potere politico capitalista. La coscienza di classe del proletariato, al contrario di quella dei contadini, non è legata al passato, ma è costretta a guardare verso il futuro senza illusione utopiche o avventuristiche. Essa deve sobriamente tirare tutte le conseguenze, sebbene gigantesche, del rovesciamento della società esistente e della costruzione di una nuova società.

Il marxismo, la più alta espressione di questa coscienza, può dare al proletariato un’immagine reale delle sue condizioni e dei suoi obiettivi ad ogni tappa della sua lotta e del suo scopo finale, perché esso è capace di mettere in evidenza le leggi del cambiamento storico. Questa teoria rivoluzionaria è emersa negli anni 1840 e, durante alcuni decenni seguenti, ha eliminato le vestigia dell’utopismo veicolato nella classe operaia dalle idee socialiste. Fin dal 1914, il marxismo era già trionfante in un movimento di classe operaia che aveva 70 anni di lotta per i suoi interessi al suo attivo. Un periodo che includeva La Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1905 e l’esperienza delle I e II Internazionali. Ed a questo punto, il marxismo si è mostrato capace di criticare i suoi errori, di rivedere le sue analisi politiche e posizioni divenute obsolete con lo svolgersi degli avvenimenti. La sinistra marxista, con cui il compagno si identifica, in tutti i principali partiti della II Internazionale, ha riconosciuto il nuovo periodo aperto dalla prima guerra mondiale e la fine dell’espansione “tranquilla” del capitalismo. La stessa sinistra marxista condusse le insurrezioni che sorsero alla fine della guerra. Ma è proprio a questo punto che il compagno, che avrebbe fatto ciò che i bolscevichi fecero in ottobre 1917 come trampolino per la rivoluzione mondiale, ripete gli stessi argomenti pseudo-marxisti circa l’immaturità delle condizioni obiettive che tutti gli opportunisti e centristi della social-democrazia – Karl Kautsky in particolare – utilizzarono per giustificare l’isolamento e lo strangolamento della rivoluzione russa.

La sconfitta dell’ondata rivoluzionaria non è stata il riflesso soggettivo, inevitabile, dell’insufficienza delle condizioni obiettive, ma un risultato del fatto che la maturazione della coscienza non è stata sufficientemente profonda e rapida per impadronirsi del proletariato mondiale nella “finestra d’opportunità”, relativamente corta, che si apriva dopo la guerra e le sue difficoltà contingenti, senza parlare delle difficoltà specifiche della rivoluzione proletaria in paragone alle rivoluzioni delle classi rivoluzionarie antecedenti.

Per il materialismo storico, l’epoca di rivoluzione sociale, che risulta dalla maturazione degli elementi della nuova società, è annunciata dallo sviluppo delle “forme ideologiche in cui gli uomini prendono coscienza di questo conflitto e lo spingono fino alle estreme conseguenze.” (Marx. Prefazione alla Critica dell’economia politica)

L’Internazionale Comunista non era, come sembra dire il compagno, un’aberrazione precoce. In realtà, essa ha semplicemente raggiunto gli avvenimenti. Essa era l’espressione della ricerca di una soluzione al capitalismo di fronte alla maturazione delle condizioni obiettive. Dire che la sua sconfitta era inevitabile, è fare del materialismo storico una ricetta fatalista e meccanica piuttosto che una teoria secondo la quale sono “gli uomini che fanno la storia”.

1917 – 1923: il capitalismo mondiale merita di perire

Nel 1914 gli elementi della nuova società erano maturati nella vecchia. Ma tutte le forze produttive che la vecchia società poteva contenere si erano sviluppate? Il socialismo era divenuto una necessità storica? Il compagno risponde negativamente e l’evidenza di ciò gli sembra posta dallo sviluppo progressivo del capitalismo nella Russia stalinista, in Cina, in Vietnam ed in altri paesi. Secondo lui, i bolscevichi pensavano di fare la rivoluzione mondiale, mentre al contrario conducevano una rivoluzione borghese.

Per il compagno, la prova è l’industrializzazione della Russia e la sua transizione dal feudalesimo al capitalismo dopo il 1917, così come l’esistenza di “elementi di progresso” in un periodo di declino crescente.

Ma per il materialismo storico, ogni modo di produzione ha dei periodi distinti di ascesa e di declino. Il capitalismo essendo un sistema mondiale, al contrario dei modi di produzione feudale, schiavistico ed, ancor prima, asiatico, deve essere giudicato maturo per la rivoluzione sulle basi della sua condizione internazionale e non sulla base di questo o quel paese, che preso da solo, potrebbe dare l’illusione della possibilità di uno sviluppo progressista.

Se si isolano alcuni periodi o alcuni paesi nel periodo della decadenza del capitalismo dal 1914, è possibile essere accecati dall’apparente crescita di un sistema; in particolare quando questa si produce in qualche paese sottosviluppato in seguito al risultato della venuta al potere di una cricca capitalista statale.

Il capitalismo in declino, ancora una volta al contrario delle società che lo hanno preceduto, si caratterizza per la sovrapproduzione. Mentre il declino di Roma o la decadenza del sistema feudale in Europa significavano una stagnazione ed anche una regressione ed un declino nella produzione, il capitalismo decadente continua ad estendere la produzione (anche se ciò avviene ad un tasso medio più basso: circa il 50% meno del periodo ascendente) nello stesso tempo che esso affonda e distrugge le forze produttive della società. Noi non vediamo dunque un arresto assoluto della crescita della produzione capitalista nella sua fase decadente, come pensava Trotsky.

Il capitalismo non può estendere le forze produttive se non è capace di realizzare il plus-valore contenuto in una massa di merci sempre crescenti che esso lancia sul mercato mondiale.

“…Più la produzione capitalista si sviluppa, più è obbligata a produrre su una scala che non ha niente a che vedere con la domanda immediata, ma dipende da un’estensione costante del mercato mondiale…Ricardo non vedeva che la merce deve necessariamente essere trasformata in denaro. La domanda degli operai non può essere sufficiente per questo, poiché il profitto viene precisamente dal fatto che la domanda degli operai è minore del valore di ciò che essi producono, e che questo profitto è tanto maggiore quanto più  questa domanda è piccola. Nemmeno la domanda dei capitalisti per la merce degli uni e degli altri è sufficiente… dire che alla fine i capitalisti possono solo scambiare e consumare delle merci tra loro, è dimenticare la natura della produzione capitalista, e che il problema è di trasformare il capitale in valore.” (Marx, Il Capitale, Libro IV Sezione 2 e Libro III Sezione 1)

Nel momento in cui il capitalismo estende enormemente le forze produttive - forza lavoro, mezzi di produzione e di consumo - questi ultimi esistono solo per essere acquistati e venduti perché essi hanno una doppia natura come valore d’uso e di scambio. Il capitalismo deve trasformare in danaro il frutto della sua produzione. Il beneficio dunque dello sviluppo delle forze produttive nel capitalismo resta, per la massa della popolazione, un grosso potenziale, una promessa luminosa che sembra sempre fuori portata, a causa del loro potere d’acquisto limitato. Questa contraddizione, che spiega la tendenza del capitalismo alla sovrapproduzione, porta solo a delle crisi periodiche nel periodo d’ascesa del capitalismo e conduce ad una serie di catastrofi una volta che il capitalismo non può più compensarle con la conquista continua di mercati pre-capitalisti.

L’inizio dell’epoca imperialista, ed in particolare la guerra imperialista generalizzata del 1914 – 1918, ha mostrato che il capitalismo aveva raggiunto i suoi limiti, prima che esso avesse eliminato completamente tutte le vestigia delle società precedenti in ogni paese; ben prima che esso abbia trasformato ogni produttore in lavoratore salariato ed introdotta la produzione a larga scala ad ogni settore industriale. In Russia, l’agricoltura era sempre basata su delle norme pre-capitaliste, la maggioranza della popolazione era costituita da contadini e la forma politica del regime non aveva ancora preso una forma democratica borghese che sostituisse l’assolutismo feudale. Tuttavia, il mercato mondiale dominava già l’economia russa e, a San Pietroburgo, a Mosca come nelle altre grandi città, un numero enorme di proletari era concentrato in alcune delle più grandi unità industriali di tutta l’Europa.

L’arretratezza del regime e dell’economia agraria non hanno impedito alla Russia di essere completamente integrata nella tela delle potenze imperialiste con i suoi propri interessi ed i suoi obiettivi predatori. La venuta al potere politico della borghesia nel governo provvisorio dopo febbraio del 1917 non ha portato ad alcuna deviazione dalla politica imperialista.

Così, l’obiettivo bolscevico, per il quale la rivoluzione russa era un trampolino per la rivoluzione mondiale, era completamente realista. Il capitalismo aveva raggiunto i limiti dello sviluppo nazionale. Non è l’arretramento relativo della Russia la causa della sconfitta di questa transizione ma proprio la sconfitta della rivoluzione in Germania.

L’incapacità a prendere misure economiche socialiste da parte del regime sovietico, al suo inizio, non è stato il prodotto dell’arretramento russo. La transizione verso il modo di produzione socialista può seriamente cominciare solo quando il mercato mondiale capitalista è stato distrutto dalla rivoluzione mondiale.

Se siamo d’accordo che il socialismo in un solo paese è impossibile e che il nazionalismo non è un passo in avanti verso il socialismo, resta tuttavia l’illusione che, dopo la vittoria dello stalinismo, l’industrializzazione abbia rappresentato un passo capitalista progressista.

Il compagno dimentica che questa industrializzazione è servita fondamentalmente per l’economia di guerra e per i preparativi imperialisti della II guerra mondiale? Che l’eliminazione dei contadini ha condotto ai gulag milioni di persone? In una parola che i fantastici tassi di crescita dell’industria russa non hanno potuto realizzarsi se non attraverso il barare con la legge del valore, affrancandosi temporaneamente dalle sanzioni del mercato mondiale e sviluppando una politica dei prezzi artificiali?

Lo sviluppo del capitalismo di Stato, del quale la Russia costituisce l’esempio più aberrante, ha rappresentato il modo caratteristico nella decadenza del capitalismo, per ogni borghesia nazionale, di far fronte ai propri rivali imperialisti, attuali e futuri. Nel periodo di decadenza, la parte media delle spese dello Stato nell’economia nazionale è di circa il 50% a confronto del poco più del 10% nel periodo di ascesa del capitalismo.

Nella decadenza del capitalismo non c’è recupero dei paesi avanzati da parte di quelli meno sviluppati, e dunque l’accesso all’indipendenza politica rispetto alle grandi potenze da parte di supposte rivoluzioni nazionali resta largamente una finzione. Se alla fine del XIX secolo la crescita del Prodotto nazionale lordo dei paesi meno sviluppati era di un sesto rispetto a quello dei paesi a capitalismo avanzato, durante la decadenza questa differenza raggiunge un sedicesimo. Di conseguenza, l’integrazione della popolazione nel lavoro salariato in maniera più rapida rispetto alla crescita della stessa popolazione, che è una delle caratteristiche delle vere rivoluzioni borghesi del passato, non si è giustamente prodotta nei paesi meno sviluppati nel corso della decadenza del capitalismo. Al contrario, masse di popolazioni sono sempre più completamente escluse dai processi di produzione. (3)

Nel XX secolo, il mondo capitalista come un tutto passa per fluttuazioni periodiche della sua crescita che oscurano completamente le crisi del XIX secolo. Le guerre mondiali di questo periodo, al posto di essere dei mezzi  per rilanciare la crescita, come si verificava con quelle del secolo precedente (che a confronto sembravano scaramucce), sono così distruttrici che conducono alla rovina economica contemporaneamente sia i vinti che i vincitori.

Il nostro rigetto della possibilità di uno sviluppo progressista del capitalismo durante tutto il XX secolo non ha dunque niente a che vedere con un qualunque pudore da parte nostra di fronte al “sangue” ed al “fango” delle rivoluzioni borghesi, ma si basa sull’esaurimento economico obiettivo del modo di produzione capitalista.

Nella formula di Lenin il periodo de “l’orrore senza fine” è sostituito dopo il 1914 da “la fine nell’orrore”.

I cicli di crisi, guerra, ricostruzione, nuova crisi del capitalismo, nel corso di questo secolo, confermano che tutte le forze produttive che questo modo di produzione ha contenuto sono state sviluppate e che quest’ultimo merita di perire. E’ certamente vero che alla fine del XX secolo, la decadenza del capitalismo è molto più avanzata rispetto all’inizio: infatti, essa è entrata in una fase di decomposizione. Ma i compagni non ci danno nessuna prova per mostrare che la decadenza del capitalismo è cominciata alla fine del secolo, alcun argomento per porre un cambiamento qualitativo di  tale importanza alla fine, piuttosto che all’inizio di più di due cicli della crisi permanente del capitalismo.

Conseguenze

Se si nega che il declino del capitalismo corrisponde a tutto un periodo che comincia con la prima guerra mondiale e si estende dunque al modo di produzione come un tutt’uno, allora per la lotta rivoluzionaria della classe operaia si ragiona su un sentimento più che su di una necessità storica.

Negare la necessità obiettiva della rivoluzione mondiale nel 1917-23 e considerare la sua sconfitta inevitabile è, in effetti, una posizione bizzarra. Ma essa ha delle conseguenze pericolose poiché esclude la necessità imperiosa di tirare le lezioni dalla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria a livello politico e teorico. Anche se il compagno si identifica con la sinistra comunista, egli non si serve di tutto il lavoro di quest’ultima che è consistito nel sottomettere l’esperienza rivoluzionaria ad una critica di fondo, in particolare per quanto riguarda la questione nazionale. Anche se il compagno nega per oggi ogni possibilità di liberazione nazionale, è solo per una base contingente e non storica. Se si possono ancora vedere sviluppi progressisti in movimenti imperialisti controrivoluzionari come il maoismo cinese, lo stalinismo del Vietnam o cubano, allora il pericolo di un abbandono delle posizioni internazionaliste coerenti sussiste.

Como

1. Questa stessa domanda si ritrova quasi in maniera identica presso altri corrispondenti.

2. Così la storia, contrariamente a ciò che dice il compagno, non ha mai dimostrato che una classe poteva essere portatrice del destino storico di un’altra classe, precisamente perché le rivoluzione non sopraggiungono se non quando tutte le possibilità del vecchio sistema e della sua classe dominante sono state esaurite e quando la classe rivoluzionaria, portatrice dei germi della nuova società, è passata attraverso un lungo periodo di gestazione nella vecchia società. Vedere la nostra brochure Russia 1917, l’inizio della rivoluzione mondiale, in particolare il rifiuto della teoria della rivoluzione doppia. La vita è in generale già troppo difficile perché si faccia la rivoluzione per altri. Ed inoltre, in un’epoca in cui essa non è possibile.

3. Vedere la nostra brochure La decadenza del capitalismo e la Revue Internationale n° 54.

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