L’insieme dei commentatori
politici borghesi americani avevano detto che, al di là dell’assenza totale di
vigore dei due candidati e la scarsa differenziazione dei rispettivi programmi,
ivi compreso sul piano economico e sociale, J. Kerry avrebbe vinto le elezioni
presidenziali se avesse vinto nello Stato dell’Ohio. Fino a poco tempo fa
questo Stato americano possedeva la più alta concentrazione dell’attività
industriale per abitante di tutti gli Stati Uniti, per poi conoscere, nel corso
degli ultimi anni, una deindustrializzazione sempre più rapida e brutale lasciando
senza risorse e senza impiego la maggior parte della popolazione. Malgrado una
forte mobilitazione dell’elettorato democratico, l’Ohio ha votato a maggioranza
per i conservatori, vero microcosmo elettorale di ciò che è successo a livello
nazionale. La carta elettorale di queste elezioni negli Stati Uniti mostra una
vasta estensione dominata dal voto repubblicano e qualche zona democratica
raggruppata sulle frange litorali dell’Atlantico e del Pacifico, in alcune
grandi città portuali come New York, Boston, Baltimora o San Francisco. In
quella che viene chiamata “la profonda America”, gli appelli i J.Kerry a votare
democratico non hanno incontrato un’eco favorevole. Come hanno affermato gli
stessi commentatori borghesi, i due candidati hanno mentito nelle loro campagne
in maniera più caricaturale che mai, senza che questo abbia inciso sulla
mobilitazione elettorale relativamente più forte rispetto ai precedenti
scrutini presidenziali, non più che sulla scelta dei voti. Le motivazioni
elettorali di una maggioranza di elettori americani sono state determinate da
fattori che facevano appello a tutto, tranne che alla ragione ed alla lucidità.
G. Bush si è presentato come il difensore intransigente della morale cristiana,
della forza e della grandezza del popolo americano. Il New York Times ha
rilevato che “numerosi americani affermano di non aver votato in funzione
delle questioni politiche, ma in funzione dei valori. Hanno votato per quello
che condivideva la loro credenza e la loro morale di vita. Le parole che
ritornano regolarmente nei sondaggi realizzati in tutto il paaese dopo le elezioni sono pertanto:
fede, famiglia, integrità e fiducia”. L’America profonda, i settori rurali,
sottomessi per gli effetti della crisi ad una miseria crescente, alla
demoralizzazione ed all’assenza totale di prospettiva, sono stati
particolarmente permeabili a questi temi mistici, che permettevano di
demonizzare lo stranero (il mussulmano fanatico!) come il responsabile di tutti
i mali. Al di là della mediocrità d’insieme della campagna elettorale, in
assenza di lotte di una certa forza del proletariato ed in mancanza di
un’alternativa visibile di fronte alla decomposizione della società, ha
prevalso il ripiegamento su se stessi o sulla propria comunità.
L’irrazionalità, frutto della paura e dell’impotenza, ha dominato queste
elezioni. L’indebolimento della coerenza d’insieme della borghesia americana al
fine di difendere al meglio l’interesse nazionale americano si è espressa anche
nel contenuto programmatico elettorale del candidato democratico: “Durante
tutta la campagna gli elettori non hanno mai saputo per cosa si presentava J.
Kerry. Volevano sapere come lui vedeva il mondo. E lui non gli è lo ha mai
detto.” (New York Times). Per il Los Angeles Times“I
repubblicani hanno utilizzato l’argomento che Kerry sarebbe un presidente
troppo indeciso per proteggere il paese”. Se J. Kerry non ha espresso una
visione del mondo diversa da quella tristemente associata alla persona di Bush
è semplicemente perché Kerry ed i democratici non potevano averla. Sulla questione
irachena, che ne è l’attualizzazione più drammaticamente spettacolare,
l’affossamento ineluttabile dell’imperialismo americano nel pantano iracheno,
l’assenza di ogni soluzione alternativa alla fuga in avanti guerriera, hanno
necessariamente reso impossibile al candidato democratico proporre un’altra
politica. In effetti gli era impossibile prospettare un ritiro delle forze
armate americane dall’Iraq quanto trascinare le potenze rivali, come la Francia
o la Germania, in questo pantano, anche attraverso l’ONU. Anche se la
maggioranza della borghesia americana aveva scelto di sostenere Kerry, il che
si è tradotto in un attacco a Bush da parte dello stesso partito repubblicano,
questa totale assenza di una reale politica alternativa non poteva che lasciare
libero il cammino ai più vecchi riflessi arcaici ed aprire la porta alla
vittoria di Bush.
Come abbiamo già detto sulla
nostra stampa, la vittoria dell’uno o dell’altro non costituiva la posta in
gioco per la borghesia americana. Nondimeno, il fatto che il candidato su cui
era caduta la sua scelta non è stato eletto a causa di una difficoltà a
canalizzare questa parte dell’elettorato particolarmente permeabile ai temi più
arcaici ed oscurantisti, costituisce un’espressione dell’indebolimento della
potenza americana. In effetti l’empasse al quale è confrontata la leadership
americana sulla scena mondiale si riflette in una certa difficoltà della borghesia
americana a controllare il gioco politico.
Di fronte alla politica
imperialista degli Stati Uniti che può esprimersi e svilupparsi solo in una
direzione militare e guerriera, la conferma dell’equipe Bush per i prossimi
quattro anni designa una evoluzione della situazione mondiale ancora più
drammatica e barbara. La classe operaia non può aspettarsi niente dalle
elezioni negli Stati Uniti, così come in qualsiasi altra parte del mondo. Ha
invece tutto da temere dalla caduta del capitalismo nel caos e la barbarie.
Tino (18 novembre 2004).