Inviato da CCI il
Pubblichiamo qui di seguito la seconda parte di un articolo apparso sulla versione trimestrale (disponibile in lingua inglese, francese e spagnola) della nostra Révue Internationale nn. 96 e 97. Nella prima parte abbiamo risposto all’accusa che ci è stata rivolta di essere diventati “leninisti” e di aver cambiato posizione sulla questione organizzativa. Dopo aver chiarito la differenza fondamentale che esiste tra Lenin e le sue posizioni politiche da una parte e, dall’altra, il cosiddetto “leninismo”, cioè la deformazione che è stata fatta di queste posizioni, abbiamo dimostrato che il “leninismo” non solo si oppone ai nostri principi e posizioni politiche, ma che esso mira anche alla distruzione dell’unità storica del movimento operaio. In particolare, esso rigetta la lotta delle sinistre marxiste all’interno - e poi al di fuori - della II e III Internazionale, spingendo Lenin contro Rosa Luxemburg, Pannekoek, etc.. Il “leninismo” è la negazione del militante comunista Lenin. Esso è l’espressione della controrivoluzione staliniana all’inizio degli anni 1920.
Abbiamo anche affermato di aver sempre rivendicato la lotta di Lenin per la costruzione del partito contro l’opposizione dell’economicismo e dei menscevichi. Abbiamo anche ricordato che manteniamo il nostro rigetto nei confronti dei suoi errori in materia di organizzazione, particolarmente sul carattere gerarchico e “militare” dell’organizzazione, come a livello teorico sulla questione della coscienza di classe che dovrebbe essere apportata al proletariato dall’esterno, ricollocando questi errori nel loro quadro storico per comprenderne la dimensione ed il loro significato reale.
In questa seconda parte risponderemo invece alle seguenti questioni: qual è la posizione della CCI sul “Che fare?” e su “Un passo avanti, due passi indietro?” Perché affermiamo che queste due opere di Lenin rappresentano delle acquisizioni teoriche, politiche ed organizzative insostituibili? Le nostre critiche, rivolte a dei punti tutt’altro che secondari - come è in particolare la questione della coscienza sviluppata nel “Che fare?”, rimettono per caso in dubbio il nostro accordo fondamentale con Lenin?
LA POSIZIONE DELLA CCI SUL CHE FARE?
“Sarebbe pertanto falso e caricaturale opporre un “Che fare?” sostituzionista di Lenin ad una visione sana e chiara di Rosa Luxemburg e di Trotsky (quest’ultimo d’altra parte si farà, negli anni 1920, l’inflessibile difensore della militarizzazione del lavoro e della dittatura del partito!)” (1)
Come si vede, la nostra posizione sul “Che fare?” parte dal nostro metodo di concepire la storia del movimento operaio, metodo che si basa sull’unità e la continuità di quest’ultimo. Questo metodo non è nuovo ma risale alla fondazione della stessa CCI.
Il “Che fare?”, del 1902, è costituito da due grandi parti. La prima dedicata alla questione della coscienza di classe e del ruolo dei rivoluzionari. La seconda legata direttamente ai problemi organizzativi. L’insieme è una critica implacabile degli “economicisti” secondo i quali non sarebbe possibile uno sviluppo della coscienza nella classe operaia se non a partire dalle sue lotte immediate. Questi tendono infatti a sottovalutare o a negare ogni ruolo politico attivo delle organizzazioni rivoluzionarie il cui compito si limiterebbe ad “aiutare” le lotte economiche. Come conseguenza naturale di questa sottovalutazione del ruolo dei rivoluzionari, l’economicismo si oppone alla costituzione di una organizzazione centralizzata ed unita capace di intervenire largamente e con una sola voce su tutte le questioni, economiche e politiche.
Il testo di Lenin “Un passo avanti, due passi indietro”, del 1903, è un complemento al “Che fare?” sul piano storico e rende conto della rottura tra bolscevichi e menscevichi al II congresso del POSDR.
Come abbiamo detto, la debolezza principale del “Che fare?” è sulla coscienza di classe. Ma qual è la tendenza degli altri rivoluzionari su questa questione? Fino al II congresso, solo “l’economicista” Martinov vi si oppone. E’ solo dopo il congresso che Plekanov e Trotsky criticano la concezione sbagliata di Lenin sulla coscienza apportata alla classe operaia dall’esterno. Essi sono i soli a rigettare esplicitamente la posizione di Kautsky ripresa da Lenin secondo la quale “socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra (…). Il detentore della scienza non è il proletario, ma sono gli intellettuali borghesi”. (2)
La risposta di Trotsky su questo punto della coscienza è molto giusta, benché essa resti molto limitata. Non dimentichiamo che ci troviamo nel 1903 e la risposta di Trotsky, “I nostri compiti politici”, è datata 1904. Il dibattito sullo sciopero di massa è appena iniziato in Germania ma è soltanto con l’esperienza del 1905 in Russia che esso va realmente a svilupparsi. Trotsky respinge chiaramente la posizione di Kautsky e sottolinea il pericolo di sostituzionismo che essa comporta. Ma, nonostante ciò, mentre si mostra molto virulento contro Lenin sulle questioni organizzative, di fatto non se ne stacca completamente su questo aspetto particolare. Egli concepisce e spiega le ragioni di una tale presa di posizione in questi termini:
“Quando Lenin riprese da Kautsky l’assurda idea del rapporto tra l’elemento «spontaneo» e l’elemento «cosciente» nel movimento rivoluzionario del proletariato, non faceva che definire nelle sue grandi linee i compiti della sua epoca”. (3)
A parte la clemenza di Trotsky su questo piano, è opportuno rilevare che nessuno di quelli che si opponevano a Lenin si era scagliato contro la posizione di Kautsky sulla coscienza prima del II congresso del POSDR, quando essi erano uniti nella lotta contro l’economicismo. Anzi al congresso, Martov, leader dei menscevichi, riprende esattamente la stessa posizione di Kautsky e di Lenin: ”Noi siamo l’espressione cosciente di un processo incosciente.” (4) Dopo il congresso questa questione viene giudicata così poco importante che i menscevichi negano ancora ogni divergenza programmatica e attribuiscono la divisione alle “elucubrazioni” di Lenin sull’organizzazione:
“Con la mia debole intelligenza, non sono capace di comprendere ciò che può essere «l’opportunismo sui problemi organizzativi» posto in campo come qualcosa di autonomo, al di fuori di un legame organico con le idee programmatiche e tattiche.” (5)
La critica di Plékhanov, se è giusta, resta ancora molto generale e si limita a ristabilire la posizione marxista sul problema. L’argomento principale è che non è vero che “gli intellettuali (hanno) «elaborato» le loro proprie teorie socialiste «in maniera totalmente indipendente dalla crescita spontanea del movimento operaio», cosa che non è mai accaduta e che mai potrà accadere.” (6)
Plékhanov si limita, a livello teorico, al problema della coscienza. Non affronta i dibattiti del II congresso. Non risponde alla questione centrale di quale partito e quale ruolo per questo partito? Solo Lenin vi risponde.
La questione centrale del Che fare?: elevare la coscienza
Nella sua polemica sul piano teorico contro l’economicismo Lenin ha una preoccupazione centrale, la questione della coscienza di classe e del suo sviluppo nella classe operaia. Si sa che Lenin è ritornato rapidamente sulla posizione di Kautsky, particolarmente in seguito all’esperienza dello sciopero di massa in Russia del 1905 e la comparsa dei primi soviet. Nel gennaio del 1917, cioè prima dell’inizio della rivoluzione in Russia, quando la guerra imperialista infuriava, Lenin ritorna sullo sciopero di massa del 1905. Passaggi interi sullo “intreccio degli scioperi economici e di quelli politici” potrebbero apparire come redatti da Rosa Luxemburg o da Trotsky (7). E sono un’espressione del rigetto di Lenin del suo errore iniziale in gran parte provocato dalle sue “forzature” (8).
“La vera educazione delle masse non può mai essere separata dalla lotta politica indipendente e soprattutto dalla lotta rivoluzionaria delle masse stesse. Soltanto la lotta educa la classe sfruttata; soltanto la lotta le fa scoprire l’entità della sua forza, allarga il suo orizzonte, eleva le sue capacità, illumina la sua intelligenza e tempra la sua volontà.” (9) Si è ben lontano da ciò che dice Kautsky.
Ma già nel Che fare?, ciò che viene detto sulla coscienza è contraddittorio. Accanto alla posizione sbagliata presa da Kautsky Lenin afferma, per esempio: “Questo ci mostra che l’«elemento spontaneo» non è in fondo che la forma embrionale del cosciente”. (10)
Queste contraddizioni sono la manifestazione del fatto che Lenin, come il resto del movimento operaio nel 1902, non ha una posizione molto precisa e chiara sulla questione della coscienza di classe (11). Le contraddizioni del Che fare? e le prese di posizione ulteriori mostrano che egli non è particolarmente legato alla posizione di Kautsky. D’altra parte non vi sono che tre passaggi ben definiti del Che fare? in cui egli scrive che “la coscienza deve essere apportata dall’esterno”. E fra i tre ve n’è uno che non ha niente a che vedere con Kautsky.
Rigettando l’idea che si possa “sviluppare la coscienza politica della classe degli operai dall’interno della loro lotta economica, ovvero partendo unicamente (o almeno principalmente ) da questa lotta, basandosi unicamente (o almeno principalmente) su questa lotta… [Lenin risponde che] …la coscienza politica di classe non può essere apportata all’operaio che dall’esterno, vale a dire dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni” (10). La formula è confusa, ma l’idea è giusta. E non corrisponde a ciò che egli difende nelle altre due utilizzazioni del termine “esterno” quando parla della coscienza. Il suo pensiero è ancora più preciso in un altro passaggio: “La lotta politica della socialdemocrazia è molto più larga e complessa della lotta economica degli operai contro il padronato ed il governo”. (10)
Lenin rigetta con chiarezza la posizione sviluppata dagli economisti sulla coscienza di classe intesa come prodotto immediato, diretto, meccanico ed esclusivo delle lotte economiche.
Noi siamo dalla parte del Che fare? nella lotta contro l’economicismo. Noi siamo anche d’accordo con gli argomenti critici utilizzati contro l’economicismo e riteniamo che essi siano ancora oggi d’attualità per quanto riguarda il loro contenuto teorico e politico.
“L’idea secondo la quale la coscienza di classe non sorge in maniera meccanica dalle lotte economiche è del tutto corretta. Ma l’errore di Lenin consiste nel credere che non si può sviluppare la coscienza di classe a partire dalle lotte economiche e che quest’ultima deve essere introdotta dall’esterno da un partito.” (1)
E’ forse questa una nuova posizione della CCI? Ecco alcune citazioni del Che fare? che noi riprendiamo come nostre riportate in un articolo di polemica (12) del 1989 con il BIPR per sostenere, già da allora, ciò che affermiamo oggi:
“La coscienza socialista delle masse operaie è la sola base che ci può garantire il trionfo (…). Il partito deve avere sempre la possibilità di rivelare alla classe operaia l’antagonismo ostile tra i suoi interessi e quelli della borghesia”. [La coscienza di classe raggiunta dal partito] “deve essere diffusa tra le masse operaie con uno zelo crescente. (…) bisogna sforzarsi il più possibile per elevare il livello di coscienza degli operai in generale”. [Il compito del partito è di] tirare profitto dalle scintille di coscienza politica che la lotta economica ha fatto penetrare nello spirito degli operai per elevare questi al livello della coscienza socialdemocratica” (13).
Per i detrattori di Lenin, le concezioni presentate nel Che fare? annunciano lo stalinismo. Un legame unirebbe dunque Lenin a Stalin anche in materia di organizzazione (14). Noi abbiamo respinto questa menzogna nella prima parte di questo articolo sul piano storico. E noi la respingiamo anche sul piano politico, ivi compresa la questione della coscienza di classe e dell’organizzazione politica.
Vi è un’unità ed una continuità del Che fare? con la rivoluzione russa, ma sicuramente non con la controrivoluzione staliniana. Questa unità e questa continuità esistono in tutto quel processo rivoluzionario che collega gli scioperi di massa del 1905 a quelli del 1917, che va dal febbraio del 1917 all’insurrezione di ottobre 1917. Per noi il Che fare? annuncia Le tesi di aprile del 1917: ”Data l’innegabile buona fede di vasti strati delle masse, che sono per il difensivismo rivoluzionario e accettano la guerra come una necessità e non per spirito di conquista, dato che essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna innanzi tutto mettere in luce i loro errori minutamente, ostinatamente, pazientemente, mostrando il legame indissolubile fra il capitale e la guerra imperialista (…). Spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono la sola forma possibile di governo operaio.” (15). Per noi, il Che fare? annuncia l’insurrezione di ottobre ed il potere dei soviet.
I nostri detrattori attuali “anti-leninisti” passano completamente sotto silenzio questa preoccupazione centrale del Che fare? sulla coscienza, riprendendo così uno degli elementi del metodo stalinista che abbiamo denunciato nella prima parte di questo articolo. Se Stalin faceva cancellare i vecchi militanti bolscevichi dalle foto, essi cancellano l’essenziale di ciò che dice Lenin e ci accusano di essere diventati “leninisti“, ovvero stalinisti.
Per gli adoratori senza critica di Lenin, come la corrente bordighista, noi saremmo degli incorreggibili idealisti per la nostra insistenza sul ruolo e l’importanza de “la coscienza di classe nella classe operaia“ nella lotta storica e rivoluzionaria del proletariato. Per chi va a leggere bene ciò che ha scritto Lenin e per chi vuole ben calarsi nel processo reale delle discussioni e dei confronti politici dell’epoca, entrambe le accuse sono false.
La distinzione del Che fare? tra organizzazione politica e organizzazione unitaria
A livello politico ed organizzativo ci sono altri apporti fondamentali nel Che fare?. Si tratta principalmente della distinzione chiara e precisa che Lenin fa tra le organizzazioni di cui la classe operaia si dota nelle sue lotte quotidiane, le organizzazioni unitarie, e le organizzazioni politiche. Vediamo per prima l’acquisizione sul piano politico.
“Questi circoli, associazioni professionali degli operai e organizzazioni sono necessari dappertutto; bisogna che essi siano quanto più numerosi è possibile e che le loro funzioni siano le più varie; ma è assurdo e nocivo confonderle con l’organizzazione dei rivoluzionari, annullare la linea di demarcazione che esiste tra loro (…) L’organizzazione di un partito socialdemocratico rivoluzionario deve necessariamente essere di un altro genere rispetto all’organizzazione degli operai per la lotta economica” (10).
A tale livello, questa distinzione non è una scoperta per il movimento operaio. La socialdemocrazia internazionale, in particolare quella tedesca, è chiara sulla questione. Ma il Che fare?, nella sua lotta contro la variante russa dell’opportunismo in quest’epoca, l’economicismo, e tenendo conto delle condizioni particolari, concrete, della lotta di classe nella Russia zarista, è portato ad andare più lontano ed ad avanzare una idea nuova.
“L’organizzazione dei rivoluzionari deve inglobare anzitutto e principalmente degli uomini la cui professione è l’azione rivoluzionaria. Di fronte a questa caratteristica comune ai membri di una tale organizzazione, deve essere abolita ogni distinzione tra operai ed intellettuali e, a maggior ragione, tra le diverse professioni degli uni e degli altri. Necessariamente questa organizzazione non deve essere molto estesa, ed è necessario che essa sia quanto più clandestina possibile” (10).
Fermiamoci un momento su questo passaggio: sarebbe sbagliato vedere in esso delle considerazioni legate unicamente alle condizioni storiche in cui i rivoluzionari russi dovevano agire, in particolari condizioni d’illegalità, di clandestinità e di repressione. Lenin avanza tre punti che hanno un valore universale e storico e la cui validità non ha fatto che confermarsi fino ai giorni nostri. Il primo è che la militanza comunista è un atto volontario e serio (egli utilizza il termine “professionale” che è anche ripreso dai menscevichi nei dibattiti al congresso) che coinvolge il militante e determina la sua vita. Noi siamo sempre stati d’accordo con questa concezione della militanza che combatte e rigetta ogni visione o atteggiamento dilettantesco.
In secondo luogo Lenin difende una visione dei rapporti tra militanti comunisti che supera la divisione operaio-intellettuale (16), dirigente-diretto diremmo noi oggi, che supera ogni visione gerarchica o di superiorità individuale, in una comunità che lotta unita all’interno del partito, all’interno dell’organizzazione rivoluzionaria. Ed egli si oppone ad ogni divisione per mestiere o per corporazione tra i militanti. Egli rigetta, in anticipo, le cellule di fabbrica che saranno create durante la bolscevizzazione in nome del leninismo (8).
Infine, egli definisce un’organizzazione che “non deve essere estesa”. E’ il primo a percepire che il periodo dei partiti operai di massa si è concluso (17). Certamente, le condizioni della Russia favorirono sicuramente questa chiarezza. Ma sono le nuove condizioni di vita e di lotta del proletariato, che si manifestano in particolare attraverso “lo sciopero di massa”, che determinano anche le nuove condizioni d’attività dei rivoluzionari, in particolare il carattere "meno esteso", minoritario, delle organizzazioni rivoluzionarie nel periodo di decadenza del capitalismo che si apre all’inizio del secolo.
“Ma sarebbe (…) del “codismo” pensare che sotto il capitalismo quasi tutta la classe o la classe tutta intera sarà un giorno capace di elevarsi al punto di acquisire il grado di coscienza e d’attività del suo distaccamento d’avanguardia, del suo partito socialdemocratico” (18).
Se Rosa Luxemburg, Pannekoek o Trotsky sono tra i primi a tirare le lezioni sul manifestarsi degli scioperi di massa e dei consigli operai nella stessa epoca, essi restano tuttavia prigionieri di una visione del partito come organizzazione politica di massa. Rosa Luxemburg ad esempio critica Lenin dal punto di vista del partito di massa (19), finendo per deragliare essa stessa come quando scrive che “in verità la socialdemocrazia non è legata all’organizzazione della classe operaia, essa è invece proprio il movimento della classe operaia” (20). Vittima, anche lei, del “cambiamento di rotta” nella polemica, vittima del suo posizionarsi al fianco dei menscevichi sulla questione sollevata al 2° congresso del POSDR, essa scivola sfortunatamente a sua volta sul terreno dei menscevichi e degli economisti annegando l’organizzazione dei rivoluzionari nella classe (21). Rosa saprà più tardi riprendersi, e con quale brio! Ma sulla distinzione tra organizzazione dell’insieme della classe operaia ed organizzazione dei rivoluzionari, le formule di Lenin restano le più chiare. Sono queste che vanno più lontano. Chi è membro del partito? Il «Che fare?» e «Un passo avanti, due passi indietro» rappresentano dunque delle conquiste politiche essenziali nella storia del movimento operaio. Le due opere rappresentano più esattamente delle acquisizioni politiche «pratiche» sul piano organizzativo. Come Lenin, la CCI ha sempre considerato la questione organizzativa come una questione politica a pieno titolo. L’organizzazione politica della classe si distingue dalla sua organizzazione unitaria e ciò ha, a suo livello, delle implicazioni pratiche. Tra queste è essenziale la stretta definizione di adesione e di appartenenza al partito, vale a dire la definizione di militante, dei suoi compiti, dei suoi doveri, dei suoi diritti, in breve dei suoi rapporti con l’organizzazione. E’ ben nota la battaglia del II congresso del POSDR intorno all’articolo 1 degli statuti: è il primo scontro, all’interno dello stesso congresso, tra bolsceviche e menscevichi. La differenza tra le formulazioni proposte da Lenin e da Martov può sembrare del tutto insignificante; per Lenin:“è membro del Partito colui che ne riconosce il programma e sostiene il Partito sia con dei mezzi materiali che con la sua partecipazione personale in una delle organizzazioni del Partito.”
Per Martov, “è considerato come appartenente al Partito operaio socialdemocratico di Russia colui che, riconoscendo il suo programma, lavora attivamente per mettere in opera i suoi compiti sotto il controllo e la direzione degli organismi del Partito”.
La divergenza consiste nel riconoscere la qualità di membro o ai soli militanti che appartengono al Partito e che sono riconosciuti come tali da quest’ultimo - ed è la posizione di Lenin - o ai militanti che non appartengono formalmente al Partito e che in questo o quel momento e su una specifica attività offrono un sostegno al Partito, oppure che si dichiarano essi stessi socialdemocratici. La posizione di Martov e dei mensceviche è dunque molto più larga, più “flessibile”, meno restrittiva e meno precisa di quella di Lenin. Dietro questa differenza si nasconde una questione di fondo che è presto comparsa durante il congresso e su cui le organizzazioni rivoluzionarie si scontrano ancora tutt’oggi: chi è membro del partito e chi non lo è?Per Martov è chiaro: “Più sarà generalizzata la definizione di membro del partito, meglio sarà. Noi non possiamo che rallegrarci se ogni scioperante, ogni manifestante, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, può dichiararsi membro del Partito” (22).
La posizione di Martov tende a diluire, a dissolvere l’organizzazione dei rivoluzionari, il partito nella classe. Egli raggiunge così l’economicismo che precedentemente aveva combattuto assieme a Lenin. L’argomentazione che egli fornisce alla sua proposta di Statuto finisce per liquidare l’idea stessa di partito d’avanguardia, unito, centralizzato e disciplinato intorno ad un Programma politico ben definito, ben preciso e con una volontà d’azione militante e collettiva ancora più definita, precisa e rigorosa. Esso apre anche la porta alla politica opportunista di “reclutamento” senza principio di militanti, cosa che pone un’ipoteca sullo sviluppo del partito sul lungo periodo a profitto di risultati immediati. E’ Lenin che ha ragione:
“Al contrario, più forti saranno le nostre organizzazioni di Partito che inglobano dei veri socialdemocratici, meno ci sarà esitazione e instabilità all’interno del partito, e più larga, più varia, più ricca e più feconda sarà l’influenza del partito sugli elementi della massa operaia che l’avvicinano e sono diretti da esso. Non è permesso in effetti confondere il Partito, avanguardia della classe operaia, con tutta la classe” (18).
La grande pericolosità della posizione opportunista di Martov in materia di organizzazione, di reclutamento, di adesione e di appartenenza al partito appariva prontamente durante lo stesso congresso con l’intervento di Axelrod: “Si può essere un membro sincero e devoto del partito socialdemocratico, ma essere completamente inadatto all’organizzazione di lotta rigorosamente centralizzata” (4).
Come si può essere membro del partito, militante comunista, “ed essere inadatto all’organizzazione di lotta centralizzata?” Accettare una tale idea è così assurdo come pensare che un operaio combattivo e rivoluzionario sarebbe “inadatto” ad una qualunque azione collettiva di classe. Ogni organizzazione comunista non può accettare al suo interno che militanti adatti alla sua disciplina ed alla centralizzazione della sua lotta. Come potrebbe essere altrimenti? Il contrario significherebbe accettare che i militanti non siano necessariamente rispettosi dei rapporti d’organizzazione e delle decisioni adottate da quest’ultima e della necessità della lotta, significherebbe ancora ridicolizzare la nozione stessa di organizzazione comunista che deve essere “la frazione più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, la frazione che trascina tutte le altre.” (23) La lotta storica del proletariato è una lotta di classe unita sul piano storico e sul piano internazionale, collettiva e centralizzata. E, all’immagine della loro classe, i comunisti conducono una lotta storica, internazionale, permanente, unitaria, collettiva e centralizzata che si oppone ad ogni visione individualista. “Se la coscienza critica e l’iniziativa volontaria non hanno che un valore molto limitato per gli individui, esse si trovano pienamente realizzate nella collettività del partito” (24) Chi è incapace di iscriversi in questa lotta centralizzata non è adatto all’attività militante e non può essere riconosciuto membro del partito. “Che il partito non ammetta che degli elementi suscettibili almeno di un minimo di organizzazione” (18).
Questa “attitudine” è frutto della convinzione politica e militante dei comunisti. Essa si acquisisce e si sviluppa con la partecipazione alla lotta storica del proletariato, particolarmente all’interno delle sue minoranze politiche organizzate. Per ogni organizzazione comunista conseguente, la convinzione e l’attitudine “pratica”, non platonica, per “l’organizzazione di lotta rigorosamente centralizzata” di ogni nuovo militante sono allo stesso tempo condizioni indispensabili per la sua adesione e manifestazioni concrete del suo accordo politico con il programma comunista.
La definizione del militante, della qualità di membro di un’organizzazione comunista, è ancora oggi una questione essenziale. Il Che fare? e Un passo avanti, due passi indietro forniscono le fondamenta e le risposte a molteplici questioni in materia di organizzazione. E’ per questo che la CCI si è sempre basata sulla lotta dei bolscevichi al 2° congresso per distinguere, con chiarezza, rigore e fermezza un militante, ovvero colui “che partecipa personalmente ad una delle organizzazioni del partito”, come sostiene Lenin, da un simpatizzante, un compagno di strada che “adotta il programma, sostiene il partito attraverso dei mezzi materiali e gli dedica un impegno personale regolare [o irregolare, aggiungeremmo noi] sotto la direzione di una delle sue organizzazioni”, come viene espresso dalla definizione del militante Martov. Allo stesso modo noi abbiamo sempre difeso il fatto che “fin dal momento in cui vuoi essere membro del partito, devi riconoscere anche i rapporti organizzativi e non solo in maniera platonica”. (25)
Tutto ciò non è nuovo per la CCI. E’ la base stessa della sua costituzione come lo prova l’adozione dei suoi statuti fin dal suo primo congresso internazionale nel gennaio 1976.
Sarebbe sbagliato credere che oggi questa questione non pone più alcun problema. Innanzitutto, la corrente consiliarista, anche se le sue ultime espressioni politiche sono silenziose, se non sul punto di sparire (26), resta attualmente in qualche modo l’erede politico dell’economicismo e del menscevismo in materia di organizzazione. In un periodo di maggiore attività della classe operaia non c’è dubbio che le pressioni di ordine consiliarista per “lusingarsi, chiudere gli occhi sull’immensità dei compiti, ridurre questi compiti [dimenticando] la differenza tra il reparto d’avanguardia e le masse che gravitano attorno ad esso” (18) prenderanno un nuovo vigore. Inoltre, anche nell’ambiente che si rivendica esclusivamente alla sinistra Italiana e a Lenin, vale a dire la corrente bordighista e il BIPR, la messa in pratica del metodo di Lenin e del suo pensiero politico in materia d’organizzazione è lontano dal costituire un’acquisizione. Basta ricordarsi delle politiche di reclutamento senza principio del PCI bordighista negli anni 1970. Questa politica di tipo attivista ed immediatista d’altra parte fu l’elemento che provocò l’esplosione di questo gruppo nel 1982. Basta osservare ancora la mancanza di rigore del BIRP (che raggruppa Battaglia Comunista in Italia e la CWO in Gran Bretagna) che talvolta fa fatica a distinguere chi è militante dell’organizzazione e chi è solo un simpatizzante, un contatto vicino; e ciò malgrado tutti i rischi che una tale leggerezza organizzativa comporta (27). L’opportunismo in materia organizzativa è oggi uno dei veleni più pericolosi per il campo politico proletario. E malauguratamente, gli incantesimi nei riguardi di Lenin e la necessità del “Partito compatto e potente” non possono servire da antidoto.
Lenin e la CCI: una stessa concezione della militanza
Che dice Rosa Luxemburg, nella sua polemica con Lenin, sulla questione del militante e della sua appartenenza al partito?
“La concezione che viene espressa in questo libro [Un passo avanti, due passi indietro] in maniera penetrante ed esauriente, è quella di un centralismo impietoso; il suo principio vitale esige, da un lato, che le falangi organizzate di rivoluzionari riconosciuti e attivi nascano e si separino risolutamente dall’ambiente che li circonda e che, qualunque individuo non organizzato, non può considerarsi un rivoluzionario; vi si difende, d’altra parte, una rigida disciplina” (20).
Senza pronunciarsi esplicitamente contro la definizione precisa di militante data da Lenin, il tono ironico che lei usa quando parla de “le falangi organizzate che sorgono e si separano dall’ambiente che le circonda” e … il suo silenzio completo sulla battaglia politica combattuta al congresso sull’articolo 1 degli statuti, indicano la visione errata di Rosa Luxemburg in quel momento e il suo collocarsi a fianco dei menscevichi. Lei resta prigioniera della visione del partito di massa esemplificato dalla socialdemocrazia tedesca del tempo. Non riesce a vedere il problema o lo evita, sbagliando il tipo di lotta da combattere. Il fatto che lei non dica niente sul dibattito sull’articolo 1 degli statuti in occasione del congresso dà ragione a Lenin quando questi afferma che la Luxemburg “si limita a rimestare delle frasi vuote senza cercare di dar loro un senso. Agita degli spauracchi senza andare a fondo del dibattito. Lei mi fa dire luoghi comuni, delle idee generali, delle verità assolute e si sforza di rimanere muta su delle verità relative che si basano su dei fatti precisi” (28).Come nel caso di Plékhanov e di molti altri, le considerazioni generali avanzate da Rosa Luxemburg -anche quando queste risultano giuste in sé– non rispondono ai veri problemi politici posti da Lenin. “E’ così che una preoccupazione corretta: l’insistenza sul carattere collettivo del movimento operaio, sul fatto che «l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi», porta a delle false conclusioni pratiche” dicevamo già a tale riguardo nel 1979 (1). Di fatto, la Luxemburg non coglie le acquisizioni politiche della lotta dei bolscevichi.
Ora, senza il dibattito sull’articolo 1, la questione del partito chiaramente definito e chiaramente distinto, organizzativamente e politicamente, dall’insieme della classe operaia, non sarebbe stato definitivamente risolto. Senza la lotta portata da Lenin sull’articolo 1, la questione non sarebbe diventata quella conquista politica di prima importanza in materia di organizzazione su cui i comunisti di oggi devono imperativamente basarsi per costituire la loro organizzazione, non soltanto rispetto all’adesione di nuovi militanti, ma anche e soprattutto per stabilire con chiarezza, precisione e rigore i rapporti dei militanti nei confronti dell’organizzazione rivoluzionaria.
E’ forse nuova questa nostra difesa della posizione di Lenin sull’articolo 1 degli statuti? Abbiamo per caso cambiato posizione? “Per essere membro della CCI, occorre […] integrarsi nell’organizzazione, partecipare attivamente al suo lavoro e adempiere ai compiti richiesti” afferma l’articolo dei nostri statuti che tratta della questione dell’appartenenza militante alla CCI. E’ chiaro che noi riprendiamo, senza alcuna ambiguità, la concezione, lo spirito e finanche le parole dello statuto proposto da Lenin al 2° congresso del POSDR e certamente non quella di Martov e Trotsky. Peccato che gli ex membri della CCI che ci accusano oggi di essere divenuti “leninisti” abbiano dimenticato ciò che essi stessi avevano adottato all’epoca. Senza dubbio essi l’avevano fatto con una colpevole leggerezza ed una grande superficialità nell’entusiasmo studentesco post-sessantottino. In ogni caso, essi sono oggi particolarmente disonesti quando accusano la CCI d’aver cambiato posizione per fare intendere che sarebbero loro i fedeli alla vera CCI, quella delle origini.
LA CCI AL FIANCO DI LENIN SUGLI STATUTI
Abbiamo rapidamente presentato la nostra concezione del militante rivoluzionario e mostrato in che modo essa è l’erede, in gran parte, della lotta e degli apporti di Lenin nel Che fare? e Un passo avanti, due passi indietro. Abbiamo sottolineato l’importanza di tradurre il più fedelmente e rigorosamente possibile nella pratica militante quotidiana, attraverso gli statuti dell’organizzazione, questa definizione di militante. E là ancora noi siamo fedeli da sempre al metodo ed agli insegnamenti di Lenin in materia di organizzazione. La lotta politica per l’instaurazione di regole precise che regolano i rapporti organizzativi, vale a dire gli statuti, è fondamentale analogamente a quella per il loro rispetto. Senza quest’ultima, le grandi dichiarazioni tuonanti sul Partito non restano che delle spacconate.
Nel quadro di questo articolo non possiamo, per mancanza di spazio, presentare la nostra concezione dell’unità della organizzazione politica e mostrare in che modo la lotta di Lenin contro il mantenimento dei circoli, al 2° congresso del POSDR, costituisce un apporto teorico e politico considerevole. Ma vogliamo insistere sull’importanza pratica che c’è a tradurre la necessità di questa unità negli statuti dell’organizzazione: “Il carattere unitario della CCI si esprime ugualmente nei presenti statuti” (statuti della CCI). Lenin ne esprime molto bene la ragione e la necessità.
“L’anarchia da gran signore non capisce che lo statuto formale è necessario proprio per sostituire ai ristretti vincoli di circolo un ampio vincolo di Partito. Il vincolo esistente in seno a un circolo o tra i diversi circoli non doveva né poteva avere una forma ben definita, giacché poggiava sull’amicizia o su una «fiducia» istintiva, immotivata. Il vincolo di Partito non può e non deve reggersi né sull’una né sull’altra, deve basarsi precisamente su uno statuto formale, «burocraticamente» (29) (dal punto di vista dell’intellettuale non soggetto a disciplina) redatto, e soltanto la sua rigida applicazione ci garantisce contro l’arbitrio dei circoli, contro i capricci dei circoli, contro i metodi, propri dei circoli, di quella baruffa che viene chiamata libero «processo» della lotta ideologica.” (18)
E’ lo stesso per quanto riguarda la centralizzazione della organizzazione contro ogni visione federalista, localista, o visione dell’organizzazione come somma delle sue parti, o ancora di individui rivoluzionari, autonomi. “Il congresso internazionale è l’organo sovrano della CCI” (statuti della CCI). Anche su questo piano, noi ci rivendichiamo alla lotta di Lenin e alla sua necessaria traduzione pratica negli statuti dell’organizzazione, tanto per il POSDR all’epoca, che per le organizzazioni attuali.
“Nell’epoca di ricostruzione della vera unità del partito e della dissoluzione, in questa unità, dei circoli che hanno fatto il loro tempo, questo vertice è necessariamente il congresso del Partito, organismo supremo di quest’ultimo.” (18)
E’ la stessa cosa per quanto concerne la vita politica interna: l’apporto di Lenin riguarda anche e particolarmente i dibattiti interni, il dovere - e non solo il diritto- di espressione di ogni divergenza nel quadro organizzativo di fronte all’insieme dell’organizzazione; e una volta portati a termini i dibattiti e prese le decisioni da parte del congresso (che è l’organo sovrano, la vera assemblea generale dell’organizzazione), la subordinazioni delle parti e dei militanti al TUTTO. Contrariamente all’idea, ampiamente propagandata, di un Lenin dittatoriale, che cerca di affossare i dibattiti e la vita politica nell’organizzazione, quest’ultimo in realtà non ha mai cessato di opporsi alla visione menscevica che vede il congresso come “un registratore, un controllore, ma non un creatore.” (30)
Per Lenin e per la CCI, il congresso è “creatore”. In particolare, noi rigettiamo radicalmente ogni idea di mandati imperativi dei delegati da parte dei loro mandanti al congresso, che sarebbe in contraddizione con la possibilità di avere dei dibattiti quanto più ampi, dinamici e fruttuosi possibile e che ridurrebbe i congressi ad essere dei “registratori”, come lo voleva Trotsky nel 1903. Un congresso “registratore” consacrerebbe la supremazia delle parti sul TUTTO, il regno dell’ “ognuno padrone a casa sua”, del localismo e del federalismo. Un congresso “registratore e controllore” è la negazione del carattere sovrano del congresso. Come Lenin, noi siamo per congressi “organi-smo supremo” del partito che hanno potere decisionale e di “creazione”. Il congresso “creatore” implica dei delegati che non siano “imperativamente” limitati, con le mani legate, prigionieri del mandato che gli è conferito dai loro mandanti (31).
Il congresso “organo supremo” implica anche la sua supremazia, in termini programmatici, politici ed organizzativi, su tutte le differenti parti dell’organizzazione comunista.
“‘Il congresso è l’istanza suprema del partito’. Dunque chi, in un modo o in un altro, impedisce ad un delegato di rivolgersi direttamente al congresso su qualunque questione della vita di Partito, trasgredisce alla disciplina del partito ed al regolamento del congresso, senza riserve né eccezioni. La controversia si riconduce di conseguenza al dilemma: spirito di circolo o spirito di partito? Limitazioni dei diritti dei delegati al congresso, in nome di diritti o regolamenti immaginari di ogni tipo di collegio o circolo, o dissoluzione completa, non soltanto verbale, ma effettiva, di fronte al congresso, di tutte le istanze inferiori, dei vecchi piccoli gruppi.” (18)
Ed anche su questi punti non solo ci rivendichiamo alla lotta di Lenin, ma traduciamo in regole organizzative – vale a dire in statuti della nostra organizzazione - queste concezioni di cui noi ci consideriamo come i veri continuatori.
Gli statuti non sono misure eccezionali
Abbiamo visto che Rosa Luxemburg e Trotsky, per non citare altri, non rispondono a Lenin sull’articolo 1 degli statuti. Essi trascurano completamente questa questione come quella degli statuti in generale. Preferiscono rimanere anche su questo su delle generalità astratte. E quando si degnano di evocare la questione degli statuti, è solo per sottovalutarli completamente. Nella migliore delle ipotesi, essi considerano gli statuti delle organizzazioni politiche semplicemente come dei paletti, degli argini che delimitano i lati della strada che non bisogna superare. Nella peggiore, questi non sono che degli strumenti di repressione, misure eccezionali da utilizzare solo con estrema precauzione.
Per Trotsky, la formula di Lenin nell’articolo 1 avrebbe lasciato “la soddisfazione platonica [di avere] scoperto il più sicuro rimedio statutario contro l’opportunismo […]. Nessun dubbio: si tratta di un modo semplicistico, tipicamente amministrativo di risolvere una seria questione pratica.” (30)
E’ la stessa Rosa Luxemburg che, senza saperlo, risponde a Trotsky quando afferma che nel caso di un partito già costituito (come è il caso del partito socialdemocratico di massa in Germania), “un’applicazione più severa dell’idea centralista nello statuto dell’organizzazione ed una formulazione più stretta dei paragrafi della disciplina di partito sono molto appropriati come diga contro le correnti opportuniste.” (20) Lei è dunque d’accordo con Lenin per quanto riguarda la Germania, e cioè in generale. Per il caso russo invece comincia col dire delle “verità astratte” (“Gli smarrimenti opportunisti non possono essere previsti a priori, essi devono essere superati dallo stesso movimento”) che non vogliono dire niente e che, nella realtà, finiscono per giustificare “a priori” ogni rinuncia alla lotta contro l’opportunismo in materia di organizzazione. Cosa che in seguito non mancherà di fare, sempre a proposito del partito russo, deridendo gli statuti come “paragrafi cartacei”, delle “scartoffie scartabellate” e considerandoli come delle misure eccezionali:
“Lo statuto del Partito non dovrebbe essere un’arma contro l’opportunismo, ma solamente un mezzo estremo d’autorità per esercitare l’influenza preponderante della maggioranza rivoluzionaria proletaria realmente esistente nel Partito.” (20)
Noi non siamo mai stati d’accordo con Rosa Luxemburg su questo punto: “Rosa continua a ripetere che spetta allo stesso movimento di massa superare l’opportunismo; i rivoluzionari non devono fare altro che accelerare artificialmente questo movimento. […] Quello che Rosa Luxemburg non riesce a comprendere è che il carattere collettivo dell’azione rivoluzionaria è qualche cosa che si forgia.” (1). Sulla questione degli statuti, è con Lenin che siamo stati d’accordo da sempre.
Gli statuti come regola di vita e come arma di lotta
Per Lenin, gli statuti sono molto più che delle semplici regole formali di funzionamento, regole alle quali si ricorrerebbe solo in caso di situazioni eccezionali. Al contrario di Rosa Luxemburg o dei menscevichi, Lenin definisce gli statuti come delle linee di condotta, come lo spirito che deve animare l’organizzazione ed i suoi militanti quotidianamente.
All’opposto di una interpretazione degli statuti come dei mezzi di repressione o di coercizione, Lenin li intende come armi che impongono le responsabilità alle diverse parti della organizzazione e ai militanti di fronte all’insieme dell’organizzazione politica; armi che costringono al dovere d’espressione aperta, pubblica, davanti a tutta la organizzazione, su tutte le divergenze e difficoltà politiche incontrate.
Lenin non considera le espressioni dei punti di vista, delle sfumature, delle discussioni, delle divergenze come un diritto dei militanti, un diritto dell’individuo di fronte all’organizzazione ma come un dovere ed una responsabilità di fronte all’insieme del partito e dei suoi membri. Il militante comunista è responsabile, di fronte ai suoi compagni di lotta, dell’unità politica ed organizzativa del partito. Gli statuti sono degli strumenti al servizio dell’unità e della centralizzazione dell’organizzazione, dunque delle armi contro il federalismo, contro lo spirito di circolo, contro il cameratismo, contro ogni vita e discussione parallela a quella di organizzazione. Più che dei limiti esterni, più che delle regole, gli statuti –per Lenin- sono un modo di vita politica, organizzativa e militante.
“Le questioni controverse in seno ai circoli venivano decise non secondo lo statuto, «ma con la lotta e la minaccia di andarsene” […]. Quando ero solo membro di un circolo […], avevo il diritto di giustificare, per esempio, il mio rifiuto di lavorare con X, richiamandomi unicamente a una sfiducia istintiva e immotivata. Una volta diventato membro del Partito, non ho più il diritto di richiamarmi unicamente a una vaga sfiducia, perché questo spalancherebbe le porte ad ogni sorta di capricci e arbitri del vecchio sistema dei circoli; ho l’obbligo di motivare la mia «fiducia» o la mia «sfiducia» con un argomento formale, richiamandomi cioè a questa o a quella tesi, formalmente stabilita, del nostro programma, della nostra tattica, del nostro statuto; ho l’obbligo di non limitarmi ad un semplice «ho fiducia» o «non ho fiducia» istintivo, ma di riconoscere che di tutte le decisioni mie e, in generale, di tutte le decisioni di ogni settore del partito si deve rendere conto davanti a tutto il partito; ho l’obbligo, per esprimere la mia «sfiducia», per far accettare le vedute e i desideri che scaturiscono da questa sfiducia, di seguire la via formalmente prescritta. Noi ci siamo già elevati dalla «fiducia» istintiva, propria dei circoli, al partito, che esige l’applicazione di metodi controllabili e formalmente prescritti per esprimere e verificare la fiducia.” (18)
Gli statuti dell’organizzazione rivoluzionaria non sono semplici misure eccezionali, degli argini. Essi sono la concretizzazione dei principi organizzativi propri delle avanguardie politiche del proletariato. Prodotti di questi principi, essi sono allo stesso tempo un’arma di lotta contro l’opportunismo in materia di organizzazione ed i fondamenti sui quali l’organizzazione rivoluzionaria deve elevarsi e costruirsi. Sono l’espressione della sua unità, della sua centralizzazione, della sua vita politica ed organizzativa e del suo carattere di classe. Sono la regola e lo spirito che devono guidare quotidianamente i militanti nel loro rapporto con l’organizzazione, nelle loro relazioni con gli altri militanti, nei compiti che vengono loro affidati, nei loro diritti e doveri, nella loro vita quotidiana personale che non può essere in contraddizione né con l’attività militante né con i principi comunisti.
Per noi, come per Lenin, la questione organizzativa è una questione politica a pieno titolo. Non solo, è anche una questione politica fondamentale. L’adozione degli statuti e la lotta permanente per il loro rispetto e la loro messa in pratica è al centro della comprensione e della battaglia per la costruzione della organizzazione politica. Gli statuti sono, essi stessi, una questione teorica e politica a tutti gli effetti. E’ forse questa una scoperta per la nostra organizzazione? Un cambiamento di posizione?
“Il carattere unitario della CCI si esprime ugualmente nei presenti statuti che sono validi per tutta l’organizzazione [...]. Questi statuti costituiscono un'applicazione concreta della concezione della CCI in materia di organizzazione. Come tali, essi fanno parte integrante della piattaforma della CCI.” (Statuti della CCI)
IL PARTITO COMUNISTA SI COSTRUIRA’ SULLE ACQUISIZIONI POLITICHE ORGANIZZATIVE APPORTATE DA LENIN
Nella lotta del proletariato, questa battaglia di Lenin rappresenta uno dei momenti essenziali per la costituzione del suo organo politico che si è poi concretizzato con la fondazione della Internazionale Comunista (IC) nel marzo del 1919. Prima di Lenin, la Prima Internazionale (AIT) aveva rappresentato un momento altrettanto importante. Dopo Lenin, è la lotta della frazione italiana della Sinistra comunista per la sua propria sopravvivenza organica a segnare un altro momento importante.
Tra queste differenti esperienze, vi è un filo rosso, una continuità di principio, teorica, politica in materia di organizzazione. Gli attuali rivoluzionari non possono agganciare la loro azione se non in questa continuità ed in questa unità storica.
Abbiamo già ampiamente citato i nostri testi che ricordano chiaramente e senza ambiguità la nostra filiazione e la nostra eredità in materia di organizzazione. Il nostro «metodo» di riappropriazione delle acquisizioni politiche e teoriche del movimento operaio non è un’invenzione della CCI. Noi l’abbiamo ereditato dalla frazione italiana della Sinistra comunista e dalla sua pubblicazione Bilan negli anni 1930, come pure dalla Sinistra comunista di Francia e dalla sua rivista Internationalisme degli anni 1940. Questo è il metodo che noi abbiamo sempre rivendicato e senza il quale la CCI non esisterebbe, almeno nella sua forma attuale.
“L’espressione più compiuta della soluzione al problema del ruolo che l’elemento cosciente, il partito, è chiamato a giocare per la vittoria del socialismo, è stata data dal gruppo di marxisti russi della vecchia Iskra, ed in particolare da Lenin che, fin dal 1902, ha dato una definizione di principio al problema del partito nella sua rimarchevole opera Che fare?. La nozione di partito di Lenin servirà da colonna vertebrale al partito bolscevico e sarà uno dei più grandi apporti di questo partito nella lotta internazionale del proletariato.” (32)
Effettivamente, e senza dubbio, il Partito comunista mondiale di domani non potrà costituirsi al di fuori delle principali acquisizioni teoriche, politiche ed organizzative forniteci da Lenin. La riappropriazione reale e non declamatoria di queste acquisizioni e la loro messa in pratica rigorosa e sistematica alle condizioni attuali costituiscono uno dei più importanti compiti che i piccoli gruppi comunisti di oggi devono assumere se vogliono contribuire al processo della costruzione di questo Partito.
RL
1. Brochure della CCI su “Organizzazioni comuniste e coscienza di classe”, 1979, disponibile solo in inglese e francese.
2. Kautsky, citato da Lenin nel “Che fare?”, cap. II.
3. Trotsky, I nostri compiti politici, cap. I, par. In nome del marxismo, La Nuova sinistra Samonà e Savelli, 1972.
4. Processo verbale del 2° congresso del POSDR, edizioni Era, 1977, tradotto da noi dallo spagnolo.
5. P. Axelrod, Sull’origine ed il significato delle nostre divergenze organizzative, lettera a Kautsky, 1904
6. G. Plékhanov, La classe operaia e gli intellettuali socialdemocratici, 1904,
7. Vedi Sciopero di massa, partito e sindacati (Rosa Luxemburg, 1906) e 1905, (Trotsky, 1908-1909).
8. Vedere la prima parte di questo articolo nel n° 96 della Revue Internationale.
9. Lenin, Rapporto sul 1905, gennaio 1917.
10. Lenin, Che fare?.
11. K. Marx è molto più chiaro sulla questione nei suoi lavori. Ma questi sono per la maggior parte sconosciuti ai rivoluzionari dell’epoca perché non disponibili o poco pubblicati. Opera fondamentale sulla questione della coscienza è, per esempio, L’ideologia tedesca, che sarà pubblicata per la prima volta soltanto nel…1932!
12. Questo articolo non è della CCI, ma dei compagni del Grupo Proletario Internacionalista che successivamente hanno costituito la sezione della CCI in Messico. L’obiettivo del-l’articolo: «prima di criticare Lenin [è di] difenderlo, tentare di restituire il suo pensiero, di esprimere chiaramente quali erano le sue preoccupazioni e le sue intenzioni nella lotta contro la corrente «economicista», contro la comprensione particolare e parziale del Che fare? da parte del BIPR. Esso oppone i passaggi citati, «la preoccupazione, le intenzioni» di Lenin alla posizione del BIPR che considera che «ammettere che l’insieme o anche la maggioranza della classe operaia, tenuto conto della dominazione del capitale, possa acquistare una coscienza comunista prima della presa del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato, sia puro e semplice idealismo» (La coscienza della classe nella prospettiva comunista, Révue Communiste n° 2, pubblicata dal BIPR).
13. «Coscienza di classe e partito», Revue Internationale n° 57, 1989.
14. Nell’insieme delle menzogne della borghesia, è opportuno rilevare il piccolo contributo di RV, ex militante della CCI, che dichiara che «vi è una vera continuità e coerenza tra le concezioni del 1903 ed azioni come l’interdizione delle frazioni all’interno del partito bolscevico o lo schiacciamento degli operai insorti a Kronstadt» (RV, «Presa di posizione sull’evoluzione recente della CCI», pubblicata da noi stessi nella nostra brochure su La pretesa paranoia della CCI).
15. Lenin, «Tesi di Aprile», 1917.
16. Non è necessario ricordare qui la debolezza del livello «scolastico» e l’analfabetismo che dominava tra gli operai russi. Ciò non impedisce a Lenin di considerare che essi possono e devono integrarsi nell’attività del partito allo stesso titolo degli «intellettuali».
17. «Lenin opererà una rottura anche con la visione socialdemocratica del partito di massa. Per Lenin, le nuove condizioni della lotta impongono la necessità di un partito minoritario d’avanguardia che deve operare per la trasformazione delle lotte economiche in lotte politiche» (Organizzazioni comuniste e coscienza di classe, CCI 1979).
18. Lenin, Un passo avanti, due passi indietro.
19. «Questa militante che è passata attraverso le scuole del partito socialdemocratico, sviluppa un attaccamento incondizionato al carattere di massa del movimento rivoluzionario» (Organizzazioni comuniste e coscienza di classe, CCI 1979).
20. Rosa Luxemburg, Questioni di organizzazioni nella socialdemocrazia russa.
21. Il lettore potrà notare che questa visione lascia la porta aperta ad una interpretazione sostituzionista del partito - il partito che si sostituisce all’azione della classe operaia … fino ad esercitare il potere statale in suo nome oppure a realizzare delle azioni «putchistes», come faranno gli stalinisti negli anni 1920.
22. Martov, citato da Lenin in «Un passo avanti, due passi indietro».
23. K. Marx, Il Manifesto del partito Comunista.
24. Tesi sulla tattica del Partito Comunista d’Italia, Tesi di Roma, 1922.
25. Il bolscevico Pavlovitch citato da Lenin in Un passo avanti, due passi indietro.
26. Vedi su Rivoluzione Internazionale n. 110 l’articolo sull’arresto delle pubblicazioni di Daad en Gedachte, la rivista del gruppo consiliarista olandese dallo stesso nome.
27. Noi abbiamo già criticato la superficialità e l’opportunismo di BC in Italia su questa questione a proposito dei militanti dei GPL (cfr. I «Gruppi di lotta proletaria» un tentativo incompiuto di raggiungere una coerenza rivoluzionaria, in Rivoluzione Internazionale n° 106, giugno 1998). Questo caso non è isolato: è apparso sul sito Internet del BIPR un articolo intitolato “I rivoluzionari devono lavorare nei sindacati reazionari?”. In questo articolo, non firmato, e dove l’autore può apparire come membro della CWO, c’è la risposta alla domanda posta nel titolo: “i materialisti, non gli idealisti, devono rispondere affermativamente” con due argomenti principali: “Molti lavoratori combattivi si trovano nei sindacati” e “i comunisti non devono disprezzare queste organizzazioni che raggruppano i lavoratori in massa” (sic). Questa posizione è in completa contraddizione con la posizione di BC –e dunque del BIPR noi supponiamo- riaffermata in occasione del suo ultimo congresso che difende la posizione secondo cui: «non vi può essere una reale difesa degli interessi operai, anche i più immediati, se non al di fuori è contro la linea sindacale». Ma soprattutto il problema consiste nel fatto che non si sa chi ha scritto l’articolo: un militante o un simpatizzante del BIPR? E, in qualunque caso, perché non c’è stata nessuna presa di posizione, nessuna critica? Per dimenticanza? Per opportunismo, allo scopo di reclutare un nuovo militante chiaramente male sganciato dal gauscisme? Oppure per semplice sottostima della questione organizzativa? Ancora una volta per i gruppi del BIPR si sente odore di Martov … Per quanto ci risulta, il testo è stato successivamente ritirato, senza alcuna menzione, dal sito Internet.
28. Lenin, risposta a R. Luxemburg, pubblicata in Nos tâches politiques, Trotsky, Edizioni Belfond.
29. Ancora un esempio del metodo polemico di Lenin che riprende le accuse dei suoi avversari per rivolgerle contro di loro (vedi la prima parte di questo articolo).
30. Trotsky, Rapporto della delegazione siberiana.
31. Il delegato del partito comunista tedesco, Eberlein, a quella che all’inizio non era che una conferenza internazionale nel marzo 1919, aveva il mandato di opporsi alla costituzione della III Internazionale, dell’Internazionale Comunista (IC). Era chiaro per tutti i partecipanti, in particolare per Lenin, Trotskij, Zinoviev, i dirigenti bolscevichi, che la fondazione dell’IC non poteva effettuarsi senza l’adesione del PC tedesco. Se Eberlein fosse rimasto “prigioniero” di un mandato imperativo, sordo ai dibattiti ed alla stessa dinamica della conferenza, l’Internazionale come Partito mondiale del proletariato non sarebbe stata fondata. 32. Internationalisme n. 4, 1945.