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Stabilire la morte con certezza è in generale un problema per gli esseri umani - l'umanità è la sola specie del regno animale a portare il peso della coscienza dell'inevitabilità della morte, e questo fardello si manifesta, tra l’altro, in tutte le epoche della storia ed in tutte le formazioni sociali, con l'onnipresenza dei miti della vita dopo la morte.
Così, le classi dominanti, sfruttatrici, e gli individui che la rappresentano sono felici di sfuggire alla morte consolandosi attraverso i sogni sul carattere eterno dei fondamenti e del destino del loro regno. Il regime dei faraoni e degli imperatori divini è giustificato così da storie sacre che vanno dalle origini primordiali fino al lontano futuro.
Sebbene si inorgoglisca della sua visione razionale e scientifica, la borghesia non è meno attratta da proiezioni mitologiche. Come Marx l’ha osservato, lo si può vedere facilmente nell'atteggiamento di questa classe verso la storia dove cerca di presentare la proprietà privata come fondamento dell'esistenza umana. Ed essa non è più incline dei vecchi despoti nel considerare la possibilità di una fine del suo sistema di sfruttamento. Anche nella sua epoca rivoluzionaria, nello stesso pensiero del massimo filosofo del movimento dialettico, Hegel, si trova questa tendenza a proclamare che il dominio della società borghese costituisce “la fine della storia”. Marx osservò che per Hegel, l'avanzamento permanente dello spirito del Mondo alla fine aveva trovato pace e riposo nella forma dello Stato burocratico prussiano (che, del resto, rimaneva sempre ben impantanato nel passato feudale).
Dobbiamo, dunque, considerare come un assioma di base della visione del mondo della borghesia, distorta dalla sua ideologia, la sua non tolleranza verso qualsiasi teoria che sostenga la natura puramente transitoria del suo dominio di classe. Il marxismo invece, esprimendo il punto di vista teorico della prima classe sfruttata della storia che contiene i germi di un nuovo ordine sociale, non è interessato da alcun vincolo che possa bloccare la sua visione.
Così, Il Manifesto comunista del 1848 comincia col celebre passo sulla storia come storia della lotta di classe che, in tutti i modi di produzione fino a quel momento conosciuti, aveva fatto esplodere il tessuto sociale dall'interno, terminando “o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la distruzione delle due classi in lotta” (capitolo “Borghesi e proletari”). La società borghese ha semplificato gli antagonismi di classe al punto di averle socialmente ridotte a due grandi campi - capitalista da una parte, proletario dall'altra. Ed il proletariato è destinato ad essere il becchino dell'ordinamento borghese.
Ma Il Manifesto non si aspettava che il confronto decisivo tra le classi sarebbe risultato solo dalla semplificazione delle differenze nel capitalismo, né dall'ingiustizia evidente rappresentata dal monopolio dei privilegi e dalla ricchezza da parte della borghesia. Innanzitutto era necessario che il sistema borghese non fosse stato più capace di funzionare “normalmente”, raggiungendo il punto in cui “... la borghesia non è più in grado di rimanere ancora per molto classe dirigente ed imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di vita della sua classe. Non può più regnare, perché è incapace di assicurare l'esistenza del suo schiavo nel quadro della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione in cui al posto di farsi nutrire da lui è costretta, lei, a nutrirlo. La società non può più vivere sotto il suo dominio, e ciò significa che l'esistenza della borghesia non è più compatibile con quella della società” (Ibid.). Insomma, il capovolgimento della società borghese diventa una necessità vitale per la stessa sopravvivenza della classe sfruttata e della vita sociale nel suo insieme.
Il Manifesto vedeva nelle crisi economiche che devastavano periodicamente la società capitalista all’epoca i segni precursori di questo momento che si avvicinava.
“Un’epidemia che, in tutt’altra epoca, sarebbe sembrata un'assurdità, si abbatte sulla società, - l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova spinta improvvisamente ad un stato di barbarie momentaneo; si direbbe che una carestia, una guerra di sterminio le abbia tagliato tutti i suoi mezzi di sussistenza; l'industria ed il commercio sembrano annientati. E perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui dispone non favoriscono più il regime della proprietà borghese; al contrario, sono diventate troppo potenti per questo regime che a questo punto diventa per loro un ostacolo; e tutte le volte che le forze produttive sociali superano questo ostacolo, gettano nel disordine l’intera società borghese e minacciano l'esistenza della proprietà borghese. Il sistema borghese è diventato troppo stretto per contenere le ricchezze create nel suo seno - Come supera la borghesia queste crisi? Da un lato, distruggendo con violenza una massa di forze produttive; dall'altro, conquistando nuovi mercati e sfruttando più a fondo i vecchi. A che cosa porta tutto ciò? A preparare delle crisi più generali e più formidabili ed a ridurre i mezzi per prevenirle”. (Ibid.)
Ci sono parecchi punti da sottolineare a proposito di questo passo citato frequentemente:
- stabilisce che le crisi economiche sono il risultato della sovrapproduzione di merci, per il fatto che le vaste forze produttive messe in atto dal capitalismo si scontrano con i limiti della forma capitalista di appropriazione e di distribuzione. Come Marx ha spiegato più tardi, non si trattava di sovrapproduzione rispetto ai bisogni. Al contrario, essa risultava dal fatto che i bisogni della grande maggioranza erano necessariamente ristretti dall'esistenza di rapporti di produzione antagonisti. Era la sovrapproduzione rispetto alla domanda effettiva - una domanda sostenuta dalla capacità di pagare;
- considera che i rapporti di produzione capitalista sono diventati già definitivamente un ostacolo allo sviluppo di queste forze produttive, un capestro che li soffoca;
- nel contempo, il capitalismo ha a sua disposizione vari meccanismi per superare le sue crisi: da una parte, la distruzione di capitale, e Marx essenzialmente voleva dire non la distruzione fisica di fabbriche e di macchine non redditizie, ma la loro distruzione come valore perché la crisi le avrebbe reso inutili. Quest’ultima, come Marx spiegherà in lavori successivi, avrebbe permesso, allo stesso tempo, di sbarazzare il mercato di concorrenti improduttivi ed avrebbe determinato un effetto "benefico" sul tasso di profitto; d’altra parte, "la conquista di nuovi mercati e un migliore sfruttamento dei vecchi", permetteva di sfuggire temporaneamente all'ingorgo del mercato nelle zone già conquistate dal capitalismo;
- questi stessi meccanismi per sfuggire ad una tale situazione, in realtà, non facevano che preparare la via a crisi sempre più distruttrici e tendevano a neutralizzarsi come mezzi per superare la crisi. In breve, il capitalismo avanzava necessariamente verso un vicolo cieco storico.
Il Manifesto è stato scritto alla vigilia della grande ondata di sollevamenti che ha scosso l’Europa durante il 1848. Benché questi sollevamenti avessero avuto delle radici materiali - lo scoppio di carestie in tutta una serie di paesi - le prime manifestazioni massicce dell'autonomia politica del proletariato, il movimento chartista in Gran Bretagna, il sollevamento di giugno della classe operaia parigina, essi costituivano essenzialmente gli ultimi fuochi della rivoluzione borghese contro l'assolutismo feudale. Nel suo sforzo di comprendere l'insuccesso di questi sollevamenti dal punto di vista proletario - gli stessi scopi borghesi che la rivoluzione si era data raramente sono stati raggiunti e la borghesia francese non esitò a schiacciare gli operai insorti di Parigi - Marx riconobbe che la prospettiva di una rivoluzione proletaria imminente era prematura. Non solo la classe operaia aveva ricevuto un colpo ed era arretrato politicamente con la sconfitta dei sollevamenti del 1848, ma il capitalismo era ancora assai lontano dalla fine del compimento della sua missione storica; si estendeva attraverso il pianeta e continuava a “creare un mondo a sua immagine” come viene riportato dal Manifesto. Il dinamismo della borghesia, come riconosceva Il Manifesto, era ancora una forte realtà. Contro i militanti impazienti del suo “partito” che pensavano che le masse potevano essere spinte all'azione attraverso la semplice volontà, Marx sosteneva che probabilmente il proletariato avrebbe dovuto, ancora per decenni, condurre delle lotte prima di raggiungere lo scontro decisivo col suo nemico di classe. Difese anche con forza l'idea che “Una nuova rivoluzione sarà possibile solamente in seguito ad una nuova crisi, ma l’una è certa quanto l'altra”. (Le lotte di classe in Francia, capitolo: “L’abolizione del suffragio universale nel 1850”)
Marx risponde agli apologeti
Fu questa convinzione che indusse Marx a dedicarsi allo studio - o, piuttosto, alla critica - dell'economia politica; una ricerca profonda e vasta che prenderà la forma scritta dei Grundrisse e dei quattro volumi del Capitale. Per comprendere le condizioni materiali della rivoluzione proletaria, era necessario comprendere più in profondità le contraddizioni inerenti al modo di produzione capitalista, le debolezze fatali che avrebbero finito nel condannarlo a morte.
In questi lavori, Marx riconosce il suo debito verso gli economisti borghesi come Adam Smith e Ricardo, i quali avevano contribuito largamente alla comprensione del sistema economico borghese, in particolare perché, nelle loro polemiche contro gli apologeti delle forme di produzione semi-feudale superate, avevano difeso il punto di vista secondo cui il "valore" delle merci non era qualche cosa che riguardava la qualità del suolo, né una cifra determinata dai capricci dell'offerta e della domanda, ma che essa si basava sul lavoro reale degli uomini. Ma Marx mostrò anche che questi polemisti della borghesia erano anche i suoi apologeti nella misura in cui nei loro scritti:
- riflettevano la visione del "senso comune" dell'ideologia borghese che, pur condannando i modi di produzione precedenti, la schiavitù ed il feudalismo, in quanto sistemi di privilegi di classe, negava che il capitalismo fosse a sua volta fondato sullo sfruttamento del lavoro. Infatti per questi, la transazione fondamentale al centro della produzione capitalista era un scambio equo tra le capacità di lavoro dell'operaio ed il salario che gli veniva offerto dal capitalista. Marx mostrò che come i modi di produzione precedenti, il capitalismo era fondato sull'estrazione di surlavoro della classe sfruttata - ma che questo prendeva la forma d'estrazione di plusvalore: il tempo di lavoro "libero" estorto all'operaio ma dissimulato nel contratto salariale;
- tendevano a considerare che, malgrado il problema delle crisi economiche periodiche del capitalismo, non esistevano barriere che riguardavano lo sviluppo di quest’ultimo e che dunque non sarebbe mai stato raggiunto quel punto in cui sarebbe stato necessario superarlo con una forma di società superiore. Se c'erano delle crisi, esse erano dovute all'azione di speculatori o ad una sproporzione temporanea tra i differenti rami dell'industria, o ad altri fattori contingenti e, poiché ogni prodotto era, in fin dei conti, destinato a trovare acquirente, la stessa operazione mercantile avrebbe finito per superare i problemi e fornito le basi per nuove fasi di crescita.
Ciò che è fondamentale in tutte le teorie economiche borghesi, è la negazione del fatto che le crisi del capitalismo provano l’esistenza delle contraddizioni fondamentali ed insormontabili nel modo di produzione capitalista - uccelli di male augurio, corvi annunciatori di catastrofi i cui gracchiamenti crescenti profetizzano il Ragnarök[1] della società borghese.
“Le frasi apologetiche per negare le crisi intanto sono importanti in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse - per negare la crisi-, affermano l'unità là dove esiste antitesi e contraddizione. Dunque, intanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma in realtà la crisi esiste, perché queste contraddizioni esistono. Ogni ragione che essi sostengono contro la crisi è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Questo desiderio fantasioso di negare le contraddizioni non fa che confermare le contraddizioni reali di cui ci si augura proprio l'inesistenza”. (Teorie del plusvalore)[2].
Primo uccello del male augurio: "la sovrapproduzione, contraddizione fondamentale del capitale sviluppato..."
L’apologia del capitale per gli economisti si basa in larga misura sulla negazione del fatto che le crisi di sovrapproduzione, che fanno la loro apparizione durante il secondo o il terzo decennio del diciannovesimo secolo, siano un indicatore dell'esistenza di barriere insormontabili per il modo di produzione borghese.
Di fronte alla realtà concreta della crisi, il diniego degli apologeti prende diverse forme che gli esperti economici hanno in gran parte ripreso durante gli ultimi decenni. Marx sottolinea, per esempio, che Ricardo cercava di spiegare le prime crisi del mercato mondiale attraverso differenti fattori contingenti, come i cattivi raccolti, la svalutazione della carta moneta, la caduta dei prezzi o le difficoltà del passaggio da periodi di pace ai periodi di guerra, o di guerra alle fasi di pace nei primi anni del diciannovesimo secolo. Questi fattori, sicuramente, hanno avuto un loro ruolo nell'esacerbazione delle crisi, o anche a provocarne lo scoppio, ma non stavano alla base del problema. Queste scappatoie ci ricordano le recenti prese di posizione degli "esperti" economici che hanno individuato la “causa” della crisi negli anni ’70 nell'aumento del prezzo del petrolio o, oggi, nell'avidità dei banchieri. Quando verso la metà del diciannovesimo secolo diventò più difficile ignorare il ciclo delle crisi commerciali, gli economisti furono costretti a sviluppare degli argomenti più sofisticati, per esempio ad accettare l'idea che c'era troppo capitale, pur negando che ciò significava anche troppe merci invendibili.
Tuttavia, una volta ammesso il problema della sovrapproduzione, questo venne relativizzato. Per gli apologeti, alla base, “non si vende mai se non per acquistare qualche altro prodotto che possa essere di un’utilità immediata o che possa contribuire alla produzione futura” (Ibidem). In altri termini, esisteva una profonda armonia tra la produzione e la vendita e, nel migliore dei mondi almeno, ogni merce doveva trovare un acquirente. Se esistono delle crisi, non sono niente altro che possibilità contenute nella metamorfosi delle merci in denaro, come difendeva John Stuart Mill, o esse risultano da una semplice sproporzionalità tra un settore della produzione ed un altro.
Marx non nega assolutamente che possano esistere delle sproporzioni tra i differenti rami della produzione - insiste anche sul fatto che vi è sempre questa tendenza in un’economia non pianificata nella quale è impossibile produrre le merci in funzione della domanda immediata. Ciò a cui si oppone è il tentativo di utilizzare la questione della “sproporzionalità” come pretesto per sbarazzarsi delle contraddizioni più fondamentali che esistono nei rapporti sociali capitalisti:
“Dire che non c'è sovrapproduzione generale, ma sproporzione in seno alle differenti industrie, è dire semplicemente che, nella produzione capitalista, la proporzionalità delle diverse industrie è un processo permanente della sproporzionalità, nel senso che la coerenza della produzione totale si impone qui agli agenti della produzione come una legge cieca, e non come una legge compresa e dominata dalla loro ragione di individui associati che sottopongono il processo di produzione al loro comune controllo”. (Il Capitale, Libro III).
Allo stesso modo, Marx rigetta l’argomento secondo cui possa esistere una sovrapproduzione parziale e non una sovrapproduzione generale:
“E’ per tale motivo che Ricardo ammette per certe merci l’ingombro del mercato. È l’ingombro generale e simultaneo del mercato che sarebbe impossibile. La possibilità di sovrapproduzione in una sfera particolare della produzione non viene negata; ma non potendo esistere al tempo stesso il fenomeno in tutte le sfere, non si potrebbe avere né sovrapproduzione, né ingombro generale del mercato”. (Teorie sul plusvalore)[3].
La specificità storica del capitalismo
Ciò che hanno in comune tutti questi argomenti, è negare la specificità storica del modo di produzione capitalista. Il capitalismo è la prima forma economica ad avere generalizzato la produzione di merci, la produzione per la vendita ed il profitto, all'insieme del processo di produzione e di distribuzione; ed è in questa specificità che si doveva trovare la tendenza alla sovrapproduzione. E non, come Marx si prende cura di sottolineare, la sovrapproduzione rispetto ai bisogni:
"La stessa parola "sovrapproduzione" può indurci in errore. Finché i più urgenti bisogni di una grande parte della società non sono soddisfatti o lo sono solo i bisogni più immediati, naturalmente non possiamo parlare di sovrapproduzione di prodotti – nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante in rapporto ai bisogni di essi. Si deve dire per converso che in base alla produzione capitalistica si sottoproduce, in questo senso continuamente. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori. Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose assolutamente differenti. Se Ricardo crede che la forma della merce sia indifferente per il prodotto, inoltre che la circolazione di merci sia solo formalmente diversa dal commercio di scambio, che il valore di scambio sia qui soltanto una forma passeggera degli scambi materiali, dunque che il denaro è solamente un mezzo formale di circolazione – questo risulta di fatto dal suo presupposto che il modo di produzione borghese sia quello assoluto, quindi che sia anche un modo di produzione senza una precisa determinazione specifica, e che di conseguenza ciò che in esso è determinato sia solo formale. Non può dunque neanche essere ammesso da lui che il modo di produzione borghese implichi un limite per il libero sviluppo delle forze produttive, un limite che viene alla luce nelle crisi e fra l’altro nella sovrapproduzione, il fenomeno fondamentale delle crisi.” (Ibidem).
Successivamente Marx dimostra la differenza tra il modo di produzione capitalista ed i modi di produzione precedenti che non cercavano di accumulare delle ricchezze ma di consumarle e che furono confrontati al problema della sottoproduzione piuttosto che della sovrapproduzione:
"... gli Antichi non pensavano neppure per sogno a trasformare il plusprodotto in capitale. Per lo meno solo in scarsa misura. (L’estesa presenza presso di loro della tesaurizzazione vera e propria mostra quanto plusprodotto restasse del tutto infruttifero.) Essi trasformavano una gran parte del plusprodotto in spese improduttive per opere d’arte, opere religiose, lavori pubblici. Ancor meno la loro produzione era indirizzata ad uno scatenamento e ad uno spiegamento delle forze produttive materiali – divisione del lavoro, macchinario, applicazione di forze naturali e scienza alla produzione privata. In complesso essi non oltrepassavano mai di fatto il lavoro artigianale. Perciò la ricchezza che essi creavano per consumo privato era relativamente piccola e appare grande solo perché ammucchiata in poche mani, che del resto non sapevano che farsene. Se perciò non c’era sovrapproduzione, c’era presso gli antichi sovraconsumo per i ricchi, che negli ultimi tempi di Roma e della Grecia esplose in spreco pazzesco. I pochi popoli mercantili in mezzo a loro vivevamo in parte a spese di tutte queste nazioni essenzialmente povere. E’ l’incondizionato sviluppo delle forze produttive e perciò la produzione in massa sulla base della massa di produttori chiusa nella sfera degli oggetti di prima necessità da un lato, il limite costituito dal profitto dei capitalisti dall’altro che[formano] il fondamento della moderna sovrapproduzione.”. (Ibidem).
Il problema posto dagli economisti, è che considerano il capitalismo come un sistema sociale già armonioso - una specie di socialismo in cui la produzione è determinata fondamentalmente dai bisogni:
“Tutte le difficoltà sollevate da Ricardo e da altri sulla questione della sovrapproduzione poggiano sul fatto che essi considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste differenza fra compra e vendita – commercio di scambio immediato – o come produzione sociale così che la società, come secondo un piano, ripartisca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nel grado e nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei loro diversi bisogni, così che ad ogni sfera di produzione tocchi il quanto del capitale sociale richiesto al soddisfacimento del bisogno al quale essa corrisponde. Questa finzione ha la sua origine nell'incapacità di comprendere la forma specifica della produzione borghese, e quest’ultima a sua volta dall’essere sprofondati nella produzione borghese intesa come la produzione semplicemente. Proprio come il credente che considera la sua come vera religione e non vede altrove che 'false' religioni”. (Ibidem).
Alla radice, la sovrapproduzione risiede nei rapporti sociali capitalisti
Contrariamente a queste distorsioni, Marx pone le crisi di sovrapproduzione negli stessi rapporti sociali che definiscono il capitale come modo di produzione specifico: il rapporto del lavoro salariato
“... se il rapporto si riduce semplicemente a quello fra consumatori e produttori, si dimentica che l’operaio salariato che produce e il capitalista che produce sono due produttori di genere del tutto diverso, prescindendo dai consumatori che n genere non producono. L’antitesi viene di nuovo negata per il fatto che si fa astrazione da una antitesi realmente esistente nella produzione. Il semplice rapporto fra operaio salariato e capitalista include:
- che la maggior parte dei produttori (gli operai) non sono consumatori (compratori) di una grandissima parte del loro prodotto, cioè degli strumenti di lavoro e del materiale di lavoro;
- che la maggior parte dei produttori, gli operai, possono consumare solo un equivalente per il loro prodotto, finché producono più di questo equivalente – il plusvalore o il plusprodotto. Essi devono essere sempre sovrapproduttori, produrre al di là del loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro i limiti del loro bisogno”. (Ibidem).
Evidentemente, il capitalismo non ha cominciato ogni fase del processo di accumulazione con un problema immediato di sovrapproduzione: è nato e si è sviluppato come un sistema dinamico in espansione costante verso nuovi campi di scambio produttivo, sia nell'economia interna che a scala mondiale. Ma a causa della natura inevitabile della contraddizione che Marx ha appena descritto, questa espansione costante è una necessità per il capitale se vuole respingere o superare la crisi di sovrapproduzione e qui, di nuovo, Marx ha dovuto sostenere questo punto di vista contro gli apologeti che consideravano l'estensione del mercato più come qualche cosa di comodo che come una questione di vita o di morte, a causa della loro tendenza a considerare il capitale come un sistema indipendente ed armonioso:
“Tuttavia, con la semplice ammissione che il mercato si deve allargare con la produzione, sarebbe già data d’altro canto anche la possibilità di una sovrapproduzione, essendo il mercato geograficamente circoscritto esternamente, il mercato interno appare come limitato ad un mercato che è interno ed esterno e quest’ultimo a sua volta è limitato rispetto al mercato mondiale il quale - benché suscettibile di estensione - è anch’esso limitato nel tempo. Ammettendo dunque che il mercato debba estendersi per evitare la sovrapproduzione, si ammette la possibilità della sovrapproduzione”. (Ibidem)
Nello stesso passo, Marx prosegue dimostrando che, mentre l'estensione del mercato mondiale permette al capitalismo di superare le sue crisi e di proseguire lo sviluppo delle forze produttive, l'estensione precedente del mercato diventa velocemente inabile ad assorbire il nuovo sviluppo della produzione. Non vedeva in questo un processo eterno: esistono dei limiti inerenti alla capacità del capitale di diventare un sistema veramente universale ed una volta che saranno stati raggiunti, questi limiti trascineranno il capitalismo verso l'abisso:
“Tuttavia, anche se il capitale concepisce ogni limite come un ostacolo da superare, non significa che in realtà li supera tutti. Poiché ogni barriera è contraria alla sua vocazione, la produzione capitalista si sviluppa nelle contraddizioni che sono superate costantemente, ma anche continuamente poste. Inoltre: l'universalità verso cui tende senza tregua il capitale incontra dei limiti immanenti alla sua natura che, ad un certo stadio del suo sviluppo, lo fanno apparire come il più grande ostacolo a questa tendenza e lo spingono alla sua autodistruzione”. (Grundrisse)[4].
E così arriviamo alla conclusione che la sovrapproduzione è il primo uccello di male augurio che annuncia il fallimento del capitalismo, l'illustrazione concreta, nel capitalismo, della formula fondamentale di Marx che spiega l’ascesa ed il declino di tutti i modi di produzione esistiti fino ad oggi: ieri forma di sviluppo, l'estensione generale della produzione di merci diventa oggi un ostacolo per far progredire lo sviluppo delle forze produttive dell’umanità:
"Per meglio delineare la questione: in primo luogo, esiste un limite inerente non alla produzione in generale, ma alla produzione fondata sul capitale. Questo limite è doppio - o meglio unico, ma si presenta sotto due angolazioni. Per rivelare il fondamento della sovrapproduzione - contraddizione fondamentale del capitale sviluppato, basta dimostrare che il capitale contiene un limite particolare della produzione che contrasta con la sua tendenza generale a superarne tutte le barriere; basta dimostrare che, contrariamente all'opinione degli economisti, il capitale non è la forma assoluta dello sviluppo delle forze produttive e che non coincide assolutamente con la ricchezza. Dal punto di vista del capitale, le tappe della produzione che lo precedono appaiono come altrettanti ostacoli alle forze produttive. Correttamente compreso lo stesso capitale appare come condizione dello sviluppo delle forze produttive finché queste richiedono un stimolo esterno che ne è il frena allo stesso tempo. Il capitale disciplina le sue forze, ma ad un certo livello del loro incremento - proprio come una volta le corporazioni, ecc. - questa disciplina si rivela superflua ed inadeguata". (Ibidem).
Secondo uccello del male augurio: la caduta tendenziale del tasso di profitto
Un'altra critica che Marx fa agli economisti politici cade sulla loro incoerenza nel fatto che negano la sovrapproduzione di merci pure ammettendo la sovrapproduzione di capitale:
"Nella cornice delle sue premesse, Ricardo resta coerente con sé stesso: affermare l'impossibilità di una sovrapproduzione di merci, per lui, è affermare che non ci può essere pletora o sovrabbondanza di capitale.
Che cosa avrebbe detto allora Ricardo davanti alla stupidità dei suoi successori che, negando la sovrapproduzione sotto una delle sue forme (ingorgo generale del mercato) l'accettano sotto quella della pletora, della sovrabbondanza del capitale e ne fanno anche un punto essenziale delle loro dottrine?" (Teorie del plus-valore)2 .
Tuttavia Marx, in particolare nel terzo volume del Capitale, mostra che il fatto che il capitale tenda a diventare "sovrabbondante", soprattutto sotto la sua forma di mezzi di produzione, non ha niente di consolante. Perché questa sovrabbondanza fa sviluppare solamente un'altra contraddizione mortale, la tendenza all'abbassamento del tasso di profitto che Marx qualifica nel seguente modo: "E’, di tutte le leggi dell'economia politica moderna, la più importante". (Grundrisse)3. Questa contraddizione è altrettanto contenuta nei rapporti sociali fondamentali del capitalismo: poiché solo il lavoro vivo può aggiungere del valore - ed è questo il “segreto” del profitto capitalista - e allo stesso tempo, i capitalisti sono costretti sotto la sferzata della concorrenza a “rivoluzionare costantemente i mezzi di produzione”, in altri termini costretti ad aumentare la proporzione tra il lavoro morto delle macchine ed il lavoro vivo degli uomini, si devono confrontare con la tendenza intrinseca al fatto che la proporzione di nuovo valore contenuto in ogni merce si assottiglia e dunque al fatto che il tasso di profitto si abbassa.
Di nuovo, gli apologeti borghesi rifuggono con terrore alle implicazioni di ciò poiché la legge della caduta del tasso di profitto mostra così il carattere transitorio del capitale:
“Inoltre, nella misura in cui il tasso di espansione del capitale totale, il tasso di profitto, è il motore della produzione capitalista (come la messa in valore del capitale ne è il solo scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare così come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalista. Favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, il capitale eccedentario accanto alla popolazione eccedentaria. Gli economisti che, sull'esempio di Ricardo, considerano il modo di produzione capitalista come un assoluto, hanno allora la sensazione che questo modo di produzione si crea da solo una barriera, ed essi ne rendono responsabile non la produzione, ma la natura (nella loro teoria della rendita). L'importante, nell'orrore che provano davanti al tasso di profitto decrescente, è che si accorgono che il modo di produzione capitalista incontra, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che non ha niente a che vedere con la produzione della ricchezza come tale. E questo limite particolare dimostra il carattere stretto, storico e transitorio semplicemente, del modo di produzione capitalista; dimostra che non è un modo di produzione assoluto per la produzione della ricchezza, ma che ad un certo stadio entra in conflitto col suo sviluppo ulteriore”. (Il Capitale, Libro III).
E qui, nei Grundrisse, le riflessioni di Marx sulla caduta del tasso di profitto fanno emergere ciò che è forse il suo annuncio più esplicito della prospettiva del capitalismo che, come le forme precedenti di schiavitù, non può evitare di entrare in una fase di obsolescenza o di senilità nella quale una tendenza crescente all'autodistruzione porrà all'umanità la necessità di sviluppare una forma superiore di vita sociale:
“Dato ciò: la forza produttiva materiale già esistente ed acquistata sotto forma di capitale fisso, le conquiste della scienza, lo sviluppo delle popolazioni, ecc., in breve, le immense ricchezze e le condizioni della loro riproduzione da cui dipende il più alto sviluppo dell'individuo sociale e che il capitale ha creato nel corso della sua evoluzione storica – dato ciò, si vede che a partire da un certo punto della sua espansione il capitale sopprime da sé le proprie possibilità. Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per l'espansione delle forze produttive del lavoro. Arrivato a questo punto, il capitale, o più esattamente il lavoro salariato, entra nello stesso rapporto con lo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive come è stato per il sistema delle corporazioni, la servitù, la schiavitù, ed esso è necessariamente rigettato come un ostacolo. L'ultima forma della schiavitù che prende l'attività umana - lavoro salariato da un lato e capitale dall'altro - è allora eliminata, e questa stessa eliminazione è il risultato del modo di produzione che corrisponde al capitale. Essi stessi negazione delle forme anteriori della produzione sociale asservita, il lavoro salariato ed il capitale sono a loro volta negati dalle condizioni materiali e spirituali generate dal loro stesso processo di produzione. E’ attraverso i conflitti acuti, delle crisi, delle convulsioni che si traduce l'incompatibilità crescente tra gli sviluppi creativi della società ed i rapporti di produzione stabilita. L'annientamento violento del capitale dalle forze nate non dall'esterno, ma dal di dentro, dalla sua volontà di autoconservazione, ecco con quale modo sorprendente sarà avvisato a sloggiare, a sgomberare il campo per l’istaurarsi di una fase superiore della produzione sociale”[5].
Il circolo vizioso delle contraddizioni capitaliste
È certo che Marx discerneva il futuro in passaggi come questo: riconosceva che esistevano delle contro-tendenze che facevano della caduta del tasso di profitto un ostacolo alla produzione capitalista a lungo termine e non nell'immediato. Queste comprendono: l’aumento dell'intensità dello sfruttamento; l'abbassamento di salari al disotto del valore della forza lavoro; l’abbassamento del prezzo di elementi del capitale costante ed il commercio esterno. Il modo con cui Marx tratta in particolare di quest’ultimo mostra come le due contraddizioni al centro del sistema sono legate strettamente. Il commercio estero implica in parte l’investimento (come lo vediamo oggi nel fenomeno dell’outsourcing) in fonti di forza lavoro più conveniente e nella vendita dei prodotti del mercato interiore “al di sotto del loro valore, a miglior mercato dei che nei paesi concorrenti” (Il Capitale, Libro III). Ma la stessa sezione parla anche delle “necessità che gli sono inerenti, in particolare del bisogno di un mercato sempre più esteso” (Ibid.). Ciò è anche legato al tentativo di compensare la caduta del tasso di profitto poiché, anche se ogni merce comprende meno profitto, finché il capitalismo può vendere più merci, può realizzare una maggiore massa di profitto. Ma di nuovo il capitalismo cozza qui contro i suoi limiti inerenti:
“Lo stesso commercio estero sviluppa all'interno il modo di produzione capitalista, con la diminuzione del capitale variabile rispetto al capitale costante, e genera, d’altra parte, la sovrapproduzione rispetto ai mercati esterni; produce dunque, di nuovo, a lungo termine, un effetto contrario”. (Ibid.)
o ancora
“La compensazione della caduta del tasso di profitto attraverso la massa di profitto aumentato vale solamente per il capitale totale della società e per i grossi capitalisti già affermati. Il nuovo capitale addizionale, operante in completa indipendenza, non incontra queste condizioni compensatrici; è obbligato a conquistarli con la lotta, ed è così che la caduta del tasso di profitto provoca la concorrenza tra capitalisti, e non al contrario quest’ultima la prima. Certamente questa concorrenza si accompagna ad un rialzo temporaneo del salario ed ad un abbassamento corrispondente temporaneo del tasso di profitto, lo stesso fenomeno si manifesta nella sovrapproduzione di merci, l'ingombro dei mercati. Lo scopo del capitale non è soddisfare dei bisogni, ma produrre del profitto; questo scopo, non può raggiungerlo che attraverso metodi che mirano a regolare la quantità dei prodotti in funzione della scala della produzione, e non inversamente. Da allora, non può mancare di stabilirsi una discordanza tra le dimensioni ristrette del consumo su una base capitalista ed una produzione che tende sempre a superare questo limite immanente. Del resto il capitale si costituisce di merci; dunque, la sovrapproduzione di capitale implica quella di merci”. (Il Capitale, Libro III).
Cercando di sfuggire ad una delle sue contraddizioni, il capitalismo non ha fatto che scontrarsi ai limiti dell'altro. Così Marx vedeva l'inevitabilità “dei conflitti acuti, delle crisi, delle convulsioni...” di cui aveva parlato già ne Il Manifesto. L’approfondimento dei suoi studi dell'economia politica capitalista aveva confermato il suo punto di vista secondo cui il capitalismo avrebbe raggiunto un punto in cui avrebbe esaurito la sua missione progressiva e cominciato a minacciare la capacità stessa della società umana a riprodursi. Marx non ha speculato sulla forma precisa che prenderà questa caduta. Non aveva conosciuto le guerre imperialiste mondiali che, pure cercando di "risolvere" la crisi economica per capitali particolari, tendono a diventare sempre più rovinose per il capitale nel suo insieme ed a costituire una minaccia crescente per la sopravvivenza dell'umanità. Allo stesso modo, aveva solo accennato alla propensione del capitalismo a distruggere l'ambiente naturale su cui, in ultima istanza, si basa ogni riproduzione sociale. D’altro lato, ha posto la questione della fine dell'epoca ascendente del capitalismo in termini molto concreti: come l'abbiamo notato in un precedente articolo di questa serie, fin dal 1858 Marx ha ritenuto che l'apertura di vaste regioni come la Cina, l’Australia e la California indicavano che il compito del capitalismo di creare un mercato mondiale ed una produzione mondiale basata su questi mercati stava terminando; nel 1881, parlava del capitalismo nei paesi avanzati che stava diventando un sistema "regressivo", sebbene nei due casi, abbia pensato che il capitalismo aveva ancora strada a fare, soprattutto nei paesi periferici, prima di smettere di essere un sistema ascendente a livello globale.
Inizialmente, Marx ha concepito i suoi studi del capitale come una parte di un lavoro più vasto che avrebbe abbracciato altri campi di ricerca come lo Stato e la storia del pensiero socialista. In realtà, la sua vita è stata troppo breve per dargli la possibilità di terminare anche la parte "economica", e ciò che fa de Il Capitale un'opera incompiuta. Allo stesso tempo, pretendere d’elaborare una teoria finale decisiva dell'evoluzione capitalista sarebbe stato estraneo alle premesse fondamentali del metodo di Marx che considerava la storia come un movimento senza fine e la dialettica della "Astuzia della Ragione" come necessariamente piena di sorprese. Di conseguenza, nella sfera dell'economia, Marx non ha dato una risposta definitiva su quell’ "uccello di male augurio" (il problema del mercato o della caduta del tasso di profitto) che andava a sostenere il ruolo più decisivo nell'apertura delle crisi che finirebbero per portare il proletariato a rivoltarsi contro il sistema. Ma una cosa è chiara: la sovrapproduzione di merci come la sovrapproduzione di capitale è la prova che l'umanità ha raggiunto infine la tappa in cui è diventato possibile provvedere ai bisogni della vita di tutti e dunque di creare la base materiale per l'eliminazione di tutte le divisioni di classe. Che le popolazioni muoiono di fame mentre le merci invendute si accumulano nei magazzini o le fabbriche che producono i beni necessari al vita chiudono perché la loro produzione non porta profitto, il fossato tra le immense potenzialità contenute nelle forze produttive e la loro compressione nella morsa del valore, tutto ciò fornisce i fondamenti dello sviluppo di una coscienza comunista presso coloro che si scontrano direttamente con le conseguenze delle assurdità del capitalismo.
Gerrard[1] Nella mitologia nordica, il Ragnarök (vecchio modo di dire significante Consumo del Destino delle Potenze) designa una profetica fine del mondo dove gli elementi naturali si scateneranno ed avrà luogo una grande battaglia che condurrà alla morte la maggior parte delle divinità, giganti ed uomini, prima di una rinascita. (fonte Wikipédia).
[2] Editori Riuniti, 1973, volume 2, parte IV “Le crisi”
[3] Ibidem.
[4] Edizione La Nuova Italia, 1974, pubblicate con il nome Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, parte III: “Il Capitale”.
[5] Ibidem.