Ormai non è più soltanto Berlusconi a ripeterci fino alla nausea che la ripresa è già cominciata, ma la maggior parte dei mezzi di informazione e dei vari organismi internazionali, dall’OCSE al FMI, che ci dicono che la recessione è ormai finita, che gli strumenti messi in atto dai vari Stati hanno consentito di frenare ed anche di cominciare a superare la crisi.
Quello che invece sta succedendo è che, per drenare risorse finanziarie, gli Stati stanno tagliando i servizi pubblici, dalle scuole agli ospedali, dai trasporti ai beni culturali, con tutte le conseguenze in termini di peggioramento dei servizi e di perdita di posti di lavoro: ormai i contratti a termine nei servizi pubblici non vengono più rinnovati e solo nella scuola, a causa dei tagli, sono 45.000 i posti cancellati quest’anno. E questo non potrà che proseguire per molti anni, vista l’entità delle risorse messe in gioco per compiere il “miracolo” dello stop al disastro e visto anche che la cosiddetta ripresa di cui si parla è così piccola e lenta che gli Stati non potranno certo contare, per diversi anni, su un aumento significativo delle entrate fiscali.
La realtà quindi è ben diversa da quella che ci prospettano, una realtà fatta di peggioramento brutale delle condizioni di vita dei lavoratori.
Con il ricatto della disoccupazione gli attacchi si moltiplicano
Nonostante il massiccio ricorso alla cassa integrazione, cresciuta nel 2009 del 400% e che ha consentito, per il momento, a molti lavoratori di non perdere il posto, anche se al prezzo di una riduzione drammatica del proprio reddito, l’aumento della disoccupazione costituisce oggi l’espressione più drammatica della crisi: le cifre ufficiali dell’ISTAT[1] parlano di 380.000 disoccupati in più dall’inizio della crisi, ma questo dato è calcolato confrontando i dati delle persone in cerca di lavoro, mentre una delle conseguenze della crisi è che molti perdono anche la speranza di trovare un lavoro e quindi smettono di cercarlo, per cui non compaiono in questo tipo di statistica; per convincersene basta confrontarlo con il numero di posti persi (per licenziamenti e chiusure di aziende): secondo un rapporto della Unioncamere, riportato su Repubblica del 28 settembre, i posti di lavoro persi nel 2009 sono 994.400, e solo una parte di questi sono compensati dalla nascita di nuovi posti. Un altro elemento che rende il dato della disoccupazione inattendibile è che molti dei posti persi non si trasformano in nuovi disoccupati a causa dei pensionamenti di una parte dei lavoratori (è quello che è successo nel caso della scuola, per esempio). E, nonostante tutte le chiacchiere sulla ripresa, il fenomeno continuerà a peggiorare, visto che si prevede che produzione industriale e PIL continueranno a diminuire per il resto del 2009 e solo nel 2010 ci dovrebbe essere una nuova crescita, ma di entità così piccola che certamente non potrà dar luogo alla creazione di nuovi posti di lavoro. Anzi, visto che molte aziende non hanno dichiarato fallimento solo perché i salari (ridotti) sono stati presi a carico dello Stato con la cassa integrazione, cosa succederà quando il periodo di cassa non potrà essere più rinnovata?
E questo fenomeno non è solo italiano, ma si ripete in tutti i paesi del mondo.
Negli Stati Uniti, dopo le perdite dell’anno scorso, in particolare nel settore dell’automobile, la previsione è che alla fine dell’anno saranno 994.000 i posti di lavoro perduti, con un salto del 72% rispetto all’anno scorso. La popolazione attiva diminuisce e, per il solo mese di luglio, sono 442.000 i lavoratori attivi in meno (e ancora altri 263.000 a settembre).
La Germania, l’ex modello di efficienza dell’Europa, è pienamente infognata nella crisi. Il numero uno tedesco dell’energia, EON, prevede, per esempio, la soppressione di 10.000 posti in Europa.
Dappertutto, per i proletari che hanno ancora la fortuna di avere un lavoro, la precarietà è diventata la regola. Il ricatto dei licenziamenti per far diminuire i salari tende ad estendersi per l’aumento della concorrenza resa ancora più aspra dalla crisi. Certe aziende cominciano ad esigere ribassi dei salari che vanno dal 20 al 40%!
E’ il caso, per esempio, dell’Atitech di Napoli, azienda della CAI in vendita dove, oltre a una riduzione degli effettivi, è prevista una diminuzione dei salari del 25% per quelli che resteranno a lavorare con il nuovo padrone (qui la CAI sta ripetendo quanto ha fatto anche con i dipendenti ex Alitalia).
In certi casi, come alla British Airways, si è arrivati perfino a chiedere ai salariati del lavoro gratuito!
In queste condizioni non è sorprendente se il numero di suicidi legati alle condizioni di lavoro aumentino, in particolare in Francia, in cui si nota “un’organizzazione del lavoro che produce da 300 a 400 suicidi all’anno e un aumento delle patologie psicologiche”[2]. E quelli che resistono al ritmo della concorrenza ci perdono la salute, sopportando sempre più rischi che conducono ad incidenti sul lavoro. Ormai ci sono, nel mondo, un milione e duecentomila incidenti sul lavoro all’anno e 3000 al giorno. Gli incidenti sul lavoro fanno più morti delle guerre!
Come lottare contro gli attacchi della borghesia?
Di fronte a questa degradazione violenta delle loro condizioni di vita, i lavoratori dimostrano che stanno trovando la forza e il coraggio di battersi, anche in un contesto difficile.
Durante l’estate si sono prodotte in tutto il mondo numerose lotte[3] all’interno delle quali la questione dei licenziamenti è stata spesso l’elemento dominante. Come sempre accade però i mezzi di informazione ne hanno completamente taciuto l’esistenza (in Italia come dappertutto), ad eccezione di alcune nuove “forme di lotta” che sono cominciate ad apparire e che, piuttosto stranamente, non solo hanno riscontrato il plauso e la solidarietà dei sindacati, ma hanno ricevuto una grande risonanza anche da parte dei mass-media. E’ emblematico da questo punto di vista l’episodio della INNSE di Milano che, dopo ben 15 mesi di lotta durante i quali è stata lasciata completamente nel silenzio, ha conosciuto alla fine una grande notorietà su tutti i mezzi di comunicazione. I 49 operai della INNSE hanno espresso una grandissima prova di coraggio opponendosi con tutte le loro forze e con tutta la loro fantasia al tentativo di smantellamento della loro fabbrica, arrivando finanche a occuparla e ad autogestirla per conto proprio. Infine, di fronte alla difficoltà di averla vinta, c’è stato lo scorso 4 agosto il blitz di quattro operai e di un funzionario della Fiom che, superando lo schieramento di polizia, sono riusciti a salire su un carroponte all’interno della fabbrica minacciando anche il suicidio se non si fosse arrivati ad una soluzione della vertenza. E’ così che alla fine gli operai “hanno vinto”, riuscendo a non far chiudere la fabbrica. Questa storia dell’asserragliarsi su una gru ha avuto una tale eco mediatica e tanti elogi, finanche da parte dei padroni, che non si è tardato ad assistere a tutta una serie di episodi di lotta in cui si è cercato di ripetere l’impresa della INNSE. E’ d’obbligo chiedersi allora: sono forse queste le “nuove forme di lotta” che dovrà adottare la classe operaia? E se sì, come mai i mass-media ne fanno una tale propaganda? La nostra risposta, malgrado il coraggio e la resistenza mostrata dai lavoratori di questa fabbrica, è che questo tipo di lotta non può che portare alla sconfitta. La “vittoria” della INNSE è solo lo specchio delle allodole per invischiare decine di altre situazioni di lotta nell’impasse della lotta chiusa nella propria fabbrica, isolata da tutto il contesto del resto della classe operaia e della cittadinanza. Non è un caso che una delle debolezze più avvertite in questa lotta sia stato proprio il sentimento di isolamento provato dai lavoratori. Se si rimane chiusi nella propria fabbrica non è possibile comunicare con altri lavoratori, non è possibile allargare il fronte di lotte. Ma c’è di più. Il fatto che un gruppo di lavoratori decida di recarsi sul tetto di una fabbrica o di una gru e di imporre con la minaccia del suicidio la soluzione della vertenza significa che la lotta, piuttosto che essere presa in mano dall’insieme dei lavoratori, viene gestita direttamente da quel pugno di lavoratori a cui tutti gli altri sono costretti a guardare passivamente.
E’ per questo che alla borghesia piacciono queste lotte, perché - espressione della disperazione della classe operaia - non permettono che possa maturare solidarietà tra lavoratori proprio per il carattere chiuso e localista della lotta stessa. Non è un caso che si stia verificando tutta una serie di episodi anche a livello internazionale, come i ripetuti sequestri di manager e la minaccia di far saltare una fabbrica in caso di licenziamenti in Francia e Belgio o addirittura l’uccisione del direttore di una acciaieria minacciata di chiusura in Cina nel corso di una rivolta di un migliaio di operai metallurgici, che sono espressione di una apparente radicalità ma che di fatto portano all’isolamento delle singole lotte e dunque alla loro sconfitta.
Mentre i mezzi di informazione cercano di far credere che l’utilizzazione di questi mezzi di lotta siano l’espressione di una “radicalità” che scavalca gli apparati sindacali, che si realizza a causa della debolezza dei sindacati, la realtà è esattamente l’opposto. Sono infatti i quadri sindacali di fabbrica che non hanno smesso, in maniera discreta nei casi di maggiore illegalità come in Francia, di incoraggiare il ricorso a questo tipo di azioni. E se lo fanno, malgrado a volte le critiche dei dirigenti nazionali del sindacato, è per rinnovare l’immagine del sindacalismo, particolarmente discreditata per il sabotaggio delle lotte di questi ultimi anni, che ha permesso ai diversi governi di far passare i vari attacchi.
I sindacati, come l’insieme della borghesia, profittano del fatto che la pressione attuale della disoccupazione e dei licenziamenti in massa non favoriscono lo sviluppo di lotte di massa ma, al contrario, la dispersione delle reazioni operaie ed anche una tendenza ad una momentanea paralisi dell’insieme della classe operaia, che si limita a guardare con simpatia le reazioni esistenti. Di fronte alla chiusura delle fabbriche, l’arma dello sciopero tende a perdere la sua efficacia accentuando il sentimento di impotenza dei lavoratori. Questi si ritrovano spesso con le spalle al muro, spinti a reagire ognuno nel proprio angolo, a causa di questo disorientamento e al traumatismo legato alla perdita del posto di lavoro. Ma la borghesia potrà sempre meno utilizzare questa situazione per suscitare la divisione, o un’opposizione tra quelli che perdono il proprio lavoro e quelli che hanno il “privilegio” di conservarlo. Nonostante le attuali difficoltà che incontrano le lotte operaie, la classe non ha rinunciato a difendere i suoi interessi immediati, anche se la mancanza attuale di una prospettiva di sviluppo immediato spinge la maggior parte di esse, in particolare nei paesi sviluppati, a restare ancora sotto il controllo dei sindacati.
L’esperienza mostra alla classe operaia che essa è capace di sviluppare una riflessione collettiva animata dal bisogno di sviluppare le sue lotte. E questa riflessione, tirando le lezioni della situazione attuale, deve portare alla comprensione che solo la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi e dello sfruttamento. E’ attraverso la riconquista della sua capacità a prendere in mano le sue lotte che la classe potrà raggiungere una nuova tappa nella sua lotta contro il capitalismo. Questa prospettiva è sempre presente.
Helios (*)
(*) Adattato dall’articolo di Revolution Internationale n° 404, Seule la lutte unie et solidaire permet de résister aux attaques! [1]
[1] Riportati su Repubblica del 23 settembre.
[2] Vedi a questo proposito l’articolo di Revolution Internationale n°405: Les suicides à France Télécom sont l'expression de l'inhumanité de l'exploitation capitaliste [2].
[3] Vedi i nostri articoli Solidarité avec les conducteurs de bus de Sydney en grève [3] e La défaite à Ssangyong (Corée du Sud) montre la nécessité de l’extension de la lutte [4], Manifestations de lycéens et d'étudiants en Allemagne : « Nous manifestons parce qu'on nous vole notre avenir » [5] (su ICC on line, pagina francese), Freescale : comment les syndicats sabotent les efforts des ouvriers pour lutter [6], … (su Revolution Internationale n°404), Solidarity with Sydney Bus Drivers [7] (su ICC online, pagina inglese)
Mentre il direttore del FMI ci ricorda che nei paesi poveri la posta in gioco è la vita, osserviamo che nei cosiddetti paesi ricchi si perseguono strategie che nulla hanno a che fare con la salvaguardia della vita di chi proviene dai paesi della periferia del capitalismo. In Francia smantellano gli accampamenti degli immigrati vicino a Calais, posto di passaggio per la Gran Bretagna; le navi militari pattugliano il Mediterraneo e le coste africane in cerca di barconi di immigrati per poterli respingere verso i luoghi di provenienza, le navi mercantili fanno finta di non vedere chi sta morendo di sete e fame e trasporta cadaveri per evitare ritorsioni o perdita di tempo e denaro.
Non molto tempo fa c’è stata una disputa tra Malta e Italia su chi dovesse dare assistenza a dei disperati fermi in mare, ognuno scaricando sull’altro le responsabilità dell’intervento. Malta, Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna, etc, campioni di democrazia pronte a inviare mezzi e uomini in tutto il mondo per difendere la “pace” e a liberare le donne dall’“oppressione del burqa”, restano poi indifferenti davanti a donne incinte e a bambini affamati, ad essere umani ridotti a scheletri!
Ma adesso non c’è neanche più bisogno di fare finta di non vedere, si è passati direttamente alla politica dei respingimenti, una politica che prevede di intercettare i barconi al largo e di non consentire neanche più il loro sbarco sulle coste italiane ma di respingerli al luogo di partenza, in barba a qualsiasi principio di richiesta di asilo politico, principio riconosciuto internazionalmente e disatteso dal governo Berlusconi[1]. D’altra parte, grazie alla nuova normativa sull’immigrazione, adesso se ti trovano senza permesso di soggiorno ti condannano come un delinquente: da alcuni giorni sono cominciati anche dei processi contro alcuni immigrati senza il permesso di soggiorno che sono stati condannati per clandestinità, e il comune di Milano ha addirittura istituito un servizio di bus-carcere con un pullman dotato di sbarre ai finestrini e con a bordo una squadra speciale di vigili urbani armati incaricati di raccogliere alle varie fermate del bus gli extracomunitari trovati senza permesso. Il destino di questa povera gente non è una multa, salata quanto si voglia, ma la spedizione nei famigerati Centri di Identificazione ed Espulsione, che sono delle carceri vere e proprie piene di immigrati, e se questi arrivano a rivoltarsi è perché sono detenuti in condizioni disperate.
Questo mutamento di atteggiamento nella politica della borghesia italiana verso l’immigrazione è maturato sostanzialmente con l’avvento del terzo governo Berlusconi. Ma bisogna stare attenti a non pensare che questo giro di vite contro gli immigrati sia stato realizzato per dare un contentino alla Lega. Nient’affatto. La verità è che gli immigrati, oggi come oggi, con la crisi che corre, non servono più, ce ne sono troppi in giro e diventano un problema. Se potesse, la borghesia e il suo stato allontanerebbero dall’Italia anche i cittadini disoccupati italiani, gli insegnanti precari, i lavoratori buttati fuori dalle piccole fabbriche che non fanno notizia, trattenendone solo quel tanto necessario per ricattare i “fortunati” che hanno ancora un posto di lavoro e che hanno avuto un aumento … non dello stipendio, ma dei ritmi di lavoro e un generale peggioramento delle condizioni di vita.
Non per niente, con la nuova legge sull’immigrazione clandestina, è stata fatta un’eccezione solo per badanti e colf perché il loro lavoro è ancora molto richiesto.
È la crisi che peggiora - anche se fanno di tutto per dire che l’economia va meglio - il motivo principale per cui sbattono fuori a più non posso gli immigrati eccedenti la richiesta del mercato del lavoro e fanno di tutto per non farne arrivare altri. In una Europa in cui sono previsti milioni di disoccupati in più, gli immigrati disoccupati diventano un problema sociale da gestire in tutta fretta perché c’è il rischio che italiani e stranieri, precari e disoccupati, uniscano la loro disperazione e le loro forze in una lotta comune. C’è il rischio che anche gli occupati possano partecipare a questa lotta in quanto vengono sfruttati senza un limite con un salario da fame. C’è il rischio che non passi la politica gestita dai media della divisione tra bianchi e neri, tra italiani e stranieri, tra buoni e cattivi.
La borghesia di conseguenza schiera le sue forze tra favorevoli e contrari all’immigrazione, tra i “cattivi” berlusconiani e i “buoni” di centro-sinistra, dove fa bella figura il presidente della Camera, l’on. Fini!! Cosa fa Fini per distinguersi dagli altri? Promette forse una reale integrazione degli stranieri nel mondo del lavoro? Una assunzione regolare, un permesso di soggiorno senza troppe regole, uno stipendio dignitoso? Una fine della caccia all’uomo “nero” scatenata negli ultimi tempi? Niente di tutto questo. Promette la possibilità di scrivere una X sulla lista elettorale e quindi di delegare di nuovo al parlamento o meglio al suo esecutivo la risoluzione dei problemi. E abbiamo visto come gli esecutivi di destra e di sinistra risolvono i problemi dei lavoratori. Tagliando le spese su ospedali, scuole, servizi sociali, etc., aumentando le tasse e incrementando il sostegno all’apparato militare e industriale. Il diritto di voto, come ha dimostrato la storia del secolo scorso, non serve a niente, è solo una chimera, come hanno cominciato a capire i milioni di italiani che non partecipano più a questa farsa; serve solo a seminare l’illusione che un partito e/o altri personaggi possano migliorare le condizioni di vita. E si ha sempre la sgradita sorpresa che il nuovo governo sia sempre peggiore del precedente!
Gli immigrati di oggi come gli immigrati di ieri - gli italiani che passavano settimane sulle navi dirette in America, ammassati nelle stive, e rispediti indietro nel caso avessero contratto qualche malattia, che vivevano ammucchiati nelle baracche e nelle peggiori condizioni igieniche, non hanno nulla di diverso - appartengono alla stessa classe sociale di quelli che hanno un posto di lavoro, la classe dei lavoratori, il proletariato. Per la borghesia sono solo forza lavoro da spremere nel miglior modo possibile, ma anche il nemico storico numero uno! Per questo lo Stato, espressione massima della borghesia, fa di tutto per separarli, dividerli, metterli uno contro l’altro in mille modi diversi.
I lavoratori di qualsiasi provenienza, di qualsiasi settore, occupati, precari o disoccupati non hanno alcun interesse a mantenere queste divisioni, devono organizzarsi e lottare insieme in modo unito e solidale, solo così potranno far arretrare l’attacco generale che la borghesia sta effettuando in tutto il mondo.
7 ottobre 2009 Oblomov
[1] Bisogna ricordare, a onor del … demerito che, come ha ricordato giustamente il “democratico” Fassino, il primo respingimento fu fatto proprio da un governo di centro sinistra. Berlusconi non ha fatto che seguire il … buon esempio.
Dopo mesi di prime pagine de la Repubblica e dei quotidiani esteri su escort e festini, l’attenzione è adesso puntata sullo scontro Berlusconi-Fini, arrivando persino ad ipotizzare da più parti la fine del governo Berlusconi come conseguenza della reazione della parte più responsabile e sobria (come dice il vaticano) delle forze politiche di fronte alle ultime vicende berlusconiane.
In realtà, impostazioni differenti ed attriti ci sono sempre stati nel Pdl e ancor prima nella coalizione di centro-destra. E allora a cosa è dovuta la cattiva sorte in cui è caduto in questo momento Berlusconi? E’ solo una serie di coincidenze che hanno portato alla ribalta le porcherie che tutto il mondo ormai conosce, oppure c’è dietro qualcuno che ha alimentato questa dinamica? E se c’è qualcuno, chi è? La sinistra che complotta contro il premier e vuole fare un colpo di Stato, come dicono Berlusconi e Brunetta? O Fini che aspira al posto di Berlusconi come lascia intendere La Repubblica?
Berlusconi: un serio problema per la borghesia
Più volte abbiamo analizzato nella nostra stampa le grosse difficoltà che, in seguito alla distruzione dei vecchi e consolidati partiti storici prodottasi con l’operazione Tangentopoli dopo il 1989, la borghesia italiana trova nel creare nuove forze politiche credibili. Forze che siano capaci di far fronte agli interessi globali dello Stato italiano sul piano interno ed internazionale[1].
La creazione del Pd a sinistra e del Pdl a destra, pur rappresentando un tentativo in questo senso, non hanno mutato in niente la situazione. Al contrario, acquista un peso sempre maggiore la tendenza allo sfilacciamento dell’apparato politico, come hanno mostrato le prese di distanza, i distinguo e le spaccature avutesi tra le varie componenti politiche sia a sinistra che a destra nell’ultimo periodo. Un fenomeno questo che non è una particolarità nostrana[2], ma l’espressione del declino storico del sistema capitalistico ed in particolare della sua fase di decomposizone[3], nella quale l’affermazione immediata di se stessi prende il sopravvento trasformandosi in lotta di tutti contri tutti anche a scapito di quella coesione necessaria a gestire gli inevitabili conflitti all’interno della borghesia per poter assicurare gli interessi globali della borghesia come classe dominante.
A proposito dei precedenti governi Berlusconi abbiamo anche sottolineato come questi fossero tenuti “sotto osservazione” dalla borghesia proprio perché costituiti non da politici di professione, provenienti da collaudate scuole di partito, ma da un imprenditore ricco e potente a capo di una coalizione in buona parte coincidente con una struttura di affari economici e finanziari i cui interessi, quindi, e le cui preoccupazioni tendono a prevalere rispetto alla salvaguardia degli interessi più generali del capitale italiano.
Questo quadro di fondo ci fa comprendere perché Berlusconi sia diventato man mano un problema sempre maggiore per la borghesia.
Tutta la politica di Berlusconi si è caratterizzata sempre più per tre aspetti essenziali:
A questo non ha corrisposto alcuna capacità del governo Berlusconi di operare delle scelte di fondo credibili sul piano della gestione della crisi economica, limitando la sua azione essenzialmente alla politica dei tagli.
E’ significativo a questo proposito che su un giornale come il Sole24ore, espressione della borghesia produttiva e non certo di sinistra si arrivi a dire: “l’uscita del ministro Brunetta (a proposito delle élite di merda, ndr) rivela l’incapacità di questo governo di governare. Perché non c’è solo il conflitto d’interessi, gli affari privati al posto di quelli pubblici, gli scandali più o meno sessuali più o meno politici, ma c’è pure, in questi anni d’Italia, una drammatica inadeguatezza dei potenti alla loro responsabilità.(…) Il primo obiettivo del potere berlusconiano è la conservazione fine a se stessa di questa Italia. Una nazione liberale solo a parole in cui i centri della finanza, dei media e della politica sono controllati sempre più da una sola persona, che a 73 anni non ha ancora deciso di regalare al suo paese più futuro che a se stesso” (francescorigatelli.nova100.ilsole24ore.com).
Questi elementi esprimono tutta la debolezza del governo sia sul piano interno che nelle relazioni sul piano internazionale dove, contrariamente a quanto Berlusconi vorrebbe farci credere, il capitalismo italiano accusa dei cedimenti nella valutazione da parte degli organismi internazionali sulla sua capacità di gestire la crisi e le sue conseguenze.
In questo contesto la questione morale assume un’importanza tutta particolare per la borghesia. Un governo che deve far fronte ad aziende che chiudono, ad un aumento enorme della disoccupazione, ad un numero crescente di famiglie che non riescono più a sopravvivere, ad una massa enorme di giovani senza alcuna prospettiva ed al pericolo che tutto questo comporta sul piano sociale, deve essere un governo che abbia un minimo di credibilità. Non può presentarsi come una banda di faccendieri e uomini di malaffare, impegnati in faide continue per conservare il potere, di personaggi senza alcuna etica e morale. Ed è infatti da qualche tempo che Fini, da uomo politico di vecchia guardia, parla del pericolo di “disaffezione alla politica” soprattutto tra i giovani.
Verso un cambio della guardia?
C’è quindi una reale preoccupazione nella parte più lucida della borghesia italiana che cerca di apportare delle modifiche sostanziali a questo governo, quanto meno per ridimensionare il peso di Berlusconi e della Lega.
Del resto, che non si tratti solo di condanna dell’immoralità nella vita privata di Berlusconi o della volontà di qualcuno di farlo fuori per prenderne il posto (anche se naturalmente un Fini ha tutto l’interesse a farlo), lo mostra la dinamica con cui si è sviluppato lo scandalo sui festini e le escort.
Verso la fine di aprile “Farefuturo”, (la Fondazione animata da Fini), è così intervenuta rispetto alle candidature di veline e di altre donne “di bella presenza” alle europee:
“(…) Qui assistiamo ad una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto a che fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento. (…) Questo uso strumentale del corpo femminile,(…) denota uno scarso rispetto da un lato per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro, dall'altro per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima”. (Sofia Ventura, Farefuturo, riportato su Repubblica del 27 aprile 2009).
Poco dopo scoppia la prima vera bomba contro il capo del governo: Veronica Lario accusa il marito di “andare con minorenni” (affare Noemi Letizia) e di usare in maniera strumentale le donne in politica.
Da qui inizia l’offensiva di Repubblica con le foto scattate nelle ville di Berlusconi in occasione dei vari festini e la pubblicizzazione delle situazioni più incredibili e imbarazzanti per il capo del governo, tra cui l’uso privato di aerei riservati a voli di Stato, prostitute e droga in casa propria.
Ma gli elementi più significativi di questa offensiva sono:
Un cambiamento è quindi una necessità per la borghesia, ma in che misura e in che tempi sia possibile attuarlo è un altro conto. Il che spiega perché per mesi ha prevalso un imbarazzato silenzio nel mondo politico di fronte a tutti i fatti denunciati da la Repubblica.
Anche se esistono degli interventi che sembrerebbero portare di tanto in tanto serenità e pacificazione nel centro-destra, come gli atteggiamenti da moderatori e soprattutto di apertura al dialogo sulle questioni poste da Fini da parte di personaggi come La Russa e Tremonti, così come il fatto che la proposta di legge sulla cittadinanza agli immigrati fatta da Granata (vicino a Fini) sia stata sottoscritta da 50 parlamentari di tutti i gruppi (tranne la Lega), bisogna tener presente che mentre in un partito come la vecchia Democrazia Cristiana scontri anche durissimi tra correnti differenti venivano sempre ricomposti quando era in gioco la vita del partito, nel Pdl, che è essenzialmente l’unione contingente di forze con tradizioni politiche e un modo di fare politica abbastanza diversi, la lotta intestina tra queste rischia di mettere in gioco il partito stesso e di conseguenza la capacità della destra di governare in questo momento.
In ogni caso la cosa sicura è che, da buon imperatore romano, Berlusconi non cederà mai il suo regno spontaneamente, anche se adesso lui ed i suoi fedelissimi sembrano più dei leoni in gabbia che, ormai con le spalle al muro, colpiscono alla cieca verso il domatore che avanza.
Eva, 27 settembre 2009
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Piccolo aggiornamento in seguito alla bocciatura del Lodo Alfano da parte della Consulta. La rimozione di quella che sembrava, al capo del governo, la più sicura difesa da attacchi nemici veicolati tramite la magistratura, lo espone come un verme ai processi nei quali sa di non potersi difendere. I numerosi e variegati capi di imputazione che lo chiamano a rispondere di delitti di corruzione e collusione con la mafia sono un macigno da cui è difficile liberarsi in un momento in cui la borghesia che conta mostra di non avere più bisogno di lui, almeno come prima. Tutto ciò suggerisce che il futuro nel nostro paese possa essere caratterizzato da importanti scontri all’interno della borghesia.
[1] Vedi in particolare “La perdita di coerenza della borghesia italiana di fronte alle difficoltà del periodo”, Rivoluzione Internazionale n.151, giugno 2007.
[2] La borghesia francese, ad esempio, è anch’essa confrontata con un problema di protagonismo del premier Sarkosy ed con lo sfilacciamento dell’apparato politico che impedisce un ricambio al governo.
[3] "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [12]", Rivista Internazionale n. 14, 1990.
Il 9 ottobre scorso il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato insignito del prestigioso premio Nobel per la pace! A parte alcuni guastafeste, tra cui Casini[1] o il premio Nobel per la pace Leck Walesa, che hanno protestato perché, secondo loro, si sono sentite solo chiacchiere ma niente è ancora stato fatto per il momento, il mondo ha tributato un grande plauso. Angela Merkel, primo ministro tedesco, ha sottolineato come: “in un breve periodo di tempo (il Presidente Usa ndr) é stato in grado di stabilire un nuovo tono nel mondo e di creare la possibilità di dialogo”.[2] Lo stesso presidente della Commissione Ue José Manuel Durao Barroso, nel suo messaggio di congratulazioni, ha affermato che il premio Nobel assegnato a Obama rappresenta “un tributo al suo impegno a favore della pace e del progresso dell’umanità” e che “L’assegnazione di questo premio al presidente Obama, leader della più significativa potenza militare del mondo all'inizio del suo mandato riflette le speranze che ha suscitato ovunque con la sua visione di un mondo senza armi nucleari”[3].
Finanche i nemici di ieri, quelli che Bush annoverava tra i pericolosi terroristi del mondo, oggi si inchinano e riconoscono in Obama il possibile fautore di un’epoca nuova. Un premio alla “buona volontà” ha affermato Ahmad Yusef Yusef, “viceministro degli Esteri” del governo de facto di Gaza, consigliere del “premier” Ismail Hanyeh e voce “diplomatica” del vertice di Hamas, la fazione islamico-radicale palestinese al potere nella Striscia di Gaza. “Si tratta di un riconoscimento meritato se non altro per quel che Obama ha detto nel discorso del Cairo”[4].
Possiamo dunque stare tranquilli e ben sperare per il futuro? Purtroppo, a nostro avviso, le cose stanno in maniera un po’ diversa e vediamo perché tornando un po’ indietro nel tempo.
Il 4 giugno scorso, nella città del Cairo in Egitto, il presidente degli Stati Uniti ha tenuto un discorso che tutte le capitali occidentali si sono affrettate a qualificare come storico. Occorre dire che Obama ha pronunciato parole ed analisi che sembrano a prima vista in rottura completa con la politica aggressiva e guerrafondaia dell’ex capo di Stato americano G.W. Bush. Per Obama occorre voltare pagina e mettere gli errori di Bush e della sua amministrazione sul conto del trauma dell’11 settembre 2001. A volergli credere, “la guerra di civilizzazione”, cara alla vecchia amministrazione americana, è finita. Nel suo discorso Obama ha fatto chiaramente passare il messaggio che gli Stati Uniti non sono nemici dei musulmani, ma un legittimo partner. Ha parlato senza mezzi termini di “occupazione” e di “aspirazione dei palestinesi alla dignità, ad uguali opportunità e ad uno Stato indipendente”[5].
Ha praticamente presentato gli Stati Uniti come un amico sul quale i palestinesi possono contare. Ha chiesto ad Hamas di riconoscere lo Stato israeliano senza etichettare quest’organizzazione come terrorista. E ancora, ha comparato la lotta dei palestinesi a quella degli schiavi neri d’America e alla lotta dei neri del Sudafrica ai tempi dell’apartheid. Dal punto di vista di un presidente degli Stati Uniti, dichiarazioni pubbliche come queste sono del tutto nuove e fanno seguito alla politica d’apertura diplomatica che gli Stati Uniti sembrano voler condurre rispetto all’Iran presentato, fino a poco tempo fa, come un potenziale pericolo per la sicurezza del mondo[6].
Gli Stati Uniti sono forse improvvisamente diventati pacifisti e sostenitori del dialogo? C’è ben da dubitarne. L’esperienza drammatica della storia ci ha insegnato a non prendere alla lettera i bei discorsi borghesi, dimostrandoci che quando il capitalismo parla di pace è perché in realtà prepara la guerra.
Il necessario cambio di orientamento della politica americana
Dal crollo del blocco russo nel 1989, gli Stati Uniti sono diventati la sola superpotenza del pianeta. Da allora l’orientamento della loro politica di guerra è stato mantenere a tutti i costi la propria egemonia. Ma a partire dal 2001, con la guerra in Afganistan ed in Iraq, si è progressivamente manifestato un indebolimento crescente degli Stati Uniti. L’impantanamento in Iraq ed in Afghanistan ne è una manifestazione concrete e particolarmente tragica.
Le altre grandi potenze hanno contestato la supremazia americana e messo avanti in maniera esplicita i loro propri interessi in ogni parte del mondo, come ad esempio la Cina in Africa o l’Iran in Medio Oriente. Ogni nazione, ogni cricca, ogni borghesia si è sentita incoraggiata a difendere i propri interessi in un disordine ed un caos crescenti. La politica dell’amministrazione Bush che consisteva nel volere affermare la potenza americana, sola contro tutti, non ha affatto frenato questo fenomeno d’indebolimento. Al contrario, ne ha accelerato il processo aumentando l’isolamento degli Stati Uniti. Ha favorito una crescita del malcontento e della contestazione anti-americana, in particolare nel mondo musulmano, anche da parte di alleati come l’Egitto e l’Arabia Saudita.
Questa politica da cavaliere solitario non poteva continuare.
È questo che ha capito gran parte della borghesia americana, il Presidente Obama e la sua amministrazione, superando così, almeno temporaneamente, la tradizionale spaccatura che esiste su questa questione tra democratici e repubblicani. Tuttavia la politica orchestrata dall’amministrazione Obama non potrà impedire uno sviluppo del processo di isolamento degli Stati Uniti.
L’indebolimento americano ed il “ciascuno per sé” sono oggi realtà irreversibili. Uno degli aspetti di questa realtà si trova nella difficoltà crescente degli Stati Uniti ad implicarsi militarmente e contemporaneamente nelle molteplici guerre regionali nelle quali si sono totalmente impantanati. Non solo c’è un problema di risorse militari che non sono infinite, in particolare in “mezzi umani”, ma in più la crisi economica, che inizia a devastare il mondo intero, pone loro un serio problema. Milioni di dollari vengono inghiottiti ogni giorno dall’esercito americano mentre il paese si impoverisce sempre più velocemente, la disoccupazione esplode e l’assistenza sanitaria è inesistente. Nel momento in cui la povertà colpisce fette crescenti della popolazione, come si fa a far accettare senza problemi spese militari in continuo aumento? In più, anche aumentando i premi e la paga, è sempre più difficile trovare giovani pronti ad andare a farsi crivellare di colpi in guerre che appaiono sempre più nefaste.
Questo nuovo orientamento della politica imperialista degli Stati Uniti non ha dunque nulla a che vedere con un ritrovato spirito umanitario da parte di Obama. Questa politica si impone di fatto alla borghesia americana come una necessità. Traduce semplicemente la necessità per l’America di fare delle scelte più mirate in materia di interventi militari. E questa scelta è caduta sullo sviluppo della guerra in Afganistan ed in Pakistan. Il che implica di conseguenza un tentativo di calmare, almeno momentaneamente, il gioco in direzione dell’Iran e della Palestina. In effetti, per gli Stati Uniti, diventa imperativo tentare di controllare la situazione in Afganistan se vogliono ritrovare una reale influenza in Pakistan. Il Pakistan è un importante crocevia: ad ovest, in direzione dell’Iran, a nord del Caucaso e dunque della Russia, e soprattutto ad est in direzione dell’India e della Cina, paese quest’ultimo che continua a manifestare crescenti appetiti imperialisti. Ecco la scelta obbligata che devono fare oggi gli Stati Uniti e che spiega il senso profondo del discorso di Obama al Cairo.
Quando Washington fa pressione su Israele
Israele è da decenni l’alleato più fedele degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il legame tra le borghesie di questi due paesi è molto forte e l’esercito israeliano è completamente sostenuto da Washington. Al tempo di G.W. Bush gli israeliani avevano acquisito una posizione molto importante nell’ambito della loro politica imperialista. Tel-Aviv e Washington erano praticamente sulla stessa lunghezza d’onda. Adesso non più. L’amministrazione americana chiede oggi alla borghesia israeliana di piegarsi alle sue esigenze, alla difesa dei suoi interessi del momento. Il che ha fatto immediatamente montare la tensione tra le due capitali[7]. Le divergenze tra Netanyahu, il capo del governo israeliano, ed il presidente Obama sono chiare e nette. Tuttavia, data l’importanza della pressione americana, Netanyahu ha dovuto moderare i suoi propositi nel discorso fatto a Tel-Aviv in risposta a quello di Obama al Cairo.
Per la prima volta Netanyahu ha dovuto pronunciare le parole “Stato palestinese” anche se le ha associate alla smilitarizzazione di questo ed al rifiuto di qualsiasi condivisione di Gerusalemme come capitale. Questo dimostra che le pressioni americane sul capo del governo israeliano devono essere molto forti e continue. Questi doveva guadagnare tempo ed è ciò che ha fatto. Ma possiamo esser certi che ciò non cambierà nulla nella sostanza. È facile accorgersene quando si apprende che Netanyahu ha chiesto ai palestinesi, come pregiudiziale, di riconoscere lo Stato israeliano come Stato ebreo. Il capo del governo ha fatto di quest’esigenza un elemento centrale che condiziona ogni avanzamento nei negoziati “di pace”, quando sa bene che questo è inammissibile per la borghesia palestinese.
Andiamo dunque, quasi certamente, verso una situazione di ulteriore sviluppo delle tensioni tra Israele e Stati Uniti. E non è detto che questa nuova politica americana non spinga alla fin fine Israele in una fuga in avanti bellicista da parte della frazione borghese al potere. Per il primo ministro Benjamin Netanyahu, infatti, la minaccia nucleare iraniana è inaccettabile per Israele. Negli ultimi tempi quest’aumento delle tensioni tra i due paesi si è concretizzato nell’escalation verbale tra Mahmoud Ahmadinejad, il capo iraniano, ed il governo israeliano. In questo senso non è sicuro che gli eventi attuali in Iran rassicurino molto la borghesia israeliana. Lo Stato israeliano potrebbe allora essere fortemente tentato di mettere con le spalle al muro il governo Obama con un’azione militare violenta verso l’Iran. In ogni caso, anche se tale prospettiva non si realizzasse, la borghesia israeliana non può non reagire di fronte alle maggiori pretese americane al suo riguardo. Paradossalmente questo aumento delle tensioni è nei fatti il risultato dell’indebolimento americano. La guerra e la barbarie continuerà a svilupparsi inesorabilmente in questa regione del mondo.
Tino, (adattato dall’articolo “Derrière les discours de paix d’Obama, une stratégie impérialiste”, da ICConline, pagina francese)
[1] “«Il premio Nobel a Obama? Non ho ancora capito cosa ha fatto». Lo ha detto oggi a Torino il leader del'Udc, Pierferdinando Casini. «Speriamo - ha aggiunto - che faccia in futuro tutte le cose splendide che il Nobel auspica»”, www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2009/10/09/visualizza_new.html_985953412.html [13].
[4] idem
[5] Courrier International del 16 giugno 2009.
[6] Nel suo discorso al G8 dell’Aquila nel settembre scorso Obama ha fondamentalmente ribadito questa impostazione di “apertura” e “pacificazione”.
[7] Non è un caso che le dichiarazioni sull’assegnazione del Nobel a Obama provenienti da Israele siano più misurate. Il presidente della Knesset (Parlamento) Reuven Rivlin, dirigente del Likud, ha sottolineato che il premio è stato conferito ad un Presidente “che ha appena iniziato il proprio mandato, e che ha solo progetti di pace. Ciò è ben strano. In genere i premi si conferiscono sulla base di risultati, e non solo di progetti (…) adesso c’é da temere che il conferimento del premio induca Obama ad imporre misure su Israele. Io temo - ha precisato - che il premio gli sia stato conferito affinché realizzi i suoi progetti, i quali potrebbero essere totalmente errati e forse in contrasto con gli interessi di Israele” (www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2009/10/09/visualizza_new.html_985953412.html [13]).
Dopo il 1929 nessuna crisi economica ha mai colpito con tale violenza il proletariato mondiale. Dappertutto la disoccupazione e la povertà stanno esplodendo. Questa situazione drammatica provoca un forte sentimento di rabbia tra gli operai. Oggi è difficile convertire questa rabbia in combattività. Che fare quando la propria fabbrica chiude? Come combattere? Che tipo di scioperi o azioni fare? E per quelli che ancora hanno un lavoro, come resistere ai tagli sullo stipendio, agli straordinari non pagati, agli aumenti di produttività e alla flessibilità quando il capo usa l’odioso ricatto “se non ti piace quella è la porta, ci sono milioni di altri lavoratori pronti a prendere il tuo posto”? La brutalità di questa recessione è una fonte di ansia terribile ed a volte di paralisi per le famiglie proletarie. Eppure, in questi ultimi mesi sono scoppiati importanti scioperi:
· - a Narayanganj, in Bangladesh, nel maggio scorso, 20.000 operai che non erano stati pagati per mesi, sono esplosi con rabbia, hanno razziato dozzine di fabbriche tessili e hanno messo in pericolo le loro vite scontrandosi con l’esercito;
· - in Cina, nelle città di Daqing e di Liaoyang, nel cuore del bacino industriale della Manciuria, decine di migliaia di operai che hanno perso il lavoro scendono ogni giorno in piazza dal primo marzo per chiedere il pagamento dell’indennità di disoccupazione ed il mantenimento della previdenza sociale. Questa ondata di lotte è espressione dello sviluppo generale della combattività del proletariato in questa regione del mondo. Secondo le agenzie di vigilanza della stabilità politica di Hong Kong, nei primi tre mesi di questo anno ci sono stati in Cina 58.000 “incidenti di massa” (cioè scioperi, manifestazioni, ecc). “Se questa tendenza continua per tutto l’anno, il 2009 batterà tutti i record precedenti con più di 230.000 di questi cosiddetti ‘incidenti di massa’ in confronto ai 120.000 del 2008 e ai 90.000 del 2006”[1].
· - In Spagna alla fine di aprile, gli operai metallurgici di Vigo hanno ripreso la loro lotta. Dopo aver condotto uno sciopero esemplare nel 2006 quando organizzarono le assemblee generali per le strade in modo da farvi partecipare la popolazione della città, gli operai di Vigo questa volta hanno dovuto far fronte ad un sindacato più preparato e con armi affilate: assemblee generali bidoni svuotate di ogni dibattito, sterili azioni di forza come il blocco delle navi crociera … Se gli scioperanti questa volta non hanno saputo sventare tutte queste trappole, la coscienza della necessità della lotta ha fatto un nuovo passo avanti come testimonia questa frase di uno degli operai in lotta: “le cose vanno molto, molto male. O si lotta o si muore”[2].
Ma è in Gran Bretagna che delle lotte hanno espresso più nettamente un progredire della coscienza all’interno della classe lavoratrice. All’inizio dell’anno gli operai della raffineria di Lindsey sono stati il centro di un’ondata di scioperi selvaggi. Questa lotta, al suo inizio, è stata frenata dal peso del nazionalismo simboleggiato dallo slogan “lavoro inglese per gli operai inglesi”. La classe dominante ha usato a pieno questa idea nazionalista presentando lo sciopero come una lotta contro gli operai italiani e portoghesi che lavoravano sul posto. Ma la borghesia si è rapidamente data da fare per mettere fine allo sciopero quando sono apparsi degli striscioni che invitavano gli operai portoghesi ed italiani ad unirsi alla lotta, affermando “Operai di tutto il mondo, unitevi!”, e gli operai polacchi delle costruzioni hanno si sono effettivamente uniti agli scioperi selvaggi a Plymouth[3]. Invece di una sconfitta operaia, con il crescere della tensione fra operai di paesi diversi, gli operai di Lindsey hanno ottenuto la creazione di 101 posti di lavoro in più (gli operai italiani e portoghesi hanno mantenuto il loro), assicurazioni che nessun operaio sarebbe stato licenziato e, soprattutto, hanno ripreso il lavoro uniti!. Quando in giugno la Total ha annunciato il licenziamento di 51 su 640 impiegati, gli operai hanno potuto basarsi su questa recente esperienza. La nuova ondata di lotta è scoppiata immediatamente su una base molto più chiara: solidarietà con tutti gli operai licenziati. E rapidamente scioperi selvaggi sono scoppiati in tutto il paese. “Gli operai delle centrali elettriche, delle raffinerie, delle fabbriche nel Cheshire, Yorkshire, Nottinghamshire, Oxfordshire, nel Galles del sud ed a Teesside hanno interrotto il lavoro per mostrare la loro solidarietà” (The Independent, 20 giugno). “C’erano anche segnali che lo sciopero si estendeva all’industria nucleare dato che l’EDF Energy diceva che gli operai a contratto al reattore nucleare di Hinckley Point a Somerset avevano fermato il lavoro” (Il Times). La parte più vecchia del proletariato mondiale ha mostrato in questa occasione che la forza della classe operaia sta soprattutto nella sua capacità di essere unita e solidale.
Tutte queste lotte possono sembrare poca cosa paragonate alla gravità della situazione. E, effettivamente, il futuro dell’umanità passa necessariamente per lotte proletarie di tutt’altra ampiezza ed intensità. Ma se la crisi economica attuale finora ha stordito il proletariato, essa resta tuttavia il terreno più fertile per lo sviluppo futuro della combattività operaia e della coscienza. In questo senso, episodi di lotta come questi che hanno in sé il germe dell’unità, della solidarietà e della dignità umana, sono elementi fondamentali per l’avvenire.
Mehdi, 8/7/2009
(dalla Revue Internationale, n.138)
[1] Fonte: “Des nouvelles du front” (https://dndf.org/?p=4049 [16]).
[2] Per maggiori informazioni su questa lotta, leggi il nostro articolo in spagnolo “Vigo: Los metodos sindicales conducen a la derrota [17]”.
[3] "G.B. Scioperi nelle raffinerie di petrolio e nelle centrali elettriche: gli operai cominciano a fare i conti con il nazionalismo [18]", Rivoluzione Internazionale, n. 159.
Pubblichiamo qui di seguito il Comunicato dell’Assemblea dei Lavoratori della Sanità e dei Servizi Sociali di Alicante[1] in solidarietà con due diversi collettivi di lavoratori in lotta: i lavoratori metallurgici di Vigo (vedi “Vigo: Los Métodos Sindicales Conducen a la Derrota [22]”) e i lavoratori della Vesuvius de Langreo (che hanno pubblicato questo stesso comunicato sul loro blog: https://vesuviussomostodos.blogspot.com [23]).
I temi relative alla solidarietà e all’estensione delle lotte costituiscono una preoccupazione chiave per molti lavoratori, particolarmente per quelli giovani. Questi temi esprimono una forma ancora embrionale della coscienza maturata a partire dalla crisi del capitalismo e sull’impossibilità di lottare da soli, con ogni settore di lavoratori isolato dagli altri e ogni categoria per sé stessa. Questi temi relativi alla solidarietà e all’estensione della lotta esprime una rottura rispetto alle tattiche sindacali che fanno affidamento invece solo sulla azienda, sul singolo settore, sulla categoria, insomma sul particolare.
Da questo punto di vista, è un segno positivo che dei collettivi di lavoratori prendano l’iniziativa di scrivere dei comunicati di solidarietà per esprimere le loro riflessioni e fare delle proposte, contribuendo in questo modo all’allargamento della discussione e dell’attività relative alla solidarietà di classe e all’estensione e all’unificazione della lotta.
CCI
Ai lavoratori delle acciaierie di Vigo; ai lavoratori della Vesuvius (Langreo); a tutti i lavoratori attualmente in lotta; e a tutti quelli che non hanno ancora cominciato la loro lotta
Noi, Assemblea di lavoratori dell’Afema di Alicante – che abbiamo trascorso tanti mesi di lotta per ottenere il pagamento dovuto dei salari e contro le condizioni precarie in cui lavoriamo con i disabili – vogliamo esprimere il nostro più profondo sostegno e la nostra solidarietà ai lavoratori della fabbrica Vesuvius di Langreo e ai lavoratori metallurgici di Vigo.
Entrambi questi collettivi, in maniera del tutto simile a noi, stanno subendo un attacco alle loro condizioni di vita. Usando l’attuale crisi economica come scusa, siamo minacciati di chiusura, licenziamenti mentre le condizioni di vita vanno in caduta libera.
Noi crediamo che, nonostante le apparenze, le nostre lotte abbiano una stessa origine e condividano gli stessi interessi: il soddisfacimento di nostri bisogni; la lotta per condizioni di vita decenti per noi, i nostri compagni, le nostre famiglie, ecc.; la difesa dei nostri interessi di classe. Queste sono le ragioni che ci hanno spinto ad esprimere un sentimento di fratellanza per tutti i lavoratori che sono in lotta, cercando in questo modo di creare un forum in cui i lavoratori possono esprimersi reciprocamente solidarietà, solidarietà che è la nostra principale arma di classe.
Con l’evoluzione delle nostre lotte noi siamo arrivati a due conclusioni che riteniamo essenziali:
Ancora una volta salutiamo i nostri compagni di lotta di Vigo e di Langreo, così come le lotte di tutti i lavoratori dovunque si trovino, perché abbiamo capito che la loro lotta è la nostra lotta e speriamo che un giorno saremo capaci di contribuire alla loro lotta non solo con delle semplici parole.
UNA CLASSE, UNA LOTTA
Piattaforma dell’Assemblea dei Lavoratori della Sanità e dei Servizi Sociali della AFEMA (Alicante).
[1] Ricordiamo che abbiamo già pubblicato a proposito di questi lavoratori, su ICConline in lingua italiana, l’articolo Lotta all’AFEMA di Alicante (Spagna). Un’esperienza da riprendere [24]
I compagni del NDIRD hanno presentato la riunione sottolineando l’importanza di questo tipo di avvenimenti per far conoscere le posizioni della Sinistra comunista attraverso un dibattito aperto e fraterno. Proprio per favorire il dibattito, la presentazione dell’argomento è durata solamente venti minuti.
La riunione ha raccolto più di 25 persone. Il numero dei giovani è stato notevole (quasi la metà dei partecipanti), caratteristica che osserviamo anche nelle riunioni pubbliche tenute in altri paesi dell’America latina dove abbiamo avuto la possibilità d’intervenire. I partecipanti hanno manifestato un interesse reale all’ascolto della presentazione ed il dibattito che questa ha suscitato ha espresso un’autentica preoccupazione rispetto alle inquietudini provocate dalla crisi del capitalismo, e non solo per il proletariato ma per l’insieme dell’umanità.
Ecco un breve resoconto della riunione e delle domande che sono state poste nel dibattito.
Come si può spiegare la creazione di mercati artificiali attraverso l’indebitamento?
Questa interessante domanda di un giovane partecipante rispondeva ad un’affermazione della presentazione dove dicevamo che il capitalismo richiede per il suo sviluppo dei mercati solvibili, cioè dei settori che hanno una reale capacità di consumare le merci prodotte. Con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, periodo apertosi con la Prima Guerra mondiale, si è sviluppato un esaurimento progressivo di questi mercati solvibili. Ed è per tale motivo che “Come palliativo a questo esaurimento dei mercati solvibili esterni alla sfera capitalista, la borghesia ha utilizzato il credito; questo stesso palliativo è stato poi massicciamente utilizzato a partire dagli anni ‘60; in questo senso, il capitalismo decadente, per sopravvivere, aveva creato un mercato artificiale basato sul credito” (testo di presentazione).
E’ precisamente a partire dagli anni ‘70 che i paesi della periferia, e tra questi quelli dell’America latina, hanno iniziato un ricorso massiccio all’indebitamento, in gran parte per acquistare beni e servizi prodotti nei paesi centrali, gli stessi che finanziavano questi crediti. E’ per tale motivo che durante gli ultimi quattro decenni del secolo scorso i paesi della periferia hanno accumulato praticamente dei debiti impossibili da rimborsare, che continuano a crescere ed il cui pagamento dilapida un’importante percentuale del PIL di questi Stati.
Abbiamo dato come esempio recente di questi mercati artificiali la crescita del settore immobiliare negli Stati Uniti che si è basata sulla vendita a credito di immobili. La “bolla immobiliare” è esplosa “quando non è stato più possibile rimborsare i crediti perché la crisi si era sviluppata nel mondo ed i tassi di interesse erano aumentati, per cui questo sistema di credito è esploso. Ma ad esplodere sono le contraddizioni interne dell’economia capitalista: quelle della saturazione dei mercati solvibili. Ed anche la crisi del credito come palliativo” (idem).
Se c’è stata una ripresa dopo la crisi del 1929, perché ora non esiste una riattivazione dell’economia come negli anni ‘50 e ‘60?
Abbiamo risposto che la crisi del 1929 è stata la prima grande crisi del capitalismo decadente i cui effetti sono stati risentiti durante il decennio degli anni ‘30 e che ha avuto come corollario la Seconda Guerra mondiale. Dopo questa crisi c’è stata l’importante ripresa economica del dopoguerra che si è basata sull’applicazione di politiche keynesiane, sull’aumento della produttività del lavoro e su un migliore sfruttamento sia delle economie precapitaliste dei paesi della periferia che dei settori precapitalisti dei paesi più industrializzati. Ma sono proprio questi meccanismi che mostrano di esaurirsi alla fine degli anni ‘60 quando il capitalismo entra di nuovo in crisi. Per far fronte a questa nuova crisi, la borghesia ricorre all’utilizzazione massiccia di questo palliativo - il credito - che permette al capitalismo di rinviare per oltre quarant’anni la caduta brutale dell’economia, come la vediamo attualmente.
Noi diciamo che la crisi attuale è peggiore di quella del 1929. Come è stato detto nella presentazione, la crisi attuale è una crisi del credito. Poiché la “soluzione” che propone la borghesia mondiale è quella di un maggiore indebitamento, questo non può che preparare inevitabilmente delle crisi ancora peggiori in futuro.
Come può battersi il proletariato se la disoccupazione tende a farlo scomparire?
Un compagno, nell’esprimere questa preoccupazione, faceva l’esempio della situazione della “zona franca” di Santiago, una delle più importanti concentrazioni di fabbriche e di imprese di subappalto del paese, dove si è sviluppato con la crisi un forte livello di disoccupazione. Abbiamo risposto che, effettivamente, uno dei flagelli della crisi del capitalismo è la crescita rapida della disoccupazione; ma ciò non significa la scomparsa del proletariato perché è inconcepibile una borghesia senza proletari da sfruttare. Innanzitutto, il lavoratore non perde la sua condizione di proletario quando diventa disoccupato. Si cominciano già a vedere delle mobilitazioni di disoccupati in alcuni paesi. Inoltre, a far parte del proletariato non sono solo i lavoratori del settore manifatturiero o di fabbrica, ma anche, ed in buon numero, gli impiegati del settore pubblico, gli insegnanti, i lavoratori della sanità, ecc., settori che hanno un peso quantitativamente importante nei paesi dell’America latina.
È indubbio che la crisi colpisce duramente i lavoratori perché alla fine tocca proprio a loro pagare i cocci, tuttavia è proprio questa situazione che li spinge inevitabilmente alla lotta, tanto in Repubblica dominicana che a livello mondiale.
Perché, tra le conseguenze della crisi, la CCI parla anche dello sviluppo di imperialismi regionali e locali?
Nella nostra presentazione abbiamo detto che questa crisi, tappa ulteriore nel crollo del capitalismo, ha avuto non solo delle conseguenze a livello economico e sulla lotta del proletariato, ma anche a livello dei conflitti tra nazioni. Nella storia del capitalismo la lotta tra gli Stati per i mercati è stata una costante e la crisi attuale non è un’eccezione. Peraltro questa crisi interviene in un contesto dove i blocchi imperialisti esistiti fino alla fine degli anni ‘80 sono spariti con il crollo del blocco russo e l’indebolimento progressivo dell’imperialismo americano. Questa situazione ha provocato un’anarchia nelle relazioni internazionali che si esprime nel tentativo di ogni borghesia nazionale di rafforzarsi nella geopolitica regionale e mondiale. Questi comportamenti si sono espressi recentemente in modo patetico in Iran, che tenta di ergersi a potenza regionale in Medio Oriente, e nel Venezuela, che si rafforza sul piano geopolitico in America latina utilizzando come armi di penetrazione il petrolio e l’ideologia del “socialismo del XX secolo”.
Lo scontro tra nazioni che si è scatenato dopo la caduta del blocco russo si inasprirà inevitabilmente con l’avanzamento della crisi. Il proletariato deve rigettare ogni appoggio alle frazioni della borghesia nazionale o regionale in questi conflitti che andrebbe a profitto solo di questa o quella frazione della classe dominante.
Di fronte a questa barbarie, quali sono le prospettive per l’umanità?
Questa domanda esprime in modo chiaro ciò che abbiamo detto nell’introduzione di questo resoconto: “un’autentica preoccupazione rispetto alle inquietudini provocate dalla crisi del capitalismo e non solo per il proletariato ma per l’insieme dell’umanità”.
La CCI ha affermato che oggi più che mai il futuro dell’umanità è minacciato dalle contraddizioni interne del capitalismo e questo richiede la risposta dell’unica classe rivoluzionaria: il proletariato. Se la crisi genera sempre più miseria e povertà, spinge però il proletariato a battersi. È vero che le condizioni della lotta sono oggi difficili, dal momento che non si sa bene come lottare o che cosa fare quando le fabbriche chiudono i battenti. È anche vero che il proletariato dubita delle proprie capacità. Ma lo sviluppo della crisi, attraverso gli attacchi contro l’insieme delle condizioni di vita dei proletari e per il fatto che implica apertamente lo Stato, fomenta alla lotta di classe l’insieme del proletariato mondiale. In questa dinamica il proletariato sviluppa la sua riflessione e, poco a poco, riprenderà fiducia nelle proprie forze.
La CCI, in quanto organizzazione rivoluzionaria e nella misura delle sue forze, lavora per accelerare questa dinamica. La posta in gioco sta nell’alternativa tra una società comunista e una barbarie che annienterebbe l’umanità. Di fronte a ciò, gruppi come il NDIRD, che si sviluppano con una visione internazionalista, rivestono un ruolo di primo piano per il proletariato della Repubblica dominicana e per il proletariato mondiale. Allo stesso modo, tutti quelli che, come i compagni che hanno partecipato a questa riunione, si pongono delle domande su un terreno internazionalista, devono dibattere tra loro.
La preoccupazione di dibattere e di ascoltare
Sebbene la riunione sia durata poco tempo - pressappoco un’ora e mezza - perché bisognava liberare il locale, si è sviluppato un importante dibattito che ha potuto continuare per un po’ mentre si condivideva un momento di socializzazione intorno ad un bicchiere.
Parecchi dei partecipanti hanno mostrato il loro entusiasmo ed il loro interesse a partecipare a questo genere di riunioni. Come è stato detto da uno dei compagni del NDIRD, i partecipanti hanno mostrato un reale interesse a discutere e ad ascoltare le posizioni internazionaliste.
Salutiamo calorosamente questa riunione, così come la capacità politica ed organizzativa di cui ha dato prova il NDIRD nella sua preparazione. Li invitiamo a portare avanti questo sforzo per il quale la CCI darà tutto il suo sostegno.
Questa riunione è stata un momento molto confortante perché è una manifestazione della capacità dell’internazionalismo di unire le forze del proletariato in qualsiasi paese, per quanto “piccolo” possa essere.
CCI (14 luglio 2009)
[1] Per la prima riunione pubblica vedi: “Un dibattito internazionalista nella Repubblica Dominicana”, ICConline pagina italiana 2007.
Alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, dopo la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni venti e con la rivoluzione russa agonizzante a causa del suo isolamento e dell’attacco mortale portato dalla borghesia mondiale e dallo stalinismo, la controrivoluzione e lo schiacciamento del proletariato mondiale trionfano. In questo contesto l’anarchismo conosce un passo fatidico nella sua evoluzione. In questo contesto la borghesia dei vari paesi, siano essi fascisti o democratici e la stessa URSS stalinista, spinta inesorabilmente sulla strada del militarismo dalle cieche leggi del capitalismo, si prepara alla guerra. Il vicolo cieco prodotto dalla crisi economica non le lascia nessun’altra alternativa che questa fuga in avanti in un secondo olocausto mondiale. E’ la marcia accelerata verso la guerra, vero modo di vita del capitalismo in decadenza, che ha già generato il fascismo. Questo è riuscito ad imporsi nei paesi in cui la classe operaia aveva subito una sconfitta profonda, per cui non era più necessario mantenere le istituzioni democratiche che hanno, per l’appunto, il compito di mistificare il proletariato, per poter sottometterlo e batterlo. Il fascismo si rivela come la forma del capitalismo più adatta al compimento dei preparativi richiesti dalla marcia accelerata verso la guerra.
L’irreggimentazione ideologica per la guerra imperialista dietro il fascismo o il nazismo, o dietro il mito della “patria del socialismo” per lo stalinismo, è stato ottenuto attraverso il terrore più violento. Ma nei paesi rimasti “democratici”, per inquadrare gli operai che non avevano subito lo schiacciamento dei movimenti rivoluzionari, bisognava che la borghesia utilizzasse una mistificazione particolare: l’antifascismo. Offrendo agli operai un preteso terreno di mobilitazione per proteggersi dagli orrori del fascismo, questo è stato il mezzo utilizzato per arruolarli come carne da cannone nelle guerra, al servizio di un campo imperialista contro un altro per la difesa dello Stato democratico. Per raggiungere lo scopo, la borghesia, in particolare in Francia e Spagna, si è servita dei “fronti popolari” e della venuta al governo dei partiti di sinistra.
L’anarchismo abbocca all’antifascismo
Al contrario dell’internazionalismo proletario che ha costituito il grido di guerra della classe operaia per mettere fine alla barbarie della prima carneficina mondiale con la rivoluzione proletaria, l’antifascismo non costituisce per niente un mezzo per il proletariato per difendere i suoi interessi di classe, ma il mezzo per consegnarlo piedi e mani legati alla borghesia democratica. La situazione di controrivoluzione, che impediva ogni possibilità di sbocco rivoluzionario, non doveva assolutamente portare a rimettere in causa i principi fondamentali dell’internazionalismo proletario di fronte alla Seconda guerra mondiale. Non c’era nessun campo da scegliere. Si trattava di combattere sia la borghesia del campo fascista che quella del campo democratico.
Prigioniero della sua propensione a difendere “la libertà” contro “l’autoritarismo”, l’anarchismo capitola completamente di fronte all’antifascismo. Prima della guerra le differenti correnti dell’anarchismo sono fra i principali animatori dell’antifascismo. Questo porterà la grande maggioranza degli anarchici a porsi decisamente dalla parte degli Alleati nella Seconda Guerra mondiale. Privo di ogni criterio di classe basato sui rapporti sociali reali che reggono la società capitalista, l’anarchismo è portato a sottomettersi completamente alla difesa della democrazia, questa forma particolarmente subdola di dittatura del capitale. Alcuni che erano rimasti internazionalisti nel 1914, come Rudolf Rocker, difendono la partecipazione alla guerra imperialista nel 1940 con l’argomento che, a differenza del 1914, esistevano adesso due sistemi radicalmente differenti e che la lotta contro il fascismo giustificava il sostegno agli Stati democratici. Questo approccio spinge un gran numero di anarchici a partecipare fisicamente alla guerra, principalmente negli eserciti imperialisti senza uniformi della Resistenza[1].
In Francia, “dall’inizio della guerra [il gruppo CNT-rete Vidal nei Pirenei] si mette al servizio della Resistenza e lavora attivamente con l’Intelligence Service e l’Ufficio Centrale di Informazione e di Azione (BCRA) di De Gaulle, ma anche con la rete Sabot e il gruppo Combat. (…) A causa della mancanza di una organizzazione nazionale di resistenza, gli anarchici appaiono poco, anche se sono molto presenti. Va citato comunque il gruppo di Passo dell’Aquila (…) luogo importante della ricostruzione della CNT in esilio e uno dei gruppi partigiani più attivi. Questo gruppo partigiano è al 100% confederale, esattamente come il gruppo di Bort-les-Orgues. In generale i raggruppamenti partigiani del Massiccio Centrale sono in grande parte composti da anarchici spagnoli (…)[2]. “Presenti nella Resistenza della Francia del sud, nei gruppi FFI, FTP, MUR o in gruppi autonomi (il battaglione Libertad nel Cantal, il gruppo Bidon 5 in Ariège, nel Languedoc-Roussillon) (…) [gli anarchici], a centinaia, proseguono sul suolo francese la lotta che avevano condotto contro il fascismo spagnolo”[3]. Il battaglione Libertad “libera Lot e Cahors. (…) A Foix sono i partigiani anarcosindacalisti della CNT-FAI che liberano la città il 19 agosto”[4].
Stessa situazione in Italia. Quando c’è il cambiamento di fronte dell’Italia dell’8 settembre 1943, le regioni del centro e del nord si trovano nelle mani dei tedeschi e della repubblica fascista di Salò. “Gli anarchici si gettano immediatamente nella lotta armata, stabiliscono quando ne hanno la possibilità (Carrara, Genova, Milano) delle formazioni autonome, o, nella maggior parte dei casi, raggiungono altre formazioni quali le brigate socialiste “Matteotti”, le brigate comuniste “Garibaldi” o le unità “Giustizia e Libertà” del Partito d’azione”[5]. In numerosi luoghi, i libertari aderiscono al Comitato di liberazione nazionale che raccoglie un ampio spettro di partiti antifascisti oppure organizzano gruppi d’azione patriottica (sic). Numerosi anarchici sono presenti nella 28a brigata Garibaldi che libera Ravenna. “A Genova, i gruppi di combattimento anarchici operano sotto i nomi di brigata “Pisacane”, la formazione “Malatesta”, la SAP-FCL, la SAP-FCL Sestri Ponente ed gli squadroni d’azione anarchici di Arenzano. (...) Queste attività sono favorite dalla Federazione comunista libertaria (FCL) e dal sindacato anarco-sindacalista dell’USI che è appena ricomparso nelle fabbriche. (...) Gli anarchici fondano le brigate “Malatesta” e “Bruzzi”, che comprendono fino a 1300 partigiani: questi operano sotto l’egida della formazione “Matteotti” e svolgono un ruolo di primo piano nella liberazione di Milano”[6].
Gli esempi della Bulgaria, dove – in seguito all’invasione dell’URSS del 1941 - il PC bulgaro organizza “delle bande a cui numerosi anarchici parteciparono”[7] o ancora la guerriglia anarchica anti-giapponese in Corea negli anni 1920-30 testimoniano il carattere generale della partecipazione degli anarchici alla guerra impérialista.
E molti non saranno neanche fermati dall’indossare l’uniforme degli eserciti imperialisti democratici: “I Libertari spagnoli (...) parteciparono a migliaia alla resistenza al nazismo e alcuni di loro spinsero la lotta nei battaglioni de la France Libre fino in Germania”[8] “alcuni si arruolarono nei reggimenti di marcia della Legione Straniera e si ritrovarono in prima linea in tutti i combattimenti”[9]. “Saranno destinati a volte in Africa del Nord, a volte nell’Africa Nera (Ciad, Camerun). I secondi ricongiungeranno le forze francesi libere dall’anno 1940. Raggiungeranno le colonne del generale Leclerc.” (...) Per più del 60% spagnola, la famosa 2a D.B. conta un buon numero di anarcosindacalisti al punto che una delle sue compagnie “è interamente composta da anarchici spagnoli”. A bordo dei blindati “Ascaso”, “Durruti”, “Casas Viejas”, questi “saranno i primi ad entrare nella capitale il 24 agosto 1944” in occasione della liberazione di Parigi[10] e ad issare lo straccio tricolore sul municipio della città!
Una posizione bellicista in linea diretta con quella presa in Spagna nel 1936
L’atteggiamento degli anarchici durante la Seconda Guerra mondiale deriva direttamente da quella che fu la loro “prova generale” nella guerra di Spagna. Questo episodio storico illumina senza ambiguità il ruolo reale svolto dall’anarchismo in quello che non era né “una guerra di classi”, né “una rivoluzione” ma una guerra tra due frazioni della borghesia spagnola che ha portato ad un conflitto imperialista mondiale.
Nel luglio 1936 la CNT, ai sensi del patto antifascista siglato con i partiti del Fronte popolare, apporta il proprio sostegno al governo repubblicano per deviare verso l’antifascismo[11] la reazione del proletariato spagnolo al colpo di Stato di Franco. La CNT sposta il combattimento di una lotta sociale, economica e politica del proletariato contro l’insieme delle forze della borghesia verso il confronto militare contro il solo Franco, inviando gli operai a farsi massacrare sui fronti militari nelle milizie antifasciste per degli interessi che non sono i loro.
La partecipazione dei libertari al governo repubblicano borghese in Catalogna ed a Madrid, illustra l’evoluzione dell’anarchismo verso il sostegno allo Stato borghese. “Dopo la prima vittoria sui generali faziosi, vedendo emergere una guerra a lungo termine e di un’importanza enorme, abbiamo capito che non è questo il momento di considerare terminata la funzione del governo, dell’apparato governativo. Come la guerra necessita di un apparato adeguato per essere portata a buon fine - l'esercito – ugualmente occorre un organo di coordinamento, di centralizzazione di tutte le risorse ed energie del paese, cioè il meccanismo di uno Stato. (...) Finché dura la guerra, dobbiamo agire nella lotta sanguinosa e dobbiamo intervenire nel governo. Infatti, quest'ultimo deve essere un governo di guerra, per fare e vincere la guerra. (...) Pensiamo che la guerra sia la prima delle cose e che occorra vincerla come condizione preliminare di qualsiasi nuova condizione …”[12]. Quando gli operai di Barcellona si sollevano nel maggio 1937, gli anarchici si fanno complici della repressione portata avanti dal Fronte popolare e dal governo di Catalogna (al quale essi partecipano), mentre i franchisti sospendono temporaneamente le ostilità per permettere ai partiti di sinistra di schiacciare il sollevamento.
Con il sostegno dato alla guerra totale attraverso la militarizzazione del proletariato per mezzo delle collettività anarchiche e delle milizie antifasciste, la proclamazione dell’Union Sacrée con la borghesia repubblicana ed il divieto di scioperare, la CNT partecipa al reclutamento del proletariato in una guerra che prende chiaramente un carattere imperialista con l’impegno delle democrazie e dell’URSS dalla parte repubblicana e della Germania e dell’Italia dalla parte franchista. “Attualmente, non è una guerra civile che stiamo combattendo, ma una guerra contro gli invasori: Mori, Tedeschi, Italiani. Non è un partito, un’organizzazione, una teoria che sono in pericolo. È l’esistenza della Spagna stessa, di un paese che vuole essere padrone dei suoi destini, che corre il rischio di scomparire”[13]. Il nazionalismo della CNT la porta a fare appello alla guerra mondiale per salvare “la nazione spagnola”: “La Spagna libera farà il suo dovere. Di fronte a quest'atteggiamento eroico, cosa faranno le democrazie? C’è da sperare che quello che si deve produrre non tarderà a lungo. L’atteggiamento provocatore e grezzo della Germania é già insopportabile. (...) Tutti sanno che alla fine le democrazie dovranno intervenire con i loro squadroni e con i loro eserciti per sbarrare il passo a queste orde di insensati …”[14].
L’abbandono degli interessi del proletariato e l’atteggiamento della CNT verso la guerra imperialista producono vive opposizioni nel campo anarchico (Berneri, Durruti). Ma l’incapacità di questi ultimi a rompere con la posizione secondo cui si trattava di una guerra che procedeva parallelamente alla rivoluzione, ne ha fatto delle vittime della politica di sconfitta e di reclutamento del proletariato. Così, coloro che cercavano di lottare contro la guerra e per la rivoluzione, furono incapaci di trovare il punto di partenza per una lotta realmente rivoluzionaria: l’appello agli operai e contadini (imbrigliati nei due campi, repubblicano e franchista) a disertare, a puntare i loro fucili contro i loro ufficiali, a tornare indietro e a lottare usando lo strumento dello sciopero, delle manifestazioni, su un terreno di classe contro il capitalismo nel suo insieme.
Dei minuscoli sprazzi internazionalisti
Tuttavia, quando scoppia la guerra mondiale, e controcorrente all’ondata bellicista e antifascista, alcune voci provenienti dall’anarchismo si levano per rifiutare il terreno dell’antifascismo e per affermare la sola posizione realmente rivoluzionaria, quella dell’internazionalismo. Così nel 1939, in Gran Bretagna, la Glasgow Anarchist-Communist Federation dichiara che “lo scontro attuale oppone imperialismi rivali per la tutela di interessi secolari. Gli operai di tutti i paesi appartengono alla classe oppressa, non hanno nulla in comune con questi interessi e con le aspirazioni politiche della classe dominante. La loro linea del fronte non è la linea Maginot, dove saranno demoralizzati ed uccisi, mentre i loro padroni accumulano guadagni fraudolenti”[15]. Nel sud della Francia, il minuscolo gruppo raccolto intorno a Volin[16] sviluppa un intervento contro la guerra su una base chiaramente internazionalista: “L’attuale conflitto è l’opera delle potenze economiche di ogni nazione, potenze che vivono esclusivamente ed a livello internazionale dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. (...) I capi di Stato, i capi militari di ogni colore e di ogni sfumatura, passano da un campo all’altro, strappano trattati, ne firmano altri, servono a volte la repubblica, a volte la dittatura, collaborano con quelli a cui facevano ieri la guerra, e viceversa e vice-versa ancora. (...) e il popolo, paga loro i vasi rotti: il popolo viene mobilitato per le democrazie, contro le democrazie, per i fascisti, contro i fascisti. Ma che sia in Africa, in Asia, in Europa, è sempre il buono popolo che fa le spese di queste “esperienze contraddittorie” e che si rompe il muso. (...) Non si tratta di lottare soltanto contro il fascismo hitleriano, ma contro tutti i fascismi, contro tutte le tirannie, che siano di destra, di centro o di sinistra, che siano reali, democratiche o sociali, poiché nessuna tirannia emanciperà il lavoro, libererà il mondo, organizzerà l’umanità su basi realmente nuove”[17]. Questa posizione fa chiaramente di questi anarchici un’espressione della classe operaia. Ancora una volta, se questi raggiungono una tale chiarezza è perché fanno loro le posizioni di classe del proletariato.
Ma, la dura prova dell’isolamento rispetto agli altri gruppi rimasti internazionalisti e rispetto alla classe nelle condizioni di trionfo della controrivoluzione sulle masse, così come l’enorme pressione antifasciste (“ci confrontiamo ogni giorno con gli altri antifascisti. Occorreva unirsi a loro o restare controcorrente? La questione era spesso angosciante sul campo”)[18] estinguono presto questa scintilla. La morte di Voline (settembre 1945), l’incapacità degli anarchici di trarre le lezioni dalle loro esperienze conduce gli elementi del suo gruppo al ritorno all’ovile della CNT, all’adesione momentanea ai suoi comitati antifascisti, ed infine alla partecipazione alla ricostruzione del FA su delle basi politiche completamento borghesi.
Qual è il destino politico dei militanti operai anarchici?
Dall’esame della storia dell’anarchismo di fronte alle due guerre mondiali, si può sottolineare una doppia serie di conclusioni:
• L’anarchismo ha dimostrato non solo la sua incapacità di offrire un’alternativa realizzabile ed una prospettiva rivoluzionaria al proletariato, ma ha costituito addirittura uno strumento diretto di mobilitazione della classe operaia nella guerra imperialista. Nel 1936-37, la capitolazione dell’anarchismo di fronte alla mistificazione antifascista ed alla democrazia borghese vista come un “male minore” rispetto al fascismo, è stata un mezzo per il capitalismo per allargare il fronte delle forze politiche che agiscono per la guerra incorporando gli anarchici. La guerra di Spagna costituisce, dopo la Prima Guerra mondiale, il secondo atto decisivo per l’anarchismo che sigilla la sua evoluzione verso il sostegno allo Stato capitalista. Questa sottomissione alla democrazia borghese si traduce con l’integrazione delle correnti ufficiali dell’anarchismo all’interno delle forze politiche dello Stato capitalista. Così, in un processo a due tempi, dal 1914 alla guerra di Spagna del 1936-37, l’anarchismo è diventato un’ideologia di difesa dell’ordine e dello Stato capitalisti.
• In secondo luogo, occorre considerare che l’area dell’anarchia non si riduce alle sue correnti ufficiali e si caratterizza per essere molto eterogenea. In tutte le epoche è presente in questa area chi aspira sinceramente alla rivoluzione ed al socialismo, esprime una reale volontà di finirla con il capitalismo e si impegna nella lotta per l’abolizione dello sfruttamento. Questi militanti si pongono effettivamente sul terreno di classe quando assumono un orientamento internazionalista e raggiungono la lotta rivoluzionaria del proletariato. Ma il loro futuro dipende fondamentalmente da un processo di decantazione il cui senso e la cui ampiezza dipendono dal rapporto di forze tra le classi fondamentali, la borghesia ed il proletariato.
Questa decantazione potrà essere orientata verso il nulla o anche verso la borghesia, come negli anni neri della controrivoluzione degli anni 1940. Privati della bussola della lotta di classe del proletariato e dell’ossigeno della discussione e del dibattito con le minoranze rivoluzionarie che questa lotta produce, gli anarchici si trovano presi nella trappola delle contraddizioni intrinseche all’anarchismo che li disarma e li blocca sul terreno dell’ordine borghese.
Potrà essere invece orientata verso la classe operaia quando questa si afferma come forza rivoluzionaria. Così, è lo stesso movimento rivoluzionario della classe operaia, lo sviluppo della rivoluzione mondiale e l’insurrezione proletaria in Russia (con la distruzione dell’apparato statale borghese da parte dei Soviet e la sospensione unilaterale dell’impegno nella guerra imperialista da parte del proletariato russo e dei bolscevichi), che permetteranno nel 1914-18 agli anarchici rimasti internazionalisti di assumere un atteggiamento internazionalista conseguente. Raggiungono allora il movimento storico della classe operaia avvicinandosi al movimento comunista uscito dalla sinistra della socialdemocrazia ed opposto alla guerra: i bolscevichi e gli spartachisti, i soli capaci di mettere avanti l’unica alternativa realistica e realizzabile, la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e la rivoluzione proletaria mondiale.
Scott
La prima parte di questo articolo [29] è stato pubblicato su Rivoluzione Internazionale n°161.
[1] Le manifestazioni di obbedienza dell’anarchismo si sono suddivise in direzione delle diverse frazioni della classe dominante: alcuni militanti, sedotti dalla Carta del Lavoro, pacifisti rassicurati dall’armistizio, collaborano al programma della Rivoluzione nazionale di Pétain e del governo di Vichy, come Louis Loréal, o si ritrovano in istituzioni ufficiali dello Stato francese come P. Besnard.
[2] Les Anarchistes espagnols et la Résistance, in l’Affranchi n°14, primavera 1997, su CNT-AIT.info.
[3] E. Sarboni, 1944: les Dossiers noirs d’une certaine Résistance, Perpignan, Ed. du CES, 1984.
[4] Les Anarchistes espagnols et la Résistance, in l’Affranchi n°14, primavera-estate 1997, su CNT-AIT.info.
[5] 1943-1945: Anarchist partisans in the Italian Resistance, su libcom.com, (traduzione nostra).
[6] idem
[7] Postfazione a Max Nettlau, Histoire de l’Anarchie, p.281.
[8] E. Sarboni, 1944: les Dossiers noirs d’une certaine Résistance, Perpignan, Ed. du CES, 1984.
[9] Pépito Rossell, Dans la Résistance, l’apport du mouvement libertaire.
[10] Le Monde diplomatique, agosto 2004.
[11] Sulla traiettoria della CNT rimandiamo alla nostra serie nella Revue internationale, ed in particolare gli articoli: “L’échec de l’anarchisme pour empêcher l’intégration de la CNT dans l’Etat bourgeois (1931-34) ; L’antifascisme, la voie de la trahison de la CNT (1934-36)”.
[12] D.A. de Santillan, in Solidaridad obrera, 16 avril 1937.
[13] D.A. de Santillan, in Solidaridad obrera, 21 avril 1937.
[14] Solidaridad obrera, 6 janvier 1937, citato da la Révolution prolétarienne n°238, gennaio 1937.
[15] Citato da P. Hempel, A bas la guerre, p.210.
[16] Vsevolod Mikhaïlovitch Eichenbaum detto Volin (1882-1945), membro del partito socialista rivoluzionario, durante la rivoluzione del 1905 partecipa alla fondazione del Soviet di San Pietroburgo. Imprigionato, evade e raggiunge la Francia nel 1907 dove diventa anarchico. Nel 1915, minacciato d’essere imprigionato dal governo francese per la sua opposizione alla guerra, fugge negli Stati Uniti. Nel 1917 ritorna in Russia dove milita fra gli anarcosindacalisti. Successivamente Volin entra in contatto con il movimento makhnovista e prende la testa della sezione cultura e istruzione dell’esercito insurrezionale, divenendo presidente del suo Consiglio militare insurrezionale nel 1919. Arrestato più volte, lascia la Russia dopo il 1920 e si rifugia in Germania. Tornato in Francia, redige, su richiesta della CNT spagnola, il suo giornale in lingua francese. Denuncia la politica di collaborazione di classe della CNT-FAI in Spagna. Nel 1940, è a Marsiglia dove termina la Rivoluzione sconosciuta. Le privazioni e le terribili condizioni materiali della clandestinità hanno ragione della sua salute. Muore di tubercolosi a Parigi nel 1945.
[17] Estratto dal volantino: A tutti i lavoratori del pensiero e delle braccia, 1943.
[18] Les Anarchistes et la résistance, CIRA.
Links
[1] https://fr.internationalism.org/ri404/seule_la_lutte_unie_et_solidaire_permet_de_resister_aux_attaques.html
[2] https://fr.internationalism.org/ri405/les_suicides_a_france_telecom_sont_l_expression_de_l_inhumanite_de_l_exploitation_capitaliste.html
[3] https://fr.internationalism.org/content/3927/solidarite-conducteurs-bus-sydney-greve
[4] https://fr.internationalism.org/icconline/20009/la_defaite_a_ssangyong_coree_du_sud_montre_la_necessite_de_l_extension_de_la_lutte.html
[5] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/manifestations_de_lyceens_et_d_etudiants_en_allemagne_nous_manifestons_parce_qu_on_nous_vole_notre_avenir.html
[6] https://fr.internationalism.org/ri404/freescale_comment_les_syndicats_sabotent_les_efforts_des_ouvriers_pour_lutter.html
[7] https://en.internationalism.org/icconline/2009/09/sydney-bus-drivers-strike
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[12] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[13] https://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2009/10/09/visualizza_new.html_985953412.html
[14] http://www.borsaitaliana.it/borsa/area-news/news/mf-dow-jones/italia-dettaglio.html?newsId=656133&lang=it
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[16] https://dndf.org/?p=4049
[17] https://es.internationalism.org/cci-online/200906/2585/vigo-los-metodos-sindicales-conducen-a-la-derrota
[18] https://it.internationalism.org/content/gb-scioperi-nelle-raffinerie-di-petrolio-e-nelle-centrali-elettriche-gli-operai-cominciano
[19] https://it.internationalism.org/en/tag/4/61/cina
[20] https://it.internationalism.org/en/tag/4/72/gran-bretagna
[21] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[22] https://es.internationalism.org/node/2585
[23] https://vesuviussomostodos.blogspot.com/
[24] https://it.internationalism.org/content/lotta-allafema-di-alicante-spagna-unesperienza-da-riprendere
[25] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[26] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[27] https://it.internationalism.org/en/tag/4/94/sud-e-centro-america
[28] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[29] https://it.internationalism.org/content/gli-anarchici-e-la-guerra-1a-parte
[30] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/anarchismo-internationalista
[31] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/sindacalismo-rivoluzionario
[32] https://it.internationalism.org/en/tag/5/102/prima-guerra-mondiale
[33] https://it.internationalism.org/en/tag/5/103/seconda-guerra-mondiale
[34] https://it.internationalism.org/en/tag/5/104/spagna-1936
[35] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra