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Rivoluzione Internazionale - 1977

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Annata 1977

Rivoluzione Internazionale n° 7

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Numero di gennaio 1977

Rivoluzione Internazionale n° 8

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Numero di aprile 1977

L'Area della Autonomia: la confusione contro la classe operaia (I)

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Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno visto, da una parte, l’accendersi dei riflettori della pubblicità sulla Autonomia Operaia, nuova incarnazione del Maligno per i giornali borghesi, dall’altra la chiarificazione di quanto questa Area abbia perso ogni motivo di richiamarsi alla classe operaia. Nei fatti, più che di Area dell’Autonomia Operaia, si parla ornai di Area dell’Autonomia, schiumosa sommatoria di ogni tipo di frange piccolo-borghesi, dagli studenti agli attori di strada, dalle femministe ai docenti precari, tutte unite nell’esaltare il proprio “specifico” e nel rifiutare inorridite l’unicità della classe operaia in quanto classe rivoluzionaria della nostra epoca. In questo pantano gli “autonomi operai” si distinguono dalla “autonomia” grazie alla loro maggiore “durezza” nello grandi questioni politiche del momento: le molotov si usano in senso offensivo o difensivo? La P-38, questo mitico passe-par-tout per il comunismo, va puntata alle gambe dei carabinieri o più in alto?

In questo quadro di degenerazione totale si collocano, come reazione, alcuni tentativi di critica delle concezioni confusioniste ed interclassiste da parte di settori rimasti legati ad una concezione più “classista”. Per quanto questi tentativi vadano incoraggiati al massimo, bisogna denunciare il grave pericolo cui vanno incontro di considerare queste deviazioni come “incidenti di percorso” e pensare quindi che basti “ricominciare da capo”.

In questo nostro contributo alla discussione abbiamo al contrario analizzato le basi teoriche stesse dell’Autonomia Operaia, mostrando come esse si basino in fondo sul rigetto del materialismo marxista e lascino la porta aperta a tutte le degenerazioni poi manifestatesi. Per fare questo siamo partiti dalle posizioni espresse negli anni ‘50 dal gruppo “Socialisme ou Barbarie” fino a quelle proprie in Italia di “Potere Operaio”, che sono poi passate in eredità all’Area dell’Autonomia.

Abbiamo poi analizzato le conseguenze di questi errori di fondo, con particolare riferimento alla teoria delle multinazionali, al marginalismo e terrorismo, e cercheremo di fare il bilancio dei tentativi di riflessione autocritica che in alcuni settori sembrano manifestarsi.

Ascesa e caduta dell’Autonomia Operaia

“Il secondo pericolo, il ‘modernismo’, il gusto del ‘nuovo’, molto spesso non è che l’altra faccia dell’attivismo; si sviluppa quindi nei periodi di riflusso della lotta e porta al ripiego su se stessi, alla teorizzazione della demoralizzazione, fino all’abbandono della concezione del proletariato come classe rivoluzionaria. Illuminante a questo proposito è la traiettoria dei resti dell’Area dell’Autonomia Operaia in Italia, partiti dall’esaltazione della lotta per la lotta, della guerriglia di fabbrica, del picchetto duro, questi nuclei si sono presto trovati col sedere per terra, di fronte a un riflusso che non sapevano né prevedere, né capire. Invece di trarre le dovute conseguenze sull’impossibilità per la lotta operaia di crescere in maniera lineare in questa fase, si sono quindi limitati ad adeguarsi alla moda del giorno e ad individuare nella lotta per l’aborto, per la musica dei giovani, negli atti di terrorismo disperato ... il ‘nuovo livello’ della lotta operaia! Tutto questo gran parlare del nuovo modo di fare politica, del rifiuto dei ruoli, della ‘pratica del comunismo’ in breve di tutta la vecchia schiuma piccolo-borghese, sollevata dal ‘68, non esprime altro che la fuga di fronte alla rea1tà storica della lotta operaia.” (Introduzione alla Piattaforma della C.C.I., maggio 1976).

Con l’ingresso del capitalismo nella sua fase di decadenza anche il manifestarsi delle lotte operaie risulta profondamente modificato, poiché le lunghe battaglie durate a volte anni, per ottenere miglioramenti come la giornata di otto ore, etc., non hanno più senso, data l’impossibilità di ottenere qualunque miglioramento di fondo in un sistema che non ha più niente da offrire. Le lotte operaie nel periodo della decadenza sono invece caratterizzate da esplosioni imprevedibili e spesso altissime, seguite da lunghi periodi di. apparente calma, mentre si preparano nuove esplosioni.

In Italia è stato particolarmente difficile comprendere questa natura discontinua della risposta operaia alla crisi, per la straordinaria continuità del processo di lotte apertosi nel ‘69 con l’Autunno Caldo, continuate nel 70-71 con l’Autunno strisciante e terminante con l’ultimo colpo di coda dell’Autunno ’72 - marzo ‘73 (occupazione di Mirafiori). In questa ultima impennata di lotte i gruppi extra-parlamentari si sono chiaramente caratterizzati come cani da guardia dei cani da guardia (sindacati) del capitale, perdendo” buona parte dell’influenza acquistata nel ‘69 sugli strati operai più combattivi.

“I contratti del ’72-73 sono da questo punto di vista l’estremo limite oltre il quale i gruppi semplicemente sopravvivono a se stessi”. (Potere Operaio, n. 50, Novembre ‘73).

I gruppi autonomi di fabbrica hanno origine da questo senso di sfiducia nei confronti dei gruppetti, che non arriva però a farsi contrapposizione nei contenuti politici. Per quanto varie siano le motivazioni dei gruppi e degli individui che si sono riconosciuti nell’Area dell’Autonomia, c’è un punto che accomuna tutti, la spinta a rimettere al centro il punto di vista operaio.

Ed è proprio da questo punto di vista, dal punto di vista del richiamo ad una concezione classista della lotta politica che l’Area della Autonomia deve registrare il suo fallimento più clamoroso. Alla scomparsa o peggio alla trasformazione in vuote sigle della schiacciante maggioranza dei gruppi autonomi operai ha corrisposto la proliferazione incredibile di una Autonomia che, lungi dall’essere operaia, trova il suo unico momento unificante nella negazione della centralità della classe operaia.

Femministe ed omosessuali, studenti in ansia per lo sfumare del miraggio di un posticino tranquillo alla Regione o nell’insegnamento ed artisti alternativi in crisi per mancanza di acquirenti, sono un solo fronte compatto nel rivendicare la centralità del proprio “specifico” e la propria preziosa autonomia dal soffocante predominio operaio all’interno di gruppi extraparlamentari (?!!). Contrariamente a quanto scrivono i giornali borghesi, Lotta Continua in testa, questi movimenti marginali non sono i cento fiori della primavera rivoluzionaria, ma alcune delle cento e cento piaghe purulente di questa società in degenerazione.

I militanti operai che hanno partecipato all’esperienza dell’Autonomia operaia e che ancora conservano la testa sulle spalle non a caso si sentono spaesati e fuori posto in questa armata Brancaleone: la loro estraneità è l’estraneità storica di una classe che non ha più neanche un metro di strada da percorrere con l’interclassismo piccolo-borghese.

Nell’ultimo anno il processo degenerativo ha raggiunto livelli tali da costringere alcuni settori più “classisti” a prendere per certi versi le distanze dall’insieme dell’Area ed iniziare un processo di critica delle esperienze passate. Se questi tentativi sono in ogni caso positivi, essi hanno in sé un limite profondo: quello di andare a rintracciare e denunciare il filone più facilmente criticabile, perché marginalista in partenza (Rosso, etc.), per contrapporgli il filone “classista” come filone di classe. In una parola per non mettere in discussione nessuno dei presupposti su cui l’Area fu costruita e rimanere pronti a ripartire, sulla onda della prossima spallata operaia, con lo stesso ciclo di coordinamenti, volantoni, ecc..

Scopo di questo articolo è quindi fare i conti con i presupposti teorici dell’Autonomia e mostrare come il marginalismo anche operaio non ne sia un figlio bastardo e degenere, ma la sua conclusione legittima ed inevitabile. Per questo analizzeremo la teoria della “crisi del comando” che è alla base di tutte le posizioni politiche dell’Area.

Alle origini della “crisi del comando”: il rigetto del catastrofismo economico marxista

Se il lungo periodo di prosperità durato dalla fine del 1800 ai primi del ‘900 aveva potuto dare fiato a tutta una serie di teorie sul passaggio graduale dal capitalismo al socialismo, grazie all’elevazione cosciente dei lavoratori, l’entrata del sistema nella sua fase decadente con la prima guerra mondiale segna la conferma storica delle vecchie formulazioni “catastrofiche” di Marx sul crollo inevitabile dell’economia mercantile. Fu allora chiaro che una sola alternativa si poneva all’umanità: rivoluzione o reazione e la prima non era “ciò che questo o quel proletario o anche l’intero proletariato ritiene in un certo momento di dover fare, ma ciò che sarà storicamente costretto a fare” (Marx).

Anche dopo la sconfitta dell’ondata degli anni ‘20 ed il conseguente passaggio alla controrivoluzione dell’Internazionale Comunista, i gruppi rivoluzionari superstiti tennero fede al principio marxista che “una nuova ondata rivoluzionaria potrà aversi solo in seguito ad una nuova crisi” (Marx). Ma la mancata ripresa proletaria nel secondo dopoguerra - secondo il previsto schema dell’Ottobre rosso - ed il. periodo di benessere legato alla ricostruzione, ebbero ragione anche di queste minuscole frazioni, condannandole alla scomparsa o alla degenerazione in sterili sette. Contemporaneamente si ha, sulle rovine del movimento rivoluzionario, il risorgere di “nuove” teorie per far fronte alla analisi dei problemi di un preteso neo-capitalismo ignorato da Marx, teorie che in campo “marxista” vengono elaborate principalmente dal gruppo francese Socialisme ou Barbarie ([1]), nato nel 1945 da una scissione nella IV Internazionale Trotskysta.

Le posizioni caratteristiche che questo raggruppamento è andato elaborando sono fondamentalmente tre:

1) Invece di partire dalla rottura organizzativa con la controrivoluzione trotskysta per riallacciarsi all’esperienza storica della classe, salvaguardata ed approfondita dalle frazioni di sinistra comunista, Socialisme ou Barbarie proclama il suo alto disprezzo per tutti questi “souvenirs storici” e si rifugia nel culto della propria “originalità” ed unicità come “continuazione vivente del marxismo”.

2) Pur rigettando il mito trotskysta dello stato operaio degenerato, Socialisme ou Barbarie non arriva a caratterizzare l’URSS come capitalismo di stato, e si toglie dall’imbarazzo inventando un terzo sistema sociale, il capitalismo burocratico moderno, che se non è socialismo, non è neanche più capitalismo, e che tende ad affermarsi in tutto il mondo. E’ un capitalismo in cui “le crisi economiche classiche di sovrapproduzione corrispondono ormai ad una fase storicamente sorpassata di disorganizzazione della classe capitalista”; infatti:

“Non c’è nessuna impossibilità per il capitalismo “privato” o totalmente burocratizzato di continuare a sviluppate le forze produttive, né alcuna contraddizione economica insormontabile nel suo funzionamento. Più in generale, non ci sono contraddizioni tra lo sviluppo delle forze produttive e le forme economiche capitalistiche o i rapporti di produzione capitalistici.” (Socialisme ou Barbarie, n. 35).

Come si vede è bastata la temporanea ripresa legata ai fenomeni di ricostruzione del II dopoguerra perché i continuatori viventi del marxismo iniziassero a farneticare sulla “società senza crisi

3) Una volta negata l’insanabilità delle contraddizioni economiche, non si capisce perché mai dovrebbe essere proprio la classe operaia, che è definita dalla sua collocazione nella sfera economica, l’unico soggetto rivoluzionario della nostra epoca. Difatti:

“Il concetto tradizionale di classe corrispondeva alla relazione di individui e gruppi sociali con la proprietà dei mezzi di produzione, e noi l’abbiamo a giusto titolo sorpassato in questa forma, insistendo sulla situazione di individui e gruppi nei rapporti reali della produzione ed introducendo i concetti di dirigenti e diretti.”

Per cui:

“… l’unica distinzione che abbia un valore pratico valido è quella che esiste a quasi tutti i livelli della piramide, salvo evidentemente i vertici, tra quelli che accettano il sistema e quelli che, nella realtà quotidiana della produzione, lo combattono.” (Socialisme ou Barbarie n. 35)

Il risultato di queste tre grandi scoperte non poteva che essere uno: nel 1964 esce una specie di piattaforma del gruppo, da cui sono prese le precedenti citazioni, in cui il marxismo viene esplicitamente rigettato come vecchia fesseria superata. Due anni dopo, nel 1966, Socialisme ou Barbarie, portata a termine la sua storica opera, si dissolve in quanto gruppo.

Ma “le idee dominanti sono quelle della classe dominante” e le conclusioni anti-marxiste di Socialisme ou Barbarie si sono propagate attraverso una miriade di gruppi fra cui il più noto è l’Internationale Situationiste, che alla frittata socialbarbara aggiunse, negli anni precedenti al ‘68, dei piccanti contorni sulla critica della vita quotidiana. E’ sintomatico del mutare della situazione e del volgere alla fine del periodo di prosperità che l’Internationale Situationiste non sia mai arrivata a liquidare apertamente il marxismo, rifugiandosi dietro i giochi di parole tipo “come diceva Marx, noi non siamo marxisti”, ecc..

Maggio ‘68 è stato il canto del cigno di queste posizioni: il riaffacciarsi del movimento operaio sulle scena della storia, quando la crisi economica non si era ancora mostrata in tutta la sua ampiezza, ha potuto far credere a questi sciagurati che il movimento non avesse basi economiche, ma partisse. dal rifiuto della “noia di vivere”:

“L’eruzione rivoluzionaria non è sorta da una crisi economica, ma AL CONTRARIO HA CONTRIBUITO A CREARE UNA SITUAZIONE DI CRISI NELL’ECONOMIA.., quella che è stata attaccata frontalmente in Maggio è stata l’economia capitalista FUNZIONANTE BENE”.([2])

“Quanto ai resti della vecchia ultrasinistra non trotskysta..., avendo riconosciuto in Maggio una crisi rivoluzionaria, dovevano quindi provare l’esistenza nella primavera ‘68 di questa crisi economica “invisibile”. Essi si prodigano senza tema di ridicolo, nel produrre schemi sull’aumento della disoccupazione e dei prezzi.”([3])

Effettivamente per i teorici della “società dello spettacolo” solo una crisi spettacolare poteva essere visibile. I marxisti, invece, non hanno bisogno di aspettare che l’evidenza delle cose si imponga sulle copertine dell’Espresso o arrivi a penetrare il cervello di Guido Carli, per riconoscere e salutare l’imminenza e la portata della nuova crisi. Nonostante la loro lontananza dai centri del mondo capitalista, un pugno di compagni venezuelani, “ultrasinistri” potevano scrivere nel gennaio 1968 sulla loro rivista, Internacionalismo:

“L’anno ‘67 ci ha lasciato la caduta della sterlina ed il ‘68 ci porta le misure di Johnson... Noi non siamo dei profeti e non pretendiamo di sapere quando e come avranno luogo gli avvenimenti futuri. Noi siamo certi, per contro, che sia impossibile arrestare il processo che il capitalismo subisce attualmente con riforme e svalutazioni ed altre misure economiche capitalistiche e che inevitabilmente questo processo lo porta verso la crisi. Attraverso ciò, il processo inverso che si sviluppa attualmente, quello delle crescita delle combattività di classe, porterà il proletariato alla lotta sanguinosa e diretta in vista della distruzione degli Stati borghesi.”

L’irruzione sulla scena storica della classe operaia a partire dal ‘68 toglie ai fautori dalla “festa rivoluzionaria” ogni possibilità di parlare in suo nome: nel corso del 1970 l’Internationale Situationiste si dissolve in un’orgia di esclusioni reciproche; da allora le cicliche esplosioni di ribellismo che esprimono lo sfacelo della piccola-borghesia non sono mai arrivate neanche a costituire un’Internationale Situationiste.

Per quanto si pitturino la faccia e si mettano penne fra i capelli, gli indiani metropolitani non possono nascondere né le rughe né la calvizie: il proletariato “giovanile”, prima ancora di nascere, era già un cadavere che ancora cammina.

Il volontarismo in versione operaia e la crisi del comando

L’entrata in campo della classe, oltre alla liquidazione dei situazionisti e contestatari vari, impone un riaggiustamento delle teorie sul controllo della crisi che tenga conto della nuove realtà. Invece di negare semplicemente la possibilità della crisi (come si fa, ora?) si rivaluta il lato attivo della tesi: dato per scontato che il capitalismo controlla la crisi economica, è la crisi di questo controllo in seguito all’iniziativa operaia che apre la via alla crisi economica vera e propria.([4])

Questo tema che già iniziava ad affacciarsi negli ultimi testi situazionisti, in mezzo alle pastorali sulla “critica della vita quotidiana”, diventa il centro delle posizioni dei nuovi social-barbari, che saranno quindi “marxisti” ed “operai”. E’ significativo che in Francia il tentativo abortito di creazione su questa base di una Gauche Marxiste pour le pouvoir des conseils des travailleurs nel 1971, sia partito dal gruppo Pouvoir 0uvriere, discendente “marxista” di Socialisme ou Barbarie.

In Italia queste posizioni vengono espresse fondamentalmente dal gruppo Potere Operaio, e quindi analizzeremo in particolare le sue concezioni.([5])

Si parte dal riconoscimento dell’onnipotenza del “cervello teorico del capitale” manipolatore esperto di una società senza crisi:

“Dopo il ‘29, il capitale impara a controllare il ciclo, a impadronirsi dei meccanismi della crisi, a non restarne stritolato ed a usarli in modo tutto politico contro la classe operaia”. ([6])

Per proporre l’antidoto:

“L’obiettivo strategico della lotta operaia - più soldi e meno lavoro - martellato contro lo sviluppo, ha verificato il teorema dal quale eravamo partiti dieci anni fa: introdurre un concetto nuovo di crisi dello stato del capitale, non più crisi economica spontanea, per le sue contraddizioni interne, ma crisi politica, determinata dai movimenti soggettivi della classe operaia, dalle sue lotte economiche d’attacco”.([7])

Una volta negato che “una nuova ondata rivoluzionaria potrà aversi solo in seguito ad una nuova crisi”, bisogna ancora spiegare perché mai questa soggettività operaia abbia deciso di risvegliarsi nel 1968-69 e non, mettiamo, nel ‘54 o nell’82. Le spiegazioni sulle origini del ciclo di lotte rivelano tutta l’incomprensione, o meglio l’ignoranza, da parte di Potere Operaio, della storie del movimento operaio.

Mentre gli anni ‘20 furono la risposta operaia all’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, il che rendeva impossibile la lotta per le riforme ed esigeva la presa del potere politico, Potere Operaio la identifica con “l’organizzazione comunista basata sulle professionalità… si pensi alle velleità autogestionali contenute nell’esperienza ordinovista” di. Gramsci e Togliatti (!), prestando fede cieca alle ricostruzioni “a posteriori” degli storici stalinisti.

La sconfitta dei primi anni ‘20, l’espulsione e poi lo sterminio dei compagni da parte dell’Internazionale passata alla controrivoluzione, tutto ciò non esiste per Potere Operaio, dato che esce dai limiti della fabbrica. Per loro il fatto centrale è l’introduzione della catena di montaggio che “dequalificò tutti gli operai, respingendo indietro l’ondata rivoluzionaria” ed è solo negli anni ‘30, per non aver compreso la ristrutturazione dell’apparato produttivo avvenuta sulle base delle teorie economiche di Keynes, che le organizzazioni storiche della classe operaia si sarebbero trovate “dentro il progetto capitalistico”. Niente di strano poi, che la Cina capitalista e stalinista sia accettata come “faro ideale”, “limite oltre il quale la espressione capitalistica non è riuscita a pianificare il proprio intervento”:

“Siamo anzi certi che l’irriducibilità del movimento rivoluzionario cinese (sarebbero i burocrati maoisti, NdR) al comando capitalistico al livello mondiale possa dare un grande impulso all’opera di unificazione operaia e proletaria sul piano internazionale.” ([8])

Messa così la questione, rigettata l’esperienza storica della classe, non vale la pena di chiedersi perché mai solo nel ‘68 “gli operai hanno appreso... che una nuova società ed una nuova vita sono possibili, che un nuovo libero mondo è alla portata della lotta”. Basterà rispondere:

“E dove sono queste “circostanze obiettive” se non nella volontà politica soggettiva, organizzata, di percorrere fino in fondo la via rivoluzionaria?” ([9])

Su questa base la proposta organizzativa che Potere Operaio rivolge a tutte le avanguardie non potrà che fondarsi sul disprezzo più assoluto sull’autonomia reale della classe operaia, considerata molle cera nelle mani del partito che, a gran consolazione, “è dentro le classe”:

“Abbiamo sempre combattuto la feccia opportunista che chiamava “spontaneismo” la spontaneità invece di chiamare impotenza la propria incapacità di dirigerla e di piegarla ad un progetto organizzativo, ad una direzione di partito” (sottolineatura nostra, NdR) ([10]).

Le lotte operaie diventano una sorta di saliva del cane di Pavlov, che è possibile suscitare suonando un campanello:

“Quello a cui miriamo è la costruzione organizzata, soggettiva, di un nuovo ciclo di lotta di classe...”. ([11])

“Un nuovo ciclo di lotte operaie va messo in piedi perché l’organizzazione in esso forzi il suo programma politico, verso il programma di potere.” ([12])

Il nodo centrale delle contraddizioni di Potere Operaio è che quando parla del partito come frazione della classe, non intende parlare dell’organizzazione che raggruppa intorno a un chiaro programma, quindi su base politica, gli elementi più coscienti che si vanno formando nelle lotte operaie, quale che sia la loro origine sociale; vuole parlare di uno strato, di una percentuale della classe che viene addirittura sociologicamente additato nell’“operaio-massa, l’avanguardia di massa della lotta contro il lavoro”. Il menscevico Martov difendeva contro il bolscevico Lenin la tesi che “membro del partito è ogni scioperante”. I “bolscevichi” di Potere Operaio hanno rimesso a nuovo Martov: “membro del partito è ogni scioperante duro”.

Il programma comunista non ha bisogno di fronzoli tipo sintetizzare l’esperienza storica della classe, denunciare il capitalismo di stato in Russia e Cina, le lotte di liberazione nazionale come momenti di lotta interimperialista ecc., basta che proclami: “più soldi e meno lavoro”. Il partito non è che un grande comitato di base e l’unico problema è quello di piegare all’egemonia dell’operaio massa “la vischiosità e la resistenza di certi strati della classe”.

Per smuovere questa gente bisogna servirgli il piatto organizzativo già bello e pronto:

“Perché... il sindacato ha ancora in mano la gestione delle lotte? Solo in ragione della sua superiorità organizzativa. E’ dunque un problema di gestione quello che abbiamo di fronte. Un problema di superamento di una soglia minima di organizzazione, oltre la quale è credibile, materialmente accettabile, una possibilità di gestione dello scontro.” ([13])

In una parola i compagni di Potere Operaio non fanno quello che dovrebbero (chiarificazione politica ed intervento internazionale sulla base di un programma coerente) e si rimbecilliscono nel tentativo di fare ciò che non possono (scatenare cicli di lotte operaie, accelerare i tempi dello scontro, etc.). Il noto episodio del giornale di base operaio che - per garantire un livello da partito - venne alla fine scritto da due dirigenti della sezione romana di Potere Operaio non può essere spiegato con la follia di due persone; quando si sovrappone il partite agli strati “incazzati” della classe, è inevitabile che di fronte al riflusso progressivo dell’incazzatura sia il partito a doversi sempre più sostituire non solo alla classe ma anche ai suoi strati più combattivi, in una spirale “tutta soggettiva” di ascetismo e “militarizzazione”.

Il formarsi dell’Area dell’Autonomia e lo scioglimento di Potere Operaio

L’impennata di lotte operaie dell’autunno ‘72 conclusasi con l’occupazione alla Fiat Mirafiori nel marzo ‘73 precipitano, da una parte, la credibilità dei gruppetti extra-parlamentari nei confronti della classe (ciò che porta al proliferare degli organismi autonomi), dall’altra la crisi interna di Potere Operaio.

Viene messa in questione la linea ipervolontarista e militarizzata espressa in particolare dai dirigenti di Roma, i quali:

“teorizzano la struttura militare come sola capace di svolgere un ruolo rivoluzionario, negando la lotta di classe ed il ruolo politico dei comitati operai e proletari”.([14])

Purtroppo questa denuncia non arriva ad individuare le basi teoriche di questa degenerazione, e si presenta più come una riaffermazione delle tesi di Potere Operaio che una sua critica. Non si arriva a stabilire una relazione tra l’affacciarsi della crisi economica del capitalismo e la ripresa delle lotte operaie, che resta affidata all’intervento soggettivo delle avanguardie:

“Poche decine di operai, negli anni sessanta, legati alle masse,..., erano riusciti... ad imporre un salto in avanti qualitativo, fondamentale ed irreversibile, ai comportamenti ed alle Lotte operaie”. ([15])

Nei fatti si assiste ad un semplice riaggiustamento della vecchia tesi, per spiegare in qualche modo come facesse ad aggravarsi la crisi in tutti i paesi, anche in assenza di lotte operaie: se prima si insisteva sulla crisi provocata dalle avanguardie ora inizia a prendere il sopravvento la tesi complementare - destinata a larga fortuna - della crisi provocata ad arte dai padroni:

“Certi fenomeni come la crisi, l’inflazione, il marasma monetario, la decomposizione del sistema politico esistente e via di questo passo, non possono che spiegarsi che in termini di attacco al salario relativo”([16]).

“La crisi economica i padroni la creano e la eliminano quando lo ritengono opportuno, sempre con l’obiettivo di battere la classe operaia” ([17])

Ancora una volta si rifiuta un bilancio della esperienza storica del proletariato, limitandosi ad “irridere giustamente la forma terzinternazionalista del partito”. Ora, quando la classe riflette sul proprio passato, non lo fa per farsi quattro risate o due singhiozzi, ma per comprendere gli errori fatti e, sulla base dell’esperienza, tracciare una linea che sia di classe e di demarcazione dal nemico di classe. Il proletariato rivoluzionario non “irride” al superato marxismo-leninismo di Stalin per meglio esaltare quello messo a nuovo da Mao-tse-tung, ma li denuncia entrambi come armi della controrivoluzione. Proprio quello che i nostri neo-autonomisti non hanno intenzione di fare:

“Da questo punto di vista respingiamo ogni dogmatica (?!) distinzione tra leninismo ed anarchia: il nostro leninismo è quello di “Stato e Rivoluzione”, il nostro marxismo-leninismo è quello della rivoluzione culturale cinese” ([18]).

Questa ammirevole capacità di evitare il dogmatismo porterà, come è noto, l’Autonomia Operaia ad esaltare contemporaneamente la guerriglia di fabbrica in Italia e la militarizzazione degli scioperanti da parte dei marxisti-leninisti di Pechino e Luanda.

Qual è in conclusione il ruolo dei rivoluzionari?

“Dobbiamo essere capaci di raccogliere e di organizzare la forza operaia, non di sostituirci ad essa”([19]).

Questa frase condensa il limite invalicabile oltre il quale l’Autonomia non è mai riuscita ad andare, quello di considerare sostituzioniste solo le concezioni per cui la rivoluzione la fanno i deputati con le riforme o gli studenti “militarizzati” con le molotov.

Sostituzionista è invece chiunque neghi la natura rivoluzionaria della classe operaia, con tutto ciò che questo comporta e quando si viene a dire che compito dei rivoluzionari è organizzare la classe si nega appunto la capacità della classe di auto-organizzarsi in contrapposizione a tutte le altre classi della società. I Consigli Operai della prima ondata. rivoluzionaria furono creati spontaneamente dalle masse proletarie, merito di Lenin nel 1905 non è stato quello di organizzarli, ma quello di riconoscerli e di difendere al loro interno le posizioni rivoluzionarie del partito.

Quando “l’organizzazione, il partito oggi è tutt’uno con lo scontro, con la lotta”, una volta finita la lotta, come si può mai giustificare la permanenza di questo partito senza cadere nel sostituzionismo? Quella che effettivamente si identifica con la lotta è l’organizzazione unitaria del proletariato, cioè l’assemblea generale degli scioperanti (di tutti, e non delle sole avanguardie) cui rende conto il comitato di sciopero. Ma questo comitato, quando sia finito lo sciopero e si sia sciolta l’assemblea, si scioglie anch’esso e non pretende di trasformarsi in Assemblea Autonoma. Solo l’entrata della lotta in una fase di permanenza e generalizzazione, cioè l’entrata in un periodo rivoluzionario, permette alla classe di creare e tenere sotto controllo un comitato di sciopero permanente, cui tutte le fabbriche inviano delegati, di organizzarsi cioè in Consiglio Operaio.

Le avanguardie, i rivoluzionari, non si raggruppano intorno alla lotta, ma intorno ad un programma politico, ed è sulla base di questo che, prodotti dalle lotte, divengono a loro volta un fattore attivo al loro interno, senza né dipendere dagli alti e bassi del movimento, né volerli colmare con la propria volenterosa opera ‘organizzativa’ ”.

L’incapacità di vedere che classe ed organizzazione rivoluzionaria sono due realtà distinte, ma non contrapposte, è alla base delle concezioni sostituzioniste che, tutte, identificano partito e classe: se i leninisti identificano la classe nel partito, gli autonomi (nipoti inconsapevoli del consiliarismo degenerato) si limitano a rivoltare la frittata, identificando il partito nella classe.

Questa incapacità è il sintomo della mancata rottura con gli errori di fondo di Potere Operaio, che si manifesta nella ricorrente affermazione della utilità avuta dai gruppi extra-parlamentari:

“Ognuno di noi era incapace di fare un giornale prima di entrare in un gruppo, ognuno di noi era incapace di raccogliere soldi prima di entrare in un gruppo”.([20])

Non si può che rimanere stupefatti di fronte alla scelta dell’efficienza di addestramento tecnico come criterio di valutazione di un gruppo politico. Per cui invece di denunciare il carattere controrivoluzionario del programma politico di questi gruppi, gli ex-aderenti di Potere Operaio ci annunciano pudicamente che i gruppi sono una forma “superata”, così come è “superato” il terzinternazionalismo di Stalin. Solo Dio (o il suo equivalente moderno, il “cervello complessivo del capitale”) può vedere una qualche differenza dal “giustificazionismo storico” alla Togliatti-Berlinguer.

La mancata rottura reale, cioè nei contenuti, con i gruppi extraparlamentari è espressa in termini plateali dall’Assemblea Autonoma del l’Alfa, che teorizza addirittura una specie di spartizione dei compiti, per cui i gruppi politici fanno le lotte politiche (cioè libertà politiche, diritti civili, antifascismo, in una parola tutto l’arsenale di mistificazione anti-operaia) mentre gli organismi autonomi ripartono dalle lotte di fabbrica, anzi di reparto. Concezione logica per chi pensa; che:

“la capacità di togliere Valpreda dal carcere con il voto diventava un momento di lotta vittoriosa contro lo Stato borghese (!). L’incapacità di unirsi su questo obiettivo ha provocato confusione e sfiducia in una forza alternativa al sistema capitalistico.” ([21])

Come si vede l’Autonomia Operaia partiva con delle basi un po’ più confuse di quelle con cui era partito Potere 0peraio, quando la mutata situazione ne avrebbe richiesto di cento volte più chiare. In questo quadro risultano destinate a girare a vuoto ed a perdersi tutte quelle spinte proletarie che pure si esprimevano in questo tentativo, come confusa e sana reazione alla miserabile pratica gruppettara.

L’Area è dunque stata il calderone in cui le componenti proletarie sono state prima amalgamate nel minestrone confusionista, quindi diluite con il brodo dell’interclassismo. Non riconoscerlo significa schierarsi fra i “cucinieri”, come vedremo nella parte successiva dell’articolo.

BEYLE



[1] Per una valutazione più approfondita delle sue posizioni, vedi “Un tentative de dépassement du marxisme: Socialisme ou Barbarie”, in Bulletin d’étude et discussion n° 11, suppl. a Révolution Internationale, organo della C.C.I. in Francia.

[2] René Vienet, Situationnistes et enragés dans le mouvement des occupations, ed. Gallimard.

[3] Internationale Situationniste, n° 12, dicembre 1969.

[4] Questo non significa che noi neghiamo la lotta operaia come fattore aggravante della crisi. Nella misura in cui ogni intervento di sollievo temporaneo della crisi non può che essere una misura antioperaia, è chiaro che la resistenza operaia alla degradazione delle proprie condizioni di vita, rende problematica anche l’attuazione dei patetici piani di rilancio degli economisti borghesi.

[5] Noi non vogliamo assolutamente sostenere che ci sia una discendenza diretta fra Socialisme ou Barbarie e Potere Operaio; è noto che le sue ascendenza specifiche vanno variamente cercate nei Quaderni Rossi e in riviste come la Classe Operaia, La Classe, ecc. Ci interessa invece sottolineare come le posizioni che i militanti e i seguaci di Potere Operaio hanno sempre ritenuto frutto della nuova ripresa delle classe altro non siano che versioni operaiste di vecchie degenerazioni fiorite sulla sconfitta operaia. Va d’altra parte ricordato che Potere Operaio è stato l’unico gruppo italiano ad esprimere, nel modo più confuso possibile, questa ripresa di classe e che la sua fine miserevole non deve far dimenticare che gli altri, come era giusto, sono finiti al Parlamento.

[6] Le citazioni sono dall’opuscolo “Alle avanguardie per il Partito” elaborato dalla Segreteria Nazionale di Potere Operaio, dicembre 1970.

[7] ibidem, pag. 30.

[8] Ibidem, pag. 46.

[9] Potere Operaio n° 38-39, maggio 1971, pag. 3.

[10] Potere Operaio n° 38-39, maggio 1971, pag. 4.

[11] Alle Avanguardie per il partito, pag. 28.

[12] Ibidem, pag. 76.

[13] Ibidem, pag. 34.

[14] Potere Operaio, n° 50, novembre 1973, p. 69. Si tratta dei materiali del seminario tenuto a Padova nel maggio ‘73 dal gruppo che faceva capo a Toni Negri e che vi decise la confluenza negli organismi di base dell’Autonomia operaia. Date le partecipazioni ai lavori dell’Assemblea Autonoma dell’Alfa, dei Comitati Autonomi di Roma, ecc., questo può essere considerato il Congresso di fondazione dell’Area, o quanto meno dei filone “classista” che ci interessa seguire. Le citazioni non meglio specificate sono prese da questo documento.

[15] Ibidem p. 2.

[16] Ibidem, pag. 101.

[17] “Dalle lotte allo sviluppo dell’organizzazione autonoma operaia” delle Assemblee Autonome Alfa Romeo e Pirelli e C.d.L. Sit-Siemens, maggio 1973.

[18] Potere Operaio n° 50, pag. 3.

[19] Ibidem, pag. 102.

[20] Ibidem, pag. 1O5.

[21] Alfa Romeo “Diario operaio della lotta 1972-73”, a cura dell’Assemblea Autonoma, Ottobre ‘73, p. 11.

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Operaismo [1]

Rivoluzione Internazionale n° 9

  • letto 13 volte
Numero di giugno-agosto 1977

Rivoluzione Internazionale n° 10

  • letto 14 volte
Numero di settembre-novembre 1977

L'Area dell'Autonomia: la confusione contro la classe operaia (II)

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Nella prima parte di questo articolo abbiamo cercato di analizzare le basi teoriche dell’Autonomia Operaia, partendo da gruppi come Socialisme ou Barbarie che - negli anni di profonda demoralizzazione dovuti all’apparente stabilizzazione del capitalismo nel secondo dopoguerra – giunsero a rigettare il catastrofismo economico marxista. Si sviluppa così la teoria dei capitalismo burocratico che non conosce crisi e che sarà vulnerabile colo alla rivolta degli “oppressi” dalla noia della vita quotidiana.

Il Maggio ‘68 è il canto del cigno di queste concezioni come concezioni “rivoluzionarie”; la realtà della crisi e della lotta operaia lasciano spazio solo alla loro versione, operaista.

In Italia è Potere Operaio che riconosce la crisi, ma la attribuisce alla lotta operaia e non alle contraddizioni insanabili del sistema capitalista. Si tratta della nota teoria della crisi del comando, la cui conseguenza è l’illusione che le lotte operaie possono essere scatenate a piacimento dalle avanguardie opportunamente organizzate. Di qui un volontarismo sempre più disperato fino alle farneticazioni sulla militarizzazione del movimento.

Lo scioglimento di P.O. e la formazione dell’Area dell’Autonomia Operaia nel ‘73 si basano su una messa in discussione solo degli aspetti più criticabili di queste teorie, ma non arrivano a rigettarne l’essenziale. Per cui l’Area rimane completamente disorientata di fronte al riflusso dopo il Marzo ‘73 e vede la sua progressiva degradazione in quanto espressione sia pure confusa della classe.

In questa seconda parte (ricordiamo che la prima parte è stata pubblicata su Rivoluzione Internazionale n° 8) abbiamo cercato di seguire le grandi linee di questa decadenza, tra i pantani del marginalismo e le trappole del terrorismo.

Il testo è lungo e ce ne scusiamo con i compagni, ma non era possibile altrimenti. Con tutto questo sono molti gli avvenimenti e le posizioni degne di nota che ne sono rimasti fuori, ma di questo non dobbiamo scusarci. Le “Storie” le scrivono i compagni sopravvissuti alle sconfitte, nei lunghi anni della pace sociale e dell’annientamento del proletariato. Questi, non sono gli anni della sconfitta, ma quelli della forza e della lotta. E’ giusto che già da oggi i nostri articoli, le nostre “armi dei la critica” siano sempre più ad immagine dei giorni futuri, in cui si passerà alla “critica delle armi”.

A conti fatti: bilancio di una sconfitta

“In Italia le giornate del Marzo ‘73 a Mirafiori sono la sanzione ufficiale del passaggio alla seconda fase del movimento, così come le giornate di Piazza Statuto lo erano state per la prima fase. La lotta armata, gestita dall’avanguardia operaia dentro al movimento di massa costituisce la forma superiore della lotta operaia... Il compito del partito che va costituendosi è quello di sviluppare in forma molecolare, generalizzata e centralizzata, questa nuova esperienza di attacco.” ([1])

Con queste parole, piene di beate illusioni sulla “formidabile continuità del movimento italiano”, Potere Operaio annunciava il proprio scioglimento nell’Area dell’Autonomia e l’imminente centralizzazione di quest’Area in quanto:

“fusione di volontà soggettiva, capacità di battere la ciclicità delle lotte dominate dal padrone e dal sindacato, per imporre invece l’iniziativa dell’attacco”, (sottolineatura nostra, NdR).([2])

Come si vede cambia la sigla ma le vecchie illusioni di “mettere in piedi” a piacimento cicli di lotte operaie, sono dure a morire.

Purtroppo per gli illusi, Mirafiori ‘73 non è stato il trampolino verso la massificazione di un nuovo livello di lotte armate, ma l’ultima spallata del movimento prima di entrare nel periodo di riflusso più lungo e drammatico dopo il ‘68. La classe operaia invece di iniziare la “transizione al comunismo” ha visto aggravarsi progressivamente le proprie condizioni di vita ed ha assistito impotente ed apparentemente apatica alla messa in atto di tutta una serie di misure antiproletarie, che negli anni precedenti avrebbero provocato reazioni semi-insurrezionali. Come spiegare questa interruzione nella formidabile continuità del movimento italiano? Ricordando che essa è una caratteristica tipica delle lotte operaie odierne, che si svolgono nel quadro di un capitalismo decadente, incapace di migliorare in generale le condizioni di vita dei lavoratori. In più, finiti anche gli sgoccioli del boom della “ricostruzione” dopo il II macello imperialista, la crisi economica è tornata dal ‘68 in poi ad esasperare la situazione:

“In questo contesto la borghesia non può permettersi, persino sotto una pressione delle lotte operaie, di dare soddisfazione alle rivendicazioni del proletariato. Malgrado le promesse del capitale, le firme apposte su accordi solenni, le allusioni “umanitarie” che potrebbero essere alimentate da questa o quella frazione riformista o “progressista” della borghesia, malgrado il timore di importanti movimenti sociali, la realtà del capitalismo decadente è implacabile: il capitale non può più accordare delle vere riforme al proletariato.

E’ diventato banale ormai constatare che, dopo cinquant’anni, tutte le lotte per rivendicazioni salariali non hanno portato a niente... La situazione normale, quella che caratterizza il capitalismo attuale, non è l’aumento dei prezzi che segue l’aumento dei salari, ma esattamente l’inverso. Non è il capitale che cerca di recuperare in permanenza ciò che i lavoratori gli strappano, ma sono i lavoratori che cercano di resistere all’intensificazione del loro sfruttamento.” ([3])

Con il primo vero e proprio collasso della economia italiana, che si verifica appunto nel ‘73 ([4]), i già angusti margini di manovra dei sindacati per chiedere aumenti salariali si restringono drasticamente, e sempre più nelle piattaforme rivendicative la parte del leone tocca alle “grandi battaglie” per gli investimenti al sud, le riforme ([5]). Sempre più spesso scioperi anche lunghi e violenti terminano senza che nessuna delle richieste operaie sia stata accolta; in una parola gli operai scoprono, sconfitta dopo sconfitta, che per difendere le proprie condizioni di vita bisogna ormai scontrarsi direttamente con lo Stato, di cui i sindacati non sono che un ingranaggio.

In una situazione del genere, se gli elementi più politicizzati sono portati dall’attivismo e dalla disperazione ad “alzare il livello dello scontro”, la maggioranza della classe arretra, per non dissanguarsi in scioperi senza storia e senza significato. Per caratterizzare questa fase, che con particolari differenti si è presentata in tutti i paesi industrializzati, noi abbiamo spesso detto che è come se la classe operaia arretrasse di fronte ad un nuovo ostacolo per poter meglio prendere una rincorsa adeguata al salto. Questi anni di apparente passività sono stati anni di sotterranea maturazione e chi sperava che il riflusso sarebbe stato eterno sta già avendo qualche delusione. Nei fatti, la difficoltà di difendere vittoriosamente le proprie condizioni di vita, può disorientare e demoralizzare gli operai, ma alla lunga non potrà che rigettarli di nuovo nella lotta, con una rabbia e una determinazione cento volte moltiplicata.

Tutto ciò era ed è inevitabile. Ma come poteva capirlo chi, rifiutando la teoria marxista della crisi economica, considerava come ormai “automatiche” le conquiste sul salario e sull’orario, e si preoccupava di cercare “nuovi piani di lotta”:

“E ciò che diventerà sempre più pesante con lo sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali non sarà tanto il raggiungimento di obiettivi di tipo quantitativo come nel passato (occupazione, salario, etc.). Certo il padrone non smetterà di combatterci anche su questo piano, ma questi obiettivi saranno comunque assicurati alla classe operaia dell’occidente avanzato.

Diventerà invece sempre più pesante garantirsi obiettivi di tipo qualitativo per cambiare la vita in fabbrica, fuori, nei rapporti personali, a letto.” ([6])

La realtà ha poi svelato a questi entusiasti del capitalismo occidentale che per i proletari di assicurato non c’è neanche lo sfruttamento (vedi i milioni di disoccupati nell’area CEE). La parola magica delle 35 ore pagate 40 che doveva coagulare tutta la classe operaia più le donne, i giovani, i disoccupati, etc., non ha coagulato che qualche miserabile spezzone di sinistra sindacale, Lotta Continua in testa, ed é quindi andata al macero assieme a tutte le altre brillanti “trovate” dei suscitatori di lotte operaie.

Di fronte agli insuccessi le risposte dell’Autonomia sono essenzialmente di due tipi:

1) il tentativo volontaristico di controbilanciare il riflusso, grazie ad un attivismo sempre più frenetico e sempre più “sostituzionista” nei confronti della classe; 2) il graduale spostamento della lotta di fabbrica a nuovi piani di scontro, ovviamente “superiori”. Su questa progressiva divaricazione fra “duri” ed “alternativi” inciampa e si frantuma il progetto di centralizzazione dell’Area ambiziosamente emerso al momento della confluenza di Potete Operaio nel costituendo Coordinamento Nazionale. Queste due linee sono state, grosso modo, il terreno di sviluppo delle due deviazioni simmetriche dell’Autonomia, terrorismo e marginalismo, che tornano continuamente ad intrecciarsi fra di loro.

Senta avere la pretesa di analizzare a fondo questi due filoni, su cui dovremo sicuramente ritornare, vale qui la pena di mostrare come entrambi siano non la negazione, ma il logico sviluppo dell’originario classismo operaista.

Dalla guerriglia di fabbrica al “Partito Combattente”

“Quando la lotta operaia spinge il capitale alla crisi, sulla difensiva, l’organizzazione operaia deve avere già allestiti strumenti tecnicamente (sottolineatura nostra, NdR) validi con i quali prolungare, rafforzare ed armare la volontà di attacco della classe... Suscitare, organizzare la rivoluzione ininterrotta contro il lavoro, determinare fin da subito momenti di liberazione ... questi sono i compiti dell’avanguardia operaia come dittatura.” ([7])

Come si vede già in Potere Operaio sono espresse chiaramente le posizioni di fondo che stanno alla base della scelta terrorista: 1) da una parte la visione della crisi come imposta dalla lotta di classe; 2) dall’altra la concezione dei rivoluzionari come organizzatori tecnici di questa lotta di classe, per cui bisogna superare “una soglia minima di organizzazione” oltre la quale si è “credibili” di fronte alla classe e si può concorrere nella “gestione” delle lotte con il sindacato.

Mano a mano che l’ondata del ‘68 si affievolisce, aumentano i “trucchi” che un buon tecnico della guerriglia di fabbrica deve conoscere per condurre i suoi compagni di lavoro verso la terra promessa. Nasce e si sviluppa così la mistica della “inchiesta operaia”, cioè dello studio da parte delle avanguardie della struttura della fabbrica e del ciclo produttivo, per individuarne i “punti deboli”: basterà colpire questi per bloccare l’intero ciclo e fottere i padroni. Ma, come al solito, quello che c’è di buono non è nuovo, e quello che è nuovo non è buono. L’idea di colpire senza preavviso dove e quando è massimo il danno per i padroni e minima la perdita per gli operai, non è un’idea, ma una scoperta pratica della classe ed ha un nome preciso: sciopero selvaggio. Quello che c’è di nuovo è l’idea (e questa sì che è una “idea”) che lo sciopero selvaggio possa essere programmato dalle avanguardie, ciò che è una contraddizione in termini.

Ci si potrebbe rispondere che tutto questo è vero ma che se non si conosce la fabbrica, non si possono unire le lotte dei vari reparti, ci si perde, etc. Giustissimo, ma non è certo con gli studi notturni di qualche militante che gli operai, mettiamo, della Verniciatura imparano ad orientarsi nelle Carrozzerie o alle Presse. E’ con i cortei interni di massa che la classe risolve praticamente il problema dei cancelli: sfondandoli.

Questa storia, che potrebbe sembrare secondaria, fa vedere chiaramente come ogni visione tecnico-militarista guardi alla lotta di classe con un’ottica completamente rovesciata: non è il fatto di avere in ogni reparto dei compagni con la pianta della fabbrica stampata in mente che permette l’unificazione delle lotte; è l’esigenza di unificare le lotte, per uscire dai vicoli ciechi delle lotte settoriali, che spinge la classe a superare gli ostacoli che si frappongono a questa unificazione (ed a stamparsi in mente i vicoli ciechi dei corridoi). Per andare in corteo a chiamare gli operai delle altre fabbriche, la cosa fondamentale non è sapere dov’è l’uscita ma aver compreso che solo la generalizzazione della lotta può renderla vincente. In realtà gli ostacoli più temibili non sono i cancelli, ma coloro che all’interno della classe si oppongono con la loro demagogia alla maturazione della sua coscienza. Il vero muro da abbattere è quello fabbricato giorno dopo giorno dai delegati sindacali, dagli attivisti dei partiti e partitini “operai”, é il muro invisibile ma tenace che chiude il proletariato all’interno del “popolo italiano” e lo separa dai suoi fratelli di classe di tutto il mondo, è la catena vischiosa che lo lega alle sorti dell’economia nazionale in difficoltà. Spogliare questi ostacoli dei loro travestimenti demagogici ed “estremisti”, denunciarne la natura controrivoluzionaria, ecco il ruolo specifico dei rivoluzionari in fabbrica e fuori, ecco il loro contributo indispensabile nel. forgiare quella coscienza e quell’unità di classe che abbatteranno ben altre porte che quelle della Fiat ([8]).

Credendo di “dare un contenuto offensivo alle lotte degli operai delle grandi fabbriche” ([9]), ci si pone su di un piano inclinato che è sempre più difficile da rimontare. Dai processi di massa ai capi del Marzo ‘73 si passa agli “incidenti” in fabbrica ai dirigenti e capi più amati, quindi al sequestro, anzi all’“arresto ed interrogatorio” in una “prigione del popolo” (!) del capo del personale FIAT, Amerio (dicembre 1973). E’ ormai tempo di “portare l’attacco al cuore dello Stato” con il sequestro Sossi (maggio ‘74), per finire nel giugno ‘75 con il rapimento a scopo di estorsione dell’industriale Gancia. Come si vede la linea di tendenza, indicata con questi esempi, è quella dell’autonomia, sì, ma dell’autonomia dalla lotta di classe, che si allontana sempre più sullo sfondo.

E’ diventato ormai un luogo comune, sulle pubblicazioni dell’Autonomia, la critica delle Brigate Rosse perché “esagerano” col militarismo, perché si staccano dalle masse, etc. Le BR hanno semplicemente percorso fino in fondo il piano inclinato del volontarismo nel tentativo impossibile di rispondere con un “salto di qualità” delle avanguardie alle nuove difficoltà del movimento di classe:

“... le lotte più recenti ci costringono a riflettere seriamente su due fenomeni divenuti ormai evidenti: il deteriorarsi delle forme di lotta tradizionali e la crisi dell’ipotesi del sindacalismo di sinistra. E’ inutile piagnucolare sulla contraddizione che esiste tra la tensione creata fra gli operai dal problema dei licenziamenti, per esempio, e l’incapacità a trovare delle forme di lotta appropriata... Bisogna agire simultaneamente per approfondire la crisi di regime, che è, sopra di tutto, crisi di potere della borghesia sul proletariato; bisogna trasformarle in primi momenti di potere del proletariato armato, di lotta armata per il comunismo.” ([10])

Il fatto che tutte le critiche dell’Autonomia Operaia alle BR non siano mai andate oltre le solite lamentele opportuniste sul carattere prematuro di certe azioni etc., senza mai arrivare all’essenziale, non è certo casuale, ma trova le sue radici nelle teorizzazioni stesse dell’Autonomia Operaia:

“Oggi nelle metropoli capitaliste, e particolarmente in Italia, le lotte operaie hanno imposto un’altra forma di crisi al capitalismo. Non si tratta più di una crisi spontanea, dovuta alle contraddizioni interne del meccanismo economico, o più globalmente del sistema; si tratta né più né meno di una crisi politica che i movimenti soggettivi delle lotte operaie hanno imposto con la loro offensiva sui salari, contro il lavoro, con la loro capacità di rompere sistematicamente ed a tutti i livelli con il comando capitalista. Una teoria insurrezionale classica non è più applicabile alle metropoli capitaliste; essa si rivela sorpassata, come è sorpassata l’interpretazione della crisi in termini di crollo… la lotta armata corrisponde alla nuova forma della crisi imposta dall’autonomia operaia, così come l’insurrezione era la conclusione logica della vecchia teoria della crisi come crollo economico.” ([11])

Non si può rigettare il marxismo in nome della volontà soggettiva delle masse e poi essere in grado di criticare seriamente chi, autoproclamatosi “partito combattente”, cerca di accelerare i tempi della storia, portando alle masse un po’ della propria “volontà”. Il militarismo delle Brigate Rosse non è che lo sviluppo coerente e logico dell’attivismo operaista delle famigerate “inchieste operaie” ([12]).

Rimane da constatare che negli ultimi mesi tanta coerenza e preveggenza non ha impedito alle BR di dover rincorrere a colpi di comunicati ed appelli le giovani leve del “partito della P 38” che, per passare alla lotta armata, non hanno ritenuto di dover passare per le BR. Qualcuno potrebbe parlare di apprendisti stregoni incapaci di controllare le forze imprudentemente evocate. Nulla di più falso: questa incapacità ad inquadrare i pistoleri metropolitani è la prova schiacciante che non è stata la “azione esemplare” delle BR ad evocarli, ma il procedere inesorabile della crisi economica, che getta nella disperazione ampi strati di piccola borghesia, specie intellettuale.

Nuclei d’acciaio del partito armato, “cani sciolti” della P38 non possono imporre niente, nel bene o nel male. E’ stata la logica dei fatti ad imporli, sarà le logica dei fatti a spazzarli via. ([13])

Il marginalismo: “oltre” la lotta di classe, fuori dalla storia

Mentre i “duri” si militarizzano per sostituire il movimento in riflusso nelle fabbriche, la maggioranza dell’Area è alla ricerca di più praticabili scorciatoie al comunismo. Detto fatto: il movimento non è in riflusso, ma sta attaccando da un’altra parte per disorientare i padroni. E’ il momento magico del territorio, come “nuova dimensione dell’autonomia operaia”.

“Da Forcella a S. Basilio l’insubordinazione proletaria si qualifica come iniziativa politica per il comunismo: il terreno di lotta per l’appropriazione come terreno strategico di attacco alla crisi... Alla luce di questi fatti il territorio va visto non solo come “area di ricomposizione” dell’autonomia operaia, ma come un nodo centrale dello scontro di classe in atto.” ([14])

Accanto all’esaltazione pura e semplice della “svolta” non manca la speranza di “appoggiarsi” a queste lotte per rilanciare l’offensiva in fabbrica, per cui lo sviluppo della insubordinazione sul territorio: “si misura su tutto il terreno della crisi in stretto rapporto con la ripresa generalizzata delle lotte aziendali.”([15])

In realtà lo spostarsi della lotta sul “sociale” non facilita assolutamente il “dilagare dell’iniziativa operaia dalla fabbrica nel territorio”. La lotta contro l’aumento dei prezzi, degli affitti, in genere la lotta di quartiere non può che basarsi su tutta la popolazione del quartiere stesso. Sarebbe infatti assurda e destinata a fine rapida un’autoriduzione della luce portata avanti solo dalle famiglie operaie o solo dalle famiglie impiegatizie. Questo significa che l’autonomia operaia lungi dal dilagare, viene allagata da fiumi di piccola borghesia e da torrente in piena si trasforma in palude stagnante e popolare. La tanto vantata generalizzazione della lotta si rivela essere il passaggio dalla corporativa difesa delle proprie condizioni di vita in quanto operai alla generale lotta per i propri diritti in quanto cittadini.

Ben altra è la realtà storica delle esplosioni operaie: non per suggestione di comitati popolari ed interclassisti, ma per dinamica interna di classe, il proletariato di fabbrica, ai momenti cruciali della lotta, trova in sé la forza di dilagare oltre i soffocanti limiti dell’officina, a preannunciare ai padroni e ai loro servi quel dilagare futuro cui non seguirà mai più “ritorno alla calma”. Pietroburgo ’17, Polonia ‘70, Inghilterra ‘72, Spagna ‘76, Egitto ‘77, è stato ogni volta dietro alle grandi concentrazioni operaie che si è realizzata l’unificazione dell’intero corpo collettivo del proletariato e la spaccatura del “popolo unito” in due campi distinti e contrapposti.

Così la logica stessa dei vari movimenti “riappropriatori” é stata quella di una progressiva diluizione del “rapporto con le lotte aziendali” a favore delle componenti piccolo-borghesi e marginali. Questo è stato particolarmente evidente nel movimento di occupazione delle case:

“Le case non vengono più occupate per avere un tetto decente sotto cui dormire, solamente per alloggiare la famiglia... Le occupazioni di centri del proletariato sono un salto in avanti rispetto alle esperienze del Festival del Parco Lambro e di Umbria Jazz: il proletariato giovanile si salda con il movimento delle occupazioni.” ([16])

Dal territorio come “area di ricomposizione della autonomia operaia” ai circoli del proletariato giovanile, dal potere operaio al potere dromedario degli indiani metropolitani, la traiettoria è nota. Ogni strato di piccola borghesia sbalestrato dalla crisi si promuove a “frazione della classe” ed inalbera la bandiera della propria “autonomia”. Per brevità (e per carità verso i nostri lettori) accenneremo brevemente solo al movimento femminista. Il suo sviluppo di massa, come quello di tutti i movimenti marginalisti, è legato appunto alla “crisi dei gruppi”, alla delusione seguita al Marzo ‘73, quando il comunismo “tutto e subito” non è sceso a posarsi tipo Spirito santo sulle volitive fronti degli operai di Mirafiori. Questo “fallimento” è stato un vero e proprio trauma per tutti i piccolo-borghesi che si erano già mentalmente riservati un posto in Paradiso, in virtù dei sacrifici fatti al servizio delle masse popolari. “Abbiamo lavorato per niente a favore del proletariato!” è stato il grido di rimorso di tanti esponenti di uno strato sociale storicamente abituato a non lavorare per niente, alle spalle del proletariato. Tornati rapidamente all’ovile (da cui non erano mai usciti) tutti questi strati si sono dedicati con entusiasmo rinnovato al vecchio sogno della loro classe: aprire un commercio in proprio. D’ora in poi invece di lottare per il socialismo “degli operai” (?), ognuno lotterà per il “suo” socialismo, per un socialismo tagliato su misura di tutte le varianti della sociologia borghese.

Come tutte le concezioni idealistiche, il femminismo crede che siano le ideologie, i “ruoli” imposti dal capitalismo a determinare l’esistenza, e non il contrario. Per cui basterà negare, rifiutare i ruoli impostici per mettere in crisi la società borghese. Quello che applicato alla lotta di classe era semplicemente una interpretazione sbagliata (è il rifiuto del lavoro che determina la crisi economica, etc.) diventa pura ideologia reazionaria: sarà l’affermazione della propria autonomia da parte di ogni strato oppresso della società a mettere in crisi il “comando” capitalista.

Non è quindi casuale che il “nuovo modo di fare politica” scoperto dalle femministe sia stato principalmente quello dei piccoli gruppi di autocoscienza. E’ il destino di ogni “categoria” della società borghese (neri, donne, giovani, omosessuali, etc.) totalmente impotenti di fronte alla storia e quindi incapaci di forgiarsi una coscienza storica: quello di finire a crogiolarsi nell’autocoscienza della propria miseria. Se il proletariato è la classe rivoluzionaria della nostra epoca, non è perché si è fatto convincere dai socialisti nell’800 e poi si è abituato a questa idea, ma per la sua collocazione pratica al centro della produzione capitalista.

“Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico mondiale, non è, come pretende di credere la Critica Critica, perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario... Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato, si immagina di volta in volta come suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.” ([17])

L’unica componente del movimento femminista che si è in qualche modo resa conto di quanto fosse campata in aria una lotta basata sull’auto-coscienza è stata Lotta Femminista ([18]). Ma per quanto rifiuti con orrore questa idea, tutto quello che ha saputo fare è coniugare al femminile le idee di Potere Operaio, da cui d’altra parte proviene. Rendendosi conto che la capacità del proletariato di porsi come classe rivoluzionaria si basa sulla sua lotta in difesa delle proprie condizioni di esistenza, e non su una ideologia, si cava dagli impicci “scoprendo” che la casalinghe sono operaie della casa, che il loro lavoro è produttivo e deve essere pagato. Per cui:

“Da oggi apriamo (?) la lotta perché (il Salario al lavoro domestico) sia pagato” ([19]). E con ciò Lotta Femminista si è assicurato il premio Nobel del Volontarismo per gli anni ‘70. Se Potere Operaio si illudeva di poter risvegliare a piacimento la lotta operaia, Lotta Femminista è arrivata a far nascere per decisione politica una lotta di “classe” che non è mai esistita. Le loro illusioni tardo-leniniste sulla organizzazione cosciente portata dall’esterno è tale che sono arrivate a prendersela con i socialisti che non hanno organizzato le donne perché disperse mentre hanno organizzato i braccianti ed i contadini, ugualmente dispersi. Come se i contadini avessero aspettato il nascere del movimento socialista per iniziare a lottare e a rivoltarsi. (La Guerra dei Contadini in Germania è del 1525!).

Il fatto quindi che le donne non siano state capaci di condurre una lotta di classe contro il capitale non dipende dal fatto che Marx “questa centralità del lavoro domestico avrebbe pur dovuto vederla” ed invece non l’ha vista. Dipende dal fatto che non sono né una classe, né una frazione di classe, ma una delle tante categorie che il capitale contrappone fra di loro (divisioni di razza, sesso, nazione, religione, ecc.) per cercare di diluire la contraddizione centrale, quella risolutiva per tutte. Perché il proletariato:

“Non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione.” ([20])

Che questo o quell’individuo “si immagini” di aver visto quello che Marx non aveva visto, non può cambiare di una virgola questa realtà.

Quello di L.F. è stato l’unico tentativo di andare controcorrente alla naturale tendenza del movimento femminista di tornare sotto l’ala protettrice e Referendaria dei partiti di Sinistra. Si può già fare un bilancio di questo tentativo di organizzazione autonoma delle donne su una propria strategia? Forse sì. La prima a saltare è stata la struttura di gruppo di Lotta Femminista, scioltasi nell’ottobre ‘74 per la presenza al suo interno di “differenti analisi e pratiche politiche”. La sostituisce il Coordinamento Nazionale dei Comitati per il Salario al Lavoro Domestico, struttura federativa dove ogni sede pensa quello che vuole e Padova fa per tutte (compreso il giornale). Ma i guai interni al Coordinamento non sono che il riflesso di una mutata situazione generale: nel recente movimento di occupazioni universitarie le leaders “storiche” sono state violentemente attaccate nelle loro stesse roccaforti (Padova, etc.) dalle nuove 1eve del femminismo, dalle autonome smaniose di imitare la compagna Mara o Maria Pia Vianale. Come risposta nel n° 4 de “Le operaie della casa” dedicato alla critica dell’Autonomia, i Comitati per il SLD accusano le “nuove” femministe di rinunciare al lavoro di costruzione di un’organizzazione autonoma femminista e di agire come semplice colonna di appoggio del costruendo partito combattente. Ed hanno perfettamente ragione. Ma per un’amara ironia, quella che loro vedono come debolezza delle nuove femministe, si impone invece come forza delle cose: il femminismo non è capace di organizzarsi come forza autonoma.

Proprio perché si rivolge alle donne, cioè ad uno strato che di fronte alla crisi si spacca inesorabilmente in due, lungo una frontiera di classe, il femminismo si rivela per il capitale una mistificazione di seconda categoria, incapace di distogliere una porzione considerevole di proletarie dalla linea di combattimento della loro classe. Perché abbia una qualche utilità deve essere una semplice carta ben mescolata con le altre nel miglior mazzo truccato del capitale, “l’alternativa popolare e di sinistra”, la sola capace di deviare ancora il proletariato, sfruttando le sue stesse tradizioni.

La forza della storia si impone a tutti, indipendentemente dalla loro volontà o coscienza. Le stesse militanti dei Collettivi per il SLD - che per le loro origini politiche avevano una confusa coscienza della necessità di distruggere i sindacati - si sono rapidamente adattate all’ipotesi che le lotte delle donne passino per questi organi padronali:

“A questo punto la casa non sarà di vitale importanza. Se noi le aiutiamo a muoversi sui loro obiettivi, anche quello che possono ottenere dai sindacati sarà più grande.” ([21])

Si può quindi arrivare a presentare come grande vittoria rivoluzionaria i tentativi sindacali di rendere più efficienti i Consigli di Fabbrica, questi luridi comitati d’affari della borghesia in fabbrica:

“Sull’onda di questa vittoria era nata una commissione salute donne nell’ambito del Consiglio di fabbrica che aveva proposto un’indagine ambientale tramite il Servizio di Medicina Preventiva.” ([22])

La sorte di tutti i movimenti marginali è già segnata. Durante il 1° macello mondiale, le suffragette inglesi sospesero ogni agitazione ed accorsero all’appello dello stato borghese, tutte tese nella salvaguardia del supremo intesse della patria, per sostituire come volontarie gli uomini mandati al fronte.

Alle moderne suffragette del capitale non sarà riservato compito meno ripugnante.

Capire subito, ricominciare! Ricominciare che?

Introducendo la prima parte di quest’articolo, scrivevamo:

“In questo quadro di degenerazione totale si collocano, come reazione, alcuni tentativi di critica delle concezioni confusioniste ed interclassiste da parte di settori rimasti legati ad una concezione più ‘classista’. Per quanto questi tentativi vadano incoraggiati al massimo, bisogna denunciare il grave pericolo cui vanno incontro di considerare queste deviazioni come “incidenti di percorso” e pensare quindi che basti “ricominciare da capo”.” ([23])

Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno dimostrato che sia la reazione sia il pericolo di non andare a fondo nella critica non erano nostre invenzioni. Nel volantone ([24]) distribuito a Milano dopo la morte dell’agente Clustrà e significativamente intitolato “Capire subito, ricominciare!” si scrive:

“Se qualcuno si faceva illusioni sul carattere “contemporaneo” ed “orizzontale” dello scontro, ora gli sono passate.” Molti settori del movimento hanno “affrontato lo scontro di classe con un taglio ed una illusione insurrezionalista, con forme di lotta tanto repentine e “spontanee” quanto incapaci di porsi e porre problemi reali nello scontro. Lo Stato, la sua ristrutturazione e la sua riorganizzazione non si cacciano come fantasmi con qualche colpo a fuoco. (…) Le masse - compagni! - non si mobilitano nello spazio di un mattino con la bacchetta magica, nemmeno con la bacchetta magica del “salario” e dell’“orario”.” (sottolineatura nostra, NdR

I fatti sono testardi - diceva Marx - e certe evidenze - come la natura di “cani da guardia” della “legalità democratica” dei gruppi - iniziano ad imporsi all’interno del movimento. Ma il pericolo sta appunto qui, nell’illusione che si possa capire subito e ricominciare la mattina dopo. “Il peso dei morti ossessiona a lungo il cervello dei vivi”; non è riconoscendo che certi errori ci sono stati, e via, ma facendone una critica radicale, che ciò che è vivo nell’Aut. Op. si strapperà dalla mente e dal cuore l’ossessivo fantasma dell’operaismo.

Sempre, nelle discussioni con militanti dell’Aut. Op., si arriva al punto obbligato: “Va bene, avrete pure ragione, ma allora che si fa?”. Compagni, si smette innanzitutto di giocare sull’equivoco e come elementi di avanguardia ci si prende tutte le proprie responsabilità di fronte alla propria classe. E questo si può fare solo se ci si dà un programma preciso ed un’organizzazione militante. Ma un programma non è una piattaforma sindacale alternativa per i contratti di quest’anno, é una Piattaforma Politica che delinei chiaramente le frontiere di classe stabilite dall’esperienza storica del proletariato. Capire subito? Ma se per anni l’Aut. Op. ci ha rotto le scatole sulla Cina Rossa, la lotta dei popoli antimperialisti, etc. Ed oggi che la Cina non riesce più a mascherarsi, che nella Cambogia “liberata” regna il terrore, che i “rivoluzionari” etiopici e somali si scannano tra di loro, come reagisce l’Aut. Op.? Semplicemente non ne parla più. Ci sono già tanti problemi in Italia, mettere in discussione tutto il Vangelo su cui si è tanto giurato potrebbe far perde re tempo, bisogna ricostituire subito un qualche Coordinamento Metropolitano. Compagni, se non si capisce tutto questo, se non si arriva ad inquadrare questi fatti “misteriosi” grazie ad un insieme coerente di posizioni di classe sul capitalismo di stato, le lotte di liberazione nazionale, i “paesi socialisti”, etc., si costruisce sulla sabbia e si inganna il proletariato.

Noi non siamo qui per sparare sentenze o cazzate sul movimento, ma per lavorare con tenacia a quello che è oggi il compito fondamentale dei rivoluzionari: il raggruppamento internazionale in vista delle battaglie future e decisive. Svolgere questo ruolo per noi non significa dare la caccia a qualche compagno per rinfoltire le nostre fila, significa dare in maniera organizzata e militante il proprio contributo e stimolo attivo all’ancora confuso e discontinuo processo di chiarificazione che è in corso nel movimento di classe. Sarà questa chiarificazione ad allargare le fila dei rivoluzionari. Scorciatoie orizzontali non abbiamo da offrirne: non esistono. Se qualcuno ha ancora illusioni sulla possibilità di contrabbandare un qualche coordinamento di comitati di base come partito rivoluzionario, ora se le faccia passare e presto: di tempo ne ha già perso, e parecchio.

BEYLE



[1] “Atti del Convegno di scioglimento” in Potere Operaio n° 50, Novembre ‘73, pag. 3.

[2] Ibidem, pag. 3.

[3] “I sindacati contro la classe operaia”, in Rivoluzione Internazionale n° 1, Dicembre ‘74.

[4] Senza scendere in dettagli, ricordiamo che il debito con l’estero passa da 71 e 61 milioni di dollari del ‘71 e ‘72 a 465 milioni nel ‘73 e 890 milioni nel ‘74.

[5] Avviene qui il crollo delle ultime illusioni su un sindacalismo combattivo, autonomo dai partiti, e sul ruolo dei Consigli di Fabbrica.

[6] Rosso n° 11, giugno 1974, pag. 33.

[7] “Alle Avanguardie per il Partito” in Potere Operaio 1970, pp. 70-71.

[8] E’ chiaro che questo non ha niente a vedere con la concezione dei rivoluzionari come “consiglieri” della classe, poiché è possibile svolgere un tale ruolo solo se ha una funzione attiva all’interno del movimento proletario.

[9] Potere Operaio, luglio ‘73.

[10] Da un documento BR che, non a caso, fu scritto all’epoca del sequestro Amerio.

[11] Potere Operaio, marzo ‘73.

[12] Vedi Controinformazione n° 3-4 pag. 70 “Brigate Rosse, stile di lavoro, teoria e pratica”.

[13] La nostra caratterizzazione delle BR come gruppo controrivoluzionario non è in contraddizione con la presenza al loro interno di numerose avanguardie di fabbrica. E’ il programma che un gruppo difende che ne caratterizza la natura di classe, non la sua composizione sociale. Sulle posizioni controrivoluzionarie delle BR (battere la DC!) torneremo presto.

[14] Rosso n° 11, ottobre ‘74, pag. 10.

[15] Rosso n° 13, dicembre ‘74, pag. 9.

[16] Rosso, novembre ‘75, pag. 10.

[17] Marx-Engels, La Sacra Famiglia.

[18] Lotta Femminista, poi Comitati per il Salario al Lavoro Domestico, è il componente principale del Collettivo Internazionale Femminista, fondato a Padova nel ‘72, cui appartengono pure Power of Women di Selma James in Inghilterra ed analoghi gruppi a New York ed in Canada.

[19] Dal libro “Le Operaie della casa”, ed. Marsilio 1975, pag. 23.

[20] Marx-Engels, “La Sacra Famiglia”.

[21] Selma James, marzo 1972, ora in “Sottosopra” 1973, pag. 10.

[22] “Le operaie della casa” n°1 giugno-luglio ‘76, pag. 10.

[23] Rivoluzione Internazionale n° 8, Aprile ‘77, pag. 7.

[24] Rosso n° 19-20, giugno ‘77, pag. 3. Il Volantone è firmato da Comitati Proletari Comunisti - Comitati Comunisti per il Potete Operaio - Collettivi Politici Operai - Comitato Comunista (ml) di Unità e di Lotta - Partito Comunista (m-l) Italiano.

Correnti politiche e riferimenti: 

  • Operaismo [1]

URL Sorgente:https://it.internationalism.org/cci/200711/494/rivoluzione-internazionale-1977

Collegamenti
[1] https://it.internationalism.org/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/operaismo