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1) Le menzogne diffuse in abbondanza all’epoca del crollo dei regimi stalinisti, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, a proposito del “fallimento definitivo del marxismo” non sono affatto nuove. Esattamente un secolo fa, la sinistra della II Internazionale, con alla sua testa Rosa Luxemburg, aveva dovuto combattere le tesi revisioniste che affermavano che Marx si era notevolmente sbagliato quando annunciava che il capitalismo andava verso il crollo. I decenni seguenti, con la prima guerra mondiale, poi la grande depressione degli anni 30 che seguiva ad un breve periodo di ricostruzione, hanno lasciato poco margine alla borghesia per continuare a battere su questo chiodo. Di contro i due decenni di “prosperità” del secondo dopoguerra hanno consentito un nuovo fiorire, anche negli ambienti “radicali”, di “teorie” che seppellivano “definitivamente” il marxismo e le sue previsioni di crollo del capitalismo. Questi cori di autosoddisfazione sono stati evidentemente messi in difficoltà dal ritorno della crisi aperta del capitalismo alla fine degli anni 60; ma il ritmo lento di quest’ultima, con periodi di “ripresa” come quella che conosce oggi il capitale americano e britannico, ha permesso alla propaganda borghese di camuffare agli occhi della gran parte dei proletari la realtà e l’ampiezza del vicolo cieco in cui si trova oggi il modo di produzione capitalista. E’ per questa ragione che spetta ai rivoluzionari, ai marxisti, denunciare continuamente le menzogne borghesi sulle pretese possibilità del capitalismo di “uscire dalla crisi” ed, in particolare, di fare giustizia degli “argomenti” che sono di volta in volta utilizzati per tentare di “dimostrare” tali possibilità.
2) Dalla metà degli anni 70, di fronte all’evidenza della crisi, gli “esperti” hanno cominciato a ricercare tutte le spiegazioni possibili che permettessero alla borghesia di rassicurarsi favorevolmente sulle prospettive del suo sistema. Incapace di prendere in considerazione il fallimento definitivo di questo, la classe dominante aveva bisogno, non solo allo scopo di mistificare gli sfruttati, ma anche a suo proprio uso di spiegare le difficoltà crescenti dell’economia mondiale a partire da cause circostanziali che giravano evidentemente le spalle alle cause effettive. Di volta in volta, sono andate di moda le seguenti spiegazioni:
· la “crisi del petrolio” successiva alla guerra del Kippur del 73 (questo significava dimenticare che la crisi aperta risaliva a 6 anni prima, gli aumenti del prezzo del petrolio non avevano fatto altro che accentuare una degradazione che si era già manifestata con le recessioni del 67 e del 71);
· gli eccessi delle politiche neo-keynesiane seguiti alla fine della guerra che ora provocavano un’inflazione galoppante: c’era bisogno di meno intervento statale;
· gli eccessi delle “reaganomics” degli anni 80 che avevano provocato una crescita senza precedenti della disoccupazione nei principali paesi.
Fondamentalmente bisognava aggrapparsi all’idea che esistevano delle vie di uscita; che con una “buona gestione”, l’economia mondiale sarebbe potuta tornare allo splendore dei tempi d’oro. Bisognava ritrovare il segreto perduto della “prosperità”.
3) Per molto tempo le buone prestazioni economiche del Giappone e della Germania, mentre gli altri paesi erano in difficoltà, erano presentate come la dimostrazione della capacità del capitalismo di “superare la sua crisi”: “è necessario che ogni paese sia ‘virtuoso’ quanto i due grandi vinti della seconda guerra mondiale, e tutto il mondo starà bene”: questo era il credo di molti apologeti assoldati dal capitalismo. Oggi il Giappone e la Germania fanno la figura “di uomo malato”. Mentre incontra le più grandi difficoltà a rilanciare una “crescita” che fece la sua gloria passata, il primo viene classificato nella categoria D (al fianco del Brasile e del Messico) nell’indice dei paesi a rischio tanto sono minacciosi i debiti che hanno accumulato lo Stato, le imprese e i privati (in totale più di due anni e mezzo della produzione nazionale). Quanto al secondo paese, esso conosce oggi uno dei tassi di disoccupazione più elevati dell’Unione europea e non riesce nemmeno lui a soddisfare i “criteri di Maastricht” indispensabili per aderire alla “moneta unica”. In fin dei conti, ci si rende conto che la pretesa “virtù” passata di questi paesi non faceva che mascherare la stessa fuga in avanti nell’indebitamento che caratterizza l’insieme del capitalismo da decenni. In realtà, le difficoltà attuali dei due “primi della classe” degli anni 70 e 80 costituiscono una dimostrazione dell’impossibilità per il capitalismo di perseverare indefinitamente nell’inganno sul quale ha basato principalmente la ricostruzione del secondo dopoguerra e che gli ha permesso fino ad oggi di evitare un crollo simile a quello degli anni 30: l’utilizzo sistematico del credito.
4) Già quando denunciava le “teorie” dei revisionisti, Rosa Luxemburg era stata portata a demolire l’idea che a loro era cara secondo cui il credito avrebbe permesso al capitalismo di superare le sue crisi. Se è stato un indiscutibile stimolante dello sviluppo di questo sistema, tanto dal punto di vista della concentrazione del capitale che della sua circolazione, il credito non ha mai potuto sostituirsi al mercato reale stesso come alimento dell’espansione capitalista. Le cambiali permettono di accelerare la produzione e la commercializzazione delle merci ma esse devono essere rimborsate un giorno o l’altro. E questo rimborso è possibile solo se queste merci hanno trovato di che scambiarsi sul mercato, che non deriva automaticamente dalla produzione, come Marx ha sistematicamente dimostrato contro gli economisti borghesi. In fin dei conti, lungi dal permettere di superare le crisi, il credito non fa che estenderne la portata e la gravità, come Rosa Luxemburg dimostra, basandosi sul marxismo. Oggi, restano fondamentalmente valide le tesi della sinistra marxista contro il revisionismo della fine del secolo scorso. Il credito non può oggi, più che allora, allargare i mercati solvibili. Tuttavia, di fronte ad una saturazione definitiva di questi ultimi (mentre nel secolo scorso esisteva la possibilità di conquistarne di nuovi) il credito è diventato la condizione indispensabile allo smercio delle merci prodotte, sostituendosi al mercato reale.
5) Questa realtà è già stata illustrata all’indomani della seconda guerra mondiale quando il piano Marshall, oltre alla sua funzione strategica nella costituzione del blocco americano, ha permesso agli Stati Uniti di creare uno sbocco per la produzione delle loro industrie. La ricostruzione che esso ha permesso delle economie europee e giapponese ha fatto di queste nel corso degli anni 60 dei concorrenti dell’economia americana, il che ha dato il segnale del ritorno della crisi aperta del capitalismo mondiale. Dopo di allora, è principalmente utilizzando il mezzo del credito, di un indebitamento sempre maggiore, che l’economia mondiale è riuscita ad evitare una depressione brutale come quella degli anni 30. E’ così che la recessione del 1974 è stata superata fino all’inizio degli anni 80 grazie al formidabile indebitamento dei paesi del terzo mondo che ha condotto alla crisi del debito dell’inizio degli anni 80 la quale ha coinciso con una nuova recessione ancor più seria di quella del 1974. A sua volta questa nuova recessione mondiale non è stata superata che attraverso dei deficit commerciali straordinari degli Stati Uniti il cui ammontare dell’indebitamento è paragonabile a quello del terzo mondo. Parallelamente i deficit dei bilanci dei paesi avanzati sono esplosi, il che ha permesso di sostenere la domanda ma ha condotto ad una vera situazione di fallimento per gli Stati (il cui indebitamento rappresenta tra il 50% ed il 130% della produzione annuale a seconda dei paesi). E’ d’altronde per questa ragione che la recessione aperta, quella che si esprime con delle cifre negative nei tassi di crescita della produzione di un paese, è lungi dal costituire il solo indicatore della gravità della crisi. In quasi tutti i paesi il solo deficit annuale del bilancio degli Stati (senza contare quello delle amministrazioni locali) è superiore alla crescita della produzione; ciò significa che se questi bilanci fossero equilibrati (il solo mezzo di stabilizzare l’indebitamento accumulato dagli Stati) tutti questi paesi sarebbero in aperta recessione.
La maggior parte di questo indebitamento non è evidentemente rimborsabile, esso si accompagna a dei crac finanziari periodici sempre più gravi che sono dei veri terremoti per l’economia mondiale (1980, 1989) e che restano più che mai all’ordine del giorno.
6) Ricordare questi fatti permette di fare chiarezza sui discorsi sulla “salute” attuale delle economie britannica ed americana che contrasta con l’apatia di quelle dei loro concorrenti. In primo luogo, conviene ridimensionare l’importanza di questi “successi”. Così, la diminuzione molto sensibile del tasso di disoccupazione in Gran Bretagna deve molto, come confessa anche la banca di Inghilterra, alla soppressione nelle statistiche (il cui sistema di calcolo è stato modificato 33 volte dal 1979) dei disoccupati che hanno rinunciato a cercare un lavoro. Detto ciò, questi “successi” si basano in buona parte su un miglioramento della competitività di queste economie sull’arena internazionale (basata proprio sulla debolezza della loro moneta, il mantenere la Sterlina fuori dal serpente monetario si è rivelato fino ad oggi come una buona operazione), cioè su di un maggiore degradarsi delle economie concorrenti. E’ un fatto che era stato un po’ nascosto dalla sincronizzazione mondiale dei periodi di recessione e di quelli di “ripresa” che si era conosciuta fino a questo momento: il relativo miglioramento dell’economia di un paese non passa per il miglioramento di quella dei suoi “partner” ma, fondamentalmente, per un peggioramento di queste poiché i “partner” sono prima di tutto dei concorrenti. Con la scomparsa del blocco americano, seguita a quella del blocco russo, alla fine degli anni 80, il coordinamento che esisteva nel passato fra i principali paesi occidentali (per esempio attraverso il G7) delle loro politiche economiche (il che costituiva un fattore non trascurabile di rallentamento del ritmo della crisi) ha lasciato il posto al “ciascuno per sé” sempre più selvaggio. In una tale situazione, tocca alla prima potenza mondiale il privilegio di imporre i suoi diktat nell’arena commerciale a beneficio della sua propria economia nazionale. E’ ciò che spiega in buona parte i “successi” attuali del capitale americano.
Ciò detto, anche se gli andamenti attuali delle economie anglosassoni non sono affatto significativi di un possibile miglioramento dell’insieme dell’economia mondiale, comunque non sono destinati a durare. Legate al mercato mondiale, che non potrà superare la sua totale saturazione, esse vanno necessariamente a scontrarsi con questa saturazione. Soprattutto nessun paese ha risolto il problema dell’indebitamento generalizzato (anche se i deficit di bilancio degli Stati Uniti si sono un po’ ridotti in questi ultimi anni). La migliore prova di ciò è l’ossessione dei principali responsabili economici (quale il presidente della Banca federale americana) che la “crescita” attuale porti ad un “surriscaldamento” e ad un ritorno dell’inflazione. In realtà dietro questo timore vi è fondamentalmente la constatazione che la “crescita” attuale è basata su di un indebitamento esorbitante che produrrà per forza di cose un ritorno catastrofico. L’estrema fragilità delle basi su cui si poggiano i “successi” attuali dell’economia americana ci è stata ancora una volta confermata dall’inizio di panico di Wall Street come di altre Borse quando la FED (Banca federale americana) ha annunciato a fine marzo 1997 un rialzo minimo dei suoi tassi di interesse.
7) Tra le menzogne abbondantemente diffuse dalla classe dominante per far credere alla vitalità, malgrado tutto, del suo sistema, un posto particolare è comunque riservato all’esempio dei paesi del sud-est asiatico, i “dragoni” (Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) e le “tigri” (Tailandia, Indonesia, Malesia) i cui tassi di crescita attuali (qualche volta a due cifre) fanno rodere di invidia i borghesi occidentali . Questi esempi dovrebbero dimostrare che è possibile per il capitalismo attuale sia far sviluppare i paesi arretrati sia evitare la fatalità della caduta o la stagnazione della crescita. In realtà, il “miracolo economico” della maggior parte di questi paesi (in particolare la Corea e Taiwan) non è affatto fortuito: è la conseguenza dell’equivalente del piano Marshall messo in atto nel corso della guerra fredda dagli Stati Uniti con lo scopo di contenere l’avanzata del blocco russo nella regione (iniezione massiccia di capitali fino al 15 % del PIL, controllo diretto dell’economia nazionale, poggiandosi in particolare sull’apparato militare, al fine di supplire alla borghesia nazionale quasi inesistente e superare le resistenze dei settori feudali, ecc.). Come tali, questi esempi non sono per niente generalizzabili all’insieme del terzo mondo che continua nella gran parte ad affondare in una catastrofe indescrivibile. D’altra parte, l’indebitamento della maggior parte di questi paesi, sia verso l’esterno che al livello dei loro Stati, raggiunge dei livelli notevoli il che li sottomette alle stesse minacce di tutti gli altri paesi. Infine se il prezzo molto basso della loro forza lavoro ha costituito un’attrattiva per numerose imprese occidentali, il fatto che essi diventino dei rivali commerciali per i paesi avanzati li espone al rischio di misure protezionistiche verso le loro esportazioni. In realtà, come già è successo al loro grande vicino giapponese, questi paesi non potranno sfuggire per sempre alle contraddizioni dell'economia mondiale che hanno trasformato in incubo altre “storia fortunate” precedenti alla loro, come quella del Messico. E’ per l’insieme di queste ragioni che, accanto a discorsi incensanti, gli esperti internazionali e le istituzioni finanziarie prendono fin da oggi degli accorgimenti per limitare i rischi finanziari che essi presentano. E le misure destinate a rendere più “flessibile” la forza lavoro che si trovano all’origine dei recenti scioperi in Corea dimostrano che la borghesia locale è cosciente del fatto che i tempi migliori sono passati. Come scrive il Guardian del 16 ottobre 1996: “Il problema è sapere quale sarà la prima delle tigri d‘Asia a cadere.”
8) Il caso della Cina, che alcuni presentano come la futura grande potenza del prossimo secolo, non sfugge alla regola. La borghesia di questo paese è riuscita fino ad oggi ad operare con successo la transizione verso le forme classiche del capitalismo, contrariamente a quelle dei paesi dell’Europa dell’est il cui totale marasma (tranne poche eccezioni) apporta una schiacciante smentita a tutti i discorsi sulle pretese “grandi prospettive” che si offrivano loro con l’abbattimento dei regimi stalinisti. Detto ciò, l’arretratezza di questo paese resta notevole; la maggior parte dell’economia, come in tutti i regimi stalinisti, soffoca sotto il peso della burocrazia e delle spese militari. A detta stessa delle autorità il settore pubblico è completamente deficitario e centinaia di migliaia di operai sono pagati con mesi di ritardo. E anche se il settore privato è più dinamico, esso non può superare le pesantezze del settore statale ed inoltre resta particolarmente legato alle fluttuazioni del mercato mondiale. Infine il “formidabile dinamismo” dell’economia cinese non potrebbe nascondere che, anche nell’ipotesi del mantenimento della sua crescita attuale, sono più di 250 milioni i disoccupati che essa conterà alla fine del secolo.
9) Da qualsiasi parte ci si giri, per poco che si sia capaci di resistere alle sirene dei difensori del modo di produzione capitalista e di poggiarsi sugli insegnamenti del marxismo, la prospettiva dell’economia mondiale non può essere che quella di una catastrofe crescente. I pretesi “successi” attuali di certe economie (paesi anglosassoni o del sud-est asiatico) non rappresentano affatto il futuro dell’insieme del capitalismo: non sono che una mistificazione che non potrà mascherare per molto tempo questa catastrofe. Ancora, i discorsi sulla “mondializzazione”, ipotizzata aprire un’era di libertà e di espansione del commercio, non fanno che mascherare un’intensificazione senza precedenti della guerra commerciale nella quale gli assemblaggi di paesi come l’Unione Europea non hanno altro significato che creare una fortezza contro la concorrenza di altri paesi. Così, una economia mondiale in equilibrio instabile su di una montagna di debiti che non saranno mai rimborsati si scontrerà sempre più con le convulsioni del “ciascuno per sé”. Fenomeno che ha sempre caratterizzato il capitalismo ma che, nel periodo attuale di decomposizione, riveste una nuova qualità. I rivoluzionari, i marxisti non possono prevedere le forme precise né il ritmo dello sprofondamento crescente del modo di produzione capitalista, ma tocca loro di proclamare e di dimostrare il vicolo cieco totale nel quale si trova questo sistema, di denunciare tutte le menzogne su di una sua mitica “uscita dal tunnel”.
10) Più ancora che nel campo economico, il caos proprio del periodo di decomposizione rivela i suoi effetti in quello delle relazioni politiche tra gli Stati. Al momento del crollo del blocco dell’Est che portava alla scomparsa del sistema di alleanze uscito dalla seconda guerra mondiale, la CCI aveva messo in evidenza:
· che questa situazione metteva all’ordine del giorno, senza che questo fosse immediatamente realizzabile, la ricostituzione di nuovi blocchi, uno diretto dagli Stati Uniti e l’altro dalla Germania;
· che, nell’immediato, esso sarebbe sfociato in uno svilupparsi di scontri aperti che “l’ordine di Yalta” era riuscita fino a quel momento a mantenere in un quadro “accettabile” per i due grandi gendarmi del mondo.
In un primo tempo, la tendenza alla costituzione di un nuovo blocco intorno alla Germania, nella dinamica di riunificazione di questo paese, ha compiuto dei passi significativi. Ma molto rapidamente, la tendenza al “ciascuno per sé” ha preso il sopravvento sulla tendenza alla ricostituzione di alleanze stabili fondamento di futuri blocchi imperialisti, il che ha contribuito a moltiplicare ed aggravare gli scontri militari. L’esempio più significativo è quello della Yugoslavia il cui esplodere è stato favorito degli interessi imperialistici antagonisti dei grandi Stati europei, Germania, Gran Bretagna e Francia. Gli scontri nella ex Yugoslavia hanno creato un fossato tra i due grandi alleati della Comunità europea, la Germania e la Francia, provocando un ravvicinamento spettacolare tra quest’ultimo paese e la Gran Bretagna e la fine dell’alleanza di questa con gli Stati Uniti, la più solida e duratura del 20° secolo. Dopo, questa tendenza al “ciascuno per sé”, al caos nelle relazioni tra gli Stati, con il suo seguito di alleanze circostanziali ed effimere, non è stata affatto rimessa in discussione.
11) Così, l’ultimo periodo ha visto un certo numero di sensibili modificazioni nelle alleanze che si erano formate nel periodo precedente:
· importante allentamento dei legami tra la Francia e la Gran Bretagna mostrato in particolare con la mancato sostegno di quest’ultima alle rivendicazioni della prima come la rielezione di Boutros-Ghali alla testa dell’ONU o il comando da parte di un europeo del versante sud del dispositivo della NATO in Europa;
· nuovo riavvicinamento tra la Francia e la Germania che si è concretizzato in particolare con il sostegno di quest’ultima alla stesse rivendicazioni della Francia;
· attenuazione dei conflitti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che si è espressa, tra l’altro, con il sostegno di questa ultima allo Zio Sam su queste stesse questioni.
Nei fatti una delle caratteristiche di questa evoluzione delle alleanze è legata al fatto che solo gli Stati Uniti e la Germania hanno, e possono avere, una politica coerente a lungo termine, il primo di preservazione della sua leadership, la seconda di sviluppo della sua propria leadership su di una parte del mondo, poiché le altre potenze sono confinate a delle politiche più circostanziali volte, in buona parte, ad opporsi a quella delle prime. In particolare, la prima potenza mondiale si trova di fronte, dopo la scomparsa della divisione del mondo in due blocchi, ad una contestazione permanente della sua autorità da parte dei suoi vecchi alleati.
12) La manifestazione più spettacolare di questa crisi dell’autorità del gendarme mondiale è stata la rottura della sua alleanza storica con la Gran Bretagna, su iniziativa di quest’ultima, a partire dal 1994. Essa si è egualmente concretizzata con la lunga impotenza degli Stati Uniti fino all’estate 1995 su uno dei terreni maggiori di scontro imperialista, la ex Yugoslavia. Inoltre si è espressa più recentemente, nel settembre 1996, con le reazioni pressoché unanimi di ostilità verso i bombardamenti dell’Iraq con 44 missili Cruise, mentre nel 1990-91 gli Stati Uniti erano riusciti ad ottenere il sostegno degli stessi paesi con l’operazione “tempesta nel deserto” ; in particolare per quel che riguarda gli Stati della regione, la condanna molto ferma di questi bombardamenti fatta dall’Egitto e dall’Arabia Saudita rompe di netto con il sostegno totale che esse avevano dato allo Zio Sam all’epoca della guerra del Golfo. Tra gli altri esempi della contestazione della leadership americana bisogna ancora ricordare:
· la generale protesta contro la legge Helms-Burton che rafforza l’embargo contro Cuba il cui “lider maximo” è stato in seguito ricevuto in pompa magna, e per la prima volta, dal Vaticano;
· la salita al potere in Israele, contro la manifesta volontà degli Stati Uniti, della destra, che ha fatto di tutto poi per sabotare il processo di pace con i palestinesi che costituiva uno dei migliori successi della diplomazia USA;
· più in generale, la perdita del monopolio del controllo della situazione in Medio Oriente, zona particolarmente cruciale, illustrata dal ritorno in forze della Francia che si è imposta come copadrino nel contenzioso tra Israele e Libano all fine del 1995 e che ha confermato il suo successo nella regione con l’accoglienza calorosa riservata a Chirac dall’Arabia Saudita nell’ottobre 1996;
· il recente invito di numerosi dirigenti europei (tra cui lo stesso Chirac che ha lanciato appelli all’indipendenza dagli Stati Uniti) fatto da un certo numero di Stati dell’America del sud conferma la fine del controllo totale di questa zona da parte degli Stati Uniti.
13) Ciò detto, l’ultimo periodo è stato segnato, come aveva già sottolineato un anno fa il 12° Congresso della sezione in Francia, da una massiccia controffensiva degli Stati Uniti. Questa si è concretizzata in particolare in un ritorno in forze di questa potenza nella ex Yugoslavia a partire dall’estate del 1995 dietro la maschera dell’IFOR, che ha preso il posto della FORPRONU, che aveva costituito per molti anni lo strumento della presenza preponderante del tandem franco-britannico. La migliore prova del successo americano è stata la firma a Dayton, negli Stati Uniti, degli accordi di pace sulla Bosnia. Dopo, la nuova avanzata della potenza USA non si è smentita. In particolare essa è riuscita ad infliggere al paese che l’aveva sfidata più apertamente, la Francia, uno smacco molto serio in quello che costituisce il suo “terreno di conquista”, l’Africa. Dopo l’eliminazione dell’influenza francese in Ruanda, è ora lo Zaire, principale postazione della Francia in questo continente che è sul punto di sfuggirle con il crollo del regime di Mobutu sotto i colpi della “ribellione” di Kabila massicciamente sostenuta dal Ruanda e dall‘Uganda, cioè dagli Stati Uniti. E’ una punizione particolarmente severa che questa potenza è sul punto di infliggere alla Francia e che vuole essere esemplare per tutti gli altri paesi che volessero imitarla nella sua politica di sfida permanente. E’ una punizione che viene a coronare gli altri smacchi inflitti recentemente dagli USA a questo paese sulla questione del successore di Boutros-Ghali e sulla questione del comando del fianco sud della NATO.
14) E’ in gran parte perché aveva ben compreso i rischi che correva imitando la politica avventurista della Francia (che sistematicamente si prefigge degli obiettivi al di là delle sue capacità reali) che la borghesia britannica ha preso ultimamente le distanze dalla sua consorella di oltre Manica. Questo allontanamento è stato notevolmente favorito dall’azione degli Stati Uniti e della Germania che non potevano vedere che male l’alleanza contratta tra la Francia e la Gran Bretagna a partire dalla questione Jugoslava. E’ così che i bombardamenti americani dell’Iraq, nel settembre 1996, avevano come enorme risultato di mettere la diplomazia francese e britannica l’una contro l’altra, visto che la prima sostiene Saddam Hussein, la seconda mira, come gli Stati Uniti, al suo rovesciamento. Anche la Germania si è data da fare per minare la solidarietà franco-britannica sulle questioni che a lei stanno a cuore, come in particolare l’Unione Europea e la moneta unica (3 summit franco-tedeschi in due settimane su questa questione nel dicembre 1996). E’ dunque in questo quadro che si può comprendere la nuova evoluzione delle alleanze nel corso dell’ultimo periodo di cui si parlava prima. Nei fatti l’atteggiamento della Germania, e soprattutto degli Stati Uniti conferma ciò che noi dicevamo al precedente congresso della CCI: “In una tale situazione di instabilità, è più facile per ciascuna potenza creare dei problemi ai suoi avversari, sabotare le alleanze che possano adombrarla, che sviluppare da parte sua delle solide alleanze e assicurarsi una stabilità nei suoi territori.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 11). Tuttavia conviene mettere in evidenza delle differenze importanti sia nei metodi che nei risultati della politica seguita da queste due potenze.
15) Il risultato della politica internazionale della Germania non si limita affatto a separare la Francia dalla Gran Bretagna e ottenere che la prima riallacci la loro passata alleanza, il che si è concretizzato per esempio nel corso dell’ultimo periodo con degli accordi militari di primaria importanza, sia sul terreno, in Bosnia (creazione di una brigata congiunta) che a livello degli accordi di cooperazione militare (firma del 9 dicembre 1996 di un accordo per “una concezione comune in materia di sicurezza e di difesa”). In realtà, si assiste attualmente ad una avanzata molto significativa dell’imperialismo tedesco che si concretizza precisamente in:
· il fatto che all’interno della nuova alleanza tra la Francia e la Germania, quest’ultima si trovi in un rapporto di forze molto più favorevole di quello del periodo 1990-94 (la Francia è stata costretta in buona parte a ritornare ai suoi antichi amori in seguito alla defezione della Gran Bretagna);
· un’estensione della sua zona tradizionale di influenza verso i paesi dell’Est ed, in particolare, attraverso lo sviluppo di un’alleanza con la Polonia;
· un rafforzamento della sua influenza in Turchia (il cui nuovo governo diretto dall’islamista Erbakan è più favorevole del suo predecessore all’alleanza tedesca) che gli serve da postazione in direzione del Caucaso (dove essa sostiene i movimenti nazionalisti che si oppongono alla Russia) e dell’Iran con il quale la Turchia ha firmato degli accordi importanti;
· l’invio, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, di unità combattenti al di fuori delle frontiere, e proprio nella zona particolarmente critica dei Balcani con il corpo di spedizione presente in Bosnia nel quadro dell’IFOR (il che permette al ministro della difesa di dichiarare che “la Germania giocherà un ruolo importante nella nuova società”).
D’altra parte, la Germania, insieme alla Francia, si è impegnata in un forcing diplomatico in direzione della Russia, di cui essa è la prima creditrice, che non ha tratto vantaggi decisivi dalla sua alleanza con gli Stati Uniti.
16) Così, fin da oggi, la Germania è in grado di insediarsi nel suo ruolo di principale rivale imperialista degli Stati Uniti. Tuttavia bisogna notare che essa è riuscita ad avanzare nelle sue posizione senza esporsi a delle rappresaglie del mastodontico avversario americano, in particolare evitando sistematicamente di sfidarlo apertamente come fa la Francia. La politica dell’aquila tedesca (che per il momento riesce a nascondere i suoi artigli) si rivela in fin dei conti molto più efficace di quella del gallo francese. Questo è nello stesso tempo la conseguenza dei limiti che lo statuto di vinto della seconda guerra mondiale continua ad imporgli (benché proprio la sua politica attuale volga a superare questo statuto) e della sua sicurezza come sola potenza in grado eventualmente di prendere, a breve termine, la direzione di un nuovo blocco imperialista. E’ anche il risultato del fatto che, fino ad ora, la Germania ha potuto avanzare le sue posizioni senza fare ricorso diretto alla sua forza militare (anche se, evidentemente, essa ha apportato un sostegno molto grosso al suo alleato Croato nella guerra contro la Serbia). Ma la primizia storica che sostituisce la presenza del suo corpo di spedizione in Bosnia non solo ha infranto un tabù ma indica la direzione nella quale essa dovrà orientarsi sempre più per mantenere il suo rango. Così, a breve termine, non sarà più per delega (come fu il caso in Croazia, ed in minore misura nel Caucaso) che l’imperialismo tedesco apporterà il suo contributo ai sanguinosi conflitti e ai massacri nei quali affonda il mondo attuale, ma in modo molto più diretto.
17) Per quel che riguarda la politica internazionale degli Stati uniti, lo schieramento e l’impiego della forza armata non solo fa parte da molto tempo dei suoi metodi, ma esso costituisce ormai il principale strumento di difesa dei suoi interessi imperialisti, come la CCI ha messo in evidenza dal 1990, prima ancora della guerra del Golfo. Di fronte ad un mondo dominato dal “ciascuno per sé”, in cui proprio gli antichi vassalli del gendarme americano aspirano a staccarsi il più possibile dalla sua pesante tutela che essi avevano dovuto sopportare di fronte alla minaccia del blocco avverso, il solo mezzo decisivo per gli Stati Uniti di imporre la sua autorità è di fondarsi sullo strumento nel quale essi hanno una superiorità schiacciante: la forza militare. Ciò facendo, gli Stati Uniti sono presi in una contraddizione:
· o essi rinunciano a mettere in piazza e a schierare la loro superiorità militare, il che non può che incoraggiare i paesi che contestano la loro autorità ad andare ancora oltre in questa loro contestazione;
· o, se essi fanno uso della forza bruta, anche, e soprattutto, quando questo mezzo riesce momentaneamente a far raffreddare le velleità dei suoi oppositori, ciò non può che spingere questi ultimi a cogliere ogni minima occasione per prendersi la rivincita e tentare di staccarsi dalla presa americana.
Nei fatti, l’affermazione della superiorità militare per la superpotenza agisce in senso contrario a seconda se il mondo è diviso in blocchi, come prima del 1989, o che i blocchi non esistano più. Nel primo caso, l’affermazione di questa superiorità tende a rafforzare la fiducia dei vassalli verso il capo quanto alla sua capacità di difenderli efficacemente e costituisce dunque un fattore di coesione intorno a lui. Nel secondo caso, le dimostrazioni di forza della sola superpotenza superstite hanno al contrario come ultimo risultato di aggravare ancora il “ciascuno per sé” finché non esiste un’altra potenza che possa fargli concorrenza al suo livello. E’ perciò che i successi della controffensiva attuale degli Stati Uniti non possono essere considerati come definitivi, come un superamento della crisi della loro leadership. La forza bruta, le manovre volte a destabilizzare i loro concorrenti (come oggi in Zaire), con tutto il loro seguito di conseguenze tragiche, non hanno finito di essere impiegate da questa potenza, ma al contrario, contribuendo così ad accentuare il caos sanguinoso nel quale affonda il capitalismo.
18) E’ un caos che ha ancora relativamente risparmiato l’estremo Oriente e l’Asia del Sud-Est. Ma è importante sottolineare l’accumularsi in questi paesi di cariche esplosive:
· intensificazione degli sforzi di armamento delle due principali potenze, Cina e Giappone;
· volontà di questo ultimo paese di staccarsi il più possibile dal controllo americano ereditato dalla seconda guerra mondiale;
· politica più apertamente “contestatrice” della Cina (questo paese ha lo stesso ruolo della Francia in Occidente, mentre il Giappone ha una diplomazia molto più simile a quella della Germania);
· minaccia di destabilizzazione politica in Cina (in particolare dopo la morte di Deng);
· esistenza di una moltitudine di “contenziosi” tra Stati (Taiwan e Cina, le due Coree, Vietnam e Cina, India e Pakistan, ecc.).
Oltre al fatto che non potrà sfuggire alla crisi economica, questa regione non potrà sfuggire alle convulsioni imperialiste che assalgono il mondo oggi, contribuendo ad accentuare il caos generale nel quale sprofonda la società capitalista.
19) Questo caos generale, con il suo seguito di conflitti sanguinosi, di massacri, di fame, e più in generale la decomposizione che invade tutti i campi della società e che rischia, alla fine, di annientarla, trova il suo principale alimento nel vicolo cieco totale nel quale si trova l’economia capitalista. Ma, nello stesso tempo, questo impasse, con gli attacchi continui e sempre più brutali che essa provoca necessariamente contro la classe produttrice dell’essenziale della ricchezza sociale, il proletariato, porta con sé la risposta di quest’ultimo e la prospettiva del suo sorgere rivoluzionario. Dalla fine degli anni 60 il proletariato mondiale ha dato prova di non essere disposto a subire passivamente gli attacchi capitalisti e le lotte che ha condotto fin dai primi attacchi della crisi hanno dimostrato che esso era uscito dalla terribile controrivoluzione che si era abbattuta su di lui dopo l’ondata rivoluzionaria del 1917-23. Tuttavia non è in maniera continua che esso ha sviluppato le sue lotte ma in maniera sofferta, con delle avanzate e dei passi indietro. E’ così che tra il 1968 ed il 1989 la lotta di classe ha conosciuto tre ondate di lotta successive (1968-74, 1978-81, 1983-89) nel corso delle quali le masse operaie, malgrado delle sconfitte, delle esitazioni, dei rinculi, hanno acquisito un’esperienza crescente che le ha condotte, in particolare, a rigettare sempre più l’inquadramento sindacale. Tuttavia questa avanzata progressiva della classe operaia verso una presa di coscienza dei fini e dei mezzi della sua lotta è stata brutalmente interrotta alla fine degli anni 80:
“Questa lotta che era risorta con possanza alla fine degli anni 60, ponendo fine alla più terribile controrivoluzione che la classe operaia abbia mai conosciuto, ha subito un rinculo considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l’hanno accompagnati e l’insieme degli eventi (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.) che li hanno seguiti. E’ sui due piani della sua combattività e della sua coscienza che la classe operaia ha subito, in modo massiccio, questo rinculo, senza che ciò rimetta in causa, tuttavia, come la CCI aveva già affermato in quel momento il corso storico verso gli scontri di classe.” (Risoluzione sulla situazione internazionale del 11° Congresso della CCI, punto 14).
20) A partire dall’autunno 1992, con le grandi mobilitazioni operaie in Italia, il proletariato ha ripreso il cammino delle lotte. Ma è un cammino seminato di buche e di difficoltà. All’epoca del crollo dei regimi stalinisti, nell’autunno 1989, nello stesso momento in cui annunciava l’arretramento della coscienza provocato da questo evento, la CCI aveva precisato che: “l’ideologia riformista peserà notevolmente sulle lotte nel prossimo periodo, favorendo enormemente l’azione dei sindacati” (“Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell‘Est”, Rivista Internazionale n° 13). Ed effettivamente noi abbiamo assistito, nel corso dell’ultimo periodo, ad un ritorno in forze dei sindacati, frutto di una strategia elaborata da parte di tutte le forze della borghesia. Questa strategia aveva come obiettivo primario mettere a profitto il disorientamento provocato nella classe operaia dagli avvenimento del 1989-91 per ricredibilizzare il più possibile ai suoi occhi gli apparati sindacali il cui discredito acquisito in molti paesi durante tutti gli anni 80 continuava a farsi sentire. La dimostrazione più chiara di questa offensiva politica della borghesia ci è stata fornita dalla manovra sviluppata da diversi settori della borghesia nell’autunno 1995 in Francia. Grazie ad un’abile divisione dei compiti tra la destra al potere, che scatenava in maniera particolarmente provocatoria una valanga di attacchi al livello di vita della classe operaia, ed i sindacati che si presentavano come i migliori difensori di questa, mettendo essi stessi in atto i metodi proletari di lotta, l’estensione al di là del singolo settore e la conduzione del movimento tramite le assemblee generali, l’insieme della classe borghese ha ridato agli apparati sindacali una popolarità che essi non conoscevano più da un decennio. Il carattere premeditato, sistematico ed internazionale della manovra si è rivelato con l’immensa pubblicità fatta agli scioperi della fine 1995 in tutti i paesi mentre la maggior parte dei movimenti degli anni 80 era stato oggetto di un black-out totale. Viene ulteriormente confermato con la manovra sviluppata in Belgio, nello stesso periodo, che costituiva una copia conforme della prima. Inoltre il riferimento agli scioperi dell’autunno 1995 in Francia è stato largamente utilizzato all’epoca della grande manovra attuata nella primavera 1996 in Germania e che doveva culminare con l’immensa marcia su Bonn del 10 giugno. Questa manovra era destinata a dare ai sindacati, considerati degli specialisti della negoziazione e della contrattazione con il padronato, un’immagine molto più combattiva così che essi potessero in futuro controllare le lotte sociali che non mancheranno di sorgere di fronte ad un intensificarsi senza precedenti degli attacchi economici contro la classe operaia. Così si confermava chiaramente l’analisi che la CCI aveva avanzato al suo 11° Congresso: “le attuali manovre dei sindacati hanno anche, e soprattutto uno scopo preventivo: si tratta per loro di rafforzare la loro presa sugli operai prima che si sviluppi molto di più la loro combattività, combattività che deriverà necessariamente dallo loro crescente collera di fronte agli attacchi sempre più brutali della crisi.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 17). Ed il risultato di queste manovre, che viene a completare lo sbandamento provocato dagli eventi del 1989-91, ci consentiva di dire, all’epoca del 12° Congresso della nostra sezione in Francia: “ ... nei principali paesi del capitalismo, la classe operai si ritrova ad affrontare una situazione simile a quella degli anni 70 per quel che riguarda i suoi rapporti con i sindacati ed il sindacalismo: una situazione in cui la classe, globalmente, lottava dietro i sindacati, seguiva le loro consegne e le loro parole d’ordine e, in fin dei conti, si affidava a loro. In questo senso, la borghesia è momentaneamente riuscita ad oscurare nelle coscienze operaie le lezioni acquisite nel corso degli anni 80, in seguito alle ripetute esperienze di confronto con i sindacati.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 12).
21) L’offensiva politica della borghesia contro la classe operaia non si limita solo alla credibilizzazione degli apparati sindacali. La classe dominante utilizza le diverse manifestazioni della decomposizione della società (aumento della xenofobia, conflitti tra bande borghesi, ecc.) per rivoltarle contro la classe operaia. E’ così che si assiste in vari paesi di Europa a delle campagne di diversione volte cioè la collera e la combattività operaia su di un terreno totalmente estraneo a quello del proletariato:
- utilizzo dei sentimenti xenofobi sfruttati dall’estrema destra (Le Pen in Francia, Heider in Austria) per montare delle campagne sul “pericolo del fascismo”;
- in Spagna, campagne contro il terrorismo dell’ETA nelle quali gli operai sono invitati a solidarizzare con i loro padroni;
- utilizzo dei regolamenti di conti tra gli apparati della polizia e della giustizia per mettere in piedi delle campagne per uno Stato e una giustizia “pulita” nei paesi come l’Italia (operazione “mani pulite”) ed in particolare in Belgio (affare Dutroux).
Quest’ultimo paese ha costituito durante l’ultimo periodo una sorta di “laboratorio” per tutta la gamma di mistificazioni messe in piedi contro la classe operaia da parte della borghesia. Questa ha successivamente:
- realizzato una copia conforme della manovra della borghesia francese dell’autunno 1995;
- poi sviluppato una manovra simile a quella della borghesia tedesca della primavera 1996;
- montato dettagliatamente, a partire dall’estate 1996, l’affare Dutroux che è stato opportunamente “scoperto” al “momento giusto” (laddove tutti i particolari erano già da tempo conosciuti dalla giustizia) allo scopo di creare, grazie ad una campagna giornalistica senza precedenti, una vera psicosi nelle famiglie operaie, proprio mentre piovevano attacchi, e far scemare la collera in un terreno interclassista di una “giustizia al servizio del popolo”, in particolare all’epoca della “marcia bianca” del 20 ottobre;
- rilanciato, con la “marcia multicolore” del 2 febbraio, organizzata in occasione della chiusura delle Fonderie di Clabecq, la mistificazione interclassista di una “giustizia popolare” e di una “economia al servizio del cittadino”, mistificazione rafforzata dal rilancio del sindacalismo “di lotta” e “di base” intorno al molto propagandato D’Orazio;
- aggiunto un nuovo strato di menzogne democratiche dopo l’annuncio all’inizio di marzo della chiusura della fabbrica della Renault di Vilvorde (chiusura che è stata considerata illegittima dai tribunali), contemporaneamente alla campagna promozionale per una “Europa sociale”, in opposizione ad una “Europa dei capitalisti”.
L’enorme risonanza internazionale di tutte queste manovre è stata ancora un’ulteriore riprova che esse non erano destinate ad un utilizzo interno ma facevano parte di un piano elaborato in modo concertato dalla borghesia di tutti i paesi. Si tratta per la classe dominante, pienamente cosciente del fatto che i suoi attacchi crescenti contro la classe operaia prima o poi provocheranno delle reazioni molto energiche da parte di quest’ultima, di prendere il sopravvento in un momento in cui la combattività è ancora a livello embrionale e sulla coscienza pesano ancora fortemente le conseguenze del crollo dei pretesi regimi “socialisti”, allo scopo di rafforzare al massimo il suo arsenale di mistificazioni sindacaliste e democratiche.
22) Il disorientamento nel quale si trova attualmente la classe operaia ha dato alla borghesia un certo margine di manovra per quel che riguarda i suoi giochi politici interni. Come aveva affermato la CCI all’inizio del 1990: “E’ per questo motivo (…) che conviene ora mettere all’ordine del giorno l’analisi sviluppata dalla CCI sulla “sinistra all’opposizione”. Questa carta era necessaria alla borghesia dalla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80 a causa della dinamica generale della classe verso lotte sempre più decise e coscienti, per il suo crescente rigetto delle mistificazioni democratiche, elettorali e sindacali. Le difficoltà incontrate in alcuni paesi (per esempio la Francia) per metterla in atto nelle migliori condizioni non toglievano niente al fatto che essa costituiva l’asse centrale della strategia della borghesia contro la classe operaia, il che è stato illustrato dal permanere di governi di destra in dei paesi molto importanti quali gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna. D’altro canto, il rinculo attuale della classe non impone più alla borghesia, per un certo tempo, il ricorso prioritario a questa strategia. Ciò non vuol dire che in questi ultimi paesi si vedrà necessariamente la sinistra ritornare al governo: noi abbiamo in più occasioni (…) messo in evidenza che una tale formula non è indispensabile che nei periodi rivoluzionari o di guerra imperialista. Per contro non bisogna essere sorpresi se accade ciò, o meglio considerare che si tratta di un “incidente” o l’espressione di una debolezza particolare della borghesia di questo paese.” (Revue Internationale n° 61). E’ per questa ragione che la borghesia italiana ha potuto, in gran parte per delle ragioni di politica internazionale, fare appello nella primavera del 1996 ad una compagine di centro sinistra in cui domina il vecchio partito comunista (PDS), sostenuta dall’estrema sinistra di Rifondazione Comunista. E’ anche per questa ragione che la probabile vittoria dei laburisti in Gran Bretagna, nel maggio 1997, non dovrà essere vista come fonte di difficoltà per la borghesia di questo paese (che ha tra l’altro fatto di tutto per rompere il legame organico tra il partito e l’apparato sindacale, così da permettere a quest’ultimo di opporsi al governo, se necessario). Ciò detto è importante sottolineare il fatto che la classe dominante non torna ai temi degli anni 0 in cui “l’alternativa di sinistra” con il suo programma di misure “sociali”, cioè le nazionalizzazioni, aveva come obiettivo di spezzare lo slancio dell’ondata di lotte iniziate nel 1968 deviando il malcontento e la combattività vero l’impasse elettorale. Se dei partiti di sinistra (il cui programma economico si distingue d’altronde sempre meno da quello di destra) vanno al governo, sarà essenzialmente “per difetto” a causa delle difficoltà della destra, e non come mezzo di mobilitazione degli operai ai quali la crisi ha tolto oggi le illusioni che potevano avere negli anni 70.
23) In questo ordine di idee, conviene così stabilire una differenza molto netta tra le campagne ideologiche che si dispiegano oggi e quelle che sono state impiegate contro la classe operaia nel corso degli anni 30. Tra questi due tipi di campagne esiste un punto comune: esse si sviluppano entrambe sul tema della “difesa della Democrazia”. Tuttavia le campagne degli anni 30:
- si situavano in un contesto di sconfitta storica del proletariato, di vittoria indiscutibile della controrivoluzione;
- avevano come obiettivo di imbrigliare i proletari nella imminente guerra mondiale;
- si potevano basare su fatti ben reali e visibili, il fascismo in Italia, Germania e Spagna.
Al contrario, le campagne attuali:
- si situano in un contesto in cui il proletariato ha superato la controrivoluzione, in cui non ha subito sconfitte decisive che rimettessero in causa il corso storico agli scontri di classe;
- hanno come obiettivo di sabotare un corso ascendente della combattività e della coscienza nella classe operaia;
- non dispongono di un unico e credibile bersaglio, ma sono obbligate a fare appello a dei temi disparati e qualche volta circostanziali (terrorismo, “pericolo fascista”, reti di pedofilia, corruzione della giustizia, ecc.), il che tende a limitarle nella loro portata internazionale e temporale.
E’ per queste ragioni che se le campagne della fine degli anni 30 erano riuscite a mobilitare le masse operaie dietro di loro in modo permanente, quelle di oggi:
- o riescono a coinvolgere massicciamente gli operai (vedi il caso della “Marcia bianca” del 20 ottobre 1996 a Bruxelles), ma non possono farlo che per un tempo limitato (è perciò che la borghesia belga ha messo in atto in seguito nuove manovre);
- o si sviluppano in modo permanente (vedi le campagne anti Fronte Nazionale in Francia), ma non riescono ad imbrigliare gli operai, giocando essenzialmente così solo un ruolo di diversione.
Detto ciò, è importante non sottovalutare il pericolo di questo tipo di campagne nella misura in cui gli effetti della decomposizione generale e crescente della società borghese potranno fornire loro nuovi temi continuamente. Solo un’avanzata significativa della coscienza nella classe operaia permetterà a questa di respingere ogni tipo di mistificazione. E questa avanzata non potrà che essere il risultato di uno sviluppo massiccio delle lotte operaie che rimettano in causa, come avevano cominciato a fare nella metà degli anni 80, gli strumenti più importanti della borghesia nell’ambiente operaio, i sindacati ed il sindacalismo.
24) Questa rimessa in discussione, che si accompagna con la presa nelle proprie mani delle lotte e della loro estensione attraverso le assemblee generali ed i comitati di sciopero eletti e revocabili, passa necessariamente per tutto un processo di confronto con il sabotaggio dei sindacati. E’ un processo che va necessariamente a svilupparsi nel futuro a causa dell’accrescersi della combattività operaia in risposta agli attacchi sempre più brutali che scatenerà il capitalismo. Già oggi la tendenza allo sviluppo della combattività non permette alla borghesia, di fronte alla minaccia di un scavalcamento, di rinnovare le grandi manovre “alla francese” del 1995-96 destinate a ridare credito massiccio ai sindacati. Tuttavia, questi ultimi non hanno ancora avuto l’occasione di smascherarsi completamente anche se, nel corso dell’ultimo periodo, essi hanno cominciato ad impiegare più frequentemente i loro metodi di azione “classici” come la divisione tra settore pubblico e settore privato (manifestazione del 11 dicembre 1996 in Spagna, per esempio) o il rilancio del corporativismo. L’esempio più spettacolare di questa tattica è lo sciopero dichiarato all’annuncio della chiusura della fabbrica della Renault di Vilvorde dove si sono potuti vedere i sindacati dei diversi paesi in cui si trovavano fabbriche di questa ditta promuovere una mobilitazione “europea” delle “Renault”. Ma il fatto che questa ignominiosa manovra dei sindacati sia passata inosservata, che essa abbia loro permesso anche di aumentare un po’ il loro prestigio pur diffondendo la mistificazione di una “Europa sociale”, dà la prova che noi siamo oggi in una situazione cerniera tra quella della ricredibilizzazione dei sindacati e quella in cui essi dovranno venire allo scoperto e perdere sempre più considerazione. Una delle caratteristiche di questo periodo consiste nell’inizio di una messa in avanti dei temi del sindacalismo “di lotta” secondo i quali “la base” sarebbe capace di “spingere” le direzioni sindacali a radicalizzarsi (esempi delle Fonderie di Clabecq o dei minatori nel marzo scorso in Germania) o che possa esistere una “base sindacale” capace di difendere veramente gli interessi operai a dispetto dei tradimenti degli apparati (vedi, in particolare, lo sciopero dei portuali in Gran Bretagna).
25) Così è ancora un lungo cammino che attende la classe operaia sulla via della sua emancipazione, un cammino che la borghesia va sistematicamente a minare con ogni tipo di trappola, come si è visto nel corso dell’ultimo periodo. L’ampiezza delle manovre messe in atto dalla borghesia dimostra che essa è cosciente dei pericoli che cela per essa la situazione attuale del capitalismo mondiale. Se Engels aveva potuto scrivere che la classe operaia porta la sua lotta su tre piani, economico, politico e ideologico, la strategia attuale della borghesia che si sviluppa anche contro le organizzazioni rivoluzionarie (campagna sul preteso “negazionismo” della Sinistra comunista) fornisce la prova che essa lo sa perfettamente. Spetta ai rivoluzionari, non solo far venire allo scoperto e denunciare sistematicamente le trappole sparse dalla classe dominante, e l’insieme dei suoi apparati, in particolare i sindacati, ma anche mettere al primo posto, contro tutte le falsificazioni che si sono sviluppate nel corso dell’ultimo periodo, la vera prospettiva della rivoluzione comunista come scopo ultimo delle lotte attuali del proletariato. Solo se la minoranza comunista gioca pienamente il suo ruolo la classe operaia potrà sviluppare le sue forze e la sua coscienza per raggiungere tale scopo.
Aprile 1997, CCI