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Il congresso, tenutosi a marzo, ha tentato di apportare un aggiornamento al lavoro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC: foro intergovernativo sui cambiamenti climatici), che ha prodotto il suo ultimo rapporto nel 2007. Il Congresso ha avuto luogo nell’ambito della XV United Nations Conference of Parties to the Climate Change Convention (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, COP-15), tenutasi anch’essa a Copenhagen in dicembre.
Durante il congresso, un rapporto del Met Office's Hadley Centre (Centro dell’Ufficio Meteorologico Hadley) ha previsto che il maggior pericolo per la foresta amazzonica proviene dal riscaldamento globale, e non dalla deforestazione. “Si dimostra che un aumento di 2°C sopra i livelli pre-industriali, generalmente considerato il miglior caso di scenario di riscaldamento globale e l’obbiettivo degli ambiziosi piani internazionali di freno alle emissioni, potrebbe ancora portare alla scomparsa del 20-40% dell’Amazzonia in 100 anni. Una crescita di 3°C potrebbe portare alla distruzione del 75% per siccità nel secolo seguente, mentre un aumento di 4°C ne distruggerebbe l’85%.” (“Amazon could shrink by 85% due to climate change, scientists say”, guardian.co.uk, mercoledì 11 marzo 2009).
La distruzione della foresta pluviale potrebbe condurre ad una “situazione di feedback positivo”, un circolo vizioso in cui il rilascio di CO2 immagazzinato nella foresta si andrebbe ad aggiungere agli effetti dei cambiamenti climatici, fino alla distruzione delle foreste pluviali. Il congresso è giunto alla conclusione che c’è oggi un più forte rischio di un brusco ed irreversibile cambiamento climatico.Alla fine del congresso, gli scienziati hanno lanciato 6 messaggi chiave ai politici partecipanti al COP-15:
1. Lo scenario peggiore di cambiamento climatico prospettato dall’IPCC si è già realizzato;
2. Modesti cambiamenti sul clima possono avere enormi effetti sulle popolazioni più povere;
3. È necessaria un’azione rapida per evitare un “pericoloso cambiamento del clima”;4. Gli effetti negativi del cambiamento climatico saranno avvertiti in modo ineguale. I più poveri, le generazioni future e la fauna selvatica saranno i più colpiti;
5. Esistono già dei modi per invertire effettivamente il cambiamento climatico;
6. Per cambiare è necessario rimuovere degli ostacoli come le sovvenzioni, gli interessi acquisiti, le istituzioni deboli ed il controllo inefficace.
Perché la borghesia non sta ascoltando
Quali sono le possibilità che i politici accolgano e mettano in atto le raccomandazioni degli scienziati? Data la gravità delle scoperte, potranno i politici mettere da parte le loro differenze per il bene dell’umanità?
Per quanto possiamo acclamare gli sforzi degli scienziati di tutto il mondo diretti alla comprensione del fenomeno ed alle cause umane del cambiamento climatico, c’è comunque un fattore che manca nell’equazione degli scienziati: il sistema capitalista stesso.
Le forze fondamentali che determinano il sistema capitalista alienano l’uomo dalla natura. Il capitalismo è un sistema basato sullo sfruttamento del proletariato; è un sistema che per sopravvivere ha bisogno di espandersi, ed è un sistema che, benché globale, non può superare la concorrenza tra gli stati nazionali al suo interno.
Il fatto che il cambiamento del clima interesserà più i poveri che i ricchi non spingerà la borghesia a reagire. Il disprezzo della borghesia per gli sfruttati lo si vede nella povertà più abbietta di milioni di persone nel mondo. Ed i tentativi della classe lavoratrice di difendere e migliorare le proprie condizioni di vita sono stati frequentemente repressi con la violenza. Anche le leggi introdotte nel 19° sec. per migliorare la salute pubblica non furono ispirate dalle condizioni della classe operaia, ma dalla consapevolezza che i ricchi erano vulnerabili alle malattie causate dalle pessime condizioni sanitarie delle città.
Il congresso si è concluso affermando che i metodi per invertire il cambiamento climatico esistono già. Tuttavia, le misure economiche ecologiche proposte sono descritte in termini puramente capitalistici: nuove attività ecologiche in nuove industrie per lo sviluppo dell’ambientalismo, riduzione dei costi derivante dal non dover far fronte a problemi di salute e di distruzione ambientale, ecc. Ma il capitalismo può sopravvivere in modo sostenibile? Può continuare lo sfruttamento delle classe operaia senza distruggere l’ambiente? Le lobby ambientaliste sottopongono questa carota succulenta all’esame dei leader mondiali, che da tempo hanno però declinato l’offerta. Fondamentalmente, per il sistema capitalista, la salvaguardia delle condizioni ambientali ha un costo, così come lo ha la salvaguardia della salute della popolazione attiva. Questa è una somma tolta al reinvestimento nel capitale. Il governo americano non rimase sorpreso nel 2007 quando l’IPCC annunciò che gli sforzi per invertire il cambiamento climatico sarebbero costati “solo” tra lo 0,2 ed il 3,0% del PIL annuale.
Gli Stati non possono proteggere il pianeta
Uno dei miti della sinistra e dei movimenti ambientalisti è che la mancanza di azione su problemi sociali ed ambientali così importanti sia dovuta all’indebolimento degli apparati statali. Quanto un rafforzamento delle istituzioni internazionali che regolano l’emissione di gas serra possa portare a rovesciare questa situazione catastrofica, lo stiamo vedendo. La verità è che lo Stato opera soprattutto per difendere gli interessi nazionali della borghesia. Quando i governi di ciascun paese stanno uno di fronte all’altro al tavolo delle trattative, si confrontano come imperialisti rivali. Un esempio lampante ne sono le negoziazioni per la riduzione dei gas serra. Alla fine degli anni 90 la Gran Bretagna promise una maggiore riduzione delle emissioni di CO2 rispetto ai suoi rivali non perché avesse una reale preoccupazione per lo stato del pianeta, ma perché la sua base industriale tradizionale si era nel frattempo ridotta. E quando George Bush non volle firmare nessun accordo sul clima che non includesse lo “sviluppo nazionale”, lo fece in difesa degli interessi imperialisti degli Stati Uniti.
Le negoziazioni del COP-15 di oggi non sono differenti. Mentre gli USA accusano la Cina di aver aumentato le emissioni di CO2 più di ogni altro paese, la Cina risponde che l’occidente consuma la maggior parte dei beni che essa produce. “Come uno dei paesi in via di sviluppo, noi rappresentiamo l’humus della linea di produzione dell’economia globale. Produciamo cose che gli altri paesi consumano … Questa condivisione delle emissioni dovrebbe essere adottata dai consumatori e non dai produttori, dice Li, funzionario cinese della potente Commissione per lo Sviluppo Nazionale e le Riforme. Ed aggiunge che il 15–25% di tutte le emissioni di calore dei paesi mondiali deriva dall’esportazione dei manufatti.” (“Consuming nations should pay for carbon dioxide emissions, not manufacturing countries, says China”, guardian.co.uk, 17/3/9).
Lo stesso articolo mette in evidenza che le nazioni europee hanno provato ad aggirare i limiti loro imposti sulle quote di emissione attraverso l’acquisto di ulteriori “quote di emissione” dai paesi in via di sviluppo. Le promesse fatte dall’Unione Europea di elargire denaro alle “nazioni in via di sviluppo” per aiutarle ad introdurre tecnologie pulite sono state congelate fino a che paesi come Cina e India non si impegneranno di più a ridurre l’emissione di gas serra. Anche il modo in cui vengono calcolate le emissioni ha aperto una controversia.
Nessuno Stato può permettersi di essere generoso in un mercato mondiale strozzino, specialmente nell’attuale crisi economica. La conferenza di Copenaghen di dicembre si è tenuta sullo sfondo della più grande crisi economica nella storia del capitalismo. In questo contesto, raggiungere un traguardo sul piano della salvaguardia del pianeta che minerebbe un eventuale recupero dell’economia è pura fantasia.
Hugin, 4/4/2009