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1° tema: Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?
La prospettiva capitalista
La breve ma ricca introduzione[1] ha ben sintetizzato le conseguenze catastrofiche del degrado del capitalismo sui vari piani della vita economica, politica e sociale della stragrande maggioranza dell’umanità e vari interventi successivi hanno confermato questo quadro. In particolare un compagno ha ricordato come la miseria, la guerra e il degrado sociale estremo siano ormai la realtà quotidiana in molti paesi, dal Pakistan al Kosovo, dalla Somalia allo Zimbawe, e come la barbarie “arriva fino al punto che in Iran prima fucilano le donne negli stadi e poi giocano a pallone con le loro teste”. Un altro compagno ha sottolineato come tutto questo non sia il frutto di una cattiva volontà o gestione di chi comanda, ma la conseguenza della fase di declino di questo sistema: “viviamo in un mondo strangolato dal mondo finanziario internazionale, che domina il capitale industriale…. Per garantirsi il saggio di profitto il sistema raddoppia il prezzo del pane e la gente non riesce più a comprarsi un pezzo di pane …. Per sopravvivere è costretto a smantellare tutto il sistema sociale. Esiste una contraddizione tra l’umanità da una parte ed il sistema dall’altra. Tra il moderno proletariato ed il capitale attuale. Alla borghesia farebbe comodo che le cose funzionassero, ma questa è una crisi strutturale epocale o meglio l’accelerazione della crisi storica del capitalismo”. Il compagno ha aggiunto che secondo lui questa contraddizione inizia ad essere avvertita con maggiore chiarezza: “La gente si domanda ‘ma perché non siamo in grado di impedire che la metà dell’umanità muoia di fame?’ La risposta è che i mezzi per impedirlo ci sarebbero, ma quello che domina è la legge del profitto e questa consapevolezza si sta facendo strada…perché si vivono contraddizioni non più compatibili: milioni di famiglie non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e ci sono due generazioni di precari disperati”.
Come ha giustamente sottolineato un’altra compagna, non è solo sul piano economico che questo sistema ci sta stritolando: “Il denaro influenza la nostra vita, senza lavoro si muore. Ma questa società ci sta levando la cosa più importante: la dignità umana. E come? Impedendoci di pensare e spingendoci a vedere il nostro vicino, l’altro essere umano, come il nostro nemico o quello dei nostri figli, come quello che domani ci fotterà. Essendo mamma spero che ci sia un futuro per i miei figli e credo che ci dobbiamo dare da fare e riflettere su come farlo. Nella storia dell’umanità ci sono stati tentativi di ribaltare questa società. Ci sono stati anche errori. Ma non c’è alternativa, questo dobbiamo fare. Non si può vivere in una società dove si gioca a pallone con le teste delle persone”.
Altri compagni sono intervenuti nello stesso senso insistendo sul fatto che la borghesia ha “giocato” fino ad ora anche con le nostre teste facendoci illudere che una sinistra al governo potesse portare qualche beneficio per i lavoratori tanto è vero che “ancora nelle ultime elezioni molte persone hanno avuto paura che cadesse la sinistra e tornasse Berlusconi”, quando l’esperienza, secondo questi compagni, ha ampiamente dimostrato che “chiunque è andato al governo ha portato avanti sempre la stessa politica di batoste”.
Cambiare la società, ma come?
Se sulla prospettiva catastrofica che ci riserva il capitalismo è emersa una certa omogeneità di pensiero tra i partecipanti, delle opinioni diverse e dei dubbi sono invece stati espressi rispetto ad una possibile alternativa a questo stato di cose. Secondo molti dei compagni presenti l’unica alternativa possibile è abbattere il capitalismo e costruire una società basata sui reali bisogni umani: “esiste forse uno solo dei problemi dell’umanità che possa essere risolto all’interno del contesto capitalista?”, “l’umanità sarebbe in grado di costruire un mondo diverso, con la scienza e la tecnica cui si è giunti. Dovremmo da tempo essere oltre questo orizzonte sociale”. Ma come operare questo cambiamento? Su quali forze poter contare? Rispetto ad interventi che alludevano al ruolo mistificatorio di forze come Rifondazione comunista o i Verdi, due compagne hanno esplicitato i loro dubbi: “non capisco qual è questo lato positivo del fatto che la sinistra non sta in parlamento”, “se le avanguardie rivoluzionarie non sono visibili e se la sinistra borghese fa solo chiacchiere, come si divulga quest’idea di cambiamento?”. Nel rispondere a queste questioni altri compagni hanno sviluppato l’idea che, a differenza del secolo scorso, oggi il parlamento non è più un’arma di difesa o di cambiamento per i proletari perché il sistema non è più in grado di concedere dei reali miglioramenti né sul piano economico né sul piano sociale. Secondo una compagna infatti ci si deve chiedere come mai tutte le volte che la sinistra è andata al governo la nostra condizione è peggiorata: “Perché lo fanno? Sono scemi o c’è un motivo? Il motivo è che non possono darci più niente”. Secondo un altro compagno “non cambia comunque niente anche cambiando chi ci rappresenta in parlamento. Il fatto è che la crisi è tale che chiunque va al governo non può che fare certe scelte …. Non è quindi con le elezioni che si può cambiare”. Più compagni hanno inoltre insistito sull’idea che questo cambiamento bisogna farlo in prima persona, che non può essere delegato a nessuno, tanto meno alla sinistra parlamentare o radicale perché come ha detto uno di loro: “Quello che esprimono queste forze è una visione del “meno peggio”. Io non voglio il “meno peggio”. Oggi io lascio in eredità a mio figlio una società decisamente peggiore di quella che mi ha lasciato mio padre e con una prospettiva ancora peggiore. … Non è vero che [queste forze] hanno rappresentato la classe operaia ma un concetto di società che si accontenta, una visione di un capitalismo dal volto nuovo … Quel tipo di delega non funziona. Per me si è fatta chiarezza… non hanno un concetto di società diversa [dal capitalismo]”.
La conclusione di questa parte della discussione è stata dunque che il capitalismo va eliminato e sostituito con una società diversa. Questa è la prospettiva verso cui dobbiamo andare. Ma, si sono chiesti dei compagni, in attesa che si possa sviluppare la possibilità della rivoluzione, è possibile operare dei cambiamenti all’interno del capitalismo che ne attenuino gli effetti nefasti e preparino la prospettiva più generale? Tanto più che “in questa società ci viviamo e agiamo quotidianamente, e sarebbe dunque il caso di cominciare a fare qualcosa”. Ma per fare questo, ha suggerito un altro compagno, “il futuro lo dobbiamo costruire capendo anche che cosa vogliamo costruire”. In particolare questi compagni avevano in mente il desiderio di poter cominciare a costruire qualcosa di alternativo all’interno di questa società, che potesse opporsi progressivamente al capitalismo e costituire, sul piano materiale come su quello ideale, una base per la prossima società. A tale riguardo la riunione ha discusso di due diverse idee che sono state avanzate: quella del microcredito e quella delle coabitazioni.
Sulla prima idea del microcredito, un compagno ha evocato l’esperienza della banca del premio Nobel Yunus che avrebbe permesso, in Bangla Desh, di elargire credito anche agli strati più poveri della popolazione, costituendo così un possibile modello da sviluppare e propagare per assicurare, quanto meno, la sopravvivenza alle popolazioni più povere del mondo, “non perché Yunus sia meglio delle banche capitaliste, ma si potrebbe partire da qui per vedere cosa possiamo prendere di buono per poi andare avanti”.
Nell’esperienza delle coabitazioni - le co-housing, già citate nella introduzione alla discussione - una compagna vede invece “non la risposta ai problemi del capitalismo”, ma l’espressione di un “bisogno di comunità anche se surrogato”, “l’esempio di solidarietà, di un modo diverso di rapportarsi, che è quello che dovremo andare a fare nel comunismo”.
Dei compagni sono intervenuti per sottolineare che è la stessa dinamica della società che porta in sé delle potenzialità verso una prospettiva comunista che bisogna saper cogliere e sviluppare, come appunto il bisogno di comunità insito nelle co-housing, o anche il fatto che “una realtà come la precarietà - che è in sé un elemento negativo - si porta dietro delle potenzialità di sviluppo di una altra società” in quanto “libera i proletari dal legame stretto con la propria fabbrica”.
Nel merito delle singole questioni poste, pur comprendendo ed in parte condividendo molte delle preoccupazioni presenti nella discussione, altri compagni hanno espresso dei disaccordi e dei dubbi sugli esempi specifici riportati. Rispetto al microprestito di Yunus, un compagno ha sostenuto che “questo è nei fatti una sorta di auto-sfruttamento” che “serve al capitale nazionale a rastrellare risorse nelle condizioni di estrema povertà di quel paese”. Un altro ha ricordato come anche il “commercio equo e solidale” viene spacciato come un modo per sostenere i lavoratori più poveri del terzo mondo, ma in realtà non cambia in niente la loro sorte. Un’altra compagna ha detto che nel capitalismo “qualcosa di meno peggio ci può sempre essere, ma questo non risolve il problema. Il fatto è che anche noi stiamo arrivando alla situazione della povera donna del Bangla Desh che non sa come mangiare e anche noi dovremo chiedere il microprestito per sopravvivere”.
Rispetto alle coabitazioni un compagno ha risposto: “potrei essere d’accordo con la definizione della coabitazione come potenzialità, ma non come proposta tattica … soprattutto questa potenzialità deve essere collegata alla lotta di classe” nel senso che solo in un movimento ampio di scontro di classe queste potenzialità possono diventare degli elementi di avanzamento. Un altro intervento ha ricordato che le comunità agricole organizzate da Tolstoi non ebbero alcun futuro proprio perché secondo il compagno erano, come quelle di oggi, “solo associazioni di difesa, non possono essere una configurazione di socialismo”. Ad una compagna infine la coabitazione non sembrava una forma innovativa, perché “è la società che ci sta obbligando alla coabitazione”.
Data l’importanza delle due tematiche sollevate, la nostra organizzazione ha invitato i partecipanti a continuare la discussione attraverso dei contributi scritti da scambiare tra i compagni. Un compagno ha immediatamente ascoltato il nostro appello inviandoci un contributo sulla questione del microprestito che noi pubblichiamo in sequenza.[2]
2° tema: Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?
La discussione su questo secondo tema è stata meno sviluppata rispetto alla precedente per motivi di tempo e di stanchezza, ma probabilmente anche perché si è troppo focalizzata su di un solo aspetto della questione, “chi appartiene alla classe operaia?”, a scapito dell’aspetto politico più generale di cosa è la classe operaia e del perché essa è l’unica che potrà operare il cambiamento di società di cui si parlava nel primo punto. Una migliore definizione del tema ed un più stretto legame tra questo ed il primo tema della giornata in sede di programmazione, avrebbero potuto evitare una tale debolezza.
L’introduzione, anch’essa sintetica ma molto efficace nel riprendere gli elementi essenziali della questione[3], è stata subito ripresa da un compagno su diversi punti: “Occorre capire che la differenza tra classe operaia, cioè quella industriale, e proletariato, scompare se ci riferiamo al criterio fondamentale che è la vendita della forza lavoro. Una volta si usava di più il termine classe operaia perché il rapporto di lavoro salariato era concentrato soprattutto nel settore industriale. Oggi ci sono strati una volta intermedi tra proletariato e borghesia che sono ormai proletari per il rapporto che hanno con il capitale. Bisogna capire bene come si presenta il moderno proletariato: se facciamo riferimento agli studenti francesi, vediamo che le questioni poste, e il loro modo di organizzarsi ne dimostrano la natura proletaria. La stessa cosa la possiamo dire per la manifestazione dei precari che si è avuta a Roma nell’ottobre scorso. E sarebbe un errore grave sottovalutare il potenziale enorme che esiste in questo proletariato. Se la borghesia sviluppa tante teorie per negare l’esistenza della classe operaia, è proprio per disinnescare questo potenziale. Noi invece dobbiamo porci la questione di come si unisce questa classe, e la risposta la possiamo trovare se ci riferiamo alla storia”. Il compagno ha ricordato come la classe operaia nel ’17 in Russia abbia trovato nei Soviet la sua unità e la capacità di sviluppare la sua coscienza aggiungendo che “Il problema del proletariato è costruire la sua coscienza, ed è in questo processo che il partito può e deve giocare un ruolo. I bolscevichi inizialmente erano minoranza nei soviet, perché all’inizio la coscienza del proletariato non era ancora sviluppata fino in fondo, cosa che avvenne nei mesi successivi. Quindi la classe operaia ha in sé questa capacità e non bisogna farsi ingannare dalla situazione contingente”.
Un altro compagno ha detto che a lui, sulle prime, definire chi fa parte della classe “… sembrava inutile, perché a me, proletario da 40 anni, sembra chiaro”, ma che è invece vero che il peso della propaganda borghese fa sì che “a volte gli stessi proletari non si riconoscono tali, e bisogna spiegarglielo, per non farci dividere dalla borghesia. Il proletariato potrà essere più diffuso sul territorio rispetto a prima, almeno in occidente, ma è ancora maggioranza”.
La discussione si è quindi sviluppata animatamente su chi fa parte della classe operaia. Diverse le obiezioni e le osservazioni fatte a proposito.
- Una prima compagna tendeva a segnalare che nella società non esiste solo proletariato e borghesia, ma tutta una fitta stratificazione di cui occorre tener conto. Ad esempio, possiamo considerare come facente parte del proletariato chi ha un salario ma vive anche di rendita perché ha delle proprietà immobiliari? Al di là dei nostri nemici dichiarati, occorre anche tenere conto dei privilegi che esistono in questa società e che la gente non è così disposta a cedere. Inoltre, che collocazione hanno, si chiedeva questa compagna, gli immigrati, che risultano essere l’ultimo strato della società?
- Un secondo compagno si chiedeva come considerare gli operai addetti al settore delle armi, se appartenenti alla classe operaia oppure no, visto il ruolo improduttivo dell’industria bellica destinata per definizione a produrre merci che vanno distrutte e che non sono utili a costruire ricchezza a livello di capitale globale ma solo per il singolo venditore di armi o per il singolo paese belligerante.
- Una compagna si chiedeva infine perché mai non considerare anche i poliziotti come appartenenti alla classe operaia. Non sono forse dei salariati e non sono sfruttati due volte, una volta a livello economico e una seconda per il tipo di lavoro che svolgono? Un’altra aggiungeva che i giovani di oggi, soprattutto delle aree geografiche più povere, è questo il lavoro che trovano. Se poi li si vuole condannare per il lavoro che svolgono, “anche noi siamo ricattati a fare cose che non vorremmo fare”.
Nella discussione sono stati avanzati diversi elementi di risposta:
- Rispetto agli immigrati è stato detto che questi, se non finiscono nelle grinfie della malavita, fanno parte della classe nella misura in cui sono alla ricerca di uno straccio di lavoro con cui mantenersi. Ne fanno parte come i disoccupati nostrani che hanno perso il posto di lavoro o non lo hanno mai avuto, come i precari che dei giorni lavorano e altri no. Quello che li accomuna è che l’unica cosa che possiedono è la propria forza lavoro che sono costretti a vendere per poter sopravvivere. Per quanto riguarda il salariato che percepisce una rendita dal possesso di immobili, si tratta naturalmente di capire qual è l’importanza dell’immobile sullo stipendio percepito, tenendo conto del fatto che oggi come oggi in Italia quasi tutti sono proprietari della propria abitazione perché il mercato immobiliare lo impone e che comunque il compito dei comunisti non è quello di stabilire delle regole al millimetro su chi sia dentro e chi fuori la classe operaia ma dei criteri politici generali, stimolando anche chi non appartiene sociologicamente al proletariato a sposarne gli obiettivi e la lotta.
- Sulla questione degli operai che lavorano nel settore delle armi, è stato affermato che il carattere improduttivo del settore o anche la particolare finalità delle merci prodotte non escludono l’appartenenza di questi elementi alla classe operaia. Anzitutto questi proletari subiscono lo stesso tipo di sfruttamento salariale di qualunque altro settore; in secondo luogo non può essere attribuito all’operaio che produce l’esplosivo o le parti di un fucile o altro la responsabilità dell’uso che di questi materiali verrà fatto. Più in generale è stato fatto presente che quello che caratterizza la classe operaia non è la sua capacità di produrre ricchezza in maniera immediata! Esistono tante figure di lavoratori la cui funzione non è quella di produrre una specifica merce ma quella di assicurare alla popolazione di una comunità una serie di servizi grazie ai quali altri lavoratori possono portare a termine la loro produzione di merci. Ad esempio l’insegnante, l’infermiere, il medico di base sono dei proletari anche se non producono merci in senso stretto perché sono necessari alla produzione della ricchezza complessiva essendo deputati alla formazione ed al mantenimento della classe lavoratrice. Senza l’insegnante infatti gli operai non avrebbero quel minimo di cultura necessaria per poter acquisire le mansioni da svolgere sul posto di lavoro; senza l’infermiere e il medico di base non sarebbe possibile rimettere in piedi e in grado di lavorare dei lavoratori infortunati o ammalati. In qualche modo queste figure di proletari lavorano a valorizzare e/o recuperare la più importante delle merci nella società capitalista: la merce forza-lavoro! In più con l’acuirsi della crisi molti di questi hanno perso anche quei benefici (salari più alti, prestigio sociale, ecc) che ne facevano delle categorie privilegiate. In più su questa questione dei privilegi una compagna ha giustamente messo in guardia rispetto al rischio di avere una visione schematica e statica: “io sono ‘privilegiata’ rispetto ad altri, ad un immigrato per esempio, perché ho un salario e ho potuto pagare un badante per mio padre. O facevo morire mio padre o pagavo. Questo è un privilegio?…. Abbiamo una visione come se la nostra condizione attuale fosse il centro del mondo. Nei fatti mi stanno togliendo tutto e mi stanno precarizzando, perché domani non so come andrà a finire per me e per i miei figli”.
- Infine sulla questione se il poliziotto appartenga oppure no alla classe operaia, diversi interventi hanno insistito sul fatto che non bisogna confondere la condizione dei singoli individui, che effettivamente possono essere costretti a fare il poliziotto per sopravvivere, e il corpo di polizia in quanto tale che, come le guardie carcerarie, i carabinieri e l’esercito, è uno strumento di controllo e repressione della classe dominante il cui ruolo è antitetico a quello della classe operaia: l’uno ha il compito di difendere lo Stato ed il suo sistema, l’altra ha tutto l’interesse a distruggerli entrambi. Questo significa, come ha precisato un compagno, che “la classe ha un ruolo se lotta, e nel momento in cui lotta si trova di fronte lo Stato rappresentato dal poliziotto, allora se lo Stato ti spara addosso o ti massacra di botte con i suoi celerini, cosa fai? Dici che sono dei proletari? In realtà il loro ruolo di difesa delle istituzioni li lega indissolubilmente alla difesa dello Stato contro la classe operaia”. Dunque in questo caso non basta un criterio meramente economico ma va preso in considerazione il più ampio ruolo sociale delle forze di polizia per poter decidere se i suoi appartenenti fanno parte oppure no alla classe operaia. Il compagno ha dunque concluso dicendo che: “la concretezza dell’appartenenza allo Stato non li fa appartenere alla classe operaia. A Pomigliano chi ha manganellato la gente che protestava contro le discariche?” E un altro ha aggiunto: “Il poliziotto è un povero cristo, ma questo non ne fa automaticamente una categoria di lavoratori appartenenti alla classe”.
Ciò detto, è stato ricordato che questo non significa che la classe operaia in lotta non possa e non debba cercare un dialogo con i poliziotti e con i soldati per farli riflettere sulla loro condizione e chiamarli ad unirsi alla lotta, come fecero gli operai russi durante la rivoluzione del ’17 o come hanno fatto gli studenti in Francia nel 2005 di fronte ai poliziotti mandati a sfollarli dalle università.
Un primo bilancio
Alla fine della discussione sui temi previsti è stato lasciato uno spazio perché i partecipanti potessero esprimere una prima valutazione sulla giornata, suggerire eventuali correzioni per iniziative future ed altro.
In generale tutti i compagni hanno dato un apprezzamento positivo per la giornata trascorsa, con un’insistenza particolare sull’importanza di avere opportunità come queste per poter rompere l’isolamento, incontrarsi e discutere insieme delle preoccupazioni comuni. Diversi compagni hanno quindi espresso la necessità di dare seguito a questa iniziativa con altri incontri. Un compagno ha suggerito come possibile tema “il movimento del ’68 ed i successivi 40 anni di lotta di classe”. Alcuni hanno notato che la discussione sul secondo punto era piaciuta di meno rispetto alla prima, mentre una compagna ha espresso una valutazione critica su questa seconda parte perché la questione di cosa è la classe operaia le era sembrata “troppo astratta” mentre avrebbe preferito “chiarire di più degli aspetti concreti”.
Un’altra compagna ha suggerito, per il futuro, di scegliere “più attualità e meno teoria, come primo impatto”, nel senso di partire “dalla interpretazione e spiegazione concreta di fenomeni di attualità”. Un altro compagno ha osservato che, se va senz’altro recepito questo suggerimento, è anche vero però che “almeno il primo punto è nato dall’esigenza concreta, ricordiamo i No-global, i ragazzi di Genova che si sono fatti picchiare su questo tipo di questioni”. Infine è stato osservato che bisogna stare attenti nella discussione a non dare per scontato certi termini o certi concetti. Questa preoccupazione è molto importante perché, come abbiamo detto nel nostro intervento finale “il metodo non è partire da conclusioni già bell’e fatte, ma cercare di costruire queste conclusioni man mano, partendo proprio dagli elementi che escono dalla discussione; Il contrario potrebbe scoraggiare dei compagni, soprattutto quelli che partecipano per la prima volta ad un dibattito del genere. Inoltre partire dalle questioni basilari, soffermandosi nel confronto su concetti che troppo spesso diamo per scontati, significa sviluppare un reale approfondimento politico e teorico”.
Da parte nostra, come abbiamo già espresso alla fine della riunione, il bilancio di questa giornata è molto positivo non solo per la ricchezza di elementi di riflessione che sono emersi e che potranno costituire il punto di partenza per ulteriori discussioni tra i compagni, ma anche ed in particolar modo per il clima di discussione collettiva e solidale che si è sviluppato, dove ognuno ha partecipato, esprimendo i propri dubbi e i propri disaccordi, ad una reale chiarificazione politica. Il che non significa aver raggiunto un accordo sulle questioni dibattute, né tanto meno aver dissipato tutti i dubbi e le perplessità, ma significa essenzialmente avere una visione più chiara di quali sono i reali problemi che si trova ad affrontare l’umanità.
Questa discussione ha costituito un passo in avanti in questa direzione.
La CCI, 16 agosto 2008
[1] Vedi il testo dell’introduzione “Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?”, su questo sito
[2] Vedi il testo “Appunti sulla questione del microprestito”, scritto dal compagno P.
[3] Vedi il testo dell’introduzione “Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?”