Dopo l'Asia, la Russia e l'America latina, la catastrofe economica raggiunge il cuore del capitalismo

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La crisi finanziaria, che si è manifestata da poco più di un anno nel sud-est asiatico, è attualmente in via di prendere la sua vera dimensione. Essa ha conosciuto una nuova impennata nel corso dell'estate, con il crollo dell'economia russa e con le convulsioni senza precedenti nei “paesi emergenti” dell'America latina. Ma sono ora le principali metropoli del capitalismo, i paesi più sviluppati d'Europa e d'America del nord, che si trovano in prima linea con una caduta continua dei loro indici borsistici e con previsioni di crescita continuamente riviste al ribasso. Siamo lontani dall'euforia che animava le borghesie ancora qualche mese fa, un’euforia che si rifletteva nella montata vertiginosa delle Borse occidentali durante tutti i primi mesi del 1998. Attualmente, gli stessi “specialisti” che si felicitavano della “buona salute” dei paesi anglosassoni e che prevedevano una ripresa in tutti i paesi europei non sono gli ultimi a parlare di recessione, anzi di “depressione”. Ed hanno ragione ad essere pessimisti. Le nuvole che attualmente si accumulano sulle più potenti economie non presagiscono una piccola burrasca. Annunciano, al contrario, una vera tempesta che manifesta l'impasse in cui si trova l'economia capitalista.

Teatro di un nuovo e brutale colpo d'acceleratore, l'estate del 1998 sarebbe stata mortale per la credibilità del sistema capitalista: approfondimento della crisi in Asia dove la recessione s'installa e raggiunge ora direttamente le due “grandi” che sono il Giappone e la Cina, situazione minacciosa in America latina, crollo spettacolare dell'economia russa e cadute che sfiorano i record storici sulle principali piazze borsistiche. In tre settimane, il rublo ha perduto il 70% del suo valore (da giugno del 1991, il PIB russo è caduto del 50% se non dell'80%). Il 31 agosto, il famoso “lunedì blu”, secondo l'espressione di un giornalista che non ha osato chiamarlo “nero”, ha visto l'indice di Wall Street cadere del 6,4% e quello del Nasdaq (l'indice dei valori tecnologici) dell'8,5%. All'indomani, I° settembre, anche le Borse europee erano colpite. Francoforte iniziava la mattinata con una perdita del 2% e Parigi del 3,5%. Nel corso della giornata, Madrid perdeva il 4,23%, Amsterdam 3,56% e Zurigo 2,15%. Per l'Asia, il 31 agosto, la Borsa di Hong Kong cadeva oltre il 7%, quanto a quella di Tokyo, essa precipitava, raggiungendo il livello più basso negli ultimi 12 anni. In seguito, il movimento al ribasso dei mercati borsistici non ha fatto che proseguire al punto tale che il lunedì 21 settembre la maggior parte degli indici erano ritornati ai livelli dell'inizio del 1998: +0,32% a New York, +5,09% a Francoforte ma saldo negativo a Londra, Zurigo, Amsterdam, Stoccolma…

L'accumularsi di tutti questi avvenimenti non è per niente dovuta al caso. Al contrario di quanto hanno voluto farci credere, essa non è per niente la manifestazione di una “crisi di sfiducia passeggera” verso i paesi detti “emergenti” o una “correzione meccanica salutare di un mercato sopravvalutato”, ma si tratta di un nuovo episodio che caratterizza la discesa agli inferi di tutto il capitalismo, una discesa agli inferi di cui il crollo dell'economia russa ci offre una sorta di caricatura.

La crisi in Russia

Per mesi, la borghesia mondiale e i suoi “esperti”, seriamente spaventati con la crisi finanziaria dei paesi del sud-est asiatico, si erano consolati costatando che essa non aveva trascinato nella sua scia gli altri paesi “emergenti”. I media avevano allora esagerato sulle caratteristiche “specifiche” delle difficoltà che assillavano la Tailandia, la Corea, l'Indonesia, ecc. E poi il campanello d'allarme si è fatto sentire di nuovo con il vero caos che si è impadronito dell'economia russa all'inizio dell'estate (1). La “comunità internazionale”, che aveva già fortemente contribuito nei confronti del sud-est asiatico, ha finito per dare un aiuto di 22,6 miliardi di dollari su 18 mesi, accompagnato, come al solito, da condizioni draconiane: riduzione drastica delle spese dello Stato, aumento delle imposte (particolarmente quelle che pesano sui salari, tanto per compensare l'impossibilità accertata dello Stato russo a ricoprire quelli dovuti alle imprese), innalzamento dei prezzi, aumento delle tasse sulle pensioni. Tutto ciò mentre le condizioni d’esistenza dei proletari russi erano già miserabili e quando la maggior parte degli impiegati statali e una buona parte di quelli delle imprese private non vedevano i propri salari da molti mesi. Una miseria che si traduce in maniera drammatica: da giugno 1991 si riconosce che la speranza di vita maschile si è ridotta da 69 a 58 anni; il tasso di natalità da 14,7‰ a 9,5‰.

Un mese più tardi, il risultato era là: i fondi stanziati si erano trasformati in pura perdita. Dopo una settimana nera che ha visto la Borsa di Mosca cadere vertiginosamente e messo centinaia di banche sull'orlo del fallimento, Eltsin ed il suo governo sono stati costretti, il 17 agosto, a mollare su ciò che era l'ultima difesa della loro credibilità: il rublo e la sua parità in rapporto al dollaro. Sulla prima parte di 4,8 miliardi di dollari versati in luglio come aiuto da parte del FMI, 3,8 erano stati inghiottiti, in vano, nella difesa del rublo. Quanto al miliardo restante, non era per niente servito alla messa in opera di misure di risanamento delle finanze dello Stato ed ancor meno a pagare gli arretrati del salario degli operai, per la buona ragione che anche quest'ultimo si era liquefatto nella sola funzione del debito (che divora più del 35% delle risorse del paese), cioè nel semplice pagamento degli interessi venuti a scadenza nello stesso periodo. Senza parlare dei fondi sottratti che vanno direttamente nelle tasche di questa o quella fazione di una borghesia "gangsterizzata". L'insuccesso di questa politica significa per la Russia che, oltre ai fallimenti a catena di banche (circa 1500 banche coinvolte), oltre alla caduta nella recessione e all'esplosione del suo debito estero trasformato in dollari, l'attende il ritorno dell'inflazione galoppante. Fin da ora si stima che questa potrebbe arrivare dal 200 al 300% in questo anno. E non è ancora tutto.

Questo marasma ha immediatamente provocato lo sbandamento del vertice statale russo, provocando una crisi politica. Questo dissesto della sfera dirigente russa, che la fa somigliare sempre di più a quella di una volgare repubblica delle banane, ha allarmato le borghesie occidentali. Ma la borghesia può ben preoccuparsi della sorte di Eltsin e soci, è innanzi tutto la popolazione russa e la classe operaia che pagano e vanno a pagare il prezzo più alto delle conseguenze di questa situazione. La caduta del rublo ha già rincarato di oltre il 50% il prezzo delle derrate alimentari importate che rappresentano più della metà di quelle consumate in Russia. La produzione è appena il 40% di quella che era prima della caduta del muro di Berlino…

Attualmente la realtà conferma in pieno ciò che dicevamo circa nove anni fa nelle “Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est”, redatte nel settembre del 1989: “Di fronte al fallimento totale dell'economia di questi paesi, la sola possibilità che ha quest'ultima non di accedere ad una reale competitività, ma di tenere almeno la testa fuori dall'acqua, sta nell'introduzione di meccanismi che permettano una reale responsabilizzazione dei suoi dirigenti. Questi meccanismi presuppongono una "liberalizzazione” dell'economia, la creazione di un mercato interno che veda una maggiore "autonomia" per le imprese e lo sviluppo di un forte settore "privato"(…) Tuttavia, anche se un tale programma diventa sempre più indispensabile, la sua attuazione comporta degli ostacoli praticamente insormontabili.” (Revue Internationale n°60)

Qualche mese dopo dicemmo: “(…) alcuni settori della borghesia rispondono che ci sarebbe bisogno di un nuovo "Piano Marshal" per consentire la ricostruzione del potenziale economico di questi paesi (…) oggi, un’iniezione massiva di capitali verso i paesi dell'Est che mira a sviluppare il loro potenziale economico, e in particolare industriale, non può essere possibile. Anche supponendo che si rimetta in piedi un tale potenziale produttivo, le merci prodotte non farebbero che ingombrare ancora di più un mercato mondiale già super saturo. E' quello che vediamo nei paesi che oggi escono dallo stalinismo come paesi sottosviluppati: tutta la politica di crediti massivi iniettati in questi ultimi nel corso degli anni 70 ed 80 non ha potuto portare che alla situazione catastrofica che ben si conosce (un debito di 1400 miliardi di dollari e delle economie ancora più devastate rispetto a prima). I paesi dell'Est (la cui economia si avvicina d'altra parte a quella dei paesi sottosviluppati per le evidenti somiglianze) non possono conoscere sorti differenti. (…) La sola cosa che è possibile aspettarsi, è l'invio di crediti o di aiuti urgenti che permettono a questi paesi di evitare una bancarotta finanziaria aperta e una miseria che non farebbe che aggravare le convulsioni che li scuotono.” (“Dopo il crollo del blocco dell'Est, destabilizzazione e caos”, Revue Internationale n°61).

Due anni dopo, scriviamo: “E' ancora per allentare un po’ la strozzatura finanziaria dell'ex URSS che il G7 ha accordato una proroga di un anno per il rimborso degli interessi del debito sovietico, il quale attualmente ammonta ad 80 miliardi di dollari. Ma ciò non sarà che un ulteriore rimedio inutile dato che i crediti assegnati sembrano scomparire in un pozzo senza fondo. Due anni fa era stata propagandata ogni sorte d'illusione sui "nuovi mercati" aperti con il crollo dei regimi stalinisti. Attualmente, nello stesso momento in cui la crisi economica mondiale si traduce, tra l'altro, in una crisi acuta di liquidità, le banche sono sempre più reticenti a piazzare i loro capitali in queste parti del mondo.” (Revue Internationale n° 68)

Così la realtà dei fatti è venuta a confermare, contro tutte le illusioni interessate della borghesia e dei suoi difensori, ciò che la teoria marxista ha permesso ai rivoluzionari di prevedere. L'oggi è una disgregazione totale, che sviluppa una miserie spaventosa e che incomincia a bussare alle stesse porte di ciò che appare ancora come la “fortezza Europa”.

Il tentativo dei media di far passare il messaggio che, caduto l'attuale vento di panico borsistico, le conseguenze per l'economia a livello internazionale sarebbero minime, non ha avuto molto successo. E ciò è normale perché la volontà dei capitalisti di farsi coraggio e soprattutto di nascondere alla classe operaia la gravità della crisi mondiale, si scontra con la dura realtà dei fatti. Innanzitutto, tutti i creditori della Russia sono nuovamente e severamente messi male. Circa 75 miliardi di dollari sono stati prestati a questo paese dalle banche occidentali, i buoni del Tesoro che esse detengono hanno già perduto l'80% del loro valore e la Russia ha sospeso tutto i rimborsi per quelli convertiti in dollari. Inoltre, la borghesia occidentale teme che gli altri paesi dell'Europa dell'Est possano conoscere lo stesso incubo. Ed a ragione: la Polonia, l'Ungheria e la Repubblica Ceca rappresentano insieme 18 volte di più degli investimenti occidentali rispetto alla Russia. Ora, fin dalla fine di agosto, i primi cedimenti si sono fatti sentire nelle Borse di Varsavia (-9,5%) e di Budapest (-5,5%) dimostrando che i capitali cominciavano a disertare queste nuove piazze finanziarie. In più, ed in maniera ancora più pressante, la Russia trascina nel suo crollo i paesi della CEI le cui economie sono molto legate alla sua. Pertanto, anche se la Russia non è che un “piccolo debitore” del mondo in rapporto ad altre regioni, la sua situazione geopolitica, il fatto che essa costituisca, in piena Europa, un campo minato di armi nucleari e la minaccia di uno sprofondamento nel caos provocato dalla crisi economica e politica, tutto ciò conferisce alla situazione in questi paesi una gravità particolare.

D'altra parte, il fatto che il debito della Russia sia relativamente limitato rispetto ai crediti accordati in Asia o in altre regioni del mondo è proprio una ben misera consolazione. In realtà, questa constatazione, deve al contrario attirare l'attenzione su altre minacce che si vanno a delineare, come quella dell’estendersi della crisi finanziaria in America latina che è stata, in questi ultimi anni, la principale destinataria degli investimenti diretti stranieri nei paesi “in via di sviluppo” (45% del totale nel 1997, contro il 20% nel 1980 e del 38% nel 1990). I rischi di svalutazione in Venezuela, la violenta caduta dei prezzi delle materie prime dopo la crisi asiatica che tocca i paesi sudamericani in maniera più forte che in Russia, un debito estero fenomenale, un indebitamento pubblico astronomico (il deficit pubblico del Brasile, il 7° PIL mondiale, è ben superiore a quello della Russia) fanno dell'America latina una bomba ad orologeria che minaccia di aggiungere i suoi effetti devastanti a quelli dei marasmi asiatici e russi. Una bomba ad orologeria che si trova alle porte della prima potenza economica mondiale, gli Stati-Uniti.

Tuttavia, la minaccia principale non proviene dai paesi sottosviluppati o poco sviluppati, ma da un paese altamente sviluppato, la seconda potenza economica del mondo, il Giappone.

La crisi in Giappone

Ancor prima del cataclisma dell'economia russa che ha avuto l'effetto di una doccia fredda sull'ottimismo della borghesia di ogni paese, nel giugno del 1998, un terremoto con epicentro a Tokyo aveva lanciato le sue minacce di destabilizzazione del sistema economico mondiale. Dal 1992, malgrado sette piani di “rilancio” che hanno iniettato l'equivalente del 2-l 3% del PNL per un anno ed una svalutazione dello yen, dimezzato in tre anni che avrebbe dovuto sostenere la competitività dei prodotti giapponesi sul mercato mondiale, l'economia giapponese continua ad affondare nel marasma. Per paura di doversi scontrare con le conseguenze economiche e sociali in un contesto già molto fragile, lo Stato giapponese ha continuato a adottare misure di “risanamento” del suo settore bancario. L'ammontare dei crediti non recuperabili rappresenta una somma equivalente al 15% del PIL…Da qui il crollo dell’economia giapponese, e internazionale per contraccolpo, in una recessione di un’ampiezza senza precedenti dopo la grande crisi del 1929. Di fronte a questo impantanarsi crescente del Giappone nella recessione  e ai tentennamenti  del potere nel prendere le misure necessarie, lo yen è stato oggetto di un’importante speculazione che ha minacciato tutte le monete dell'Estremo-Oriente di una svalutazione a catena che avrebbe dato il segnale al peggiore scenario deflazionistico. Il 17 giugno del 1998, la Riserva Federale americana finì per portarsi massivamente in aiuto di uno yen che cominciava a precipitare. Tuttavia, la partita non era che rinviata; aiutato dalla comunità internazionale il Giappone ha potuto ritardare la scadenza… ma al prezzo di un indebitamento che aumenta a velocità vertiginosa. Il solo debito pubblico raggiunge già l'equivalente di un anno di produzione (100% del PNL).

E' interessante notare, a questo proposito, che sono gli stessi economisti “liberali”, quelli che mettono alla berlina l'intervento dello Stato nell'economia e che attualmente occupano il primo posto nelle grandi istituzioni finanziarie internazionali proprio come nei governi occidentali, che reclamano ad alta voce una nuova iniezione massiccia di fondi pubblici nei settori bancari al fine di salvarli dal fallimento. Questa è la prova che, al di là di tutte le chiacchiere ideologiche sul “meno Stato”, gli “esperti” borghesi sanno che lo Stato costituisce l'ultima difesa di fronte allo sbandamento economico. Quando parlano di “meno Stato” si riferiscono fondamentalmente allo “Stato previdenziale”, cioè ai dispositivi di protezione sociale dei lavoratori (sussidi di disoccupazione e di malattia, minimo sociale) e i loro discorsi significano che bisogna attaccare ancora e sempre di più le condizioni di vita della classe operaia.

Alla fine, il 18 settembre, governo ed opposizione fanno un compromesso per salvare il sistema finanziario nipponico ma, al posto di rilanciare i mercati borsistici, queste misure sono accolte da una nuova caduta di questi ultimi, prova della sfiducia profonda che i finanzieri hanno ormai per l'economia della seconda potenza mondiale che per decenni ci è stata presentata come un “modello”. L'economista in testa alla Deutsche Bank di Tokio, Kenneth Courtis, personaggio serio quale egli è, vede solo quattro percorsi possibili:

“E’ necessario rovesciare la dinamica alla caduta, la più grave le crisi petrolifere degli inizi degli anni 70 (consumo ed investimenti in caduta libera), perché ormai si è entrati in una fase in cui si stanno creando nuovi crediti incerti. Si parla di quelli bancari, ma poco di quelli familiari. Con la perdita dei valori degli alloggi e la disoccupazione che aumenta, si rischia di vedere delle inadempienze dei rimborsi dei prestiti garantiti su dei beni immobiliari ipotecati da dei privati. Queste ipoteche ammontano alla strabiliante cifra di 7500 miliardi di dollari, il cui valore è precipitato del 60%. Il problema politico e sociale è latente. (…) Non dobbiamo ingannarci è in corso: una purga di grande ampiezza dell'economia… e le imprese che sopravviveranno saranno caratterizzate da una forza incrollabile. E' in Giappone che si può concretizzare il più grande rischio per l'economia mondiale dopo gli anni 30…” (Le Monde, 23 settembre).

Le cose sono chiare, per l'economia del Giappone e per la classe operaia di questo paese, il peggio deve ancora arrivare, i lavoratori giapponesi già duramente colpiti da questi ultimi dieci anni di stagnazione e ora dalla recessione, devono ancora subire molteplici piani di austerità, di licenziamenti massivi e un forte aumento del loro sfruttamento in un contesto in cui la crisi finanziaria s'accompagna fin da ora alla chiusura delle più importanti fabbriche. Ma non è questo che, nell'immediato, nel momento in cui la classe operaia mondiale non ha ancora finito di digerire la sconfitta ideologica che essa ha subito con il crollo del blocco dell'Est, preoccupa la maggior parte dei capitalisti. Ciò che comincia in maniera crescente a roderli, è la distruzione delle loro illusioni e la scoperta crescente delle prospettive catastrofiche della loro economia.

Verso una nuova recessione mondiale

Se ad ogni allarme passato gli “esperti” ci avevano abituato a dichiarazioni consolatrici del tipo “gli scambi commerciali con l'Asia del Sud-Est sono poco importanti”, “la Russia non ha un gran peso sull’economia mondiali”, “l'economia europea è stimolata dalla prospettiva dell'Euro”, “le fondamenta US sono buone”, ecc., attualmente il tono è cambiato! Il mini crac alla fine di agosto in tutte le grandi piazze finanziarie del globo ha ricordato che se a rompersi nella tempesta sono i rami più fragili dell'albero è proprio perché è il tronco che non trova più sufficienti energie dalle proprie radici per alimentare le sue parti più periferiche. Il cuore del problema è proprio nei paesi centrali, i professionisti della Borsa non si sono sbagliati. Dal momento che le proposte rassicuranti sono ogni volta sconfessate dai fatti, non è più possibile nascondere la verità. Fondamentalmente, si tratta ora per la borghesia di preparare poco a poco gli animi alle dolorose conseguenze sociali ed economiche di una recessione internazionale più che certa: “Una recessione su scala mondiale non è scongiurata. Le autorità americane hanno ritenuto opportuno rendere noto che seguivano gli avvenimenti da vicino (…) la probabilità di un rallentamento economico su scala mondiale non è trascurabile. Una gran parte dell'Asia è in recessione. Negli Stati-Uniti la caduta delle quotazioni potrebbe stimolare le famiglie ad aumentare il risparmio a detrimento delle spese di consumo, provocando un rallentamento economico.” (Le Soir, 2 settembre).

La crisi in Asia orientale ha già prodotto una svalutazione massiccia dei capitali attraverso la chiusura di centinaia di luoghi di produzione, attraverso la svalutazione di proprietà, i fallimenti di migliaia di imprese, e la caduta in miseria di decine di milioni di persone: ”il crollo più drammatico di un paese degli ultimi cinquanta anni”, è in questo modo che la Banca mondiale giudica la crisi in Indonesia. D'altra parte, il crollo improvviso delle Borse asiatiche era l'annuncio ufficiale dell'entrata in recessione nel secondo trimestre del 1998 della Corea del sud e della Malesia. Dopo il Giappone, Hong-Kong, l'Indonesia e la Tailandia, è quasi tutto il tanto vantato sud-est asiatico che crolla perché si prevede che anche Singapore entrerà in recessione alla fine dell'anno. Non resta che la Cina continentale e Taiwan che fanno eccezione, ma per quanto tempo ancora? Del resto, a proposito dell'Asia non si parla più di recessione, ma di depressione: “C'è depressione quando la caduta della produzione e quella degli scambi si accumulano ad un punto tale che le basi sociali dell'attività economica sono messe in discussione. A questo stadio, diventa impossibile presupporre un rovesciamento di tendenza e diventa difficile, se non inutile, intraprendere le classiche azioni di rilancio. Questa è la situazione che conoscono attualmente molti paesi dell'Asia, e che costituisce una minaccia per l'intera regione” (Le Monde Diplomatique, settembre 1998).

Se si coniugano le difficoltà economiche dei paesi centrali con la recessione della seconda economia mondiale -il Giappone- e con quella di tutta la regione del Sud-est asiatico, che si sommano agli effetti recessivi indotti dal crac della Russia sugli altri paesi dell'Est e dell'America latina (principalmente con la diminuzione del prezzo delle materie prime, tra cui il petrolio), il risultato è una contrazione del mercato mondiale che sarà alla base di una nuova recessione internazionale. Il FMI d'altra parte non si fa illusioni, ha già integrato l’effetto recessivo nelle sue previsioni e il calo si rivela enorme: la crisi finanziaria costerà il 2% di crescita mondiale in meno nel 1998 in rapporto al 1997 (4,3%), mentre il 1999 dovrebbe sopportare il grosso dello shock, una bazzecola per quello che doveva essere un epifenomeno senza importanza! Il secondo millennio, previsto essere il testimone della vittoria definitiva del capitalismo e del nuovo ordine mondiale comincerà verosimilmente con una crescita zero!

Continuità e limiti dei palliativi

Da più di trenta anni, la fuga in avanti in un indebitamento sempre più grande e uno scaricare gli effetti più devastanti della crisi sulla periferia, hanno permesso alla borghesia internazionale di rimandare le scadenze. Questa politica, ancora largamente usata oggi, produce dei segnali sempre più evidenti di asfissia. Il nuovo ordine finanziario che ha progressivamente rimpiazzato gli accordi di Bretton Woods del dopo guerra “si rivela oggigiorno fortemente costoso. I paesi ricchi (Stati Uniti, Unione europea, Giappone) ne hanno beneficiato, mentre i piccoli sono facilmente sommersi anche da un arrivo modesto di capitali” (John Llewellyn, Global economista capo presso la Lehman Brothers London).Con tale giro di vite, è sempre più difficile contenere gli effetti più devastanti della crisi margini del sistema economico internazionale. Il degrado e gli scossoni economici sono di una tale ampiezza che le ripercussioni si fanno inevitabilmente e direttamente sentire nel cuore stesso delle metropoli più potenti. Dopo il fallimento del terzo mondo, del blocco dell'Est e dell'Asia del sud-est, è ora la seconda potenza economica mondiale -il Giappone- che è in procinto di vacillare. A questo punto non è più il caso di parlare di problemi riguardanti la periferia del sistema, è uno dei tre poli che costituiscono il cuore del sistema che è colpito. Altro segno inequivocabile di questo esaurimento dei palliativi, è l'incapacità crescente delle istituzioni internazionali, come il FMI o la Banca mondiale -a cui si è fatto ricorso per evitare che si ripetessero gli scenari del 1929- a spegnere gli incendi che si moltiplicano ad intervalli sempre più ravvicinati nei quattro angoli del mondo. Questo si traduce concretamente in campo finanziario ne “l'incertezza dell'ultima risorsa creditrice: il FMI”. I mercati mormorano che il FMI non ha più risorse sufficienti per agire da pompiere: “Inoltre, gli ultimi sviluppi della crisi russa hanno mostrato che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) non era più disposto -capace dicono alcuni- a giocare sistematicamente da pompiere. La decisione del FMI e del gruppo dei sette paesi più industrializzati di non dare alla Russia un sostegno finanziario supplementare nell'ultima settimana, può essere considerato come fondamentale per l'avvenire della politica d'investimenti nei paesi emergenti (…) Traduzione: niente dice che il FMI interverrebbe finanziariamente per spegnere una crisi possibile in America latina o altrove. Ecco chi non rassicura gli investitori” (secondo AFP, Le Soir, 25 agosto). Sempre più, come la deriva del continente africano, la borghesia non avrà altra scelta che abbandonare pezzi interi della sua economia mondiale per isolare i focolai più incancreniti e preservare un minimo di stabilità su un territorio più ristretto.

Questa è una delle ragioni principali che giustifica l'accelerazione nella creazione di insiemi economici regionali (Unione europea, ALENA, ecc.). Inoltre, mentre, dal 1995, la borghesia dei paesi sviluppati lavora per dare nuova credibilità ai suoi sindacati allo scopo di tentare di inquadrare le lotte operaie che verranno, con l'Euro essa si prepara a tentare di resistere agli scossoni finanziari e monetari, cercando di stabilizzare quello che ancora funziona nell'economia mondiale. E' in questo senso che la borghesia europea parla dell'Euro come scudo. Un calcolo cinico comincia ad elaborarsi: per vedere se salvare o no un paese, il capitalismo internazionale fa il bilancio tra il costo dei mezzi che dovranno essere impiegati per salvare un paese o una regione e le conseguenze della sua bancarotta se nulla viene fatto. E' come dire che in futuro, la certezza che il FMI sarà sempre presente come “prestatore in ultima istanza” non è più data. Questa incertezza prosciuga i detti “paesi emergenti” dei capitali su cui essi avevano basato la loro “prosperità”, ipotecando in tal modo una possibile ripresa economica.

Il fallimento del capitalismo

Non è passato ancora molto tempo da quando il termine di “paesi emergenti faceva fremere di eccitazione i capitalisti del mondo intero che, in un mercato mondiale saturo, ricercavano disperatamente nuovi territori d'accumulazione per i loro capitali. Questi paesi erano la ciliegina sulla torta di tutti gli ideologi prezzolati che li presentavano come la prova stessa dell'eterna giovinezza del capitalismo che era sul punto di trovare in questi territori la nuova “boccata d’aria”. Oggi il termine evoca immediatamente il panico in borsa, e la paura che una nuova “crisi” venga ad abbattersi nei paesi centrali a partire da qualche regione “lontana”.

Ma la crisi non proviene da questa parte del mondo in particolare. Essa non è una crisi dei “paesi giovani”, ma una crisi di senilità, quella di un sistema entrato in decadenza circa 80 anni fa e che si scontra da allora senza sosta con le stesse insolubili contraddizioni: l'impossibilità di trovare sempre più sbocchi solvibili per le merci prodotte al fine di assicurare il proseguimento dell'accumulazione del capitale. Due guerre mondiali, fasi di crisi aperte distruttrici, di cui quella che viviamo da trent’anni, sono il prezzo pagato. Per “reggersi”, il sistema non ha cessato di barare con le sue stesse leggi. E la principale di questa truffa è la fuga in avanti in un indebitamento sempre più esorbitante.

L'assurdità della situazione in Russia, dove le banche e lo Stato “tengono bene” solo al prezzo di un debito esponenziale che li costringe ad indebitarsi sempre di più, e solo per pagare gli interessi di questi debiti accumulati, non è affatto una follia “russa”. E' l'insieme dell'economia mondiale che si mantiene in vita da decenni al prezzo della stessa fuga in avanti delirante, perché è la sola risposta che essa possa dare alle sue contraddizioni, perché è il solo mezzo per creare artificialmente nuovi mercati per i capitali e le merci. E' l'intero sistema mondiale che è basato su un enorme castello di carta che diventa sempre più fragile. I prestiti e gli investimenti massicci verso i paesi “emergenti”, essi stessi finanziati da altri prestiti, non sono stati che un mezzo per spostare la crisi del sistema e le sue contraddizioni esplosive dal centro verso la periferia. I crolli borsistici -1987, 1989, 1997, 1998- che ne sono un prodotto, esprimono la dimensione sempre più enorme del crollo del capitalismo.

Di fronte a questo sprofondamento brutale che si svolge sotto i nostri occhi, il problema non è sapere perché vi è una tale recessione ora, ma piuttosto perché essa non è arrivata molto prima. La sola risposta è che la borghesia, a livello mondiale, ha fatto di tutto per allontanare nel tempo tali scadenze barando con le leggi del suo stesso sistema. La crisi da sovrapproduzione, iscritta nelle previsioni del marxismo fin dal secolo scorso, non può trovare delle soluzioni reali negli imbrogli. E oggi, è ancora il marxismo che ribatte colpo su colpo questi esperti signori difensori del “liberalismo” e quei partigiani di “un controllo più stretto” degli aspetti finanziari. Né gli uni né gli altri possono salvare un sistema economico le cui contraddizioni esplodono lo stesso nonostante gli imbrogli.  Solo il marxismo ha veramente analizzato come inevitabile questo fallimento del capitalismo, facendo di questa comprensione un'arma per la lotta degli sfruttati.

E quando bisogna pagare il conto, quando il fragile sistema finanziario crolla, le contraddizioni di fondo reclamano i loro “diritti”: caduta nella recessione, esplosione della disoccupazione, fallimento in serie di imprese e di settori industriali. In soli pochi mesi, in Indonesia ed in Tailandia, per esempio, la crisi ha spinto decine di milioni di persone nella miseria totale. La stessa borghesia lo riconosce e quando è obbligata a riconoscere tali fatti vuol dire che la situazione è veramente grave. E ciò non è affatto l’appannaggio dei paesi “emergenti”.

L'ora della recessione è suonata anche nei paesi centrali del capitalismo. I paesi più indebitati del mondo non sono d'altra parte né la Russia, né il Brasile, ma appartengono al cuore del capitalismo più sviluppato, a cominciare dagli Stati-Uniti. Il Giappone è ora entrato ufficialmente in recessione dopo due trimestri di crescita negativa, e si prevede che il suo PIL cada di più del l'1,5% per il 1998. La Gran Bretagna, che era presentata fino a poco tempo fa come un modello di “dinamismo” economico al pari degli Stati-Uniti, è oggi costretta, sotto le minacce inflazionistiche, a prevedere un “raffreddamento economico” ed “un aumento rapido della disoccupazione” (Liberation, 13 agosto). Gli annunci di licenziamenti si moltiplicano nell'industria (100 000 soppressioni di impiego su 1,8 milioni sono previsti nelle industrie meccaniche per i prossimi 18 mesi).

La prospettiva per l’economia capitalista mondiale è quella mostrataci dall’Asia. Mentre i piani di salvataggio e di risanamento avrebbero dovuto dare nuovo vigore a questi paesi, la realtà ha visto imporsi la recessione e la formazione di enormi tasche di disoccupazione e di fame.

Il capitalismo non ha soluzioni alla sua crisi e quest'ultima non ha limiti all'interno del sistema. Per questo la sola soluzione alla barbarie e alla miseria che esso impone all'umanità sta nel suo rovesciamento da parte della classe operaia. Per questa prospettiva, il proletariato del cuore del capitalismo, in particolare quello dell'Europa, a causa della sua concentrazione e della sua esperienza storica, ha una responsabilità decisiva verso i suoi fratelli di classe del resto del mondo.

MFP, settembre 1998.

1. Bisogna segnalare che all'assemblea generale annuale dell'ottobre del 1997, il FMI aveva considerato che il prossimo “paese a rischio” avrebbe potuto essere la Turchia. Evviva la lucidità dei più "qualificati" organismi della borghesia!

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